Reg. ord. n. 123 del 2025 pubbl. su G.U. del 25/06/2025 n. 26

Ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna  del 30/04/2025

Tra: M. G.

Oggetto:

Esecuzione penale – Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena – Casi in cui l'esecuzione di una pena può essere differita – Omessa previsione che “Se, a seguito degli accertamenti esperiti, ove occorra anche mediante perizia, risulta che lo stato psicofisico del condannato è tale da impedire la cosciente sottoposizione all’esecuzione della pena e che tale stato è irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a procedere o ordinanza di doversi procedere” – Violazione del principio di ragionevolezza intrinseca – Lesione del diritto di difesa – Violazione del principio della finalità rieducativa della pena – Incidenza sul divieto di trattamenti contrari al senso di umanità – Violazione del principio, anche convenzionale, di ragionevole durata del processo.

Norme impugnate:

codice penale  del  Num.  Art. 147



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art.  Co.

Costituzione  Art. 24   Co.  

Costituzione  Art. 27   Co.

Costituzione  Art. 111   Co.

Costituzione  Art. 117   Co.

Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali  Art.  Co.  




Testo dell'ordinanza

                        N. 123 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 aprile 2025

Ordinanza del 30 aprile 2025 del Tribunale di sorveglianza di Bologna
nel procedimento di sorveglianza nei confronti di M. G.. 
 
Esecuzione penale - Rinvio facoltativo dell'esecuzione della  pena  -
  Casi in cui l'esecuzione di una pena puo' essere differita - Omessa
  previsione che "Se, a  seguito  degli  accertamenti  esperiti,  ove
  occorra anche mediante perizia, risulta che  lo  stato  psicofisico
  del condannato e' tale  da  impedire  la  cosciente  sottoposizione
  all'esecuzione della pena e che tale  stato  e'  irreversibile,  il
  giudice pronuncia ordinanza di non luogo a procedere o ordinanza di
  doversi procedere". 
- Codice penale, art. 147. 


(GU n. 26 del 25-06-2025)

 
                TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI BOLOGNA 
 
    Il Tribunale l'anno 2025 giorno 29 del mese di aprile in  Bologna
si e' riunito in Camera di consiglio nelle persone dei componenti: 
      dott.ssa Vassallo Marta - Presidente 
      dott. Romano Ezio - Giudice relatore 
      dott.ssa Lai Federica - Esperta 
      dott.ssa Mediani Giorgia - Esperta 
    Con la  partecipazione  della  dott.ssa  Marzocchi  Silvia  Sost.
procuratore generale  presso  la  Corte  d'Appello  di  Bologna,  per
deliberare sulle domande di: 
      detenzione domiciliare, art. 47-ter O.P.· 
      proposte da G. M.   , nato a (    ) il   ,  in  relazione  alla
pena di cui alla sentenza n.    emessa dal G.I.P. presso il Tribunale
di Forli' il   , irrevocabile il 31 ottobre 2020. 
 
