
Le funzioni
Il controllo di costituzionalità delle leggi
Abbiamo sin qui descritto la "macchina" della Corte costituzionale; illustriamo ora più da
vicino i suoi compiti
che, come abbiamo visto, sono indicati in termini generali dalla Costituzione e dalle leggi
costituzionali. Il primo
e storicamente più importante è il compito di decidere le controversie «relative alla
legittimità costituzionale
delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni» (articolo 134,
prima parte, della
Costituzione). La Corte è chiamata a controllare se gli atti legislativi siano stati formati
con i procedimenti
richiesti dalla Costituzione (cosiddetta costituzionalità formale) e se il loro contenuto
sia conforme ai princìpi
costituzionali (cosiddetta costituzionalità sostanziale).
Atti legislativi: dunque leggi dello Stato, ma anche
decreti legislativi delegati (deliberati dal Governo su delega delle Camere) e decreti-legge
(adottati in via
d'urgenza dal Governo e sottoposti alla conversione in legge da parte delle Camere); ed
anche leggi delle Regioni e
delle Province autonome, le quali, nel nostro sistema costituzionale, dispongono di una
propria potestà legislativa.
Non sono invece soggetti al controllo della Corte, sotto questo profilo, gli atti normativi
da considerare
subordinati alla legge, come i regolamenti: tali atti sono soggetti al controllo di
legittimità (cioè di conformità
alla legge) svolto dai giudici comuni. Poiché la legge deve essere conforme alla
Costituzione e i regolamenti devono
essere conformi alla legge, anche questi ultimi risulteranno conformi alla Costituzione,
senza bisogno che siano
sottoposti al controllo della Corte costituzionale.
Chi può provocare il giudizio della Corte?
Uno dei problemi più discussi a proposito della funzione della Corte costituzionale quale
giudice delle leggi, è
stato quello della "via di accesso" al giudizio. Come in genere ogni giudice, la Corte non
può decidere
autonomamente di quali questioni occuparsi: occorre che qualcuno la investa proponendo un
ricorso o sottoponendole
un dubbio. Chi può chiedere alla Corte di pronunciarsi sulla costituzionalità di una legge?
Qualunque cittadino, il
Capo dello Stato, il Governo, minoranze parlamentari, organi giudiziari?
L'Assemblea costituente, quando giunse ad
esaminare il problema, non lo risolse ma rinviò la soluzione ad una successiva legge
costituzionale, che fu
approvata come già detto dalla stessa Assemblea nel febbraio 1948 (legge costituzionale n. 1
del 1948). In essa si
stabilì (articolo 2) fermo il disposto dell'articolo 127 della Costituzione, che prevedeva
l'impugnativa davanti
alla Corte costituzionale, da parte del Governo, delle leggi regionali reputate contrastanti
con la Costituzione che
anche le Regioni potessero a loro volta impugnare, entro un breve termine dalla loro
pubblicazione, le leggi dello
Stato che reputassero lesive della propria autonomia garantita dalla Costituzione. Quel
disegno è ora confluito nel
nuovo testo dell'articolo 127 della Costituzione, con le modifiche del titolo V della parte
II, introdotte dalla
legge costituzionale n. 3 del 2001.
In tali casi il giudizio costituzionale serve essenzialmente a risolvere le
controversie fra Stato e Regioni sui limiti delle rispettive competenze, e quindi sia a
difendere l'autonomia delle
Regioni da "attentati" del legislatore statale, sia a presidiare il potere legislativo
statale da eventuali abusi
dei legislatori regionali. Tutto questo si svolge nella logica dello Stato "regionale", in
cui è la Costituzione a
ripartire le competenze fra Stato e Regioni, con la Corte costituzionale che funge da
"arbitro" nelle relative
controversie.
Ma, soprattutto, l'Assemblea costituente ha fatto una scelta fondamentale per quanto
riguarda il
sistema generale di controllo della costituzionalità delle leggi, escludendo che queste
possano essere direttamente
impugnate davanti alla Corte a opera di qualunque soggetto, e prevedendo invece che i dubbi
di costituzionalità
delle leggi possano essere sollevati solo in occasione della loro applicazione da parte dei
giudici comuni. Quando
cioè un giudice qualsiasi autorità giudiziaria, dal giudice di pace di una piccola città o
dalla commissione
tributaria di una provincia fino alla Corte di cassazione, e perfino gli arbitri rituali si
trovi a dover risolvere
una controversia, per decidere la quale dovrebbe fare applicazione di una norma di legge, e
dubiti della conformità
di questa norma alla Costituzione, egli ha il potere e il dovere di investire la Corte
costituzionale della relativa
questione.
