Reg. ord. n. 123 del 2025 pubbl. su G.U. del 25/06/2025 n. 26
Ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna del 30/04/2025
Tra: M. G.
Oggetto:
Esecuzione penale – Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena – Casi in cui l'esecuzione di una pena può essere differita – Omessa previsione che “Se, a seguito degli accertamenti esperiti, ove occorra anche mediante perizia, risulta che lo stato psicofisico del condannato è tale da impedire la cosciente sottoposizione all’esecuzione della pena e che tale stato è irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a procedere o ordinanza di doversi procedere” – Violazione del principio di ragionevolezza intrinseca – Lesione del diritto di difesa – Violazione del principio della finalità rieducativa della pena – Incidenza sul divieto di trattamenti contrari al senso di umanità – Violazione del principio, anche convenzionale, di ragionevole durata del processo.
Norme impugnate:
codice penale
del
Num.
Art. 147
Parametri costituzionali:
Costituzione
Art. 3
Co. 2
Costituzione
Art. 24
Co.
Costituzione
Art. 27
Co. 3
Costituzione
Art. 111
Co. 2
Costituzione
Art. 117
Co. 1
Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali
Art. 6
Co.
Testo dell'ordinanza
N. 123 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 aprile 2025
Ordinanza del 30 aprile 2025 del Tribunale di sorveglianza di Bologna
nel procedimento di sorveglianza nei confronti di M. G..
Esecuzione penale - Rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena -
Casi in cui l'esecuzione di una pena puo' essere differita - Omessa
previsione che "Se, a seguito degli accertamenti esperiti, ove
occorra anche mediante perizia, risulta che lo stato psicofisico
del condannato e' tale da impedire la cosciente sottoposizione
all'esecuzione della pena e che tale stato e' irreversibile, il
giudice pronuncia ordinanza di non luogo a procedere o ordinanza di
doversi procedere".
- Codice penale, art. 147.
(GU n. 26 del 25-06-2025)
TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI BOLOGNA
Il Tribunale l'anno 2025 giorno 29 del mese di aprile in Bologna
si e' riunito in Camera di consiglio nelle persone dei componenti:
dott.ssa Vassallo Marta - Presidente
dott. Romano Ezio - Giudice relatore
dott.ssa Lai Federica - Esperta
dott.ssa Mediani Giorgia - Esperta
Con la partecipazione della dott.ssa Marzocchi Silvia Sost.
procuratore generale presso la Corte d'Appello di Bologna, per
deliberare sulle domande di:
detenzione domiciliare, art. 47-ter O.P.·
proposte da G. M. , nato a ( ) il , in relazione alla
pena di cui alla sentenza n. emessa dal G.I.P. presso il Tribunale
di Forli' il , irrevocabile il 31 ottobre 2020.
Osserva
Con la sentenza in epigrafe, resa ai sensi dell'art. 444 codice
di procedura penale G. e' stato condannato per numerosi delitti di
truffa, violenza sessuale (609-bis comma 3 c.p.) ed abusivo esercizio
di una professione commessi nel in , per un totale di ventotto capi
di imputazione, alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione.
Il condannato, all'epoca di emissione dell'ordine di
carcerazione, ha avanzato domanda di detenzione domiciliare, da
eseguirsi al domicilio di famiglia.
Nelle more del giudizio, tuttavia, la condizione personale del G.
risulta essere di molto cambiata.
Il condannato, infatti, che era alla data di proposizione della
domanda assistito dalla moglie in quanto affetto da alcune patologie
invalidanti, ha visto un progressivo deterioramento delle sue
condizioni sanitarie, acuito dalla scomparsa della moglie, deceduta
nel . Da allora, il G. e' inserito in una struttura privata per
anziani, , sita in ( ), loc. , via , ove trascorre
integralmente le proprie giornate e riceve saltuarie visite da parte
della figlia.
Con memoria per l'odierna udienza, i difensori di G. M. hanno
sollecitato il Tribunale di Sorveglianza a compiere una riflessione
su come le attuali condizioni del condannato appaiano tali da
determinare non solo una incompatibilita' con l'espiazione della pena
in regime detentivo ma, piu' in generale in generale, a rendere non
possibile in concreto la stessa sottoposizione del proprio assistito
a qualsiasi forma di esecuzione penale, foss'anche di tipo
extramurario.
La persona, infatti, e' inserita in struttura per anziani,
affetta da deficit cognitivi e di deambulazione, al punto da non
apparire capace di comprendere il senso dell'esecuzione penale o
svolgere percorsi di tipo risocializzante propri della piu' ampia
misura dell'affidamento in prova al servizio sociale ai sensi
dell'art. 47 legge n. 354/1975 (d'ora innanzi anche O.P.).
D'altro canto, continuano i difensori, l'eventuale applicazione
di una detenzione domiciliare apparirebbe operativamente difficile,
potendo questa incidere sulla possibilita' del G. di rimanere
all'interno della struttura che attualmente gli garantisce
l'assistenza sanitaria di cui egli necessita e, in ogni caso, non
utile ne' in senso rieducativo ne' in senso special-preventivo.
Invero, la persona a causa delle patologie in essere non esprime
alcuna pericolosita' sociale residua, essendo sostanzialmente
confinata all'interno della struttura di accoglienza ove riceve
assistenza sanitaria.
Sono allegati in atti sia dalla difesa che dall'UEPE
certificazione INPS e referti clinici che delineano il seguente
quadro.
G. e' affetto da encefalopatia cronica con atrofia cerebrale,
diabete mellito pluricomplicato, retinopatia diabetica con cecita',
cardiopatia, sordita' e incontinenza urinaria.
La persona necessita, pertanto, di assistenza socio-sanitaria
continuativa e specialistica, erogabile solo in ambiente protetto,
allo stato garantito dalla residenza per anziani in cui e' ospitato.
L'indagine socio familiare dell'UEPE, a fronte della incapacita'
della persona di recarsi presso il servizio, si e' svolta mediante
colloquio con la figlia dell'interessato.
La donna ha rappresentato le difficolta' del padre ed ha espresso
il proprio timore rispetto all'eventuale applicazione di misure
alternative, in quanto lo svolgimento dei necessari controlli da
parte delle Forze dell'ordine per verificare il rispetto della
misura, gravando sulla struttura ospitante, potrebbe indurre la
residenza per anziani, struttura privata, a non confermare la
disponibilita' ad ospitare l'istante, con pregiudizio per le sue
esigenze di cura.
L'UEPE indica che alla luce del quadro sanitario emergente dalla
documentazione allegate, la persona presenta significative
compromissioni delle funzioni psico-fisiche e, dunque, difficilmente
potrebbe prendere parte ad un percorso di reinserimento sociale, ne'
comprendere appieno le finalita' trattamentali tipiche
dell'esecuzione penale esterna. Inoltre, considerata l'evidente
vulnerabilita' di cui la G. e' portatore, nonche' il suo essere
domiciliato in struttura protetta la sua pericolosita' sociale appare
ragionevolmente attenuata. E' lo stesso UEPE, dunque, a sollecitare
il Collegio a valutare una forma di sospensione o differimento della
pena ai sensi della normativa vigente.
Cio' posto, il Tribunale di Sorveglianza deve evidenziare in
punto di diritto, che il differimento della pena, nella lettura
costituzionalmente orientata offerta dalla Corte costituzionale e
dalla giurisprudenza di legittimita', e' un istituto volto a
coniugare le esigenze di tutela della salute e di dignita' del
detenuto o di soggetto che si trovi in situazioni di grave
vulnerabilita', quale la madre ed il minore nella gestazione e nel
puerperio ovvero la persona gravemente malata, con quelle di
esecuzione penale e di tutela della collettivita', secondo un
giudizio di bilanciamento degli opposti interessi costituzionali in
gioco.
L'individuazione del punto di equilibrio e' nel differimento
obbligatorio ex art. 146 codice penale frutto di una scelta rigida ed
operata a monte dal legislatore che accorda prevalenza alle esigenze
poste alla base del differimento rispetto a quelle di esecuzione
penale.
La norma, dunque, non lascia margini di discrezionalita' al
giudice, se non nella misura in cui egli e' preposto alla verifica
della positiva ricorrenza in fatto dei presupposti stabiliti dalla
legge e puo', al piu', valutare se il caso sottoposto rientri nel
tipo indicato dal legislatore; con margini, in concreto, abbastanza
ristretti (per i delitti commessi anteriormente al 12 aprile 2025,
data di entrata in vigore del decreto legge n. 48/2025: donna
incinta; madre di prole di eta' inferiore ad anni uno; persona
affetta da malattia in stadio terminale o HIV conclamato; per quelli
successivi e salva ratifica del decreto legge n. 48/2025, rimarrebbe
solo quest'ultima ipotesi).
Ma, una volta accertata la sussistenza della condizione assunta
dalla legge quale causa di non sottoposizione ad esecuzione penale,
l'esito del giudizio non puo' che essere quello di disporre il
differimento della pena carceraria che dovrebbe essere eseguita,
rinviandola sino al termine della condizione ostativa all'esecuzione.
Nel differimento facoltativo ex art. 147 c.p., invece, la
ponderazione dei diritti e degli interessi antinomici e' rimessa alla
valutazione della magistratura di sorveglianza che, oltre al
ricorrere delle condizioni di legge (per i delitti commessi
successivamente al 12 aprile 2025, data di entrata in vigore del
decreto legge n. 48/2025 e salva conferma dell'attuale testo
normativo: donna incinta; madre di prole di eta' inferiore ad anni
uno; madre di prole di eta' inferiore agli anni tre; persona affetta
da grave infermita' fisica; in caso di domanda di Grazia), ai sensi
del comma terzo dell'art. 147 codice penale deve altresi' verificare
l'assenza di pericolosita' sociale del condannato.
Vi e', dunque, sotto questo profilo l'esercizio di un potere
discrezionale del giudice, nella parte in cui la norma da un lato
afferma che questi puo' disporre il differimento e, dall'altro,
attribuisce allo stesso un sindacato non circoscritto alla verifica
della ricorrenza dei presupposti e dei casi ivi indicati, ma anche
sulla adeguatezza del differimento rispetto al rischio che la persona
reiteri condotte di reato.
Laddove si accerti l'attuale pericolosita' sociale della persona,
il differimento non potrebbe, dunque per legge trovare applicazione,
prevalendo l'interesse di difesa sociale rispetto a quello di tutela
della sua vulnerabilita'. Per questa ragione, in entrambi i casi di
differimento, obbligatorio o facoltativo, laddove la persona,
nonostante la condizione di fragilita' normativamente prevista in cui
versa, esprima tutt'ora profili di attuale pericolosita' sociale, sub
specie del rischio di reiterazione di condotte illecite, sovviene
l'istituto della detenzione domiciliare in luogo del differimento di
cui all'art. 47-ter comma 1-ter O.P., quale misura intermedia che
nell'alternativa rigida tra il mantenimento dell'esecuzione
carceraria, capace di ledere o anche solo comprimere oltremisura il
diritto alla salute e la dignita' del condannato, e la totale
liberazione dello stesso, che viceversa esporrebbe ad un rischio
eccessivo le esigenze di sicurezza sociale della collettivita'
(parimenti inquadrabili come interesse di caratura costituzionale),
consente di operare una scelta esecutiva mediana capace di
individuare un piu' gradato equilibrio tra i contrapposti interessi.
Si tratta, all'evidenza, di uno strumento di flessibilizzazione
del sistema per garantire e bilanciare tutte le esigenze, individuali
e superindividuali, che convergono nell'esecuzione di una pena,
sorretto da un giudizio ulteriore e successivo rispetto a quello teso
all'accertamento delle condizioni che legittimano il differimento
della pena obbligatorio o facoltativo.
In questo caso, infatti, la valutazione demandata alla
magistratura di sorveglianza non puo' essere ridotta al mero
ricorrere dei requisiti di legge, ma deve essere ricostruita quale
giudizio di proporzionalita' in concreto tra le esigenze di tutela
dell'individuo, della sua salute e della sua umana dignita' ovvero di
maternita' e puerperio, e quelle di salvaguardia del resto dei
consociati, alla ricerca di quell'equilibrio che realizzi, a parita'
di tutela delle une, il minor sacrificio possibile delle altre.
In sostanza, quel che si richiede e' di verificare se, pur a
fronte di una residua pericolosita' sociale in capo alla persona, il
pericolo che egli rappresenta per la collettivita' possa essere
adeguatamente arginato mediante il ricorso ad una forma esecutiva
meno afflittiva, quale e' quella domiciliare, che in ottica
umanitaria allevi le maggiori sofferenze che la persona puo'
sperimentare nell'esecuzione carceraria per la propria condizione di
vulnerabilita' accertata dal giudice a monte del giudizio.
E' chiaro che in questo tipo di giudizi l'opzione carceraria
rimane quella astrattamente piu' tutelante per le esigenze
collettive; tuttavia, lo sforzo ermeneutico richiesto da una lettura
costituzionalmente orientata della norma deve condurre a ritenere che
laddove il controllo offerto dalla detenzione domiciliare sia idoneo
in concreto a garantire pari grado di tutela alle esigenze di
sicurezza collettiva rispetto a quello offerto dalla carcerazione,
l'opzione domiciliare sarebbe l'unica costituzionalmente
proporzionata e compatibile con gli articoli 31, 32 e 27 comma 3
della Corte Costituzionale (nonche' con l'art. 3 CEDU).
Si vedano, in questo senso, le puntuali e condivisibili
argomentazioni espresse dalla Corte costituzionale nella sentenza n.
99/2019, con cui la Consulta ha individuato nella detenzione
domiciliare umanitaria di cui all'art. 47-ter comma 1-ter O.P. lo
strumento adeguato per contemperare le esigenze sanitarie anche
psicologiche della persona con il mantenimento dei vincoli necessari
per evitare di porre in pericolo la collettivita'.
Ulteriore istituto che potrebbe venire in rilievo, quando si
parla di forme di differimento della pena, e' quello di cui all'art.
148 c.p. relativo all'ipotesi della infermita' psichica sopravvenuta
alla condanna.
La norma prevede che se la persona prima dell'esecuzione della
pena o durante la stessa viene colta da una infermita' psichica tale
da impedire l'esecuzione della pena il giudice ne dispone la
sospensione o il differimento, contestualmente disponendo il ricovero
del condannato in un manicomio giudiziario o, laddove la pena sia
inferiore ai tre anni e non si tratti di delinquenti o contravventori
abituali, professionali o per tendenza, in un manicomio comune. Il
ricovero e' revocato, ove vengano meno le ragioni che hanno
determinato il provvedimento.
Si tratta di una norma che, invero, ha un ambito applicativo nel
diritto vivente praticamente nullo, soprattutto a seguito della
chiusura dei manicomi giudiziari e, piu' di recente, della citata
sentenza n. 99/2019 della Corte Costituzionale, posto che nella
maggior parte dei casi le infermita' psichiche sono valorizzate per
sottoporre la persona a differimento pena nelle forme della
detenzione domiciliare, piu' rispondente alle necessita' di cura del
soggetto rispetto a ricoveri coattivi sganciati da valutazioni in
punto di effettiva pericolosita' sociale.