                               Osserva 
 
    Con la sentenza in epigrafe, resa ai sensi dell'art.  444  codice
di procedura penale G. e' stato condannato per  numerosi  delitti  di
truffa, violenza sessuale (609-bis comma 3 c.p.) ed abusivo esercizio
di una professione commessi nel in   , per un totale di ventotto capi
di imputazione, alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione. 
    Il   condannato,   all'epoca   di   emissione   dell'ordine    di
carcerazione, ha  avanzato  domanda  di  detenzione  domiciliare,  da
eseguirsi al domicilio di famiglia. 
    Nelle more del giudizio, tuttavia, la condizione personale del G.
risulta essere di molto cambiata. 
    Il condannato, infatti, che era alla data di  proposizione  della
domanda assistito dalla moglie in quanto affetto da alcune  patologie
invalidanti,  ha  visto  un  progressivo  deterioramento  delle   sue
condizioni sanitarie, acuito dalla scomparsa della  moglie,  deceduta
nel   . Da allora, il G. e' inserito in  una  struttura  privata  per
anziani, ,  sita  in  (     ),  loc.     ,  via     ,  ove  trascorre
integralmente le proprie giornate e riceve saltuarie visite da  parte
della figlia. 
    Con memoria per l'odierna udienza, i difensori  di  G.  M.  hanno
sollecitato il Tribunale di Sorveglianza a compiere  una  riflessione
su come  le  attuali  condizioni  del  condannato  appaiano  tali  da
determinare non solo una incompatibilita' con l'espiazione della pena
in regime detentivo ma, piu' in generale in generale, a  rendere  non
possibile in concreto la stessa sottoposizione del proprio  assistito
a  qualsiasi  forma  di  esecuzione  penale,   foss'anche   di   tipo
extramurario. 
    La persona,  infatti,  e'  inserita  in  struttura  per  anziani,
affetta da deficit cognitivi e di  deambulazione,  al  punto  da  non
apparire capace di comprendere  il  senso  dell'esecuzione  penale  o
svolgere percorsi di tipo risocializzante  propri  della  piu'  ampia
misura  dell'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale  ai  sensi
dell'art. 47 legge n. 354/1975 (d'ora innanzi anche O.P.). 
    D'altro canto, continuano i difensori,  l'eventuale  applicazione
di una detenzione domiciliare apparirebbe  operativamente  difficile,
potendo  questa  incidere  sulla  possibilita'  del  G.  di  rimanere
all'interno  della   struttura   che   attualmente   gli   garantisce
l'assistenza sanitaria di cui egli necessita e,  in  ogni  caso,  non
utile ne' in  senso  rieducativo  ne'  in  senso  special-preventivo.
Invero, la persona a causa delle  patologie  in  essere  non  esprime
alcuna  pericolosita'  sociale   residua,   essendo   sostanzialmente
confinata all'interno  della  struttura  di  accoglienza  ove  riceve
assistenza sanitaria. 
    Sono  allegati  in  atti   sia   dalla   difesa   che   dall'UEPE
certificazione INPS e  referti  clinici  che  delineano  il  seguente
quadro. 
    G.   e' affetto da encefalopatia cronica con  atrofia  cerebrale,
diabete mellito pluricomplicato, retinopatia diabetica  con  cecita',
cardiopatia, sordita' e incontinenza urinaria. 
    La persona necessita,  pertanto,  di  assistenza  socio-sanitaria
continuativa e specialistica, erogabile solo  in  ambiente  protetto,
allo stato garantito dalla residenza per anziani in cui e' ospitato. 
    L'indagine socio familiare dell'UEPE, a fronte della  incapacita'
della persona di recarsi presso il servizio, si  e'  svolta  mediante
colloquio con la figlia dell'interessato. 
    La donna ha rappresentato le difficolta' del padre ed ha espresso
il proprio  timore  rispetto  all'eventuale  applicazione  di  misure
alternative, in quanto lo  svolgimento  dei  necessari  controlli  da
parte delle  Forze  dell'ordine  per  verificare  il  rispetto  della
misura, gravando  sulla  struttura  ospitante,  potrebbe  indurre  la
residenza  per  anziani,  struttura  privata,  a  non  confermare  la
disponibilita' ad ospitare l'istante,  con  pregiudizio  per  le  sue
esigenze di cura. 
    L'UEPE indica che alla luce del quadro sanitario emergente  dalla
documentazione   allegate,   la   persona   presenta    significative
compromissioni delle funzioni psico-fisiche e, dunque,  difficilmente
potrebbe prendere parte ad un percorso di reinserimento sociale,  ne'
comprendere    appieno    le    finalita'    trattamentali    tipiche
dell'esecuzione  penale  esterna.  Inoltre,  considerata   l'evidente
vulnerabilita' di cui la G.   e' portatore,  nonche'  il  suo  essere
domiciliato in struttura protetta la sua pericolosita' sociale appare
ragionevolmente attenuata. E' lo stesso UEPE, dunque,  a  sollecitare
il Collegio a valutare una forma di sospensione o differimento  della
pena ai sensi della normativa vigente. 
    Cio' posto, il Tribunale  di  Sorveglianza  deve  evidenziare  in
punto di diritto, che  il  differimento  della  pena,  nella  lettura
costituzionalmente orientata offerta  dalla  Corte  costituzionale  e
dalla  giurisprudenza  di  legittimita',  e'  un  istituto  volto   a
coniugare le esigenze di  tutela  della  salute  e  di  dignita'  del
detenuto  o  di  soggetto  che  si  trovi  in  situazioni  di   grave
vulnerabilita', quale la madre ed il minore nella  gestazione  e  nel
puerperio  ovvero  la  persona  gravemente  malata,  con  quelle   di
esecuzione  penale  e  di  tutela  della  collettivita',  secondo  un
giudizio di bilanciamento degli opposti interessi  costituzionali  in
gioco. 
    L'individuazione del punto  di  equilibrio  e'  nel  differimento
obbligatorio ex art. 146 codice penale frutto di una scelta rigida ed
operata a monte dal legislatore che accorda prevalenza alle  esigenze
poste alla base del differimento  rispetto  a  quelle  di  esecuzione
penale. 
    La norma, dunque,  non  lascia  margini  di  discrezionalita'  al
giudice, se non nella misura in cui egli e'  preposto  alla  verifica
della positiva ricorrenza in fatto dei  presupposti  stabiliti  dalla
legge e puo', al piu', valutare se il  caso  sottoposto  rientri  nel
tipo indicato dal legislatore; con margini, in  concreto,  abbastanza
ristretti (per i delitti commessi anteriormente al  12  aprile  2025,
data di entrata  in  vigore  del  decreto  legge  n.  48/2025:  donna
incinta; madre di prole  di  eta'  inferiore  ad  anni  uno;  persona
affetta da malattia in stadio terminale o HIV conclamato; per  quelli
successivi e salva ratifica del decreto legge n. 48/2025,  rimarrebbe
solo quest'ultima ipotesi). 
    Ma, una volta accertata la sussistenza della  condizione  assunta
dalla legge quale causa di non sottoposizione ad  esecuzione  penale,
l'esito del giudizio non  puo'  che  essere  quello  di  disporre  il
differimento della pena  carceraria  che  dovrebbe  essere  eseguita,
rinviandola sino al termine della condizione ostativa all'esecuzione.
Nel  differimento  facoltativo  ex  art.   147   c.p.,   invece,   la
ponderazione dei diritti e degli interessi antinomici e' rimessa alla
valutazione  della  magistratura  di  sorveglianza  che,   oltre   al
ricorrere  delle  condizioni  di  legge  (per  i   delitti   commessi
successivamente al 12 aprile 2025, data  di  entrata  in  vigore  del
decreto  legge  n.  48/2025  e  salva  conferma  dell'attuale   testo
normativo: donna incinta; madre di prole di eta'  inferiore  ad  anni
uno; madre di prole di eta' inferiore agli anni tre; persona  affetta
da grave infermita' fisica; in caso di domanda di Grazia),  ai  sensi
del comma terzo dell'art. 147 codice penale deve altresi'  verificare
l'assenza di pericolosita' sociale del condannato. 
    Vi e', dunque, sotto questo  profilo  l'esercizio  di  un  potere
discrezionale del giudice, nella parte in cui la  norma  da  un  lato
afferma che questi  puo'  disporre  il  differimento  e,  dall'altro,
attribuisce allo stesso un sindacato non circoscritto  alla  verifica
della ricorrenza dei presupposti e dei casi ivi  indicati,  ma  anche
sulla adeguatezza del differimento rispetto al rischio che la persona
reiteri condotte di reato. 
    Laddove si accerti l'attuale pericolosita' sociale della persona,
il differimento non potrebbe, dunque per legge trovare  applicazione,