Il giudice non può decidere la causa come se la legge non ci fosse, ignorandola, anche se è
convinto
della sua incostituzionalità (in questo rimane l'antico divieto per il giudice di negare
applicazione ad una legge
in vigore); ma nemmeno è tenuto ad applicarla meccanicamente: dopo aver sperimentato il
tentativo di una
interpretazione "conforme" a Costituzione, deve invece proporre il dubbio di
costituzionalità davanti all'unico
organo che ha l'autorità per risolverlo, appunto la Corte costituzionale. Le vie di accesso
alla Corte sono dunque
tante quanti sono i giudici comuni, di qualunque grado. Si può dire, in sintesi, che nessun
giudice è obbligato ad
applicare una legge della cui costituzionalità egli dubiti, ma che solo la Corte
costituzionale può liberarlo
definitivamente dal vincolo, dichiarando l'illegittimità costituzionale della legge e così
consentendogli di
decidere la causa senza tener conto di essa.
È questo il sistema di controllo di costituzionalità che viene detto
"incidentale", perché la questione di costituzionalità di una legge sorge come "incidente"
nell'àmbito di un
processo comune, avente ad oggetto una qualsiasi materia controversa, ed è proposta alla
Corte dal giudice di tale
processo.
Il giudice comune come "portiere" del giudizio di costituzionalità
Nel giudizio comune, il dubbio sulla costituzionalità di una norma di legge che dovrebbe
essere applicata può essere
prospettato da una delle parti (l'imputato o il pubblico ministero in un giudizio penale,
l'attore o il convenuto in
un giudizio civile, il ricorrente o l'amministrazione resistente in un giudizio
amministrativo, ecc.), oppure può
essere rilevato dallo stesso giudice d'ufficio, cioè anche senza sollecitazione di parte. Se
è una parte che chiede
di investire la Corte costituzionale, il giudice non è tenuto senz'altro a trasmettere la
questione alla Corte
costituzionale, ma nemmeno può ignorarla. Deve decidere, motivando, anzitutto se la
questione proposta ha rilevanza
nella causa (cioè se la norma di legge della cui costituzionalità si dubita è necessaria per
decidere la causa:
altrimenti la questione è priva di "rilevanza"); in secondo luogo, se il dubbio ha, a suo
avviso, una qualche ragion
d'essere. Se gli appare chiaramente privo di fondamento, il giudice deve respingere
l'istanza della parte per
"manifesta infondatezza" (altrimenti si aprirebbe la strada a qualsiasi questione di
costituzionalità, anche
cervellotica, sollevata da una parte magari solo per ritardare la decisione della causa); in
caso contrario, deve
rivolgersi alla Corte costituzionale, non potendo risolvere da sé il dubbio, né in senso
positivo né in senso
negativo.
Ai giudici comuni è affidato dunque, secondo un'immagine usata da Piero Calamandrei, il
ruolo di
"portieri" del giudizio di costituzionalità: ad essi spetta cioè il potere di aprire o
chiudere la porta che dà
ingresso alla Corte.
All'inizio, si temeva che tale potere dei giudici si risolvesse in un impedimento
all'intervento della Corte, che cioè la "porta" risultasse troppo "stretta". L'esperienza ha
fugato questo timore,
dimostrando che i giudici comuni non solo non tengono chiusa la "porta", ma la aprono con
grande frequenza.
Corte costituzionale e giudici: un dialogo permanente
Dunque il sistema che affida ai giudici comuni la funzione di filtro delle questioni di
costituzionalità, lungi dal
lasciare disoccupata la Corte, ha prodotto un grande contenzioso costituzionale. Difatti, in
occasione delle
controversie giudiziarie, le norme delle leggi non vengono in considerazione solo nel loro
significato generale ed
astratto, ma nelle loro possibili applicazioni e conseguenze nei casi concreti. Non è
l'astrattezza della regola di
diritto, ma la concretezza dei casi della vita, ciò di cui si discute davanti ai giudici. I
problemi di
costituzionalità si moltiplicano, allora, sotto il segno dell'indefinita varietà di
situazioni cui le leggi si
devono applicare.