Molti commentatori, invero, considerano la stessa implicitamente
abrogata dalla pronuncia della Consulta.
Cio' premesso, nel caso in esame, la condizione di G. non pare
rientrare in ipotesi di differimento obbligatorio di cui all'art. 146
comma 3 c.p.
Invero, la persona non si trova in una condizione patologica non
rispondente alle cure o in stadio terminale, che lo espone ad un
imminente rischio quoad vitam, quanto piuttosto in una grave
infermita' psicofisica. L'infermita' in questione non deriva da
patologie psichiche - il che, al netto delle valutazioni espresse
circa la sostanziale abrogazione dell'istituto, esclude ricorra
l'ipotesi di cui all'art. 148 codice penale - ma e' determinata da
patologie aventi base organica (encefalopatiacronica con atrofia
cerebrale), in parte correlate anche all'eta' avanzata, che potrebbe
assumere ben rilievo ai sensi dell'art. 147 n. 2 codice penale per
disporre il differimento facoltativo della pena.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimita' ha chiarito che
«l'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena
detentiva per gravi motivi di salute puo' essere accolta anche se,
pur non sussistendo un'incompatibilita' assoluta tra la patologia e
lo stato di detenzione, ricorra ma situazione nella quale
l'infermita' ola malattia siano tali da comportare un serio pericolo
di vita, ovvero non assicurino la prestazione di adeguate cure
mediche in ambito carcerario, o, ancora, causino al detenuto
sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla
salute e del senso di umanita' al quale deve essere improntato il
trattamento penitenziario (Sez. 1, n. 27352 del 17 maggio 2019, ,
Rv. 276413 - 01).
Sotto tale profilo, quindi, allorche' il condannato e' affetto da
grave infermita' fisica per malattia la cui prognosi puo' essere
infausta, l'istanza di differimento, e cosi' anche la domanda di
detenzione domiciliare, deve essere considerata previa valutazione
dell'aspettativa di vita del condannato stesso, poiche', quando
questa e' ridotta, e' frustrato lo scopo del reinserimento sociale,
impossibile per motivi estranei al trattamento o al comportamento del
soggetto, e la sanzione diviene sofferenza inutile e contraria al
senso di umanita' (Sez. 1, n. 27352 del 17 maggio 2019, Rv.
276413-01; da ultimo Sez. 1, n. 37086 del 8 giugno 2023, G., Rv.
285760-01; Sez. 1, n. 542 del 30 gennaio 1995, , Rv. 200789-01; Sez.
1, n. 27 del 10 gennaio 1994, Rv. 197127 - 01)» (in questi termini,
Cassazione, Sez. 1 n. 26588/2024).
Tutte condizioni che, a giudizio del Tribunale di Sorveglianza,
sussistono allo stato, posto che ove venisse eseguita la pena, la
sanzione diventerebbe per il G. una sofferenza inutile e contraria al
senso di umanita', nella misura in cui si rivolgerebbe a persona
incapace di percepire il senso rieducativo della pena, con
frustrazione evidente del principio di emenda.
A normativa vigente, dunque, questo Collegio potrebbe disporre il
differimento della pena ai sensi dell'art. 147 n. 2 c.p., dovendo
evidenziarsi che la peculiare condizione di incapacita' psicofisica
in cui versa la persona esclude in radice il rischio di reiterazione
di reati.
Il che, dunque, osta all'applicazione della detenzione
domiciliare surrogatoria, che sarebbe misura in concreto ultronea e
meno favorevole per il condannato di un differimento pieno ai sensi
della norma di cui all'art. 147, c. 2 c.p.
In questo senso, il Tribunale di Sorveglianza sarebbe tenuto a
disporre un differimento, fissando un termine di scadenza della
dilazione dell'esecuzione della pena, entro il quale si dovrebbe
procedere ad una rivalutazione in ordine alla permanenza delle
condizioni che legittimano la postergazione dell'esecuzione.
Tuttavia, il Collegio ritiene di dover evidenziare una lampante
contraddizione nella normativa in esame, nella misura in cui questa
sottopone a medesima disciplina ed all'istituto del differimento una
serie di situazioni che, invero, risultano affatto omogenee e che
richiederebbero, sia da un punto di vista operativo che sul piano
costituzionale, una differente risposta ordinamentale.
In particolare, l'art. 147 c.p., nella sua attuale formulazione,
prevede il differimento dell'esecuzione in una serie di casi fissando
un termine specifico rispetto alla sospensione della pretesa punitiva
dello Stato, tranne che nel caso di cui al n. 2 della norma citata.
Invero, il differimento in caso di domanda di grazia e'
circoscritto ai sei mesi successivi al passaggio in giudicato della
sentenza; le ipotesi di differimento a tutela della maternita' e del
puerperio, invece, hanno evidentemente dei termini naturali dati dal
parto, dal compimento del primo anno o del terzo anno di eta' del
minore. A queste ipotesi, e' parificata tout court quella della grave
infermita' fisica, che non reca uno specifico termine e che, nel
diritto vivente, vede i Tribunali di Sorveglianza gestire la durata
del differimento in modo malleabile e, sostanzialmente, dipendente
dalle necessita' di cura della persona.
Cio' appare molto coerente laddove si consideri che in un gran
numero di casi le gravi infermita' capaci di legittimare il
differimento sono il frutto di patologie in qualche modo transitorie
e/o curabili; in questo senso, potendo le ragioni del differimento
disposto oggi non essere piu' presenti domani, la flessibilita'
dell'istituto quanto all'apposizione di un termine finale consente al
Tribunale di sorveglianza di valorizzare adeguatamente il decorso
clinico e l'esigenza di monitorare la permanenza delle condizioni di
salute che rendono recessiva la pretesa punitiva dello Stato.
All'attenuarsi o al venir meno delle stesse, infatti, il
differimento, secco o nelle forme della cattivita' domiciliare, non
avrebbe piu' ragion d'essere, dovendo riespandersi l'interesse
Statuale alla indefettibilita' ed alla certezza della pena, con avvio
o ripristino dell'esecuzione.
La disciplina, pero', risulta carente, a giudizio di questo
Collegio, laddove le ragioni del differimento non siano dipendenti da
una condizione transitoria o suscettibile di miglioramento, bensi' da
una patologia irreversibile che renda stabilmente incapace di essere
sottoposto ad esecuzione penale il condannato.
ln questi casi, tutt'altro che secondari nella prassi, il
Tribunale di Sorveglianza e'. infatti, costretto a ripetere
ciclicamente verifiche sulla permanenza delle condizioni di salute
che consentono il differimento, sostanzialmente sino all'estinzione
della pena per morte del condannato ai sensi dell'art. 171 c.p.
Invero, l'art. 172 codice penale in materia di prescrizione della
pena stabilisce che «Se l'esecuzione della pena e' subordinata alla
scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il tempo
necessario per la estinzione della pena decorre dal giorno in cui il
termine e' scaduto o la condizione si e' verificata».
Dunque, il termine di prescrizione risulta interrotto in tutti i
casi in cui l'esecuzione della pena venga differita, non consentendo
neppure di far valere tale causa estintiva, eventualmente capace di
dare un termine anticipato rispetto a quello di definitivo decesso
del condannato non passibile di esecuzione.
In sostanza, il sistema non contempla una ipotesi di rinuncia
all'esecuzione della pena in casi come questi, in cui piuttosto che
un differimento con continui riesami, ci si trova dinnanzi ad una
stabile impossibilita' di eseguire la pena per incapacita'
irreversibile della persona ad esservi sottoposto.
Il quadro sinora descritto appare a questo Collegio del tutto
assimilabile a quello che ha portato alla riforma degli articoli
70-72-bis codice di procedura penale in punto di valutazione della
stabile incapacita' di stare in giudizio dell'imputato, tesa a
risolvere quello che nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale
era efficacemente descritto come «il problema degli eterni
giudicabili».
Trattandosi di materia in cui la Corte costituzionale ha avuto un
ruolo tutt'altro che secondario, ci si esimera' dal ripercorrere
funditus le varie tappe del percorso che ha condotto all'attuale
formulazione, in particolare, dell'art. 72-bis c.p.p., riepilogando
per sommi capi l'evoluzione ermeneutica e normativa de quo.
Si cerchera', poi, di evidenziare gli evidenti punti di contatto
tra le carenze della previgente disciplina, i moniti della Corte, le
soluzioni adottate sul piano normativo e le nuove questioni emerse in
seno alla giurisprudenza Costituzionale nella subjecta materia e la
disciplina del differimento della pena per come oggi normata.
Circoscrivendo, pertanto, l'esame alle pronunce piu' recenti,
viene in rilievo anzitutto la Sentenza n. 23/2013 della Corte
costituzionale.
Nel caso di specie, il Tribunale di Milano aveva censurato l'art.
159 codice penale rispetto ai parametri di cui agli articoli 3, 24 e
111 Cast. nella misura in cui prevedeva la sospensione del decorso
della prescrizione allorquando fosse accertata ai sensi degli
articoli 70 e ss. codice di procedura penale la incapacita'
irreversibile di stare in giudizio dell'imputato.
Ove accolta, infatti, la questione avrebbe consentito al giudice
meneghino di dichiarare l'intervenuta prescrizione del reato, invece
di dover procedere a defatiganti ed inutili periodici accertamenti
della incapacita' della persona, ormai stabilmente acclarata come
irreversibile.
In quella sede, la Corte evidenzio' che la questione poneva in
luce una reale anomalia insita nelle norme correlate concernenti la
sospensione della prescrizione estintiva dei reati e la sospensione
del processo per incapacita' dell'imputato ove fosse accertata la
natura irreversibile dell'infermita' mentale tale da precludere la
cosciente partecipazione al giudizio dell'interessato.
Si verificava, infatti, una situazione di pratica
imprescrittibilita' del reato, a cui ne' il giudice ne' l'imputato
potevano porre rimedio, con un «"indefinito protrarsi nel tempo della
sospensione del processo - con la conseguenza della tendenziale
perennita' della condizione di giudicabile dell'imputato, dovuta
all'effetto, a sua volta sospensivo, sulla prescrizione».
Tale situazione era giudicata dalla Corte idonea da assumere il
carattere della irragionevolezza: «giacche' entra in contraddizione
con la ratio posta a base, rispettivamente, della prescrizione dei
reati e della sospensione del processo. La prima e' legata, tra
l'altro, sia all'affievolimento progressivo dell'interesse della
comunita' alla punizione del comportamento penalmente illecito,
valutato, quanto ai tempi necessari, dal legislatore, secondo scelte
di politica criminale legate alla gravita' dei reati, sia al «diritto
all'oblio» dei cittadini, quando il reato non sia cosi' grave da
escludere tale tutela. La seconda poggia sul diritto di difesa, che
esige la possibilita' di una cosciente partecipazione dell'imputato
al procedimento. Nell'ipotesi di irreversibilita' dell'impedimento di
cui sopra risultano frustrate entrambe le finalita' insite nelle
norme sostanziali e processuali richiamate, con la conseguenza che le
ragioni delle garanzie ivi previste si rovesciano inevitabilmente nel
loro contrario».
Tuttavia, a fronte della possibilita' di diverse opzioni
normative per risolvere siffatta condizione, da operarsi non tanto
sul terreno della prescrizione, quanto piuttosto della valorizzazione
della incapacita' irreversibile dell'imputato di partecipare al
processo, la Corte dichiaro' inammissibile la questione, lanciando un
perentorio monito al legislatore affinche' affrontasse ex professo il
tema degli eterni giudicabili.
La questione, tuttavia, rimase irrisolta da un punto di vista
normativo, tanto da richiedere un nuovo pronunciamento della Corte
costituzionale.
Con sentenza n. 45/2015, infatti, la Corte fu nuovamente chiamata
dal Tribunale di Milano a valutare la compatibilita' costituzionale
dell'art. 159 codice penale rispetto agli articoli 3 e 111 Cost.
In quella sede, la Consulta, richiamando il monito gia'
effettuato al legislatore sulla necessita' di intervenire sulla
disciplina in materia e quanto statuito nella sentenza n. 23/2013,
accolse la questione.
Nel corso di un'ampia motivazione, la Corte osservo' che
occorreva considerare «la differenza tra le diverse situazioni di
sospensione, anche per incapacita' di partecipare coscientemente al
processo, destinate a una durata limitata nel tempo e la sospensione
derivante da un'incapacita' irreversibile, che e' destinata a non
avere termine, dando luogo per l'imputato alla condizione di «eterno
giudicabile».
La differenza e' fondamentale e rende irragionevole l'identita'
di disciplina. La sospensione e' assimilabile a una parentesi, che
una volta aperta deve anche chiudersi, altrimenti si modifica la sua
natura e si altera profondamente la fattispecie alla quale la
sospensione si applica. Una sospensione del corso della prescrizione
senza fine determina di fatto l'imprescrittibilita' del reato, e
questa situazione, in violazione dell'art. 3 Cost., da luogo a una
ingiustificata disparita' di trattamento nei confronti degli imputati
che vengono a trovarsi in uno stato irreversibile di incapacita'
processuale. [...]
Deve pertanto concludersi che la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 159, primo comma, codice penale , sollevata
dal Tribunale ordinario di Milano, e'/ondata.».
Esaminato il tema sorto il profilo della prescrizione del reato,
tuttavia, la stessa Corte noto' che, pur potendo la declaratoria di
prescrizione intervenire prima della morte dell'imputato, a fronte di
casi di prescrizioni particolarmente lunghe o di delitti
imprescrittibili, lo stesso rimedio da essa apprestato poteva «non
apparire completamente appagante. Infatti, quando il tempo necessario
a prescrivere e' ancora lungo, e' ugualmente lunga la durata della
sospensione del procedimento, con l'onere per il giudice di
periodici, inutili accertamenti peritali.
Sotto questo aspetto una soluzione, prospettata anche da questa
Corte nella sentenza n. 23 del 2013, potrebbe ravvisarsi nella
definizione del procedimento con una sentenza di non doversi
procedere per incapacita' irreversibile de/l'imputato, ed e' cio' che
prevede l'art. 9 del disegno di legge n. 2798, presentato alla Camera
il 23 dicembre scorso, che intende inserire nel codice di procedura
penale un nuovo art. 72-bis.
Con questa disposizione, se sara' approvata, l'incapacita'
irreversibile dell'imputato avra' una disciplina specifica, ma,
ne/l'allesa, per le ragioni esposte, non puo' non riconoscersi la
fondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata
dal Tribunale ordinario di Milano, e deve pertanto dichiararsi, per
contrasto con l'art. 3 Cosi., l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 159, primo comma, cod pen. , nella parte in cui, ove lo
stato mentale dell'imputato sia tale da impedirne la cosciente
partecipazione al procedimento e questo venga sospeso, non esclude la
sospensione della prescrizione quando e' accertato che tale stato e'
irreversibile.».