prevalendo l'interesse di difesa sociale rispetto a quello di  tutela
della sua vulnerabilita'. Per questa ragione, in entrambi i  casi  di
differimento,  obbligatorio  o  facoltativo,  laddove   la   persona,
nonostante la condizione di fragilita' normativamente prevista in cui
versa, esprima tutt'ora profili di attuale pericolosita' sociale, sub
specie del rischio di reiterazione  di  condotte  illecite,  sovviene
l'istituto della detenzione domiciliare in luogo del differimento  di
cui all'art. 47-ter comma 1-ter O.P.,  quale  misura  intermedia  che
nell'alternativa   rigida   tra   il   mantenimento   dell'esecuzione
carceraria, capace di ledere o anche solo comprimere  oltremisura  il
diritto alla salute  e  la  dignita'  del  condannato,  e  la  totale
liberazione dello stesso, che  viceversa  esporrebbe  ad  un  rischio
eccessivo  le  esigenze  di  sicurezza  sociale  della  collettivita'
(parimenti inquadrabili come interesse di  caratura  costituzionale),
consente  di  operare  una  scelta  esecutiva   mediana   capace   di
individuare un piu' gradato equilibrio tra i contrapposti interessi. 
    Si tratta, all'evidenza, di uno strumento  di  flessibilizzazione
del sistema per garantire e bilanciare tutte le esigenze, individuali
e superindividuali,  che  convergono  nell'esecuzione  di  una  pena,
sorretto da un giudizio ulteriore e successivo rispetto a quello teso
all'accertamento delle condizioni  che  legittimano  il  differimento
della pena obbligatorio o facoltativo. 
    In  questo  caso,  infatti,   la   valutazione   demandata   alla
magistratura  di  sorveglianza  non  puo'  essere  ridotta  al   mero
ricorrere dei requisiti di legge, ma deve  essere  ricostruita  quale
giudizio di proporzionalita' in concreto tra le  esigenze  di  tutela
dell'individuo, della sua salute e della sua umana dignita' ovvero di
maternita' e puerperio,  e  quelle  di  salvaguardia  del  resto  dei
consociati, alla ricerca di quell'equilibrio che realizzi, a  parita'
di tutela delle une, il minor sacrificio possibile delle altre. 
    In sostanza, quel che si richiede e'  di  verificare  se,  pur  a
fronte di una residua pericolosita' sociale in capo alla persona,  il
pericolo che egli  rappresenta  per  la  collettivita'  possa  essere
adeguatamente arginato mediante il ricorso  ad  una  forma  esecutiva
meno  afflittiva,  quale  e'  quella  domiciliare,  che   in   ottica
umanitaria  allevi  le  maggiori  sofferenze  che  la  persona   puo'
sperimentare nell'esecuzione carceraria per la propria condizione  di
vulnerabilita' accertata dal giudice a monte del giudizio. 
    E' chiaro che in questo  tipo  di  giudizi  l'opzione  carceraria
rimane  quella  astrattamente  piu'   tutelante   per   le   esigenze
collettive; tuttavia, lo sforzo ermeneutico richiesto da una  lettura
costituzionalmente orientata della norma deve condurre a ritenere che
laddove il controllo offerto dalla detenzione domiciliare sia  idoneo
in concreto a  garantire  pari  grado  di  tutela  alle  esigenze  di
sicurezza collettiva rispetto a quello  offerto  dalla  carcerazione,
l'opzione    domiciliare    sarebbe    l'unica     costituzionalmente
proporzionata e compatibile con gli articoli 31,  32  e  27  comma  3
della Corte Costituzionale (nonche' con l'art. 3 CEDU). 
    Si  vedano,  in  questo  senso,  le  puntuali   e   condivisibili
argomentazioni espresse dalla Corte costituzionale nella sentenza  n.
99/2019,  con  cui  la  Consulta  ha  individuato  nella   detenzione
domiciliare umanitaria di cui all'art. 47-ter  comma  1-ter  O.P.  lo
strumento adeguato  per  contemperare  le  esigenze  sanitarie  anche
psicologiche della persona con il mantenimento dei vincoli  necessari
per evitare di porre in pericolo la collettivita'. 
    Ulteriore istituto che potrebbe  venire  in  rilievo,  quando  si
parla di forme di differimento della pena, e' quello di cui  all'art.
148 c.p. relativo all'ipotesi della infermita' psichica  sopravvenuta
alla condanna. 
    La norma prevede che se la persona  prima  dell'esecuzione  della
pena o durante la stessa viene colta da una infermita' psichica  tale
da  impedire  l'esecuzione  della  pena  il  giudice  ne  dispone  la
sospensione o il differimento, contestualmente disponendo il ricovero
del condannato in un manicomio giudiziario o,  laddove  la  pena  sia
inferiore ai tre anni e non si tratti di delinquenti o contravventori
abituali, professionali o per tendenza, in un  manicomio  comune.  Il
ricovero  e'  revocato,  ove  vengano  meno  le  ragioni  che   hanno
determinato il provvedimento. 
    Si tratta di una norma che, invero, ha un ambito applicativo  nel
diritto vivente  praticamente  nullo,  soprattutto  a  seguito  della
chiusura dei manicomi giudiziari e, piu'  di  recente,  della  citata
sentenza n. 99/2019  della  Corte  Costituzionale,  posto  che  nella
maggior parte dei casi le infermita' psichiche sono  valorizzate  per
sottoporre  la  persona  a  differimento  pena  nelle   forme   della
detenzione domiciliare, piu' rispondente alle necessita' di cura  del
soggetto rispetto a ricoveri coattivi  sganciati  da  valutazioni  in
punto di effettiva pericolosita' sociale. 
    Molti commentatori, invero, considerano la stessa  implicitamente
abrogata dalla pronuncia della Consulta. 
    Cio' premesso, nel caso in esame, la condizione di  G.  non  pare
rientrare in ipotesi di differimento obbligatorio di cui all'art. 146
comma 3 c.p. 
    Invero, la persona non si trova in una condizione patologica  non
rispondente alle cure o in stadio terminale,  che  lo  espone  ad  un
imminente  rischio  quoad  vitam,  quanto  piuttosto  in  una   grave
infermita' psicofisica.  L'infermita'  in  questione  non  deriva  da
patologie psichiche - il che, al  netto  delle  valutazioni  espresse
circa  la  sostanziale  abrogazione  dell'istituto,  esclude  ricorra
l'ipotesi di cui all'art. 148 codice penale - ma  e'  determinata  da
patologie aventi  base  organica  (encefalopatiacronica  con  atrofia
cerebrale), in parte correlate anche all'eta' avanzata, che  potrebbe
assumere ben rilievo ai sensi dell'art. 147 n. 2  codice  penale  per
disporre il differimento facoltativo della pena. 
    Sul punto, la giurisprudenza  di  legittimita'  ha  chiarito  che
«l'istanza di differimento  facoltativo  dell'esecuzione  della  pena
detentiva per gravi motivi di salute puo' essere  accolta  anche  se,
pur non sussistendo un'incompatibilita' assoluta tra la  patologia  e
lo  stato  di  detenzione,  ricorra   ma   situazione   nella   quale
l'infermita' ola malattia siano tali da comportare un serio  pericolo
di vita, ovvero  non  assicurino  la  prestazione  di  adeguate  cure
mediche  in  ambito  carcerario,  o,  ancora,  causino  al   detenuto
sofferenze aggiuntive ed  eccessive,  in  spregio  del  diritto  alla
salute e del senso di umanita' al quale  deve  essere  improntato  il
trattamento penitenziario (Sez. 1, n. 27352 del 17 maggio 2019,     ,
Rv. 276413 - 01). 
    Sotto tale profilo, quindi, allorche' il condannato e' affetto da
grave infermita' fisica per malattia  la  cui  prognosi  puo'  essere
infausta, l'istanza di differimento, e  cosi'  anche  la  domanda  di
detenzione domiciliare, deve essere  considerata  previa  valutazione
dell'aspettativa di  vita  del  condannato  stesso,  poiche',  quando
questa e' ridotta, e' frustrato lo scopo del  reinserimento  sociale,
impossibile per motivi estranei al trattamento o al comportamento del
soggetto, e la sanzione diviene sofferenza  inutile  e  contraria  al
senso di  umanita'  (Sez.  1,  n.  27352  del  17  maggio  2019,  Rv.
276413-01; da ultimo Sez. 1, n. 37086 del  8  giugno  2023,  G.,  Rv.
285760-01; Sez. 1, n. 542 del 30 gennaio 1995, , Rv. 200789-01;  Sez.
1, n. 27 del 10 gennaio 1994, Rv. 197127 - 01)» (in  questi  termini,
Cassazione, Sez. 1 n. 26588/2024). 
    Tutte condizioni che, a giudizio del Tribunale  di  Sorveglianza,
sussistono allo stato, posto che ove venisse  eseguita  la  pena,  la
sanzione diventerebbe per il G. una sofferenza inutile e contraria al
senso di umanita', nella misura in  cui  si  rivolgerebbe  a  persona