La Costituzione non è, del resto, un mero insieme di norme specifiche: è il testo che
contiene ed
esprime i princìpi di fondo che debbono ispirare l'intero sistema giuridico. Quindi i
problemi di costituzionalità
delle leggi non si riducono mai ad un semplice confronto fra norme della legge e norme della
Costituzione, ma
investono il modo in cui i princìpi costituzionali si concretizzano nelle singole discipline
legali e nella loro
applicazione.
Per esempio, moltissime questioni (la maggior parte di esse, si può dire) vengono sollevate
invocando
il principio costituzionale di eguaglianza («tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e
sono eguali davanti alla
legge...; è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale
che, limitando di fatto la
libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana...»: articolo 3 della
Costituzione). Per dire se questo principio è rispettato o meno, occorre chiedersi se una
concreta disciplina
legale, così come si applica o per le conseguenze che comporta rispetto alle varie
situazioni di fatto, risponda o
meno al criterio generico ma penetrante dell'uguale valore di ogni persona e della
ragionevolezza dei diversi
"trattamenti" legali. E non è certo netto il confine tra legittime diversificazioni operate
dal legislatore,
nell'esercizio del suo compito di adattamento della legge ai mutevoli obiettivi politici, e
discriminazioni
costituzionalmente vietate.
Inoltre, il significato delle disposizioni legislative e il modo in cui esse si
combinano l'una con l'altra nel sistema non sono sempre chiari ed univoci. I modi di
affrontare e risolvere i
problemi giuridici sono naturalmente molteplici, ed è compito dei giudici trovarli,
interpretando e applicando le
leggi. In quest'opera il richiamo ai princìpi costituzionali dovrebbe essere costante. Non è
raro che i giudici,
nell'incertezza sulla interpretazione delle leggi, si rivolgano alla Corte sollevando dei
dubbi di costituzionalità
che sono risolvibili dando alle leggi una corretta interpretazione, adeguata ai princìpi
costituzionali. E la Corte
il cui compito non è quello della interpretazione delle leggi, ma quello del controllo della
loro compatibilità con
la Costituzione non di rado risponde indicando un'interpretazione più corretta, o invitando
il giudice a trovarla.
Questo "dialogo" fra la Corte costituzionale e le migliaia di giudici comuni, che
rappresenta la sostanza di molta
parte della giurisprudenza costituzionale, è reso possibile proprio dal sistema di controllo
incidentale sulle leggi
scelto dalla Assemblea costituente.
La Corte e la libertà del legislatore
Quando, dunque, una scelta legislativa del Parlamento appaia discutibile e controversa, e su
di essa venga provocato
da qualche giudice, chiamato ad applicarla, il controllo di costituzionalità della Corte, è
allora che si dovrà
trovare il delicato equilibrio fra il ruolo della Corte (che deve garantire l'osservanza dei
princìpi
costituzionali, anche contro la maggioranza parlamentare) e il rispetto del diritto del
legislatore di fare le
scelte politiche che ritiene più utili al paese, e che la Corte non ha il potere di
ostacolare anche se, in ipotesi,
possa considerarle inopportune.
La Corte non è una terza istanza legislativa, a cui si possa fare ricorso per
contestare o modificare, con una valutazione politica di opportunità, le scelte fatte dai
rappresentanti eletti in
Parlamento. Essa sta a guardia dei "confini". Se il legislatore resta entro i confini della
Costituzione (e i
princìpi costituzionali lasciano grande spazio per le scelte del legislatore), la Corte non
ha alcun potere di
censurarne le valutazioni, anche se magari le appaiano inadeguate o difettose. Se però il
legislatore supera tali
confini, spetta alla Corte censurare la legge o ricondurla entro di essi, per impedire che
la Costituzione venga
violata.