Sebbene, come visto, il tema era stato affrontato dall'angolo
prospettico degli effetti della sospensione del processo sul terreno
dell'istituto della prescrizione del reato, la Corte non ha mancato
di considerare che il piu' soddisfacente ed adeguato rimedio si
sarebbe dovuto costruire normativamente mediante la previsione di
disciplina che assumesse l'incapacita' irreversibile non gia'
semplicemente quale fatto idoneo a sospendere il processo, bensi' ad
esaurire l'interesse dello Stato alla persecuzione stessa del reato.
A fronte dei moniti e delle sentenze della Corte, con legge 23
giugno 2017, n. 103, cd. Riforma Orlando, e' stata dunque riformata
l'intera disciplina degli articoli da 70 a 72-bis c.p.p.,
prevedendosi con quest'ultima norma che laddove il giudice accerti
una condizione mentale dell'imputato tale da impedire in modo
irreversibile la sua partecipazione al processo, pronunci sentenza di
non luogo a procedere o sentenza non doversi procedere, salva
l'applicazione di misure di sicurezza diverse dalla confisca nei
confronti della persona che risulti, comunque, socialmente
pericolosa.
Anche il testo di nuovo conio, tuttavia, non e' rimasto esente da
censure da parte della Corte costituzionale. Invero, all'indomani
dell'introduzione dell'art. 72-bis codice di procedura penale ci si
era interrogati circa la possibilita' di applicare la normativa di
nuovo conio non solo alle infermita' psichiche, ma anche a forme di
incapacita' di stare in giudizio di tipo fisico.
La Cassazione, invero, con sentenza n. 14853/2021 emessa dalla
sesta sezione, aveva escluso la possibilita' di interpretare la
normativa nel senso di ricomprendere anche quelle infermita' di tipo
fisico che, pur non consentendo la presenza della persona al
processo, non ledessero la sua capacita' di discernimento o
autodeterminazione al punto da compromettere l'esercizio del suo
diritto di difesa. Tali soggetti, dunque, rimanevano eterni
giudicabili.
La questione e' stata nuovamente sottoposta all'attenzione della
Consulta che, con sentenza n. 65 del 7 aprile 2023, ha dichiarato
l'art. 72-bis codice di procedura penale non conforme agli articoli 3
e 24 Cost. nella parte in cui limitava la condizione di incapacita'
processuale irreversibile allo stato mentale e non a quello
psicofisico del condannato. In particolare, la Corte ritenne che il
riferimento esclusivo alla sfera psichica dell'imputato, desumibile
dall'impiego dell'aggettivo «mentale» nel testo dell'art. 72-bis
c.p.p., determinasse un'irragionevole disparita' di trattamento tra
l'imputato, il quale non possa esercitare l'autodifesa in modo pieno
a causa di un'infermita' mentale stricto sensu, e quello che versi
nella medesima impossibilita' per un'infermita' di natura mista,
anche di origine fisica che comprometta le facolta' di «coscienza,
pensiero, percezione, espressione», necessarie per il pieno esercizio
del diritto di difesa nel processo.
L'intervento manipolativo della Consulta, dunque, oggi consente
al giudice di merito di dichiarare non luogo a provvedere o non
doversi procedere tutte le volte in cui, ad esito degli accertamenti
disposti, risulti che l'imputato versa in una irreversibile
condizione di incapacita' di partecipare al processo.
Poste queste premesse di ordine costituzionale, il Tribunale di
Sorveglianza non puo' non chiedersi se possa considerarsi ragionevole
l'attuale quadro normativo, nella misura in cui non prevede che, a
fronte dell'accertamento a carico del condannato di uno stato di
irreversibile incapacita' psicofisica, il giudice possa non gia'
differire l'esecuzione della pena, con continue rivalutazioni, ma
dichiarare non luogo a provvedere sull'esecuzione della stessa per
l'impossibilita' di sottoporre ad esecuzione penale il condannato.
Cio' in quanto, l'assetto normativo nella subjecta materia appare
del tutto analogo (nei suoi tratti essenziali) a quello su cui e'
intervenuta la Consulta nelle sentenze citate in terna di capacita'
di stare in giudizio che hanno portato alla riformulazione degli
articoli 70-72-bis c.p., esponendosi, pertanto alle medesime censure
in punto di irragionevolezza intrinseca dell'opzione normativa (art.
3 comma 2 Cost.) che non valorizza adeguatamente l'incapacita'
irreversibile del condannato di essere sottoposto a pena; cio' che
determina, di riflesso, una serie di lesioni ad altrettanti principi
di caratura costituzionale, quali il diritto di difesa (art. 24
Cost.), il principio di emenda (art. 27 comma 3 Cost.) ed il
principio di ragionevole durata del processo, tanto in chiave
costituzionale, quanto in chiave convenzionale (art. 111 comma 2
Cost. e art. 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU).
Il dubbio di costituzionalita' che qui ci si pone, in massima
parte fondato sulla stessa giurisprudenza costituzionale in tema di
incapacita' processuale irreversibile, richiede anzitutto di
affrontare un tema preliminare: se, ed in che termini, sussista una
assimilabilita' delle situazioni sostanziali tra l'incapacita'
dell'imputato di essere sottoposto a processo e l'incapacita' del
condannato di essere sottoposto ad esecuzione penale.
A questo interrogativo, il Tribunale di Sorveglianza ritiene
possa darsi risposta affermativa, pur con le precisazioni del caso.
Un profilo di differenziazione tra le due posizioni soggettive
potrebbe, invero, essere rappresentato dal fatto che mentre nel caso
dell'imputato non vi e' stato un accertamento sul fatto e, dunque,
una attribuzione di responsabilita' dello stesso al soggetto incapace
di stare in giudizio, nell'ipotesi al vaglio di questo Tribunale di
Sorveglianza tale accertamento sussiste e, dunque, potrebbe venire in
rilievo il tema della indefettibilita' della pena, quale fattispecie
polimorfica e polifunzionale, in cui coesistono e convergono esigenze
individuali ed istanze collettive di certezza del diritto.
Tuttavia, e' agevole evidenziare che nell'attuale assetto
normativo, laddove la persona sia giudicata non pericolosa,
l'esecuzione della sanzione e' in concreto differita sine die fino
all'estinzione della pena per morte del reo; dunque, il tributo ad
astratte esigenze retributive o di sicurezza lato sensu intesa
assomiglia al proverbiale specchietto per le allodole, risolvendosi
in un vezzo formale, sostanzialmente privo di reale impatto sulla
realta' esecutiva.
Tributo che, pero', il sistema nel suo complesso paga a caro
prezzo sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca della
normativa (art. 3 comma 2 Cost.), oltre che di ragionevole durata del
processo (art. 111 Cost. e 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU),
di tutela delle esigenze difensive (art. 24 Cost.) e di
costituzionalita' della pena rispetto al principio di emenda ed al
divieto di trattamenti contrari al senso di umanita' (art. 27 comma 3
Cost.).
Andando a vagliare quelli che il Collegio ritiene gli evidenti
punti di contatto tra le due situazioni ritenute assimilabili, non
puo' non osservarsi, anzitutto, come sia nel caso dell'imputato che
del condannato quel che viene in rilievo e' una condizione di fatto
identica: l'accertamento di una patologia irreversibile che impedisce
la partecipazione dell'interessato ad un fatto diacronico e
procedimentalizzato, nell'un caso volto ad accertare le eventuali
responsabilita' penali della persona e, nell'altro, volto a stabilire
quali limitazioni siano adeguate a rieducare la persona ed a
neutralizzare il pericolo che essa rappresenta per la collettivita'.
In questo senso, vi e' un idemfactum alla base di entrambe le
fattispecie.
Ma, ancora, risulta innegabile che il fatto-procedimento
esecutivo richiede da parte del condannato (per citare la Consulta)
«coscienza, pensiero, percezione ed espressione», si' da garantire la
comprensione del significato delle limitazioni imposte e il loro
portato afflittivo; e questo non gia' quale espressione di una mera
pretesa/potesta' esecutivo-retributiva dello Stato, bensi' come
giusta sofferenza adeguata e necessaria, tesa a stimolare nel
condannato una riconsiderazione del proprio vissuto ed orientare la
persona sottoposta a pena verso modelli comportamentali socialmente
accettabili.
Se manca la capacita' di cosciente partecipazione del condannato
al procedimento esecutivo-trattamentale, questo Collegio ritiene non
possa riconoscersi un orizzonte costituzionale alla mera esecuzione
della pena quale freddo adempimento della sentenza di condanna in
ottica puramente autoritativa o retributiva.
La pena, cosi' intesa, diventerebbe causa di limitazioni e
sofferenze inflitte a titolo di vendetta sociale sul singolo per il
reato commesso, ovvero come pretesa di obbedienza ad un comando
afflittivo fine a se' stesso; in quanto tale, inutile per il
condannato, ma anche per la societa' nel suo complesso.
Invero, le condizioni di incapacita' di essere sottoposto a pena
non sono del tutto disconosciute dal legislatore, ma vengono
affrontate con uno strumento, il differimento, strutturalmente teso a
rinviare l'esecuzione della pena, che se appare adeguato rispetto a
fattispecie connotate dalla presenza di termini naturali o rispetto a
condizioni reversibili, mal si concilia con situazioni di incapacita'
croniche, stabili ed irreversibili.
In questi casi, infatti, il Tribunale di Sorveglianza e'
costretto a fissare termine e reiterare gli accertamenti sine die,
attendendo, in concreto, la morte del condannato per dichiarare non
luogo a provvedere per estinzione della pena ai sensi dell'art. 171
c.p.
Al differimento, inoltre, si correla anche l'interruzione del
decorso della prescrizione ai sensi dell'art. 172 c.p., il che
consentirebbe nel caso di specie di parlare (mutuando la terminologia
di cui supra) di eterni esecutabili quali soggetti condannati che non
potranno mai essere sottoposti in concreto ad esecuzione, ma che per
l'ordinamento risultano astrattamente passibili di futura espiazione
della pena, trovando solo nella morte un termine alla loro
condizione.
Il che, evidentemente, replica, nell'ambito esecutivo quanto gia'
giudicato irragionevole rispetto al processo di cognizione nelle
sentenze citate, con evidente lesione dell'art. 3 comma 2 Cost. sotto
il profilo della ragionevolezza intrinseca del dato normativo.
Ma la normativa, allo stato attuale, risulta non garantire lo
stesso diritto di difesa del condannato nel procedimento di
sorveglianza, ledendo parimenti l'art. 24 Cost. Invero, alla luce
delle profonde innovazioni che hanno interessato la materia, in cui
la Corte costituzionale ha avuto un ruolo tutt'altro che secondario,
non e' possibile oggi disconoscere che dinnanzi alla magistratura di
sorveglianza si svolge non gia' un mero incidente esecutivo di natura
para-amministrativa, bensi' un ulteriore tassello della giurisdizione
penale: quello teso a valutare con quali modalita' debba darsi
attuazione al comando punitivo insito nella pronuncia di condanna,
secondo una valutazione di proporzionalita' e adeguatezza delle
limitazioni rispetto alla pericolosita' del condannato ed alla
possibilita' che questi esegua la pena in forme anche extramurarie
che favoriscano la sua reintegrazione nel tessuto sociale, in accordo
con il volto costituzionale della pena tratteggiato dall'art. 27
comma 3 Cast.
Sebbene la disciplina del procedimento di sorveglianza sia
modellata sulla Camera di consiglio, con mera ed eventuale
partecipazione del condannato, e non sia formalmente un processo nel
senso tradizionale del termine, dunque, la capacita' di stare in
giudizio innanzi alla magistratura di sorveglianza non e' un fatto
neutro ai fini dell'esercizio del diritto di difesa ed autodifesa nel
merito rispetto al tipo di valutazione che e' proprio della sede
giurisdizionale in esame; profilo che l'attuale assetto normativo
disconosce del tutto e la cui necessaria valorizzazione dovrebbe
condurre, nella prospettiva che qui si intende sostenere, a prevedere
forme di definizione del procedimento laddove la parte non possa
parteciparvi coscientemente, si' come previsto nel procedimento
attinente il merito della responsabilita' penale.
Sotto altro profilo, la carenza normativa riscontrata determina
effetti lesivi del principio di ragionevole durata del processo,
nella misura in cui alla definizione del procedimento di sorveglianza
conclusosi con la concessione del differimento della pena non fa
seguito una cessazione del thema decidendum sostanziale, vale a dire
il quomodo e l'an dell'esecuzione, ma un mero rinvio dello stesso.
Invero, alla scadenza del termine indicato nell'ordinanza del
Tribunale di Sorveglianza si possono verificare le seguenti
alternative: o la parte reitera per tempo nuova domanda di
differimento ai sensi dell'art. 147 codice penale e 684 c.p.p.,
eventualmente anche in via provvisoria, consentendo un giudizio di
proroga-concessione di nuovo differimento che impedisce l'avvio o la
ripresa dell'esecuzione della pena; ovvero la parte omette, per
negligenza, di presentare nuova domanda, con emissione da parte della
Procura di ordine di esecuzione della pena differita, potendo anche
determinare l'ingresso in carcere del condannato, cui fara',
evidentemente, seguito nuova domanda di differimento.
In entrambi i casi, si instaurera' un nuovo giudizio in punto di
differimento della pena, che, a fronte di condizioni di incapacita'
irreversibile, non potra' che concludersi con ulteriore dilazione
dell'esecuzione sino a nuovo termine, alla cui scadenza si
ripresentera' la medesima situazione e cosi' via sino alla morte del
condannato.
Tutto cio' con grande dispendio di energie procedurali e costi
per il sistema della giustizia, ma anche per il condannato e le
persone a lui prossime, in particolare i familiari e coloro che hanno
cura della sua persona.
Questi, infatti, saranno costretti ciclicamente a reiterare
domande di differimento della pena, sostenendo anche le relative
spese legali per la difesa tecnica nei vari giudizi; giudizi che
importeranno per il sistema ulteriori spese per la celebrazione delle
relative udienze (notifiche, atti istruttori, partecipazione degli
esperti etc. etc.). Tale ipertrofia procedurale rispetto ad una
condizione di irreversibile incapacita' della persona di essere
coscientemente assoggettata a pena appare oltremodo ridondante,
esponendo sia il sistema che la parte a spese processuali non
giustificate ne' giustificabili a fronte di un accertamento
definitivo che potrebbe porre fine in modo stabile alla vicenda
procedurale complessivamente intesa. Una macchina che, in definitiva,
girerebbe a vuoto.
Verrebbe, dunque, in rilievo, anche una possibile lesione degli
articoli 111 comma 2 Cost. e 117 Cost., quest'ultimo rispetto
all'art. 6 CEDU.