incapace  di  percepire  il  senso  rieducativo   della   pena,   con
frustrazione evidente del principio di emenda. 
    A normativa vigente, dunque, questo Collegio potrebbe disporre il
differimento della pena ai sensi dell'art. 147  n.  2  c.p.,  dovendo
evidenziarsi che la peculiare condizione di  incapacita'  psicofisica
in cui versa la persona esclude in radice il rischio di  reiterazione
di reati. 
    Il  che,   dunque,   osta   all'applicazione   della   detenzione
domiciliare surrogatoria, che sarebbe misura in concreto  ultronea  e
meno favorevole per il condannato di un differimento pieno  ai  sensi
della norma di cui all'art. 147, c. 2 c.p. 
    In questo senso, il Tribunale di Sorveglianza  sarebbe  tenuto  a
disporre un differimento,  fissando  un  termine  di  scadenza  della
dilazione dell'esecuzione della pena,  entro  il  quale  si  dovrebbe
procedere ad  una  rivalutazione  in  ordine  alla  permanenza  delle
condizioni che legittimano la postergazione dell'esecuzione. 
    Tuttavia, il Collegio ritiene di dover evidenziare  una  lampante
contraddizione nella normativa in esame, nella misura in  cui  questa
sottopone a medesima disciplina ed all'istituto del differimento  una
serie di situazioni che, invero, risultano  affatto  omogenee  e  che
richiederebbero, sia da un punto di vista  operativo  che  sul  piano
costituzionale, una differente risposta ordinamentale. 
    In particolare, l'art. 147 c.p., nella sua attuale  formulazione,
prevede il differimento dell'esecuzione in una serie di casi fissando
un termine specifico rispetto alla sospensione della pretesa punitiva
dello Stato, tranne che nel caso di cui al n. 2 della norma citata. 
    Invero,  il  differimento  in  caso  di  domanda  di  grazia   e'
circoscritto ai sei mesi successivi al passaggio in  giudicato  della
sentenza; le ipotesi di differimento a tutela della maternita' e  del
puerperio, invece, hanno evidentemente dei termini naturali dati  dal
parto, dal compimento del primo anno o del terzo  anno  di  eta'  del
minore. A queste ipotesi, e' parificata tout court quella della grave
infermita' fisica, che non reca uno  specifico  termine  e  che,  nel
diritto vivente, vede i Tribunali di Sorveglianza gestire  la  durata
del differimento in modo malleabile  e,  sostanzialmente,  dipendente
dalle necessita' di cura della persona. 
    Cio' appare molto coerente laddove si consideri che  in  un  gran
numero  di  casi  le  gravi  infermita'  capaci  di  legittimare   il
differimento sono il frutto di patologie in qualche modo  transitorie
e/o curabili; in questo senso, potendo le  ragioni  del  differimento
disposto oggi non  essere  piu'  presenti  domani,  la  flessibilita'
dell'istituto quanto all'apposizione di un termine finale consente al
Tribunale di sorveglianza di  valorizzare  adeguatamente  il  decorso
clinico e l'esigenza di monitorare la permanenza delle condizioni  di
salute  che  rendono  recessiva  la  pretesa  punitiva  dello  Stato.
All'attenuarsi  o  al  venir   meno   delle   stesse,   infatti,   il
differimento, secco o nelle forme della cattivita'  domiciliare,  non
avrebbe  piu'  ragion  d'essere,  dovendo  riespandersi   l'interesse
Statuale alla indefettibilita' ed alla certezza della pena, con avvio
o ripristino dell'esecuzione. 
    La disciplina, pero',  risulta  carente,  a  giudizio  di  questo
Collegio, laddove le ragioni del differimento non siano dipendenti da
una condizione transitoria o suscettibile di miglioramento, bensi' da
una patologia irreversibile che renda stabilmente incapace di  essere
sottoposto ad esecuzione penale il condannato. 
    ln  questi  casi,  tutt'altro  che  secondari  nella  prassi,  il
Tribunale  di  Sorveglianza  e'.  infatti,   costretto   a   ripetere
ciclicamente verifiche sulla permanenza delle  condizioni  di  salute
che consentono il differimento, sostanzialmente  sino  all'estinzione
della pena per morte del condannato ai sensi dell'art. 171 c.p. 
    Invero, l'art. 172 codice penale in materia di prescrizione della
pena stabilisce che «Se l'esecuzione della pena e'  subordinata  alla
scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione,  il  tempo
necessario per la estinzione della pena decorre dal giorno in cui  il
termine e' scaduto o la condizione si e' verificata». 
    Dunque, il termine di prescrizione risulta interrotto in tutti  i
casi in cui l'esecuzione della pena venga differita, non  consentendo
neppure di far valere tale causa estintiva, eventualmente  capace  di
dare un termine anticipato rispetto a quello  di  definitivo  decesso
del condannato non passibile di esecuzione. 
    In sostanza, il sistema non contempla  una  ipotesi  di  rinuncia
all'esecuzione della pena in casi come questi, in cui  piuttosto  che
un differimento con continui riesami, ci si  trova  dinnanzi  ad  una
stabile  impossibilita'  di  eseguire   la   pena   per   incapacita'
irreversibile della persona ad esservi sottoposto. 
    Il quadro sinora descritto appare a  questo  Collegio  del  tutto
assimilabile a quello che ha  portato  alla  riforma  degli  articoli
70-72-bis codice di procedura penale in punto  di  valutazione  della
stabile incapacita'  di  stare  in  giudizio  dell'imputato,  tesa  a
risolvere quello che nel dibattito  dottrinario  e  giurisprudenziale
era  efficacemente  descritto  come   «il   problema   degli   eterni
giudicabili». 
    Trattandosi di materia in cui la Corte costituzionale ha avuto un
ruolo tutt'altro che secondario,  ci  si  esimera'  dal  ripercorrere
funditus le varie tappe del  percorso  che  ha  condotto  all'attuale
formulazione, in particolare, dell'art. 72-bis  c.p.p.,  riepilogando
per sommi capi l'evoluzione ermeneutica e normativa de quo. 
    Si cerchera', poi, di evidenziare gli evidenti punti di  contatto
tra le carenze della previgente disciplina, i moniti della Corte,  le
soluzioni adottate sul piano normativo e le nuove questioni emerse in
seno alla giurisprudenza Costituzionale nella subjecta materia  e  la
disciplina del differimento della pena per come oggi normata. 
    Circoscrivendo, pertanto, l'esame  alle  pronunce  piu'  recenti,
viene in  rilievo  anzitutto  la  Sentenza  n.  23/2013  della  Corte
costituzionale. 
    Nel caso di specie, il Tribunale di Milano aveva censurato l'art.
159 codice penale rispetto ai parametri di cui agli articoli 3, 24  e
111 Cast. nella misura in cui prevedeva la  sospensione  del  decorso
della  prescrizione  allorquando  fosse  accertata  ai  sensi   degli
articoli  70  e  ss.  codice  di  procedura  penale  la   incapacita'
irreversibile di stare in giudizio dell'imputato. 
    Ove accolta, infatti, la questione avrebbe consentito al  giudice
meneghino di dichiarare l'intervenuta prescrizione del reato,  invece
di dover procedere a defatiganti ed  inutili  periodici  accertamenti
della incapacita' della persona,  ormai  stabilmente  acclarata  come
irreversibile. 
    In quella sede, la Corte evidenzio' che la  questione  poneva  in
luce una reale anomalia insita nelle norme correlate  concernenti  la
sospensione della prescrizione estintiva dei reati e  la  sospensione
del processo per incapacita' dell'imputato  ove  fosse  accertata  la
natura irreversibile dell'infermita' mentale tale  da  precludere  la
cosciente partecipazione al giudizio dell'interessato. 
    Si   verificava,   infatti,    una    situazione    di    pratica
imprescrittibilita' del reato, a cui ne' il  giudice  ne'  l'imputato
potevano porre rimedio, con un «"indefinito protrarsi nel tempo della
sospensione del processo  -  con  la  conseguenza  della  tendenziale
perennita' della  condizione  di  giudicabile  dell'imputato,  dovuta
all'effetto, a sua volta sospensivo, sulla prescrizione». 
    Tale situazione era giudicata dalla Corte idonea da  assumere  il
carattere della irragionevolezza: «giacche' entra  in  contraddizione
con la ratio posta a base, rispettivamente,  della  prescrizione  dei
reati e della sospensione del  processo.  La  prima  e'  legata,  tra
l'altro,  sia  all'affievolimento  progressivo  dell'interesse  della
comunita'  alla  punizione  del  comportamento  penalmente  illecito,