Il fattore tempo
Il sistema incidentale di controllo di costituzionalità fa sì che le leggi non possano essere portate immediatamente e direttamente all'esame della Corte a opera di chi le ritenga incostituzionali. Occorre passare per un giudizio e che ci sia un giudice chiamato ad applicarle, il quale sollevi la relativa questione. Può trascorrere del tempo, e ciò talvolta consente che nell'applicazione ai casi della vita, il significato della legge si chiarisca e si precisi. Può dunque darsi che di una disposizione legislativa di dubbia costituzionalità per lungo tempo non si discuta davanti alla Corte, perché nessuno ha sollevato la questione, e che ciò avvenga solo a distanza di molti anni. Ecco allora che norme antiche ma, talora, di rara applicazione vengono dichiarate incostituzionali magari a distanza di decenni non solo dalla loro emanazione, ma anche dall'entrata in vigore della Costituzione e dall'inizio dell'attività della Corte costituzionale (per esempio, l'articolo 569 del codice penale del 1930, che imponeva l'applicazione automatica della pena accessoria della perdita della potestà - ora responsabilità - genitoriale al genitore condannato per alcuno dei delitti contro lo stato di famiglia, è stato dichiarato incostituzionale solo con la sentenza n. 31 del 2012 e poi, ancora, con la sentenza n. 7 del 2013, reputandosi irragionevole che il previsto automatismo impedisse al giudice di valutare in concreto l'interesse del figlio minore a vivere e a crescere mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori).
Le decisioni della Corte
Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte
conclude il suo giudizio, se la
questione è ritenuta fondata, con una pronuncia di accoglimento, che dichiara
l'illegittimità costituzionale della
norma, oppure con una pronuncia di rigetto, che dichiara la questione non fondata.
La questione può essere ritenuta
invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (per esempio,
perché il giudice non ha
indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui, o l'ha proposta in
modo contraddittorio, o
perché non riguarda una norma di legge; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle
controversie fra Stato e Regione,
perché non è stato rispettato il termine per ricorrere, o anche perché mancano le
indicazioni essenziali per
individuare l'oggetto del ricorso). Questo tipo di pronunce non è raro, specie nei giudizi
incidentali, stante il
grande numero di questioni sollevate dai giudici e la tendenza di questi, talora, a far
ricorso alla Corte
costituzionale per prospettare problemi che non sono propriamente di costituzionalità, ma di
semplice
interpretazione della legge.
Altre volte non si perviene alla decisione, perché nel frattempo è intervenuta qualche
novità legislativa, che potrebbe rendere inutile la pronuncia della Corte. In tal caso,
vengono restituiti gli atti
al giudice che aveva sollevato la questione, affinché questi valuti, nel nuovo contesto, se
riproporre la questione
stessa.
La dichiarazione di incostituzionalità e i suoi effetti
Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma
di legge, questa perde
automaticamente di efficacia vale a dire, non può più essere applicata da nessuno dal giorno
successivo alla
pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale: così stabilisce l'articolo 136 della
Costituzione. La
pronuncia della Corte ha dunque un effetto generale (non limitato al singolo giudizio in cui
la questione è stata
sollevata) e definitivo. La legge "scompare" dall'ordinamento. Il Parlamento può deliberarne
un'altra in
sostituzione (ma naturalmente non potrà emanare una disposizione identica a quella già
dichiarata incostituzionale).
Il Parlamento può anche, in ipotesi, superare la dichiarazione di incostituzionalità ma,
allora, dovrà modificare la
Costituzione, rendendo così costituzionale ciò che, prima, era incostituzionale; ma perché
questo avvenga occorre
che sia seguito il particolare procedimento prescritto per la revisione costituzionale
(articolo 138 Costituzione).
In ogni caso, però, nessuna modifica può investire i princìpi supremi su cui si fonda la
Costituzione, come è
sancito per la forma repubblicana dello Stato dall'articolo 139 e, per i diritti della
persona, dall'articolo 2.
Più
spesso la dichiarazione di incostituzionalità colpisce una sola parte della disposizione
legislativa impugnata,
quella appunto non compatibile con la Costituzione, lasciando sopravvivere il resto. Anzi la
Corte, proprio per
ridurre al massimo gli effetti di "vuoto" legislativo prodotti dalle sue pronunce di
accoglimento, definisce
attentamente la parte della legge destinata a cadere, e talvolta individua la norma che la
sostituirà, traendola
dalla stessa Costituzione o dal sistema legislativo. Questa tecnica di decisione ha fatto
parlare di sentenze
"manipolative", in quanto esse, in qualche modo, riscrivono la legge per renderla
compatibile con la Costituzione,
ovvero di sentenze "additive", in quanto esse comportano l'inserimento nella legge di
elementi nuovi, necessari per
adeguarla ai princìpi costituzionali.