La Corte europea dei diritti dell'uomo, infatti, ha da tempo
indicato come il diritto alla ragionevole durata del processo non si
esaurisce esclusivamente nel contesto dell'attivita' processuale in
senso stretto, ma riguarda tutti i procedimenti giurisdizionali,
inclusi quelli esecutivi, dovendo considerarsi l'esecuzione di un
giudicato, di qualsiasi giurisdizione, come facente parte integrante
della nozione di processo di cui all'art. 6 (cfr. in particolare caso
SY v. Italy 11791/2020, § 63). L'ermeneutica in discussione e' stata
affermata sin dal caso Burdov v. Russia (caso I nel 2000 e caso 2 nel
2004) e ribadita nei casi Metaxas v Greece del 2002, con applicazioni
sia in ambito civile che in ambito penale. In particolare, quanto al
diritto processuale penale, l'arresto ha trovato una propria
specifica applicazione contro l'Italia in tema di mancata esecuzione
dell'ordine di rimessione in liberta' rispetto a misura di sicurezza
di ricovero in o.p.g. da eseguirsi in R.E.M.S. (il citato caso SY v.
Jtaly), avendo in quella sede la Corte ribadito che la fase esecutiva
di una pronuncia di condanna e' parte del processo ai sensi dell'art.
6 CEDU.
Le sentenze citate, dunque, paiono esprimere un indirizzo ormai
consolidato nel sistema convenzionale, idoneo ad assurgere, ai sensi
della sentenza n. 49/2015 quale parametro di costituzionalita'
vincolante per l'interprete, quantomeno nella parte in cui indica il
giudizio di esecuzione come rientrante nella nozione di processo di
cui deve essere assicurata, tra le altre, la ragionevole durata.
Inoltre, laddove, si volessero anche coltivare le statuizioni di
principio sull'integrazione dei sistemi costituzionale e
convenzionale espressi nella recentissima sentenza n. 33/2025,
secondo cui anche in assenza di specifiche: pronunce della Corte
europea dei diritti dell'uomo su un dato tema vi e' spazio per la
Corte costituzionale di offrire comunque tutela ai diritti garantiti
dalla Convenzione, in quanto questa, seppur con rango
sub-costituzionale, e' parte dell'ordinamento costituzionale nel suo
complesso (si vedano in particolare i paragrafi da 7 in avanti del
Considerato in diritto di cui alla sentenza n. 33 del 2025), potrebbe
agevolmente la Consulta valutare che il procedimento esecutivo
penale, nel suo cammino di giurisdizionali azione dipanatosi secondo
le tappe marcate dalla stessa giurisprudenza costituzionale, e'
certamente un terreno in cui l'esercizio dei poteri decisori della
magistratura di sorveglianza dovrebbe rispondere a criteri di
ragionevolezza temporale.
Una inutile o colpevole dilazione della decisione, infatti,
lederebbe non solo il principio di emenda, il diritto all'oblio ed
altri interessi meritevoli di tutela che si correlano al tempo del
processo, ma anche la legittima aspettativa dei cittadini di vedere
la propria posizione rispetto all'esecuzione di una pena o di una
misura di sicurezza definita entro termini congrui.
Nel caso in esame, la lesione si produrrebbe valorizzando la
inutilita' delle continue dilazioni dell'esecuzione che, senza alcun
motivo, protrarrebbero il giudizio sulla sottoponibilita' a pena di
chi e' gia' certo non potra' mai esservi sottoposto. L'art. 6 CEDU,
dunque, sarebbe in cio' vulnerato, e, di rimando, lo sarebbe l'art.
117 Cost. Analoghe censure, d'altro canto, si estenderebbero rispetto
al parametro di cui all'art. 111 comma 2 Cost.
Da ultimo, l'attuale disciplina, nel richiedere il costante
riesame di una condizione stabilmente accertata come irreversibile, a
giudizio del Collegio risulta ledere l'art. 27 comma 3 Cost. e, nella
misura in cui frustra la tendenziale funzione rieducativa della pena
e di pone in termini disarmonici rispetto al divieto di trattamenti
contrari al senso di umanita'. Il riferimento al parametro qui citato
si rende, a parere del Collegio, necessario rispetto alle
peculiarita' della materia in esame.
Se nell'ambito del processo volto ad accertare la responsabilita'
della persona la Consulta ha ritenuto la disciplina delle incapacita'
processuali carente nella misura in cui non considerava adeguatamente
la stabile impossibilita' di difendersi dell'imputato, esponendolo in
astratto ad un giudizio eternamente rinviato, traslando il tema sul
terreno dell'esecuzione penale e delle specifiche esigenze di
caratura costituzionale che sorreggono questo ramo dell'ordinamento,
la disciplina si pone come carente nella misura in cui finisce per
considerare in astratto come eternamente sottoponibile a pena chi non
e' ne' sara' mai in grado di esservi sottoposto perche' incapace di
percepire la funzione della pena quale emenda.
A fronte delle censure sin qui esposte, il Collegio ritiene
debbano valorizzarsi le acquisizioni costituzionali e normative
maturate sul terreno della irreversibile incapacita' processuale,
individuando nella norma di cui all'art. 72-bis codice di procedura
penale un tertium comparationis da intendersi non tanto o meglio non
soltanto quale parametro normativo di raffronto per valutare la
ragionevolezza della disciplina attualmente in esame, quanto
piuttosto come opzione normativa adeguata costituzionalmente con cui
il legislatore ha dato una soluzione idonea a risolvere una
situazione analoga a quella al vaglio del Collegio.
Gia' in altre occasioni, infatti, la Corte costituzionale,
discostandosi dalla teoria delle cosiddette soluzioni a rime
obbligate, ha recentemente adottato pronunce in cui sono state
accolte soluzioni di tipo additivo manipolativo che, pur se non
obbligate, apparivano adatte a offrire una cornice di tutela adeguata
rispetto ai vulnera costituzionali denunciati dai giudici rimettenti,
evitando al contempo che la declaratoria di incostituzionalita'
creasse vuoti di disciplina e precludesse, in astratto, un intervento
del legislatore che, nell'esercizio della sua discrezionalita' e
tenendo fermi i criteri costituzionali minimi offerti dalla Corte,
desse una diversa riorganizzazione alla materia.
Si tratta di un'ermeneutica costituzionale ormai consolidatasi ed
espressa in diverse pronunce della Consulta: si vedano la Sentenza n.
40 del 2019, punto 4.2. del Considerato in diritto; Sentenza n. 236
del 2016, punto 4.4. del Considerato in diritto; Sentenza n. 222 del
2018, punto 8.1. del Considerato in diritto; recentemente Sentenza 46
del 2024, punto 4 e seguenti del Considerato in diritto; ex multis,
nello stesso senso, sentenze n. 95 del 2022, punto 5 del Considerato
in diritto, e n. 252 del 2020, punto 4.6. del Considerato in diritto.
Sebbene i precedenti citati hanno in massima parte riguardato norme
relative a giudizi in cui era oggetto di censura
l'adeguatezza-ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, non sono
mancate pronunce che hanno fatto applicazione della teoria delle
soluzioni costituzionalmente adeguate anche nell'ambito della materia
della sorveglianza: si pensi alle sentenze n. 253/2019 e n. 10/2024,
rispettivamente, in tema di accesso ai permessi premio per condannati
per delitti di cui all'art. 4-bis comma 1, O.P. in assenza di
collaborazione con la giustizia ed in tema di a affettivita'
inframuraria e divieto di colloqui intimi, ove la Corte ha
sostanzialmente individuato il portato minimo di tutela
costituzionalmente necessitato per rispondere alle censure mosse dai
giudici a quo, lasciando comunque un margine di discrezionalita'
all'organo legislativo.
Facendo applicazione dei principi citati, questo Collegio ritiene
che la soluzione costituzionalmente adeguata per porre rimedio ai
profili di incostituzionalita' sopra esposti sarebbe quella di
stabilire nella subjecta materia una normativa modellata sul disposto
dell'art. 72-bis codice di procedura penale che, in caso di accertata
ed irreversibile incapacita' di sottoposizione ad esecuzione penale
del condannato, consenta di dichiarare non luogo a provvedere
sull'esecuzione della pena.
Un tale effetto potrebbe essere realizzato mediante pronuncia
additiva che dichiari l'illegittimita' costituzionale dell'art. 147
codice penale per violazione degli articoli 3 comma 2, 24, 27 comma
3, 111 comma 2 Cost. e 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU, nella
parte in cui non prevede che «Se, a seguito degli accertamenti
esperiti, ove occorra anche mediante perizia, risulta che lo stato
psicofisico del condannato e' tale da impedire la cosciente
sottoposizione ali 'esecuzione della pena e che tale stato e'
irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a
procedere o ordinanza di doversi procedere».
Si e' espunto, nella formulazione del parametro ritenuto
adeguato, il riferimento all'applicazione di misure di sicurezza, pur
presente nell'art. 72-bis codice di procedura penale posto che la
norma in esame consente il differimento della pena solo ad esito di
un giudizio che escluda la pericolosita' sociale del condannato.
In questo senso, sarebbe ridondante il riferimento a misure che
hanno nella attuale pericolosita' sociale il loro principale
presupposto applicativo.
La questione di costituzionalita' cosi' posta risulta rilevante
nel caso di specie, oltre che, per le ragioni su esposte, non
manifestamente infondata.
In punto di rilevanza, invero, deve osservarsi che la condizione
di G e' quella di chi e' affetto da grave infermita' psichica e
fisica e non puo' essere ritenuto, per ragioni oggettive discendenti
dalle sue patologie e dalla incapacita' di azione che queste
determinano, socialmente pericoloso ai sensi dell'art. 147 comma 3
c.p., apparendo possibile escludere il rischio di reiterazione di
reati.
Nei suoi confronti, dunque, si imporrebbe una decisione in
termini di differimento, che pero' sarebbe del tutto arbitraria in
punto di quantum, apparendo evidente sin da ora che la sua condizione
clinica e la relativa infermita' psicofisica sono irreversibili e non
potranno che peggiorare con l'avanzare dell'eta', determinando un
susseguirsi di differimenti sino al suo trapasso.
Laddove venisse accolta la prospettazione di questo Tribunale di
Sorveglianza, viceversa, il giudizio potrebbe concludersi con un
esito giuridicamente diverso da quello attualmente possibile: invece
dell'apposizione di un termine di durata del differimento, infatti,
potrebbe statuirsi definitivamente sull'esecuzione della pena,
evitando la reiterazione di futuri giudizi.
Ne' la questione potrebbe essere risolta mediante accesso ad una
interpretazione costituzionalmente orientata. Invero, sotto questo
profilo, il dato non nativo risulta piuttosto chiaro nello stabilire
che la pronuncia del giudice si risolva in un mero differimento o in
una sospensione dell'esecuzione. In altri termini, la legge non
attribuisce al giudice il potere di dichiarare una volta per tutte
l'ineseguibilita' della pena tout court; effetto che si realizza solo
con il decesso della persona a seguito di piu' o meno numerosi
differimenti.
Potrebbe, invero, immaginarsi che il Tribunale di Sorveglianza,
proprio in ragione della mancata indicazione nell'art. 147 codice
penale di un termine specifico per il differimento, disponga un
rinvio dell'esecuzione sino alla morte del condannato, ovvero sino al
perdurare delle condizioni di incapacita'. Ma, a ben vedere, si
tratterebbe di soluzioni pratiche che, invece di affrontare il tema
ed il problema nella sua effettiva realta' e alla luce di una lettura
costituzionale delle norme, realizzerebbero un effetto di sostanziale
aggiramento del dato di legge, stabilendo un differimento sine die
sostanzialmente idoneo a risolversi in una rinuncia all'esecuzione
normativamente non prevista, oltreche' di difficile compatibilita'
con il quadro costituzionale tratteggiato supra. Come tali, sono
opzioni che questo Collegio stima non praticabili metodologicamente
ed assiologicamente non adeguate.
Quanto alla non manifesta infondatezza, ci si richiama in massima
parte a quanto gia' indicato sopra.
Appare, tuttavia, opportuno svolgere alcune considerazioni sulla
adeguatezza della soluzione prospettata non soltanto con riferimento
alle esigenze di tutela del singolo rispetto alla pretesa punitiva
dello Stato, ma anche rispetto alla rispondenza della stessa alle
esigenze di difesa della collettivita'.
Potendo, invero, il differimento della pena essere concesso solo
a fronte di un giudizio che escluda la pericolosita' sociale del
condannato, l'eventuale accoglimento della questione non esporrebbe a
maggiori rischi il consorzio civile; i potenziali destinatari della
norma, infatti, rimarrebbero solo coloro che, incapaci di essere
sottoposti a pena, non rappresentano piu' un pericolo per la
societa'.
Ancora, si consideri che la rinuncia alla esecuzione della pena
rimarrebbe ancorata all'esperimento di accertamenti particolarmente
pregnanti in punto di attuale assenza della capacita' di essere la
persona sottoposta a pena e di irreversibilita' di talestato, secondo
le medesime opzioni normative assunte sul terreno della capacita' di
stare in processo dagli articoli 70 e seguenti c.p.p.
Da ultimo, preme evidenziarsi che in caso di eventuali ed
imprevedibili mutamenti nella condizione della persona (che non
dovrebbero verificarsi, ma non possono non essere considerati come
evenienza, seppur remota) tali da far riacquistare al condannato
capacita' di essere sottoposto ad esecuzione penale, sarebbe comunque
possibile rivalutare la posizione dell'interessato. Invero, da un
lato le pronunce della magistratura di sorveglianza sono rese con
ordinanza e vige, in generale, un principio di revocabilita' delle
stesse ove si accerti che la situazione di fatto sulla base della
quale esse sono state emesse risulta difforme o sostanzialmente
mutata; dall'altro, a fronte di una pronuncia di non doversi
procedere all'esecuzione, che non attiene al merito del giudizio,
potrebbe immaginarsi la riedizione di nuovo giudizio, eventualmente
da promuoversi da parte della Procura competente, onde sollecitare
una rivalutazione. Ma, e' bene indicarlo, si dovrebbe trattare di
casi piu' che eccezionali, a fronte della condizione di
irreversibilita' accertata.
In presenza di profili di pericolosita' sociale, invece,
rimarrebbero valide le opzioni costituzionalmente indicate dalla
Consulta nella sentenza n. 99/2019, quali la detenzione domiciliare
umanitaria, adeguata a contemperare le contrapposte esigenze
rilevanti nel caso concreto.