valutato, quanto ai tempi necessari, dal legislatore, secondo  scelte
di politica criminale legate alla gravita' dei reati, sia al «diritto
all'oblio» dei cittadini, quando il reato  non  sia  cosi'  grave  da
escludere tale tutela. La seconda poggia sul diritto di  difesa,  che
esige la possibilita' di una cosciente  partecipazione  dell'imputato
al procedimento. Nell'ipotesi di irreversibilita' dell'impedimento di
cui sopra risultano frustrate  entrambe  le  finalita'  insite  nelle
norme sostanziali e processuali richiamate, con la conseguenza che le
ragioni delle garanzie ivi previste si rovesciano inevitabilmente nel
loro contrario». 
    Tuttavia,  a  fronte  della  possibilita'  di   diverse   opzioni
normative per risolvere siffatta condizione, da  operarsi  non  tanto
sul terreno della prescrizione, quanto piuttosto della valorizzazione
della  incapacita'  irreversibile  dell'imputato  di  partecipare  al
processo, la Corte dichiaro' inammissibile la questione, lanciando un
perentorio monito al legislatore affinche' affrontasse ex professo il
tema degli eterni giudicabili. 
    La questione, tuttavia, rimase irrisolta da  un  punto  di  vista
normativo, tanto da richiedere un nuovo  pronunciamento  della  Corte
costituzionale. 
    Con sentenza n. 45/2015, infatti, la Corte fu nuovamente chiamata
dal Tribunale di Milano a valutare la  compatibilita'  costituzionale
dell'art. 159 codice penale rispetto agli articoli 3 e 111 Cost. 
    In  quella  sede,  la  Consulta,  richiamando  il   monito   gia'
effettuato al  legislatore  sulla  necessita'  di  intervenire  sulla
disciplina in materia e quanto statuito nella  sentenza  n.  23/2013,
accolse la questione. 
    Nel  corso  di  un'ampia  motivazione,  la  Corte  osservo'   che
occorreva considerare «la differenza tra  le  diverse  situazioni  di
sospensione, anche per incapacita' di partecipare  coscientemente  al
processo, destinate a una durata limitata nel tempo e la  sospensione
derivante da un'incapacita' irreversibile, che  e'  destinata  a  non
avere termine, dando luogo per l'imputato alla condizione di  «eterno
giudicabile». 
    La differenza e' fondamentale e rende  irragionevole  l'identita'
di disciplina. La sospensione e' assimilabile a  una  parentesi,  che
una volta aperta deve anche chiudersi, altrimenti si modifica la  sua
natura e  si  altera  profondamente  la  fattispecie  alla  quale  la
sospensione si applica. Una sospensione del corso della  prescrizione
senza fine determina di  fatto  l'imprescrittibilita'  del  reato,  e
questa situazione, in violazione dell'art. 3 Cost., da  luogo  a  una
ingiustificata disparita' di trattamento nei confronti degli imputati
che vengono a trovarsi in  uno  stato  irreversibile  di  incapacita'
processuale. [...] 
    Deve  pertanto  concludersi  che  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 159, primo comma, codice penale ,  sollevata
dal Tribunale ordinario di Milano, e'/ondata.». 
    Esaminato il tema sorto il profilo della prescrizione del  reato,
tuttavia, la stessa Corte noto' che, pur potendo la  declaratoria  di
prescrizione intervenire prima della morte dell'imputato, a fronte di
casi  di   prescrizioni   particolarmente   lunghe   o   di   delitti
imprescrittibili, lo stesso rimedio da essa  apprestato  poteva  «non
apparire completamente appagante. Infatti, quando il tempo necessario
a prescrivere e' ancora lungo, e' ugualmente lunga  la  durata  della
sospensione  del  procedimento,  con  l'onere  per  il   giudice   di
periodici, inutili accertamenti peritali. 
    Sotto questo aspetto una soluzione, prospettata anche  da  questa
Corte nella sentenza  n.  23  del  2013,  potrebbe  ravvisarsi  nella
definizione  del  procedimento  con  una  sentenza  di  non   doversi
procedere per incapacita' irreversibile de/l'imputato, ed e' cio' che
prevede l'art. 9 del disegno di legge n. 2798, presentato alla Camera
il 23 dicembre scorso, che intende inserire nel codice  di  procedura
penale un nuovo art. 72-bis. 
    Con  questa  disposizione,  se  sara'  approvata,   l'incapacita'
irreversibile  dell'imputato  avra'  una  disciplina  specifica,  ma,
ne/l'allesa, per le ragioni esposte, non  puo'  non  riconoscersi  la
fondatezza della questione di legittimita'  costituzionale  sollevata
dal Tribunale ordinario di Milano, e deve pertanto  dichiararsi,  per
contrasto  con  l'art.  3  Cosi.,   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 159, primo comma, cod pen. , nella parte  in  cui,  ove  lo
stato mentale  dell'imputato  sia  tale  da  impedirne  la  cosciente
partecipazione al procedimento e questo venga sospeso, non esclude la
sospensione della prescrizione quando e' accertato che tale stato  e'
irreversibile.». 
    Sebbene, come visto, il tema  era  stato  affrontato  dall'angolo
prospettico degli effetti della sospensione del processo sul  terreno
dell'istituto della prescrizione del reato, la Corte non  ha  mancato
di considerare che il  piu'  soddisfacente  ed  adeguato  rimedio  si
sarebbe dovuto costruire normativamente  mediante  la  previsione  di
disciplina  che  assumesse  l'incapacita'  irreversibile   non   gia'
semplicemente quale fatto idoneo a sospendere il processo, bensi'  ad
esaurire l'interesse dello Stato alla persecuzione stessa del reato. 
    A fronte dei moniti e delle sentenze della Corte,  con  legge  23
giugno 2017, n. 103, cd. Riforma Orlando, e' stata  dunque  riformata
l'intera  disciplina  degli  articoli  da   70   a   72-bis   c.p.p.,
prevedendosi con quest'ultima norma che laddove  il  giudice  accerti
una  condizione  mentale  dell'imputato  tale  da  impedire  in  modo
irreversibile la sua partecipazione al processo, pronunci sentenza di
non luogo  a  procedere  o  sentenza  non  doversi  procedere,  salva
l'applicazione di misure di  sicurezza  diverse  dalla  confisca  nei
confronti  della   persona   che   risulti,   comunque,   socialmente
pericolosa. 
    Anche il testo di nuovo conio, tuttavia, non e' rimasto esente da
censure da parte della  Corte  costituzionale.  Invero,  all'indomani
dell'introduzione dell'art. 72-bis codice di procedura penale  ci  si
era interrogati circa la possibilita' di applicare  la  normativa  di
nuovo conio non solo alle infermita' psichiche, ma anche a  forme  di
incapacita' di stare in giudizio di tipo fisico. 
    La Cassazione, invero, con sentenza n.  14853/2021  emessa  dalla
sesta sezione, aveva  escluso  la  possibilita'  di  interpretare  la
normativa nel senso di ricomprendere anche quelle infermita' di  tipo
fisico  che,  pur  non  consentendo  la  presenza  della  persona  al
processo,  non  ledessero  la  sua  capacita'  di   discernimento   o
autodeterminazione al punto  da  compromettere  l'esercizio  del  suo
diritto  di  difesa.  Tali  soggetti,   dunque,   rimanevano   eterni
giudicabili. 
    La questione e' stata nuovamente sottoposta all'attenzione  della
Consulta che, con sentenza n. 65 del 7  aprile  2023,  ha  dichiarato
l'art. 72-bis codice di procedura penale non conforme agli articoli 3
e 24 Cost. nella parte in cui limitava la condizione  di  incapacita'
processuale  irreversibile  allo  stato  mentale  e  non   a   quello
psicofisico del condannato. In particolare, la Corte ritenne  che  il
riferimento esclusivo alla sfera psichica  dell'imputato,  desumibile
dall'impiego dell'aggettivo  «mentale»  nel  testo  dell'art.  72-bis
c.p.p., determinasse un'irragionevole disparita' di  trattamento  tra
l'imputato, il quale non possa esercitare l'autodifesa in modo  pieno
a causa di un'infermita' mentale stricto sensu, e  quello  che  versi
nella medesima impossibilita'  per  un'infermita'  di  natura  mista,
anche di origine fisica che comprometta le  facolta'  di  «coscienza,
pensiero, percezione, espressione», necessarie per il pieno esercizio
del diritto di difesa nel processo. 
    L'intervento manipolativo della Consulta, dunque,  oggi  consente
al giudice di merito di dichiarare  non  luogo  a  provvedere  o  non
doversi procedere tutte le volte in cui, ad esito degli  accertamenti
disposti,  risulti  che  l'imputato  versa   in   una   irreversibile