Si noti che la dichiarazione di incostituzionalità, avendo effetto generale,
non si limita a imporre a tutti una diversa regola per il futuro, ma impedisce di applicare
la norma
incostituzionale anche quando si tratta di fatti passati. Poiché non sarebbe pensabile di
rimettere in questione
rapporti e situazioni ormai chiusi, magari in un lontano passato, rimangono però fermi gli
effetti prodotti dalla
norma che si sono definitivamente consolidati, che cioè non possono essere contestati
davanti a un giudice (perché è
stata già pronunciata una sentenza ormai definitiva, perché si tratta di diritti ormai
prescritti, ecc.). Se la
norma dichiarata incostituzionale sanziona penalmente una condotta, invece, non solo essa
cade, ma anche le
eventuali condanne già divenute definitive e tuttora in esecuzione perdono ogni effetto.
Le pronunce di rigetto
Se la pronuncia della Corte è di rigetto, cioè dichiara non fondato il dubbio di
costituzionalità, la legge rimane
in vigore. La decisione non ha però effetto generale e definitivo, in quanto lo stesso
dubbio può essere nuovamente
sollevato anche con motivi o argomenti nuovi, e la Corte potrebbe accoglierlo, sulla base
dei nuovi elementi
addotti, o modificando la propria precedente posizione.
Naturalmente non è frequente che la Corte contraddica le
proprie pronunce; ma talvolta accade (cambia nel tempo la composizione della Corte, e può
cambiare anche, entro
certi limiti, l'interpretazione e l'applicazione delle norme costituzionali su punti dubbi o
controversi). Ad
esempio, la norma del codice penale che puniva l'adulterio della moglie (non anche del
marito), ritenuta non
incostituzionale nel 1961 (sentenza n. 64), fu poi dichiarata illegittima nel 1968, per
violazione del principio di
parità fra i coniugi stabilito dagli articoli 3 e 29 della Costituzione (sentenza n. 126).
Per lo più, però, la
giurisprudenza della Corte costituzionale come quella di ogni autorità giudicante, la cui
composizione varia solo
gradualmente e lentamente presenta una continuità di linee di fondo, arricchendosi via via
di precisazioni,
specificazioni e integrazioni. I mutamenti della giurisprudenza si collegano anche ai
cambiamenti della società e
della cultura giuridica, che fanno emergere sensibilità ed esigenze nuove o diverse: anche
la Corte costituzionale,
che opera in un contesto storico concreto, non può non risentirne.
Ciò non significa, però, che essa sia al seguito
degli umori del momento, diffusi nell'opinione pubblica, perché ciò contraddirebbe il suo
ruolo di garante della
Costituzione.
Le pronunce interpretative
È molto frequente che la Corte respinga un dubbio di costituzionalità non perché esso, così
come formulato dal
giudice comune, sia privo di fondamento, ma perché è da respingere l'interpretazione che il
giudice ha dato della
disposizione impugnata, una disposizione che, se interpretata in altro modo, non presenta il
vizio denunciato.
Ciò
avviene con le cosiddette sentenze "interpretative", fondate sulla circostanza che spesso
una disposizione
legislativa si presta ad essere intesa in modi diversi, e sul criterio che la Corte afferma
da tempo secondo cui la
legge deve essere interpretata, tutte le volte che è possibile, in senso conforme alla
Costituzione.
Queste
decisioni, che affermano un'interpretazione "costituzionale" della legge, formalmente non
vincolano i giudici
diversi da quello che ha sollevato la questione: ad essi spetta applicare le leggi in piena
autonomia. Normalmente,
però, essi si adeguano alle interpretazioni offerte dalla Corte, se sono necessarie per
evitare che la legge assuma
un significato incostituzionale. Secondo il più recente orientamento della Cassazione, dopo
che la Corte ha espresso
un giudizio sfavorevole sulla compatibilità costituzionale di una determinata soluzione
interpretativa, non è
formalmente precluso ai giudici (diversi da quello rimettente) di applicare la norma in quel
significato. Viene
riconosciuto, però, che la pronuncia interpretativa riveste il valore di un autorevole
precedente, anche in punto di
non infondatezza del dubbio di legittimità della norma. Accade dunque di regola che i
giudici, qualora ritengano di
non poter adottare l'interpretazione alternativa suggerita dalla Corte, sollevino nuovamente
la questione; e la
Corte potrà pervenire a una successiva pronuncia di accoglimento, prendendo atto che la
giurisprudenza dei giudici
comuni non accetta la soluzione interpretativa che permetteva di fare salva la legge. Anche
questo fa parte del
permanente dialogo che la Corte intrattiene con gli altri giudici, oltre che con il
legislatore. A quest'ultimo,
infatti, talvolta la Corte si indirizza nelle sue decisioni dando suggerimenti e indicazioni
per una disciplina
delle materie considerata più adeguata rispetto alla Costituzione: in tali casi si parla di
"sentenze di monito".