E' chiaro che, nella prospettiva sin qui sostenuta, una pena che
risulti priva di qualsiasi possibilita' di proiezione rieducativa per
incapacita' del condannato si porrebbe in termini problematici
rispetto all'art. 27 comma 3 Cost. anche laddove eseguita nelle forme
della detenzione domiciliare nei confronti di chi sia, pero',
pericoloso; ma un tale approfondimento della questione, oltre a non
essere rilevante nel caso di specie, posto che si e' escluso G. sia
soggetto pericoloso, dovrebbe essere piu' adeguatamente oggetto di un
intervento legislativo che ripensi il rapporto tra incapacita'
irreversibile ed esecuzione della pena nelle diverse sfumature e
combinazioni che possono presentarsi nella realta', potendo esservi
diverse soluzioni ipotizzabili per disciplinare la materia.
Ma, quantomeno rispetto a chi sia stato giudicato stabilmente
incapace e non piu' socialmente pericoloso, come G. , e che si
vedrebbe comunque non sottoposto a pena, non paiono emergere
alternative costituzionalmente adeguate ulteriori rispetto a quella
qui indicata e di cui si auspica l'accoglimento.
P.Q.M.
Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva,
nei termini indicati, questione di legittimita' costituzionale
dell'art. dell'art. 147 codice penale per violazione degli articoli 3
comma 2, 24, 27 comma 3, 111 comma 2 Cost. e 117 Cost. in relazione
all'art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevede che «Se, a seguito
degli accertamenti esperiti, ove occorra anche mediante perizia,
risulta che lo stato psicofisico del condannato e' tale da impedire
la cosciente sottoposizione all'esecuzione della pena e che tale
stato e' irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a
procedere o ordinanza di doversi procedere.».
Sospende il giudizio in corso sino all'esito del giudizio
incidentale di legittimita' costituzionale;
Dispone che, a cura della cancelleria, gli atti siano
immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale, e che la presente
ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al pubblico
ministero, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri, e che
sia anche comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Cosi' deciso in Bologna, il 29 aprile 2025.
Il Presidente: Vassallo
Il Magistrato estensore: Romano
Oggetto:
Esecuzione penale – Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena – Casi in cui l'esecuzione di una pena può essere differita – Omessa previsione che “Se, a seguito degli accertamenti esperiti, ove occorra anche mediante perizia, risulta che lo stato psicofisico del condannato è tale da impedire la cosciente sottoposizione all’esecuzione della pena e che tale stato è irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a procedere o ordinanza di doversi procedere” – Violazione del principio di ragionevolezza intrinseca – Lesione del diritto di difesa – Violazione del principio della finalità rieducativa della pena – Incidenza sul divieto di trattamenti contrari al senso di umanità – Violazione del principio, anche convenzionale, di ragionevole durata del processo.
Norme impugnate:
codice penale del Num. Art. 147
Parametri costituzionali:
Costituzione Art. 3 Co. 2
Costituzione Art. 24 Co.
Costituzione Art. 27 Co. 3
Costituzione Art. 111 Co. 2
Costituzione Art. 117 Co. 1
Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali Art. 6 Co.
Testo dell'ordinanza
N. 123 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 aprile 2025 Ordinanza del 30 aprile 2025 del Tribunale di sorveglianza di Bologna nel procedimento di sorveglianza nei confronti di M. G.. Esecuzione penale - Rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena - Casi in cui l'esecuzione di una pena puo' essere differita - Omessa previsione che "Se, a seguito degli accertamenti esperiti, ove occorra anche mediante perizia, risulta che lo stato psicofisico del condannato e' tale da impedire la cosciente sottoposizione all'esecuzione della pena e che tale stato e' irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a procedere o ordinanza di doversi procedere". - Codice penale, art. 147. (GU n. 26 del 25-06-2025) TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI BOLOGNA Il Tribunale l'anno 2025 giorno 29 del mese di aprile in Bologna si e' riunito in Camera di consiglio nelle persone dei componenti: dott.ssa Vassallo Marta - Presidente dott. Romano Ezio - Giudice relatore dott.ssa Lai Federica - Esperta dott.ssa Mediani Giorgia - Esperta Con la partecipazione della dott.ssa Marzocchi Silvia Sost. procuratore generale presso la Corte d'Appello di Bologna, per deliberare sulle domande di: detenzione domiciliare, art. 47-ter O.P.· proposte da G. M. , nato a ( ) il , in relazione alla pena di cui alla sentenza n. emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Forli' il , irrevocabile il 31 ottobre 2020. Osserva Con la sentenza in epigrafe, resa ai sensi dell'art. 444 codice di procedura penale G. e' stato condannato per numerosi delitti di truffa, violenza sessuale (609-bis comma 3 c.p.) ed abusivo esercizio di una professione commessi nel in , per un totale di ventotto capi di imputazione, alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione. Il condannato, all'epoca di emissione dell'ordine di carcerazione, ha avanzato domanda di detenzione domiciliare, da eseguirsi al domicilio di famiglia. Nelle more del giudizio, tuttavia, la condizione personale del G. risulta essere di molto cambiata. Il condannato, infatti, che era alla data di proposizione della domanda assistito dalla moglie in quanto affetto da alcune patologie invalidanti, ha visto un progressivo deterioramento delle sue condizioni sanitarie, acuito dalla scomparsa della moglie, deceduta nel . Da allora, il G. e' inserito in una struttura privata per anziani, , sita in ( ), loc. , via , ove trascorre integralmente le proprie giornate e riceve saltuarie visite da parte della figlia. Con memoria per l'odierna udienza, i difensori di G. M. hanno sollecitato il Tribunale di Sorveglianza a compiere una riflessione su come le attuali condizioni del condannato appaiano tali da determinare non solo una incompatibilita' con l'espiazione della pena in regime detentivo ma, piu' in generale in generale, a rendere non possibile in concreto la stessa sottoposizione del proprio assistito a qualsiasi forma di esecuzione penale, foss'anche di tipo extramurario. La persona, infatti, e' inserita in struttura per anziani, affetta da deficit cognitivi e di deambulazione, al punto da non apparire capace di comprendere il senso dell'esecuzione penale o svolgere percorsi di tipo risocializzante propri della piu' ampia misura dell'affidamento in prova al servizio sociale ai sensi dell'art. 47 legge n. 354/1975 (d'ora innanzi anche O.P.). D'altro canto, continuano i difensori, l'eventuale applicazione di una detenzione domiciliare apparirebbe operativamente difficile, potendo questa incidere sulla possibilita' del G. di rimanere all'interno della struttura che attualmente gli garantisce l'assistenza sanitaria di cui egli necessita e, in ogni caso, non utile ne' in senso rieducativo ne' in senso special-preventivo. Invero, la persona a causa delle patologie in essere non esprime alcuna pericolosita' sociale residua, essendo sostanzialmente confinata all'interno della struttura di accoglienza ove riceve assistenza sanitaria. Sono allegati in atti sia dalla difesa che dall'UEPE certificazione INPS e referti clinici che delineano il seguente quadro. G. e' affetto da encefalopatia cronica con atrofia cerebrale, diabete mellito pluricomplicato, retinopatia diabetica con cecita', cardiopatia, sordita' e incontinenza urinaria. La persona necessita, pertanto, di assistenza socio-sanitaria continuativa e specialistica, erogabile solo in ambiente protetto, allo stato garantito dalla residenza per anziani in cui e' ospitato. L'indagine socio familiare dell'UEPE, a fronte della incapacita' della persona di recarsi presso il servizio, si e' svolta mediante colloquio con la figlia dell'interessato. La donna ha rappresentato le difficolta' del padre ed ha espresso il proprio timore rispetto all'eventuale applicazione di misure alternative, in quanto lo svolgimento dei necessari controlli da parte delle Forze dell'ordine per verificare il rispetto della misura, gravando sulla struttura ospitante, potrebbe indurre la residenza per anziani, struttura privata, a non confermare la disponibilita' ad ospitare l'istante, con pregiudizio per le sue esigenze di cura. L'UEPE indica che alla luce del quadro sanitario emergente dalla documentazione allegate, la persona presenta significative compromissioni delle funzioni psico-fisiche e, dunque, difficilmente potrebbe prendere parte ad un percorso di reinserimento sociale, ne' comprendere appieno le finalita' trattamentali tipiche dell'esecuzione penale esterna. Inoltre, considerata l'evidente vulnerabilita' di cui la G. e' portatore, nonche' il suo essere domiciliato in struttura protetta la sua pericolosita' sociale appare ragionevolmente attenuata. E' lo stesso UEPE, dunque, a sollecitare il Collegio a valutare una forma di sospensione o differimento della pena ai sensi della normativa vigente. Cio' posto, il Tribunale di Sorveglianza deve evidenziare in punto di diritto, che il differimento della pena, nella lettura costituzionalmente orientata offerta dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimita', e' un istituto volto a coniugare le esigenze di tutela della salute e di dignita' del detenuto o di soggetto che si trovi in situazioni di grave vulnerabilita', quale la madre ed il minore nella gestazione e nel puerperio ovvero la persona gravemente malata, con quelle di esecuzione penale e di tutela della collettivita', secondo un giudizio di bilanciamento degli opposti interessi costituzionali in gioco. L'individuazione del punto di equilibrio e' nel differimento obbligatorio ex art. 146 codice penale frutto di una scelta rigida ed operata a monte dal legislatore che accorda prevalenza alle esigenze poste alla base del differimento rispetto a quelle di esecuzione penale. La norma, dunque, non lascia margini di discrezionalita' al giudice, se non nella misura in cui egli e' preposto alla verifica della positiva ricorrenza in fatto dei presupposti stabiliti dalla legge e puo', al piu', valutare se il caso sottoposto rientri nel tipo indicato dal legislatore; con margini, in concreto, abbastanza ristretti (per i delitti commessi anteriormente al 12 aprile 2025, data di entrata in vigore del decreto legge n. 48/2025: donna incinta; madre di prole di eta' inferiore ad anni uno; persona affetta da malattia in stadio terminale o HIV conclamato; per quelli successivi e salva ratifica del decreto legge n. 48/2025, rimarrebbe solo quest'ultima ipotesi). Ma, una volta accertata la sussistenza della condizione assunta dalla legge quale causa di non sottoposizione ad esecuzione penale, l'esito del giudizio non puo' che essere quello di disporre il differimento della pena carceraria che dovrebbe essere eseguita, rinviandola sino al termine della condizione ostativa all'esecuzione. Nel differimento facoltativo ex art. 147 c.p., invece, la ponderazione dei diritti e degli interessi antinomici e' rimessa alla valutazione della magistratura di sorveglianza che, oltre al ricorrere delle condizioni di legge (per i delitti commessi successivamente al 12 aprile 2025, data di entrata in vigore del decreto legge n. 48/2025 e salva conferma dell'attuale testo normativo: donna incinta; madre di prole di eta' inferiore ad anni uno; madre di prole di eta' inferiore agli anni tre; persona affetta da grave infermita' fisica; in caso di domanda di Grazia), ai sensi del comma terzo dell'art. 147 codice penale deve altresi' verificare l'assenza di pericolosita' sociale del condannato. Vi e', dunque, sotto questo profilo l'esercizio di un potere discrezionale del giudice, nella parte in cui la norma da un lato afferma che questi puo' disporre il differimento e, dall'altro, attribuisce allo stesso un sindacato non circoscritto alla verifica della ricorrenza dei presupposti e dei casi ivi indicati, ma anche sulla adeguatezza del differimento rispetto al rischio che la persona reiteri condotte di reato. Laddove si accerti l'attuale pericolosita' sociale della persona, il differimento non potrebbe, dunque per legge trovare applicazione, prevalendo l'interesse di difesa sociale rispetto a quello di tutela della sua vulnerabilita'. Per questa ragione, in entrambi i casi di differimento, obbligatorio o facoltativo, laddove la persona, nonostante la condizione di fragilita' normativamente prevista in cui versa, esprima tutt'ora profili di attuale pericolosita' sociale, sub specie del rischio di reiterazione di condotte illecite, sovviene l'istituto della detenzione domiciliare in luogo del differimento di cui all'art. 47-ter comma 1-ter O.P., quale misura intermedia che nell'alternativa rigida tra il mantenimento dell'esecuzione carceraria, capace di ledere o anche solo comprimere oltremisura il diritto alla salute e la dignita' del condannato, e la totale liberazione dello stesso, che viceversa esporrebbe ad un rischio eccessivo le esigenze di sicurezza sociale della collettivita' (parimenti inquadrabili come interesse di caratura costituzionale), consente di operare una scelta esecutiva mediana capace di individuare un piu' gradato equilibrio tra i contrapposti interessi. Si tratta, all'evidenza, di uno strumento di flessibilizzazione del sistema per garantire e bilanciare tutte le esigenze, individuali e superindividuali, che convergono nell'esecuzione di una pena, sorretto da un giudizio ulteriore e successivo rispetto a quello teso all'accertamento delle condizioni che legittimano il differimento della pena obbligatorio o facoltativo. In questo caso, infatti, la valutazione demandata alla magistratura di sorveglianza non puo' essere ridotta al mero ricorrere dei requisiti di legge, ma deve essere ricostruita quale giudizio di proporzionalita' in concreto tra le esigenze di tutela dell'individuo, della sua salute e della sua umana dignita' ovvero di maternita' e puerperio, e quelle di salvaguardia del resto dei consociati, alla ricerca di quell'equilibrio che realizzi, a parita' di tutela delle une, il minor sacrificio possibile delle altre. In sostanza, quel che si richiede e' di verificare se, pur a fronte di una residua pericolosita' sociale in capo alla persona, il pericolo che egli rappresenta per la collettivita' possa essere adeguatamente arginato mediante il ricorso ad una forma esecutiva meno afflittiva, quale e' quella domiciliare, che in ottica umanitaria allevi le maggiori sofferenze che la persona puo' sperimentare nell'esecuzione carceraria per la propria condizione di vulnerabilita' accertata dal giudice a monte del giudizio. E' chiaro che in questo tipo di giudizi l'opzione carceraria rimane quella astrattamente piu' tutelante per le esigenze collettive; tuttavia, lo sforzo ermeneutico richiesto da una lettura costituzionalmente orientata della norma deve condurre a ritenere che laddove il controllo offerto dalla detenzione domiciliare sia idoneo in concreto a garantire pari grado di tutela alle esigenze di sicurezza collettiva rispetto a quello offerto dalla carcerazione, l'opzione domiciliare sarebbe l'unica costituzionalmente proporzionata e compatibile con gli articoli 31, 32 e 27 comma 3 della Corte Costituzionale (nonche' con l'art. 3 CEDU). Si vedano, in questo senso, le puntuali e condivisibili argomentazioni espresse dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 99/2019, con cui la Consulta ha individuato nella detenzione domiciliare umanitaria di cui all'art. 47-ter comma 1-ter O.P. lo strumento adeguato per contemperare le esigenze sanitarie anche psicologiche della persona