condizione di incapacita' di partecipare al processo. 
    Poste queste premesse di ordine costituzionale, il  Tribunale  di
Sorveglianza non puo' non chiedersi se possa considerarsi ragionevole
l'attuale quadro normativo, nella misura in cui non  prevede  che,  a
fronte dell'accertamento a carico del  condannato  di  uno  stato  di
irreversibile incapacita' psicofisica,  il  giudice  possa  non  gia'
differire l'esecuzione della pena,  con  continue  rivalutazioni,  ma
dichiarare non luogo a provvedere sull'esecuzione  della  stessa  per
l'impossibilita' di sottoporre ad esecuzione penale il condannato. 
    Cio' in quanto, l'assetto normativo nella subjecta materia appare
del tutto analogo (nei suoi tratti essenziali) a  quello  su  cui  e'
intervenuta la Consulta nelle sentenze citate in terna  di  capacita'
di stare in giudizio che  hanno  portato  alla  riformulazione  degli
articoli 70-72-bis c.p., esponendosi, pertanto alle medesime  censure
in punto di irragionevolezza intrinseca dell'opzione normativa  (art.
3 comma  2  Cost.)  che  non  valorizza  adeguatamente  l'incapacita'
irreversibile del condannato di essere sottoposto a  pena;  cio'  che
determina, di riflesso, una serie di lesioni ad altrettanti  principi
di caratura costituzionale, quali  il  diritto  di  difesa  (art.  24
Cost.), il principio  di  emenda  (art.  27  comma  3  Cost.)  ed  il
principio  di  ragionevole  durata  del  processo,  tanto  in  chiave
costituzionale, quanto in chiave  convenzionale  (art.  111  comma  2
Cost. e art. 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU). 
    Il dubbio di costituzionalita' che qui ci  si  pone,  in  massima
parte fondato sulla stessa giurisprudenza costituzionale in  tema  di
incapacita'  processuale   irreversibile,   richiede   anzitutto   di
affrontare un tema preliminare: se, ed in che termini,  sussista  una
assimilabilita'  delle  situazioni  sostanziali   tra   l'incapacita'
dell'imputato di essere sottoposto a  processo  e  l'incapacita'  del
condannato di essere sottoposto ad esecuzione penale. 
    A questo interrogativo,  il  Tribunale  di  Sorveglianza  ritiene
possa darsi risposta affermativa, pur con le precisazioni del caso. 
    Un profilo di differenziazione tra le  due  posizioni  soggettive
potrebbe, invero, essere rappresentato dal fatto che mentre nel  caso
dell'imputato non vi e' stato un accertamento sul  fatto  e,  dunque,
una attribuzione di responsabilita' dello stesso al soggetto incapace
di stare in giudizio, nell'ipotesi al vaglio di questo  Tribunale  di
Sorveglianza tale accertamento sussiste e, dunque, potrebbe venire in
rilievo il tema della indefettibilita' della pena, quale  fattispecie
polimorfica e polifunzionale, in cui coesistono e convergono esigenze
individuali ed istanze collettive di certezza del diritto. 
    Tuttavia,  e'  agevole  evidenziare  che   nell'attuale   assetto
normativo,  laddove  la  persona  sia   giudicata   non   pericolosa,
l'esecuzione della sanzione e' in concreto differita  sine  die  fino
all'estinzione della pena per morte del reo; dunque,  il  tributo  ad
astratte esigenze  retributive  o  di  sicurezza  lato  sensu  intesa
assomiglia al proverbiale specchietto per le  allodole,  risolvendosi
in un vezzo formale, sostanzialmente privo  di  reale  impatto  sulla
realta' esecutiva. 
    Tributo che, pero', il sistema nel  suo  complesso  paga  a  caro
prezzo  sotto  il  profilo  della  ragionevolezza  intrinseca   della
normativa (art. 3 comma 2 Cost.), oltre che di ragionevole durata del
processo (art. 111 Cost. e 117 Cost. in relazione all'art.  6  CEDU),
di  tutela  delle  esigenze  difensive   (art.   24   Cost.)   e   di
costituzionalita' della pena rispetto al principio di  emenda  ed  al
divieto di trattamenti contrari al senso di umanita' (art. 27 comma 3
Cost.). 
    Andando a vagliare quelli che il Collegio  ritiene  gli  evidenti
punti di contatto tra le due situazioni  ritenute  assimilabili,  non
puo' non osservarsi, anzitutto, come sia nel caso  dell'imputato  che
del condannato quel che viene in rilievo e' una condizione  di  fatto
identica: l'accertamento di una patologia irreversibile che impedisce
la  partecipazione  dell'interessato  ad  un   fatto   diacronico   e
procedimentalizzato, nell'un caso volto  ad  accertare  le  eventuali
responsabilita' penali della persona e, nell'altro, volto a stabilire
quali  limitazioni  siano  adeguate  a  rieducare  la  persona  ed  a
neutralizzare il pericolo che essa rappresenta per la collettivita'. 
    In questo senso, vi e' un idemfactum alla  base  di  entrambe  le
fattispecie. 
    Ma,  ancora,  risulta  innegabile   che   il   fatto-procedimento
esecutivo richiede da parte del condannato (per citare  la  Consulta)
«coscienza, pensiero, percezione ed espressione», si' da garantire la
comprensione del significato delle  limitazioni  imposte  e  il  loro
portato afflittivo; e questo non gia' quale espressione di  una  mera
pretesa/potesta'  esecutivo-retributiva  dello  Stato,  bensi'   come
giusta  sofferenza  adeguata  e  necessaria,  tesa  a  stimolare  nel
condannato una riconsiderazione del proprio vissuto ed  orientare  la
persona sottoposta a pena verso modelli  comportamentali  socialmente
accettabili. 
    Se manca la capacita' di cosciente partecipazione del  condannato
al procedimento esecutivo-trattamentale, questo Collegio ritiene  non
possa riconoscersi un orizzonte costituzionale alla  mera  esecuzione
della pena quale freddo adempimento della  sentenza  di  condanna  in
ottica puramente autoritativa o retributiva. 
    La pena,  cosi'  intesa,  diventerebbe  causa  di  limitazioni  e
sofferenze inflitte a titolo di vendetta sociale sul singolo  per  il
reato commesso, ovvero come  pretesa  di  obbedienza  ad  un  comando
afflittivo fine  a  se'  stesso;  in  quanto  tale,  inutile  per  il
condannato, ma anche per la societa' nel suo complesso. 
    Invero, le condizioni di incapacita' di essere sottoposto a  pena
non  sono  del  tutto  disconosciute  dal  legislatore,  ma   vengono
affrontate con uno strumento, il differimento, strutturalmente teso a
rinviare l'esecuzione della pena, che se appare adeguato  rispetto  a
fattispecie connotate dalla presenza di termini naturali o rispetto a
condizioni reversibili, mal si concilia con situazioni di incapacita'
croniche, stabili ed irreversibili. 
    In  questi  casi,  infatti,  il  Tribunale  di  Sorveglianza   e'
costretto a fissare termine e reiterare gli  accertamenti  sine  die,
attendendo, in concreto, la morte del condannato per  dichiarare  non
luogo a provvedere per estinzione della pena ai sensi  dell'art.  171
c.p. 
    Al differimento, inoltre, si  correla  anche  l'interruzione  del
decorso della prescrizione  ai  sensi  dell'art.  172  c.p.,  il  che
consentirebbe nel caso di specie di parlare (mutuando la terminologia
di cui supra) di eterni esecutabili quali soggetti condannati che non
potranno mai essere sottoposti in concreto ad esecuzione, ma che  per
l'ordinamento risultano astrattamente passibili di futura  espiazione
della  pena,  trovando  solo  nella  morte  un  termine   alla   loro
condizione. 
    Il che, evidentemente, replica, nell'ambito esecutivo quanto gia'
giudicato irragionevole rispetto  al  processo  di  cognizione  nelle
sentenze citate, con evidente lesione dell'art. 3 comma 2 Cost. sotto
il profilo della ragionevolezza intrinseca del dato normativo. 
    Ma la normativa, allo stato attuale,  risulta  non  garantire  lo
stesso  diritto  di  difesa  del  condannato  nel   procedimento   di
sorveglianza, ledendo parimenti l'art. 24  Cost.  Invero,  alla  luce
delle profonde innovazioni che hanno interessato la materia,  in  cui
la Corte costituzionale ha avuto un ruolo tutt'altro che  secondario,
non e' possibile oggi disconoscere che dinnanzi alla magistratura  di
sorveglianza si svolge non gia' un mero incidente esecutivo di natura
para-amministrativa, bensi' un ulteriore tassello della giurisdizione
penale: quello teso  a  valutare  con  quali  modalita'  debba  darsi
attuazione al comando punitivo insito nella  pronuncia  di  condanna,