Le controversie fra Stato e Regioni e fra Regioni
Già sappiamo che c'è un'altra strada, oltre a quella del giudizio incidentale, per portare
una legge all'esame della
Corte: le controversie costituzionali fra Regioni e Stato quanto alle rispettive competenze
legislative. Il Governo
può ricorrere direttamente contro una legge regionale, e una Regione può ricorrere
direttamente contro una legge
statale o una legge di altra Regione. Il giudizio, anche in questi casi, segue le stesse
regole, ha gli stessi esiti
e produce effetti analoghi a quelli di cui abbiamo parlato.
Un diverso meccanismo di ricorsi trova applicazione
quando la controversia fra Stato e Regione o fra Regioni ha per oggetto non una legge, ma un
atto di altra natura
(un regolamento, un atto amministrativo, un atto giudiziario, ecc.). La Regione che lamenti
la lesione della propria
autonomia costituzionale può sollevare "conflitto di attribuzione" nei confronti dello Stato
(che sarà rappresentato
dal Presidente del Consiglio dei ministri) o di altra Regione; a sua volta, lo Stato, che
ritenga un atto di una
Regione (diverso da una legge) eccedente i limiti della competenza regionale o lesivo di una
competenza statale, può
sollevare conflitto di attribuzione contro la Regione (che sarà rappresentata dal suo
Presidente).
In questi casi la
sentenza della Corte dichiara a chi spetta l'attribuzione in contestazione, ovvero come essa
deve essere esercitata
per non ledere le attribuzioni altrui, ed eventualmente annulla l'atto illegittimo.
I conflitti tra poteri
C'è un'altra categoria di "conflitti di attribuzione" che la Corte è chiamata a risolvere:
sono i conflitti che
sorgono fra "poteri dello Stato", quando essi ritengono che le attribuzioni che la
Costituzione assegna loro siano
state violate da un altro potere dello Stato. Poiché la Costituzione ha inteso comunque
assicurare una garanzia di
applicazione imparziale delle norme sulle competenze a opera di un organo "arbitrale", anche
queste controversie,
che hanno riguardo alla separazione dei poteri, sono state demandate alla giustizia
costituzionale.
Può accadere, ed
è accaduto, che sorga conflitto, ad esempio, tra un organo giudiziario e una Camera
parlamentare, a proposito
dell'applicazione di una immunità garantita ai parlamentari dalla Costituzione; tra il
ministro della Giustizia e il
Consiglio superiore della magistratura a proposito dei rispettivi poteri riguardanti i
magistrati; fra il Governo e
un pubblico ministero a proposito dell'applicazione del segreto di Stato; fra un ministro e
la Camera parlamentare
che abbia votato una mozione di sfiducia nei suoi confronti; fra i promotori di un
referendum abrogativo e l'Ufficio
della Corte di cassazione che controlla la regolarità delle procedure referendarie.
Persino la Corte costituzionale
può entrare in conflitto con un altro organo, quando sono contestate le sue stesse
attribuzioni: in questo caso,
mancando un "arbitro" terzo, la stessa Corte costituzionale assume contemporaneamente il
ruolo di parte e di giudice
del conflitto.
I giudizi di ammissibilità dei referendum
La legge costituzionale n. 1 del 1953 ha aggiunto una nuova competenza a quelle ora
esaminate: giudicare
sull'ammissibilità dei referendum richiesti, secondo l'articolo 75 della Costituzione, da
almeno cinquecentomila
elettori o da almeno cinque consigli regionali, per l'abrogazione totale o parziale di una
legge o di un atto avente
forza di legge dello Stato (decreto legislativo, decreto-legge).