con il mantenimento dei vincoli necessari per evitare di porre in pericolo la collettivita'. Ulteriore istituto che potrebbe venire in rilievo, quando si parla di forme di differimento della pena, e' quello di cui all'art. 148 c.p. relativo all'ipotesi della infermita' psichica sopravvenuta alla condanna. La norma prevede che se la persona prima dell'esecuzione della pena o durante la stessa viene colta da una infermita' psichica tale da impedire l'esecuzione della pena il giudice ne dispone la sospensione o il differimento, contestualmente disponendo il ricovero del condannato in un manicomio giudiziario o, laddove la pena sia inferiore ai tre anni e non si tratti di delinquenti o contravventori abituali, professionali o per tendenza, in un manicomio comune. Il ricovero e' revocato, ove vengano meno le ragioni che hanno determinato il provvedimento. Si tratta di una norma che, invero, ha un ambito applicativo nel diritto vivente praticamente nullo, soprattutto a seguito della chiusura dei manicomi giudiziari e, piu' di recente, della citata sentenza n. 99/2019 della Corte Costituzionale, posto che nella maggior parte dei casi le infermita' psichiche sono valorizzate per sottoporre la persona a differimento pena nelle forme della detenzione domiciliare, piu' rispondente alle necessita' di cura del soggetto rispetto a ricoveri coattivi sganciati da valutazioni in punto di effettiva pericolosita' sociale. Molti commentatori, invero, considerano la stessa implicitamente abrogata dalla pronuncia della Consulta. Cio' premesso, nel caso in esame, la condizione di G. non pare rientrare in ipotesi di differimento obbligatorio di cui all'art. 146 comma 3 c.p. Invero, la persona non si trova in una condizione patologica non rispondente alle cure o in stadio terminale, che lo espone ad un imminente rischio quoad vitam, quanto piuttosto in una grave infermita' psicofisica. L'infermita' in questione non deriva da patologie psichiche - il che, al netto delle valutazioni espresse circa la sostanziale abrogazione dell'istituto, esclude ricorra l'ipotesi di cui all'art. 148 codice penale - ma e' determinata da patologie aventi base organica (encefalopatiacronica con atrofia cerebrale), in parte correlate anche all'eta' avanzata, che potrebbe assumere ben rilievo ai sensi dell'art. 147 n. 2 codice penale per disporre il differimento facoltativo della pena. Sul punto, la giurisprudenza di legittimita' ha chiarito che «l'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute puo' essere accolta anche se, pur non sussistendo un'incompatibilita' assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ricorra ma situazione nella quale l'infermita' ola malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, ovvero non assicurino la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, causino al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanita' al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario (Sez. 1, n. 27352 del 17 maggio 2019, , Rv. 276413 - 01). Sotto tale profilo, quindi, allorche' il condannato e' affetto da grave infermita' fisica per malattia la cui prognosi puo' essere infausta, l'istanza di differimento, e cosi' anche la domanda di detenzione domiciliare, deve essere considerata previa valutazione dell'aspettativa di vita del condannato stesso, poiche', quando questa e' ridotta, e' frustrato lo scopo del reinserimento sociale, impossibile per motivi estranei al trattamento o al comportamento del soggetto, e la sanzione diviene sofferenza inutile e contraria al senso di umanita' (Sez. 1, n. 27352 del 17 maggio 2019, Rv. 276413-01; da ultimo Sez. 1, n. 37086 del 8 giugno 2023, G., Rv. 285760-01; Sez. 1, n. 542 del 30 gennaio 1995, , Rv. 200789-01; Sez. 1, n. 27 del 10 gennaio 1994, Rv. 197127 - 01)» (in questi termini, Cassazione, Sez. 1 n. 26588/2024). Tutte condizioni che, a giudizio del Tribunale di Sorveglianza, sussistono allo stato, posto che ove venisse eseguita la pena, la sanzione diventerebbe per il G. una sofferenza inutile e contraria al senso di umanita', nella misura in cui si rivolgerebbe a persona incapace di percepire il senso rieducativo della pena, con frustrazione evidente del principio di emenda. A normativa vigente, dunque, questo Collegio potrebbe disporre il differimento della pena ai sensi dell'art. 147 n. 2 c.p., dovendo evidenziarsi che la peculiare condizione di incapacita' psicofisica in cui versa la persona esclude in radice il rischio di reiterazione di reati. Il che, dunque, osta all'applicazione della detenzione domiciliare surrogatoria, che sarebbe misura in concreto ultronea e meno favorevole per il condannato di un differimento pieno ai sensi della norma di cui all'art. 147, c. 2 c.p. In questo senso, il Tribunale di Sorveglianza sarebbe tenuto a disporre un differimento, fissando un termine di scadenza della dilazione dell'esecuzione della pena, entro il quale si dovrebbe procedere ad una rivalutazione in ordine alla permanenza delle condizioni che legittimano la postergazione dell'esecuzione. Tuttavia, il Collegio ritiene di dover evidenziare una lampante contraddizione nella normativa in esame, nella misura in cui questa sottopone a medesima disciplina ed all'istituto del differimento una serie di situazioni che, invero, risultano affatto omogenee e che richiederebbero, sia da un punto di vista operativo che sul piano costituzionale, una differente risposta ordinamentale. In particolare, l'art. 147 c.p., nella sua attuale formulazione, prevede il differimento dell'esecuzione in una serie di casi fissando un termine specifico rispetto alla sospensione della pretesa punitiva dello Stato, tranne che nel caso di cui al n. 2 della norma citata. Invero, il differimento in caso di domanda di grazia e' circoscritto ai sei mesi successivi al passaggio in giudicato della sentenza; le ipotesi di differimento a tutela della maternita' e del puerperio, invece, hanno evidentemente dei termini naturali dati dal parto, dal compimento del primo anno o del terzo anno di eta' del minore. A queste ipotesi, e' parificata tout court quella della grave infermita' fisica, che non reca uno specifico termine e che, nel diritto vivente, vede i Tribunali di Sorveglianza gestire la durata del differimento in modo malleabile e, sostanzialmente, dipendente dalle necessita' di cura della persona. Cio' appare molto coerente laddove si consideri che in un gran numero di casi le gravi infermita' capaci di legittimare il differimento sono il frutto di patologie in qualche modo transitorie e/o curabili; in questo senso, potendo le ragioni del differimento disposto oggi non essere piu' presenti domani, la flessibilita' dell'istituto quanto all'apposizione di un termine finale consente al Tribunale di sorveglianza di valorizzare adeguatamente il decorso clinico e l'esigenza di monitorare la permanenza delle condizioni di salute che rendono recessiva la pretesa punitiva dello Stato. All'attenuarsi o al venir meno delle stesse, infatti, il differimento, secco o nelle forme della cattivita' domiciliare, non avrebbe piu' ragion d'essere, dovendo riespandersi l'interesse Statuale alla indefettibilita' ed alla certezza della pena, con avvio o ripristino dell'esecuzione. La disciplina, pero', risulta carente, a giudizio di questo Collegio, laddove le ragioni del differimento non siano dipendenti da una condizione transitoria o suscettibile di miglioramento, bensi' da una patologia irreversibile che renda stabilmente incapace di essere sottoposto ad esecuzione penale il condannato. ln questi casi, tutt'altro che secondari nella prassi, il Tribunale di Sorveglianza e'. infatti, costretto a ripetere ciclicamente verifiche sulla permanenza delle condizioni di salute che consentono il differimento, sostanzialmente sino all'estinzione della pena per morte del condannato ai sensi dell'art. 171 c.p. Invero, l'art. 172 codice penale in materia di prescrizione della pena stabilisce che «Se l'esecuzione della pena e' subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il tempo necessario per la estinzione della pena decorre dal giorno in cui il termine e' scaduto o la condizione si e' verificata». Dunque, il termine di prescrizione risulta interrotto in tutti i casi in cui l'esecuzione della pena venga differita, non consentendo neppure di far valere tale causa estintiva, eventualmente capace di dare un termine anticipato rispetto a quello di definitivo decesso del condannato non passibile di esecuzione. In sostanza, il sistema non contempla una ipotesi di rinuncia all'esecuzione della pena in casi come questi, in cui piuttosto che un differimento con continui riesami, ci si trova dinnanzi ad una stabile impossibilita' di eseguire la pena per incapacita' irreversibile della persona ad esservi sottoposto. Il quadro sinora descritto appare a questo Collegio del tutto assimilabile a quello che ha portato alla riforma degli articoli 70-72-bis codice di procedura penale in punto di valutazione della stabile incapacita' di stare in giudizio dell'imputato, tesa a risolvere quello che nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale era efficacemente descritto come «il problema degli eterni giudicabili». Trattandosi di materia in cui la Corte costituzionale ha avuto un ruolo tutt'altro che secondario, ci si esimera' dal ripercorrere funditus le varie tappe del percorso che ha condotto all'attuale formulazione, in particolare, dell'art. 72-bis c.p.p., riepilogando per sommi capi l'evoluzione ermeneutica e normativa de quo. Si cerchera', poi, di evidenziare gli evidenti punti di contatto tra le carenze della previgente disciplina, i moniti della Corte, le soluzioni adottate sul piano normativo e le nuove questioni emerse in seno alla giurisprudenza Costituzionale nella subjecta materia e la disciplina del differimento della pena per come oggi normata. Circoscrivendo, pertanto, l'esame alle pronunce piu' recenti, viene in rilievo anzitutto la Sentenza n. 23/2013 della Corte costituzionale. Nel caso di specie, il Tribunale di Milano aveva censurato l'art. 159 codice penale rispetto ai parametri di cui agli articoli 3, 24 e 111 Cast. nella misura in cui prevedeva la sospensione del decorso della prescrizione allorquando fosse accertata ai sensi degli articoli 70 e ss. codice di procedura penale la incapacita' irreversibile di stare in giudizio dell'imputato. Ove accolta, infatti, la questione avrebbe consentito al giudice meneghino di dichiarare l'intervenuta prescrizione del reato, invece di dover procedere a defatiganti ed inutili periodici accertamenti della incapacita' della persona, ormai stabilmente acclarata come irreversibile. In quella sede, la Corte evidenzio' che la questione poneva in luce una reale anomalia insita nelle norme correlate concernenti la sospensione della prescrizione estintiva dei reati e la sospensione del processo per incapacita' dell'imputato ove fosse accertata la natura irreversibile dell'infermita' mentale tale da precludere la cosciente partecipazione al giudizio dell'interessato. Si verificava, infatti, una situazione di pratica imprescrittibilita' del reato, a cui ne' il giudice ne' l'imputato potevano porre rimedio, con un «"indefinito protrarsi nel tempo della sospensione del processo - con la conseguenza della tendenziale perennita' della condizione di giudicabile dell'imputato, dovuta all'effetto, a sua volta sospensivo, sulla prescrizione». Tale situazione era giudicata dalla Corte idonea da assumere il carattere della irragionevolezza: «giacche' entra in contraddizione con la ratio posta a base, rispettivamente, della prescrizione dei reati e della sospensione del processo. La prima e' legata, tra l'altro, sia all'affievolimento progressivo dell'interesse della comunita' alla punizione del comportamento penalmente illecito, valutato, quanto ai tempi necessari, dal legislatore, secondo scelte di politica criminale legate alla gravita' dei reati, sia al «diritto all'oblio» dei cittadini, quando il reato non sia cosi' grave da escludere tale tutela. La seconda poggia sul diritto di difesa, che esige la possibilita' di una cosciente partecipazione dell'imputato al procedimento. Nell'ipotesi di irreversibilita' dell'impedimento di cui sopra risultano frustrate entrambe le finalita' insite nelle norme sostanziali e processuali richiamate, con la conseguenza che le ragioni delle garanzie ivi previste si rovesciano inevitabilmente nel loro contrario». Tuttavia, a fronte della possibilita' di diverse opzioni normative per risolvere siffatta condizione, da operarsi non tanto sul terreno della prescrizione, quanto piuttosto della valorizzazione della incapacita' irreversibile dell'imputato di partecipare al processo, la Corte dichiaro' inammissibile la questione, lanciando un perentorio monito al legislatore affinche' affrontasse ex professo il tema degli eterni giudicabili. La questione, tuttavia, rimase irrisolta da un punto di vista normativo, tanto da richiedere un nuovo pronunciamento della Corte costituzionale. Con sentenza n. 45/2015, infatti, la Corte fu nuovamente chiamata dal Tribunale di Milano a valutare la compatibilita' costituzionale dell'art. 159 codice penale rispetto agli articoli 3 e 111 Cost. In quella sede, la Consulta, richiamando il monito gia' effettuato al legislatore sulla necessita' di intervenire sulla disciplina in materia e quanto statuito nella sentenza n. 23/2013, accolse la questione. Nel corso di un'ampia motivazione, la Corte osservo' che occorreva considerare «la differenza tra le diverse situazioni di sospensione, anche per incapacita' di partecipare coscientemente al processo, destinate a una durata limitata nel tempo e la sospensione derivante da un'incapacita' irreversibile, che e' destinata a non avere termine, dando luogo per l'imputato alla condizione di «eterno giudicabile». La differenza e' fondamentale e rende irragionevole l'identita' di disciplina. La sospensione e' assimilabile a una parentesi, che una volta aperta deve anche chiudersi, altrimenti si modifica la sua natura e si altera profondamente la fattispecie alla quale la sospensione si applica. Una sospensione del corso della prescrizione senza fine determina di fatto l'imprescrittibilita' del reato, e questa situazione, in violazione dell'art. 3 Cost., da luogo a una ingiustificata disparita' di trattamento nei confronti degli imputati che vengono a trovarsi in uno stato irreversibile di incapacita' processuale. [...] Deve pertanto concludersi che la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 159, primo comma, codice penale , sollevata dal Tribunale ordinario di Milano, e'/ondata.». Esaminato il tema sorto il profilo della prescrizione del reato, tuttavia, la stessa Corte noto' che, pur potendo la declaratoria di prescrizione intervenire prima della morte dell'imputato, a fronte di casi di prescrizioni particolarmente lunghe o di delitti imprescrittibili, lo stesso rimedio da essa apprestato poteva «non apparire completamente appagante. Infatti, quando il tempo necessario a prescrivere e' ancora lungo, e' ugualmente lunga la durata della sospensione del procedimento, con l'onere per il giudice di periodici, inutili accertamenti peritali. Sotto questo aspetto una soluzione, prospettata anche da questa Corte nella sentenza n. 23 del 2013, potrebbe ravvisarsi nella definizione del procedimento con una sentenza di non doversi procedere per incapacita' irreversibile de/l'imputato, ed e' cio' che prevede l'art. 9 del disegno di legge n. 2798, presentato alla Camera il 23 dicembre scorso, che intende inserire nel codice di procedura penale un nuovo art. 72-bis. Con questa disposizione, se sara' approvata, l'incapacita' irreversibile dell'imputato avra' una disciplina specifica, ma, ne/l'allesa, per le ragioni esposte, non puo' non riconoscersi la fondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Milano, e deve pertanto dichiararsi, per contrasto con l'art. 3 Cosi., l'illegittimita' costituzionale dell'art. 159, primo comma, cod pen. , nella parte in cui, ove lo stato mentale dell'imputato sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento e questo venga sospeso, non esclude la sospensione della prescrizione quando e' accertato che tale stato e' irreversibile.». Sebbene, come visto, il tema era stato affrontato dall'angolo prospettico degli effetti della sospensione del processo sul terreno dell'istituto della prescrizione del reato, la Corte non ha mancato di considerare che il piu' soddisfacente ed adeguato rimedio si sarebbe dovuto costruire normativamente mediante la previsione di disciplina che assumesse l'incapacita' irreversibile non gia' semplicemente quale fatto idoneo a sospendere il processo, bensi' ad esaurire l'interesse dello Stato alla persecuzione stessa del reato. A fronte dei moniti e delle sentenze della Corte, con legge 23 giugno 2017, n. 103, cd. Riforma Orlando, e' stata dunque riformata l'intera disciplina degli articoli da 70 a 72-bis c.p.p., prevedendosi con quest'ultima norma che laddove il giudice accerti una condizione mentale dell'imputato tale da impedire in modo irreversibile la sua partecipazione al processo, pronunci sentenza di non luogo a procedere o sentenza non doversi procedere, salva l'applicazione di misure di sicurezza diverse dalla confisca nei confronti della persona che risulti, comunque, socialmente pericolosa. Anche il testo di nuovo conio, tuttavia, non e' rimasto esente da censure da parte della Corte costituzionale. Invero, all'indomani dell'introduzione dell'art. 72-bis codice di procedura penale ci si era interrogati circa la possibilita' di applicare la normativa di nuovo conio non solo alle infermita' psichiche, ma anche a forme di incapacita' di stare in giudizio di tipo fisico. La Cassazione, invero, con sentenza n. 14853/2021 emessa dalla sesta sezione, aveva escluso la possibilita' di interpretare la normativa nel senso di ricomprendere anche quelle infermita' di tipo fisico che, pur non consentendo la presenza della persona al processo, non ledessero la sua capacita' di discernimento o autodeterminazione al punto da compromettere l'esercizio del suo diritto di difesa. Tali soggetti, dunque, rimanevano eterni giudicabili. La questione e' stata nuovamente sottoposta all'attenzione della Consulta che, con sentenza n. 65 del 7 aprile 2023, ha dichiarato l'art. 72-bis codice di procedura penale non conforme agli articoli 3 e 24 Cost. nella parte in cui limitava la condizione di incapacita' processuale irreversibile allo stato mentale e non a quello psicofisico del condannato. In particolare, la Corte ritenne che il riferimento esclusivo alla sfera psichica dell'imputato, desumibile dall'impiego dell'aggettivo «mentale» nel testo dell'art. 72-bis c.p.p., determinasse un'irragionevole disparita' di trattamento tra l'imputato, il quale non possa esercitare l'autodifesa in modo pieno a causa di un'infermita' mentale stricto sensu, e quello che versi nella medesima impossibilita' per un'infermita' di natura mista, anche di origine fisica che comprometta le facolta' di «coscienza, pensiero, percezione, espressione», necessarie per il pieno esercizio del diritto di difesa nel processo. L'intervento manipolativo della Consulta, dunque, oggi consente al giudice di merito di dichiarare non luogo a provvedere o non doversi procedere tutte le volte in cui, ad esito degli accertamenti disposti, risulti che l'imputato versa in una irreversibile condizione di incapacita' di partecipare al processo. Poste queste premesse di ordine costituzionale, il Tribunale di Sorveglianza non puo' non chiedersi se possa considerarsi ragionevole l'attuale quadro normativo, nella misura in cui non prevede che, a fronte dell'accertamento a carico del condannato di uno stato di irreversibile incapacita' psicofisica, il giudice possa non gia' differire l'esecuzione della pena, con continue rivalutazioni, ma dichiarare non luogo a provvedere sull'esecuzione della stessa per l'impossibilita' di sottoporre ad esecuzione penale il condannato. Cio' in quanto, l'assetto normativo nella subjecta materia appare del tutto analogo (nei suoi tratti essenziali) a quello su cui e' intervenuta la Consulta nelle sentenze citate in terna di capacita' di stare in giudizio che hanno portato alla riformulazione degli articoli 70-72-bis c.p., esponendosi, pertanto alle medesime censure in punto di irragionevolezza intrinseca dell'opzione normativa (art. 3 comma 2 Cost.) che non valorizza adeguatamente l'incapacita' irreversibile del condannato di essere sottoposto a pena; cio' che determina, di riflesso, una serie di lesioni ad altrettanti principi di caratura costituzionale, quali il diritto di difesa (art. 24 Cost.), il principio di emenda (art. 27 comma 3 Cost.) ed il principio di ragionevole durata del processo, tanto in chiave costituzionale, quanto in chiave convenzionale (art. 111 comma 2 Cost. e art. 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU). Il dubbio di costituzionalita' che qui ci si pone, in massima parte fondato sulla stessa giurisprudenza costituzionale in tema di incapacita' processuale irreversibile, richiede anzitutto di affrontare un tema preliminare: se, ed in che termini, sussista una assimilabilita' delle situazioni sostanziali tra l'incapacita' dell'imputato di essere sottoposto a processo e l'incapacita' del condannato di essere sottoposto ad esecuzione penale. A questo interrogativo, il Tribunale di Sorveglianza ritiene possa darsi risposta affermativa, pur con le precisazioni del caso. Un profilo di differenziazione tra le due posizioni soggettive potrebbe, invero, essere rappresentato dal fatto che mentre nel caso dell'imputato non vi e' stato un accertamento sul fatto e, dunque, una attribuzione di responsabilita' dello stesso al soggetto incapace di stare in giudizio, nell'ipotesi al vaglio di questo Tribunale di Sorveglianza tale accertamento sussiste e, dunque, potrebbe venire in rilievo il tema della indefettibilita' della pena, quale fattispecie polimorfica e polifunzionale, in cui coesistono e convergono esigenze individuali ed istanze collettive di certezza del diritto. Tuttavia, e' agevole evidenziare che nell'attuale assetto normativo, laddove la persona sia giudicata non pericolosa, l'esecuzione della sanzione e' in concreto differita sine die fino all'estinzione della pena per morte del reo; dunque, il tributo ad astratte esigenze retributive o di sicurezza lato sensu intesa assomiglia al proverbiale specchietto per le allodole, risolvendosi in un vezzo formale, sostanzialmente privo di reale impatto sulla realta' esecutiva. Tributo che, pero', il sistema nel suo complesso paga a caro prezzo sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca della normativa (art. 3 comma 2 Cost.), oltre che di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost. e 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU), di tutela delle esigenze difensive (art. 24 Cost.) e di costituzionalita' della pena rispetto al principio di emenda ed al divieto di trattamenti contrari al senso di umanita' (art. 27 comma 3 Cost.). Andando a vagliare quelli che il Collegio ritiene gli evidenti punti di contatto tra le due situazioni ritenute assimilabili, non puo' non osservarsi, anzitutto, come sia nel caso dell'imputato che del condannato quel che viene in rilievo e' una condizione di fatto identica: l'accertamento di una patologia irreversibile che impedisce la partecipazione dell'interessato ad un fatto diacronico e procedimentalizzato, nell'un caso volto ad accertare le eventuali responsabilita' penali della persona e, nell'altro, volto a stabilire quali limitazioni siano adeguate a rieducare la persona ed a neutralizzare il pericolo che essa rappresenta per la collettivita'. In questo senso, vi e' un idemfactum alla base di entrambe le fattispecie. Ma, ancora, risulta innegabile che il fatto-procedimento esecutivo richiede da parte del condannato (per citare la Consulta) «coscienza, pensiero, percezione ed espressione», si' da garantire la comprensione del significato delle limitazioni imposte e il loro portato afflittivo; e questo non gia' quale espressione di una mera pretesa/potesta' esecutivo-retributiva dello Stato, bensi' come giusta sofferenza adeguata e necessaria, tesa a stimolare nel condannato una riconsiderazione del proprio vissuto ed orientare la persona sottoposta a pena verso modelli comportamentali socialmente accettabili. Se manca la capacita' di cosciente partecipazione del condannato al procedimento esecutivo-trattamentale, questo Collegio ritiene non possa riconoscersi un orizzonte costituzionale alla mera esecuzione della pena quale freddo adempimento della sentenza di condanna in ottica puramente autoritativa o retributiva. La pena, cosi' intesa, diventerebbe causa di limitazioni e sofferenze inflitte a titolo di vendetta sociale sul singolo per il reato commesso, ovvero come pretesa di obbedienza ad un comando afflittivo fine a se' stesso; in quanto tale, inutile per il condannato, ma anche per la societa' nel suo complesso. Invero, le condizioni di incapacita' di essere sottoposto a pena non sono del tutto disconosciute dal legislatore, ma vengono affrontate con uno strumento, il differimento, strutturalmente teso a rinviare l'esecuzione della pena, che se appare adeguato rispetto a fattispecie connotate dalla presenza di termini naturali o rispetto a condizioni reversibili, mal si concilia con situazioni di incapacita' croniche, stabili ed irreversibili. In questi casi, infatti, il Tribunale di Sorveglianza e' costretto a fissare termine e reiterare gli accertamenti sine die, attendendo, in concreto, la morte del condannato per dichiarare non luogo a provvedere per estinzione della pena ai sensi dell'art. 171 c.p. Al differimento, inoltre, si correla anche l'interruzione del decorso della prescrizione ai sensi dell'art. 172 c.p., il che consentirebbe nel caso di specie di parlare (mutuando la terminologia di cui supra) di eterni esecutabili quali soggetti condannati che non potranno mai essere sottoposti in concreto ad esecuzione, ma che per l'ordinamento risultano astrattamente passibili di futura espiazione della pena, trovando solo nella morte un termine alla loro condizione. Il che, evidentemente, replica, nell'ambito esecutivo quanto gia' giudicato irragionevole rispetto al processo di cognizione nelle sentenze citate, con evidente lesione dell'art. 3 comma 2 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca del dato normativo. Ma la normativa, allo stato attuale, risulta non garantire lo stesso diritto di difesa del condannato nel procedimento di sorveglianza, ledendo parimenti l'art. 24 Cost. Invero, alla luce delle profonde innovazioni che hanno interessato la materia, in cui la Corte costituzionale ha avuto un ruolo tutt'altro che secondario, non e' possibile oggi disconoscere che dinnanzi alla magistratura di sorveglianza si svolge non gia' un mero incidente esecutivo di natura para-amministrativa, bensi' un ulteriore tassello della giurisdizione penale: quello teso a valutare con quali modalita' debba darsi attuazione al comando punitivo insito nella pronuncia di condanna, secondo una valutazione di proporzionalita' e adeguatezza delle limitazioni rispetto alla pericolosita' del condannato ed alla possibilita' che questi esegua la pena in forme anche extramurarie che favoriscano la sua reintegrazione nel tessuto sociale, in accordo con il volto costituzionale della pena tratteggiato dall'art. 27 comma 3 Cast. Sebbene la disciplina del procedimento di sorveglianza sia modellata sulla Camera di consiglio, con mera ed eventuale partecipazione del condannato, e non sia formalmente un processo nel senso tradizionale del termine, dunque, la capacita' di stare in giudizio innanzi alla magistratura di sorveglianza non e' un fatto neutro ai fini dell'esercizio del diritto di difesa ed autodifesa nel merito rispetto al tipo di valutazione che e' proprio della sede giurisdizionale in esame; profilo che l'attuale assetto normativo disconosce del tutto e la cui necessaria valorizzazione dovrebbe condurre, nella prospettiva che qui si intende sostenere, a prevedere forme di definizione del procedimento laddove la parte non possa parteciparvi coscientemente, si' come previsto nel procedimento attinente il merito della responsabilita' penale. Sotto altro profilo, la carenza normativa riscontrata determina effetti lesivi del principio di ragionevole durata del processo, nella misura in cui alla definizione del procedimento di sorveglianza conclusosi con la concessione del differimento della pena non fa seguito una cessazione del thema decidendum sostanziale, vale a dire il quomodo e l'an dell'esecuzione, ma un mero rinvio dello stesso. Invero, alla scadenza del termine indicato nell'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza si possono verificare le seguenti alternative: o la parte reitera per tempo nuova domanda di differimento ai sensi dell'art. 147 codice penale e 684 c.p.p., eventualmente anche in via provvisoria, consentendo un giudizio di proroga-concessione di nuovo differimento che impedisce l'avvio o la ripresa dell'esecuzione della pena; ovvero la parte omette, per negligenza, di presentare nuova domanda, con emissione da parte della Procura di ordine di esecuzione della pena differita, potendo anche determinare l'ingresso in carcere del condannato, cui fara', evidentemente, seguito nuova domanda di differimento. In entrambi i casi, si instaurera' un nuovo giudizio in punto di differimento della pena, che, a fronte di condizioni di incapacita' irreversibile, non potra' che concludersi con ulteriore dilazione dell'esecuzione sino a nuovo termine, alla cui scadenza si ripresentera' la medesima situazione e cosi' via sino alla morte del condannato. Tutto cio' con grande dispendio di energie procedurali e costi per il sistema della giustizia, ma anche per il condannato e le persone a lui prossime, in particolare i familiari e coloro che hanno cura della sua persona. Questi, infatti, saranno costretti ciclicamente a reiterare domande di differimento della pena, sostenendo anche le relative spese legali per la difesa tecnica nei vari giudizi; giudizi che importeranno per il sistema ulteriori spese per la celebrazione delle relative udienze (notifiche, atti istruttori, partecipazione degli esperti etc. etc.). Tale ipertrofia procedurale rispetto ad una condizione di irreversibile incapacita' della persona di essere coscientemente assoggettata a pena appare oltremodo ridondante, esponendo sia il sistema che la parte a spese processuali non giustificate ne' giustificabili a fronte di un accertamento definitivo che potrebbe porre fine in modo stabile alla vicenda procedurale complessivamente intesa. Una macchina che, in definitiva, girerebbe a vuoto. Verrebbe, dunque, in rilievo, anche una possibile lesione degli articoli 111 comma 2 Cost. e 117 Cost., quest'ultimo rispetto all'art. 6 CEDU. La Corte europea dei diritti dell'uomo, infatti, ha da tempo indicato come il diritto alla ragionevole durata del processo non si esaurisce esclusivamente nel contesto dell'attivita' processuale in senso stretto, ma riguarda tutti i procedimenti giurisdizionali, inclusi quelli esecutivi, dovendo considerarsi l'esecuzione di un giudicato, di qualsiasi giurisdizione, come facente parte integrante della nozione di processo di cui all'art. 6 (cfr. in particolare caso SY v. Italy 11791/2020, § 63). L'ermeneutica in discussione e' stata affermata sin dal caso Burdov v. Russia (caso I nel 2000 e caso 2 nel 2004) e ribadita nei casi Metaxas v Greece del 2002, con applicazioni sia in ambito civile