secondo una  valutazione  di  proporzionalita'  e  adeguatezza  delle
limitazioni  rispetto  alla  pericolosita'  del  condannato  ed  alla
possibilita' che questi esegua la pena in  forme  anche  extramurarie
che favoriscano la sua reintegrazione nel tessuto sociale, in accordo
con il volto costituzionale  della  pena  tratteggiato  dall'art.  27
comma 3 Cast. 
    Sebbene  la  disciplina  del  procedimento  di  sorveglianza  sia
modellata  sulla  Camera  di  consiglio,  con   mera   ed   eventuale
partecipazione del condannato, e non sia formalmente un processo  nel
senso tradizionale del termine, dunque,  la  capacita'  di  stare  in
giudizio innanzi alla magistratura di sorveglianza non  e'  un  fatto
neutro ai fini dell'esercizio del diritto di difesa ed autodifesa nel
merito rispetto al tipo di valutazione  che  e'  proprio  della  sede
giurisdizionale in esame; profilo  che  l'attuale  assetto  normativo
disconosce del tutto e  la  cui  necessaria  valorizzazione  dovrebbe
condurre, nella prospettiva che qui si intende sostenere, a prevedere
forme di definizione del procedimento  laddove  la  parte  non  possa
parteciparvi  coscientemente,  si'  come  previsto  nel  procedimento
attinente il merito della responsabilita' penale. 
    Sotto altro profilo, la carenza normativa  riscontrata  determina
effetti lesivi del principio  di  ragionevole  durata  del  processo,
nella misura in cui alla definizione del procedimento di sorveglianza
conclusosi con la concessione del  differimento  della  pena  non  fa
seguito una cessazione del thema decidendum sostanziale, vale a  dire
il quomodo e l'an dell'esecuzione, ma un mero rinvio dello stesso. 
    Invero, alla scadenza del  termine  indicato  nell'ordinanza  del
Tribunale  di  Sorveglianza  si  possono   verificare   le   seguenti
alternative:  o  la  parte  reitera  per  tempo  nuova   domanda   di
differimento ai sensi dell'art.  147  codice  penale  e  684  c.p.p.,
eventualmente anche in via provvisoria, consentendo  un  giudizio  di
proroga-concessione di nuovo differimento che impedisce l'avvio o  la
ripresa dell'esecuzione della  pena;  ovvero  la  parte  omette,  per
negligenza, di presentare nuova domanda, con emissione da parte della
Procura di ordine di esecuzione della pena differita,  potendo  anche
determinare  l'ingresso  in  carcere  del  condannato,   cui   fara',
evidentemente, seguito nuova domanda di differimento. 
    In entrambi i casi, si instaurera' un nuovo giudizio in punto  di
differimento della pena, che, a fronte di condizioni  di  incapacita'
irreversibile, non potra' che  concludersi  con  ulteriore  dilazione
dell'esecuzione  sino  a  nuovo  termine,  alla   cui   scadenza   si
ripresentera' la medesima situazione e cosi' via sino alla morte  del
condannato. 
    Tutto cio' con grande dispendio di energie  procedurali  e  costi
per il sistema della giustizia, ma  anche  per  il  condannato  e  le
persone a lui prossime, in particolare i familiari e coloro che hanno
cura della sua persona. 
    Questi,  infatti,  saranno  costretti  ciclicamente  a  reiterare
domande di differimento della  pena,  sostenendo  anche  le  relative
spese legali per la difesa tecnica  nei  vari  giudizi;  giudizi  che
importeranno per il sistema ulteriori spese per la celebrazione delle
relative udienze (notifiche, atti  istruttori,  partecipazione  degli
esperti etc. etc.).  Tale  ipertrofia  procedurale  rispetto  ad  una
condizione di  irreversibile  incapacita'  della  persona  di  essere
coscientemente  assoggettata  a  pena  appare  oltremodo  ridondante,
esponendo sia il  sistema  che  la  parte  a  spese  processuali  non
giustificate  ne'  giustificabili  a  fronte   di   un   accertamento
definitivo che potrebbe porre  fine  in  modo  stabile  alla  vicenda
procedurale complessivamente intesa. Una macchina che, in definitiva,
girerebbe a vuoto. 
    Verrebbe, dunque, in rilievo, anche una possibile  lesione  degli
articoli 111  comma  2  Cost.  e  117  Cost.,  quest'ultimo  rispetto
all'art. 6 CEDU. 
    La Corte europea dei diritti  dell'uomo,  infatti,  ha  da  tempo
indicato come il diritto alla ragionevole durata del processo non  si
esaurisce esclusivamente nel contesto dell'attivita'  processuale  in
senso stretto, ma  riguarda  tutti  i  procedimenti  giurisdizionali,
inclusi quelli esecutivi, dovendo  considerarsi  l'esecuzione  di  un
giudicato, di qualsiasi giurisdizione, come facente parte  integrante
della nozione di processo di cui all'art. 6 (cfr. in particolare caso
SY v. Italy 11791/2020, § 63). L'ermeneutica in discussione e'  stata
affermata sin dal caso Burdov v. Russia (caso I nel 2000 e caso 2 nel
2004) e ribadita nei casi Metaxas v Greece del 2002, con applicazioni
sia in ambito civile che in ambito penale. In particolare, quanto  al
diritto  processuale  penale,  l'arresto  ha  trovato   una   propria
specifica applicazione contro l'Italia in tema di mancata  esecuzione
dell'ordine di rimessione in liberta' rispetto a misura di  sicurezza
di ricovero in o.p.g. da eseguirsi in R.E.M.S. (il citato caso SY  v.
Jtaly), avendo in quella sede la Corte ribadito che la fase esecutiva
di una pronuncia di condanna e' parte del processo ai sensi dell'art.
6 CEDU. 
    Le sentenze citate, dunque, paiono esprimere un  indirizzo  ormai
consolidato nel sistema convenzionale, idoneo ad assurgere, ai  sensi
della  sentenza  n.  49/2015  quale  parametro  di  costituzionalita'
vincolante per l'interprete, quantomeno nella parte in cui indica  il
giudizio di esecuzione come rientrante nella nozione di  processo  di
cui deve essere assicurata, tra le altre, la ragionevole durata. 
    Inoltre, laddove, si volessero anche coltivare le statuizioni  di
principio   sull'integrazione   dei    sistemi    costituzionale    e
convenzionale  espressi  nella  recentissima  sentenza  n.   33/2025,
secondo cui anche in assenza  di  specifiche:  pronunce  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo su un dato tema vi  e'  spazio  per  la
Corte costituzionale di offrire comunque tutela ai diritti  garantiti
dalla   Convenzione,   in   quanto   questa,   seppur    con    rango
sub-costituzionale, e' parte dell'ordinamento costituzionale nel  suo
complesso (si vedano in particolare i paragrafi da 7  in  avanti  del
Considerato in diritto di cui alla sentenza n. 33 del 2025), potrebbe
agevolmente  la  Consulta  valutare  che  il  procedimento  esecutivo
penale, nel suo cammino di giurisdizionali azione dipanatosi  secondo
le tappe  marcate  dalla  stessa  giurisprudenza  costituzionale,  e'
certamente un terreno in cui l'esercizio dei  poteri  decisori  della
magistratura  di  sorveglianza  dovrebbe  rispondere  a  criteri   di
ragionevolezza temporale. 
    Una inutile  o  colpevole  dilazione  della  decisione,  infatti,
lederebbe non solo il principio di emenda, il  diritto  all'oblio  ed
altri interessi meritevoli di tutela che si correlano  al  tempo  del
processo, ma anche la legittima aspettativa dei cittadini  di  vedere
la propria posizione rispetto all'esecuzione di una  pena  o  di  una
misura di sicurezza definita entro termini congrui. 
    Nel caso in esame, la  lesione  si  produrrebbe  valorizzando  la
inutilita' delle continue dilazioni dell'esecuzione che, senza  alcun
motivo, protrarrebbero il giudizio sulla sottoponibilita' a  pena  di
chi e' gia' certo non potra' mai esservi sottoposto. L'art.  6  CEDU,
dunque, sarebbe in cio' vulnerato, e, di rimando, lo  sarebbe  l'art.
117 Cost. Analoghe censure, d'altro canto, si estenderebbero rispetto
al parametro di cui all'art. 111 comma 2 Cost. 
    Da ultimo,  l'attuale  disciplina,  nel  richiedere  il  costante
riesame di una condizione stabilmente accertata come irreversibile, a
giudizio del Collegio risulta ledere l'art. 27 comma 3 Cost. e, nella
misura in cui frustra la tendenziale funzione rieducativa della  pena
e di pone in termini disarmonici rispetto al divieto  di  trattamenti
contrari al senso di umanita'. Il riferimento al parametro qui citato
si  rende,  a  parere  del   Collegio,   necessario   rispetto   alle
peculiarita' della materia in esame. 