Inizialmente, si riteneva che questo giudizio di
ammissibilità si limitasse a verificare che la legge sottoposta a referendum non
appartenesse a una delle quattro
categorie di leggi escluse dall'articolo 75 della Costituzione: leggi tributarie, leggi di
bilancio, leggi di
autorizzazione a ratificare trattati internazionali, leggi di amnistia e di indulto. Ma già
nella sentenza n. 16 del
1978 la Corte costituzionale, chiamata a deliberare sull'ammissibilità di un gruppo di otto
referendum, stabilì che,
oltre a queste cause esplicite di inammissibilità, ve ne sono altre, ricavabili
implicitamente dai princìpi
costituzionali e dalla natura e dai caratteri dell'istituto referendario. Così, ad esempio,
si è ritenuto che siano
inammissibili le richieste di referendum formulate in modo da ricomprendere in un unico
quesito più domande di
abrogazione oggettivamente diverse, coartando così la libertà dell'elettore; le richieste di
abrogazione di leggi il
cui contenuto non è libero, ma è vincolato dalla Costituzione, o che non si possono
modificare senza incidere sulla
Costituzione (la quale, infatti, non si può intaccare con un referendum abrogativo, ma solo
con l'intervento di
maggioranze parlamentari speciali, ed eventualmente con un referendum successivo di
conferma); le richieste di
abrogazione che tendono a introdurre, ritagliando un testo legislativo, disposizioni nuove e
non a eliminare
disposizioni esistenti (il referendum ammesso è infatti solo abrogativo, non introduttivo di
nuove leggi); le
richieste di abrogazione di leggi vincolate da obblighi internazionali o comunitari (per non
dar luogo a una
responsabilità internazionale dello Stato senza una delibera del Parlamento).
La Corte è investita del giudizio di
ammissibilità dopo che la richiesta di referendum è stata ritenuta regolare dall'Ufficio
centrale presso la Corte di
cassazione; e il referendum viene indetto solo se la Corte lo giudica ammissibile.
La legge stabilisce che le
richieste di referendum, presentate entro il 30 settembre di ogni anno, siano esaminate
tutte dall'Ufficio centrale
entro il 15 dicembre, e dalla Corte costituzionale entro il 20 gennaio successivo, per
arrivare alla consultazione
sui referendum ammessi, in una data compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno. Ecco perché,
quando vengono presentate
richieste di referendum abrogativo, la Corte è impegnata in una speciale sessione in
gennaio, con una procedura
particolarmente sollecita.
Le sue decisioni in materia sono state spesso al centro dell'attenzione e della politica,
non solo per l'oggetto dei referendum proposti ma anche per gli effetti che essi potevano
produrre sulla vita
politica e parlamentare.
I giudizi penali
Tradizionalmente i giudizi penali a carico del Capo dello Stato e dei componenti del Governo
per reati commessi
nell'esercizio delle loro funzioni sono assoggettati a una speciale giurisdizione o almeno
ad una speciale
disciplina, per la loro particolare connotazione politica. Anche la nostra Assemblea
costituente ha fatto questa
scelta, stabilendo che a giudicare di tali reati fosse la Corte costituzionale, ma non nella
sua ordinaria
composizione di quindici giudici, bensì in quella integrata da sedici cittadini (giudici
popolari, in un certo
senso, perché non scelti necessariamente fra giuristi), sorteggiati, in occasione del
processo, in un elenco di
quarantacinque cittadini ultraquarantenni scelti, ogni nove anni, dal Parlamento in seduta
comune.
Solo una volta
nella sua storia la Corte è stata chiamata (nella composizione integrata di 31 membri) a
rendere un giudizio di
questo tipo, in un processo per corruzione il caso Lockheed, conclusosi nel 1979 nel quale
erano imputati due ex
ministri (uno fu prosciolto, l'altro condannato). A seguito di tale esperienza, che bloccò
per lungo tempo le altre
attività della Corte, ci si persuase che fosse meglio limitare questa speciale competenza
penale della Corte al solo
caso dei reati del Presidente della Repubblica; mentre, per i ministri, si è trasferita la
competenza alla
giurisdizione penale comune, sia pure con procedure particolari (legge costituzionale n. 1
del 1989).