che in ambito penale. In particolare, quanto al diritto processuale penale, l'arresto ha trovato una propria specifica applicazione contro l'Italia in tema di mancata esecuzione dell'ordine di rimessione in liberta' rispetto a misura di sicurezza di ricovero in o.p.g. da eseguirsi in R.E.M.S. (il citato caso SY v. Jtaly), avendo in quella sede la Corte ribadito che la fase esecutiva di una pronuncia di condanna e' parte del processo ai sensi dell'art. 6 CEDU. Le sentenze citate, dunque, paiono esprimere un indirizzo ormai consolidato nel sistema convenzionale, idoneo ad assurgere, ai sensi della sentenza n. 49/2015 quale parametro di costituzionalita' vincolante per l'interprete, quantomeno nella parte in cui indica il giudizio di esecuzione come rientrante nella nozione di processo di cui deve essere assicurata, tra le altre, la ragionevole durata. Inoltre, laddove, si volessero anche coltivare le statuizioni di principio sull'integrazione dei sistemi costituzionale e convenzionale espressi nella recentissima sentenza n. 33/2025, secondo cui anche in assenza di specifiche: pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo su un dato tema vi e' spazio per la Corte costituzionale di offrire comunque tutela ai diritti garantiti dalla Convenzione, in quanto questa, seppur con rango sub-costituzionale, e' parte dell'ordinamento costituzionale nel suo complesso (si vedano in particolare i paragrafi da 7 in avanti del Considerato in diritto di cui alla sentenza n. 33 del 2025), potrebbe agevolmente la Consulta valutare che il procedimento esecutivo penale, nel suo cammino di giurisdizionali azione dipanatosi secondo le tappe marcate dalla stessa giurisprudenza costituzionale, e' certamente un terreno in cui l'esercizio dei poteri decisori della magistratura di sorveglianza dovrebbe rispondere a criteri di ragionevolezza temporale. Una inutile o colpevole dilazione della decisione, infatti, lederebbe non solo il principio di emenda, il diritto all'oblio ed altri interessi meritevoli di tutela che si correlano al tempo del processo, ma anche la legittima aspettativa dei cittadini di vedere la propria posizione rispetto all'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza definita entro termini congrui. Nel caso in esame, la lesione si produrrebbe valorizzando la inutilita' delle continue dilazioni dell'esecuzione che, senza alcun motivo, protrarrebbero il giudizio sulla sottoponibilita' a pena di chi e' gia' certo non potra' mai esservi sottoposto. L'art. 6 CEDU, dunque, sarebbe in cio' vulnerato, e, di rimando, lo sarebbe l'art. 117 Cost. Analoghe censure, d'altro canto, si estenderebbero rispetto al parametro di cui all'art. 111 comma 2 Cost. Da ultimo, l'attuale disciplina, nel richiedere il costante riesame di una condizione stabilmente accertata come irreversibile, a giudizio del Collegio risulta ledere l'art. 27 comma 3 Cost. e, nella misura in cui frustra la tendenziale funzione rieducativa della pena e di pone in termini disarmonici rispetto al divieto di trattamenti contrari al senso di umanita'. Il riferimento al parametro qui citato si rende, a parere del Collegio, necessario rispetto alle peculiarita' della materia in esame. Se nell'ambito del processo volto ad accertare la responsabilita' della persona la Consulta ha ritenuto la disciplina delle incapacita' processuali carente nella misura in cui non considerava adeguatamente la stabile impossibilita' di difendersi dell'imputato, esponendolo in astratto ad un giudizio eternamente rinviato, traslando il tema sul terreno dell'esecuzione penale e delle specifiche esigenze di caratura costituzionale che sorreggono questo ramo dell'ordinamento, la disciplina si pone come carente nella misura in cui finisce per considerare in astratto come eternamente sottoponibile a pena chi non e' ne' sara' mai in grado di esservi sottoposto perche' incapace di percepire la funzione della pena quale emenda. A fronte delle censure sin qui esposte, il Collegio ritiene debbano valorizzarsi le acquisizioni costituzionali e normative maturate sul terreno della irreversibile incapacita' processuale, individuando nella norma di cui all'art. 72-bis codice di procedura penale un tertium comparationis da intendersi non tanto o meglio non soltanto quale parametro normativo di raffronto per valutare la ragionevolezza della disciplina attualmente in esame, quanto piuttosto come opzione normativa adeguata costituzionalmente con cui il legislatore ha dato una soluzione idonea a risolvere una situazione analoga a quella al vaglio del Collegio. Gia' in altre occasioni, infatti, la Corte costituzionale, discostandosi dalla teoria delle cosiddette soluzioni a rime obbligate, ha recentemente adottato pronunce in cui sono state accolte soluzioni di tipo additivo manipolativo che, pur se non obbligate, apparivano adatte a offrire una cornice di tutela adeguata rispetto ai vulnera costituzionali denunciati dai giudici rimettenti, evitando al contempo che la declaratoria di incostituzionalita' creasse vuoti di disciplina e precludesse, in astratto, un intervento del legislatore che, nell'esercizio della sua discrezionalita' e tenendo fermi i criteri costituzionali minimi offerti dalla Corte, desse una diversa riorganizzazione alla materia. Si tratta di un'ermeneutica costituzionale ormai consolidatasi ed espressa in diverse pronunce della Consulta: si vedano la Sentenza n. 40 del 2019, punto 4.2. del Considerato in diritto; Sentenza n. 236 del 2016, punto 4.4. del Considerato in diritto; Sentenza n. 222 del 2018, punto 8.1. del Considerato in diritto; recentemente Sentenza 46 del 2024, punto 4 e seguenti del Considerato in diritto; ex multis, nello stesso senso, sentenze n. 95 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto, e n. 252 del 2020, punto 4.6. del Considerato in diritto. Sebbene i precedenti citati hanno in massima parte riguardato norme relative a giudizi in cui era oggetto di censura l'adeguatezza-ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, non sono mancate pronunce che hanno fatto applicazione della teoria delle soluzioni costituzionalmente adeguate anche nell'ambito della materia della sorveglianza: si pensi alle sentenze n. 253/2019 e n. 10/2024, rispettivamente, in tema di accesso ai permessi premio per condannati per delitti di cui all'art. 4-bis comma 1, O.P. in assenza di collaborazione con la giustizia ed in tema di a affettivita' inframuraria e divieto di colloqui intimi, ove la Corte ha sostanzialmente individuato il portato minimo di tutela costituzionalmente necessitato per rispondere alle censure mosse dai giudici a quo, lasciando comunque un margine di discrezionalita' all'organo legislativo. Facendo applicazione dei principi citati, questo Collegio ritiene che la soluzione costituzionalmente adeguata per porre rimedio ai profili di incostituzionalita' sopra esposti sarebbe quella di stabilire nella subjecta materia una normativa modellata sul disposto dell'art. 72-bis codice di procedura penale che, in caso di accertata ed irreversibile incapacita' di sottoposizione ad esecuzione penale del condannato, consenta di dichiarare non luogo a provvedere sull'esecuzione della pena. Un tale effetto potrebbe essere realizzato mediante pronuncia additiva che dichiari l'illegittimita' costituzionale dell'art. 147 codice penale per violazione degli articoli 3 comma 2, 24, 27 comma 3, 111 comma 2 Cost. e 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevede che «Se, a seguito degli accertamenti esperiti, ove occorra anche mediante perizia, risulta che lo stato psicofisico del condannato e' tale da impedire la cosciente sottoposizione ali 'esecuzione della pena e che tale stato e' irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a procedere o ordinanza di doversi procedere». Si e' espunto, nella formulazione del parametro ritenuto adeguato, il riferimento all'applicazione di misure di sicurezza, pur presente nell'art. 72-bis codice di procedura penale posto che la norma in esame consente il differimento della pena solo ad esito di un giudizio che escluda la pericolosita' sociale del condannato. In questo senso, sarebbe ridondante il riferimento a misure che hanno nella attuale pericolosita' sociale il loro principale presupposto applicativo. La questione di costituzionalita' cosi' posta risulta rilevante nel caso di specie, oltre che, per le ragioni su esposte, non manifestamente infondata. In punto di rilevanza, invero, deve osservarsi che la condizione di G e' quella di chi e' affetto da grave infermita' psichica e fisica e non puo' essere ritenuto, per ragioni oggettive discendenti dalle sue patologie e dalla incapacita' di azione che queste determinano, socialmente pericoloso ai sensi dell'art. 147 comma 3 c.p., apparendo possibile escludere il rischio di reiterazione di reati. Nei suoi confronti, dunque, si imporrebbe una decisione in termini di differimento, che pero' sarebbe del tutto arbitraria in punto di quantum, apparendo evidente sin da ora che la sua condizione clinica e la relativa infermita' psicofisica sono irreversibili e non potranno che peggiorare con l'avanzare dell'eta', determinando un susseguirsi di differimenti sino al suo trapasso. Laddove venisse accolta la prospettazione di questo Tribunale di Sorveglianza, viceversa, il giudizio potrebbe concludersi con un esito giuridicamente diverso da quello attualmente possibile: invece dell'apposizione di un termine di durata del differimento, infatti, potrebbe statuirsi definitivamente sull'esecuzione della pena, evitando la reiterazione di futuri giudizi. Ne' la questione potrebbe essere risolta mediante accesso ad una interpretazione costituzionalmente orientata. Invero, sotto questo profilo, il dato non nativo risulta piuttosto chiaro nello stabilire che la pronuncia del giudice si risolva in un mero differimento o in una sospensione dell'esecuzione. In altri termini, la legge non attribuisce al giudice il potere di dichiarare una volta per tutte l'ineseguibilita' della pena tout court; effetto che si realizza solo con il decesso della persona a seguito di piu' o meno numerosi differimenti. Potrebbe, invero, immaginarsi che il Tribunale di Sorveglianza, proprio in ragione della mancata indicazione nell'art. 147 codice penale di un termine specifico per il differimento, disponga un rinvio dell'esecuzione sino alla morte del condannato, ovvero sino al perdurare delle condizioni di incapacita'. Ma, a ben vedere, si tratterebbe di soluzioni pratiche che, invece di affrontare il tema ed il problema nella sua effettiva realta' e alla luce di una lettura costituzionale delle norme, realizzerebbero un effetto di sostanziale aggiramento del dato di legge, stabilendo un differimento sine die sostanzialmente idoneo a risolversi in una rinuncia all'esecuzione normativamente non prevista, oltreche' di difficile compatibilita' con il quadro costituzionale tratteggiato supra. Come tali, sono opzioni che questo Collegio stima non praticabili metodologicamente ed assiologicamente non adeguate. Quanto alla non manifesta infondatezza, ci si richiama in massima parte a quanto gia' indicato sopra. Appare, tuttavia, opportuno svolgere alcune considerazioni sulla adeguatezza della soluzione prospettata non soltanto con riferimento alle esigenze di tutela del singolo rispetto alla pretesa punitiva dello Stato, ma anche rispetto alla rispondenza della stessa alle esigenze di difesa della collettivita'. Potendo, invero, il differimento della pena essere concesso solo a fronte di un giudizio che escluda la pericolosita' sociale del condannato, l'eventuale accoglimento della questione non esporrebbe a maggiori rischi il consorzio civile; i potenziali destinatari della norma, infatti, rimarrebbero solo coloro che, incapaci di essere sottoposti a pena, non rappresentano piu' un pericolo per la societa'. Ancora, si consideri che la rinuncia alla esecuzione della pena rimarrebbe ancorata all'esperimento di accertamenti particolarmente pregnanti in punto di attuale assenza della capacita' di essere la persona sottoposta a pena e di irreversibilita' di talestato, secondo le medesime opzioni normative assunte sul terreno della capacita' di stare in processo dagli articoli 70 e seguenti c.p.p. Da ultimo, preme evidenziarsi che in caso di eventuali ed imprevedibili mutamenti nella condizione della persona (che non dovrebbero verificarsi, ma non possono non essere considerati come evenienza, seppur remota) tali da far riacquistare al condannato capacita' di essere sottoposto ad esecuzione penale, sarebbe comunque possibile rivalutare la posizione dell'interessato. Invero, da un lato le pronunce della magistratura di sorveglianza sono rese con ordinanza e vige, in generale, un principio di revocabilita' delle stesse ove si accerti che la situazione di fatto sulla base della quale esse sono state emesse risulta difforme o sostanzialmente mutata; dall'altro, a fronte di una pronuncia di non doversi procedere all'esecuzione, che non attiene al merito del giudizio, potrebbe immaginarsi la riedizione di nuovo giudizio, eventualmente da promuoversi da parte della Procura competente, onde sollecitare una rivalutazione. Ma, e' bene indicarlo, si dovrebbe trattare di casi piu' che eccezionali, a fronte della condizione di irreversibilita' accertata. In presenza di profili di pericolosita' sociale, invece, rimarrebbero valide le opzioni costituzionalmente indicate dalla Consulta nella sentenza n. 99/2019, quali la detenzione domiciliare umanitaria, adeguata a contemperare le contrapposte esigenze rilevanti nel caso concreto. E' chiaro che, nella prospettiva sin qui sostenuta, una pena che risulti priva di qualsiasi possibilita' di proiezione rieducativa per incapacita' del condannato si porrebbe in termini problematici rispetto all'art. 27 comma 3 Cost. anche laddove eseguita nelle forme della detenzione domiciliare nei confronti di chi sia, pero', pericoloso; ma un tale approfondimento della questione, oltre a non essere rilevante nel caso di specie, posto che si e' escluso G. sia soggetto pericoloso, dovrebbe essere piu' adeguatamente oggetto di un intervento legislativo che ripensi il rapporto tra incapacita' irreversibile ed esecuzione della pena nelle diverse sfumature e combinazioni che possono presentarsi nella realta', potendo esservi diverse soluzioni ipotizzabili per disciplinare la materia. Ma, quantomeno rispetto a chi sia stato giudicato stabilmente incapace e non piu' socialmente pericoloso, come G. , e che si vedrebbe comunque non sottoposto a pena, non paiono emergere alternative costituzionalmente adeguate ulteriori rispetto a quella qui indicata e di cui si auspica l'accoglimento. P.Q.M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva, nei termini indicati, questione di legittimita' costituzionale dell'art. dell'art. 147 codice penale per violazione degli articoli 3 comma 2, 24, 27 comma 3, 111 comma 2 Cost. e 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevede che «Se, a seguito degli accertamenti esperiti, ove occorra anche mediante perizia, risulta che lo stato psicofisico del condannato e' tale da impedire la cosciente sottoposizione all'esecuzione della pena e che tale stato e' irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a procedere o ordinanza di doversi procedere.». Sospende il giudizio in corso sino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale; Dispone che, a cura della cancelleria, gli atti siano immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale, e che la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al pubblico ministero, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri, e che sia anche comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Bologna, il 29 aprile 2025. Il Presidente: Vassallo Il Magistrato estensore: Romano