    Se nell'ambito del processo volto ad accertare la responsabilita'
della persona la Consulta ha ritenuto la disciplina delle incapacita'
processuali carente nella misura in cui non considerava adeguatamente
la stabile impossibilita' di difendersi dell'imputato, esponendolo in
astratto ad un giudizio eternamente rinviato, traslando il  tema  sul
terreno  dell'esecuzione  penale  e  delle  specifiche  esigenze   di
caratura costituzionale che sorreggono questo ramo  dell'ordinamento,
la disciplina si pone come carente nella misura in  cui  finisce  per
considerare in astratto come eternamente sottoponibile a pena chi non
e' ne' sara' mai in grado di esservi sottoposto perche'  incapace  di
percepire la funzione della pena quale emenda. 
    A fronte delle censure  sin  qui  esposte,  il  Collegio  ritiene
debbano  valorizzarsi  le  acquisizioni  costituzionali  e  normative
maturate sul terreno  della  irreversibile  incapacita'  processuale,
individuando nella norma di cui all'art. 72-bis codice  di  procedura
penale un tertium comparationis da intendersi non tanto o meglio  non
soltanto quale parametro  normativo  di  raffronto  per  valutare  la
ragionevolezza  della  disciplina  attualmente   in   esame,   quanto
piuttosto come opzione normativa adeguata costituzionalmente con  cui
il  legislatore  ha  dato  una  soluzione  idonea  a  risolvere   una
situazione analoga a quella al vaglio del Collegio. 
    Gia'  in  altre  occasioni,  infatti,  la  Corte  costituzionale,
discostandosi  dalla  teoria  delle  cosiddette  soluzioni   a   rime
obbligate, ha  recentemente  adottato  pronunce  in  cui  sono  state
accolte soluzioni di tipo  additivo  manipolativo  che,  pur  se  non
obbligate, apparivano adatte a offrire una cornice di tutela adeguata
rispetto ai vulnera costituzionali denunciati dai giudici rimettenti,
evitando al  contempo  che  la  declaratoria  di  incostituzionalita'
creasse vuoti di disciplina e precludesse, in astratto, un intervento
del legislatore che,  nell'esercizio  della  sua  discrezionalita'  e
tenendo fermi i criteri costituzionali minimi  offerti  dalla  Corte,
desse una diversa riorganizzazione alla materia. 
    Si tratta di un'ermeneutica costituzionale ormai consolidatasi ed
espressa in diverse pronunce della Consulta: si vedano la Sentenza n.
40 del 2019, punto 4.2. del Considerato in diritto; Sentenza  n.  236
del 2016, punto 4.4. del Considerato in diritto; Sentenza n. 222  del
2018, punto 8.1. del Considerato in diritto; recentemente Sentenza 46
del 2024, punto 4 e seguenti del Considerato in diritto;  ex  multis,
nello stesso senso, sentenze n. 95 del 2022, punto 5 del  Considerato
in diritto, e n. 252 del 2020, punto 4.6. del Considerato in diritto.
Sebbene i precedenti citati hanno in massima parte  riguardato  norme
relative   a   giudizi   in    cui    era    oggetto    di    censura
l'adeguatezza-ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, non  sono
mancate pronunce che hanno  fatto  applicazione  della  teoria  delle
soluzioni costituzionalmente adeguate anche nell'ambito della materia
della sorveglianza: si pensi alle sentenze n. 253/2019 e n.  10/2024,
rispettivamente, in tema di accesso ai permessi premio per condannati
per delitti di  cui  all'art.  4-bis  comma 1,  O.P.  in  assenza  di
collaborazione  con  la  giustizia  ed  in  tema  di  a  affettivita'
inframuraria  e  divieto  di  colloqui  intimi,  ove  la   Corte   ha
sostanzialmente   individuato   il   portato   minimo    di    tutela
costituzionalmente necessitato per rispondere alle censure mosse  dai
giudici a quo, lasciando  comunque  un  margine  di  discrezionalita'
all'organo legislativo. 
    Facendo applicazione dei principi citati, questo Collegio ritiene
che la soluzione costituzionalmente adeguata  per  porre  rimedio  ai
profili  di  incostituzionalita'  sopra  esposti  sarebbe  quella  di
stabilire nella subjecta materia una normativa modellata sul disposto
dell'art. 72-bis codice di procedura penale che, in caso di accertata
ed irreversibile incapacita' di sottoposizione ad  esecuzione  penale
del  condannato,  consenta  di  dichiarare  non  luogo  a  provvedere
sull'esecuzione della pena. 
    Un tale effetto potrebbe  essere  realizzato  mediante  pronuncia
additiva che dichiari l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  147
codice penale per violazione degli articoli 3 comma 2, 24,  27  comma
3, 111 comma 2 Cost. e 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU,  nella
parte in cui non  prevede  che  «Se,  a  seguito  degli  accertamenti
esperiti, ove occorra anche mediante perizia, risulta  che  lo  stato
psicofisico  del  condannato  e'  tale  da  impedire   la   cosciente
sottoposizione ali  'esecuzione  della  pena  e  che  tale  stato  e'
irreversibile,  il  giudice  pronuncia  ordinanza  di  non  luogo   a
procedere o ordinanza di doversi procedere». 
    Si  e'  espunto,  nella  formulazione  del   parametro   ritenuto
adeguato, il riferimento all'applicazione di misure di sicurezza, pur
presente nell'art. 72-bis codice di procedura  penale  posto  che  la
norma in esame consente il differimento della pena solo ad  esito  di
un giudizio che escluda la pericolosita' sociale del condannato. 
    In questo senso, sarebbe ridondante il riferimento a  misure  che
hanno  nella  attuale  pericolosita'  sociale  il   loro   principale
presupposto applicativo. 
    La questione di costituzionalita' cosi' posta  risulta  rilevante
nel caso di specie,  oltre  che,  per  le  ragioni  su  esposte,  non
manifestamente infondata. 
    In punto di rilevanza, invero, deve osservarsi che la  condizione
di G e' quella di chi e'  affetto  da  grave  infermita'  psichica  e
fisica e non puo' essere ritenuto, per ragioni oggettive  discendenti
dalle  sue  patologie  e  dalla  incapacita'  di  azione  che  queste
determinano, socialmente pericoloso ai sensi dell'art.  147  comma  3
c.p., apparendo possibile escludere il  rischio  di  reiterazione  di
reati. 
    Nei suoi  confronti,  dunque,  si  imporrebbe  una  decisione  in
termini di differimento, che pero' sarebbe del  tutto  arbitraria  in
punto di quantum, apparendo evidente sin da ora che la sua condizione
clinica e la relativa infermita' psicofisica sono irreversibili e non
potranno che peggiorare con  l'avanzare  dell'eta',  determinando  un
susseguirsi di differimenti sino al suo trapasso. 
    Laddove venisse accolta la prospettazione di questo Tribunale  di
Sorveglianza, viceversa, il  giudizio  potrebbe  concludersi  con  un
esito giuridicamente diverso da quello attualmente possibile:  invece
dell'apposizione di un termine di durata del  differimento,  infatti,
potrebbe  statuirsi  definitivamente  sull'esecuzione   della   pena,
evitando la reiterazione di futuri giudizi. 
    Ne' la questione potrebbe essere risolta mediante accesso ad  una
interpretazione costituzionalmente orientata.  Invero,  sotto  questo
profilo, il dato non nativo risulta piuttosto chiaro nello  stabilire
che la pronuncia del giudice si risolva in un mero differimento o  in
una sospensione dell'esecuzione.  In  altri  termini,  la  legge  non
attribuisce al giudice il potere di dichiarare una  volta  per  tutte
l'ineseguibilita' della pena tout court; effetto che si realizza solo
con il decesso della persona  a  seguito  di  piu'  o  meno  numerosi
differimenti. 
    Potrebbe, invero, immaginarsi che il Tribunale  di  Sorveglianza,
proprio in ragione della mancata  indicazione  nell'art.  147  codice
penale di un termine  specifico  per  il  differimento,  disponga  un
rinvio dell'esecuzione sino alla morte del condannato, ovvero sino al
perdurare delle condizioni di  incapacita'.  Ma,  a  ben  vedere,  si
tratterebbe di soluzioni pratiche che, invece di affrontare  il  tema
ed il problema nella sua effettiva realta' e alla luce di una lettura
costituzionale delle norme, realizzerebbero un effetto di sostanziale
aggiramento del dato di legge, stabilendo un  differimento  sine  die
sostanzialmente idoneo a risolversi in  una  rinuncia  all'esecuzione
normativamente non prevista, oltreche'  di  difficile  compatibilita'
con il quadro costituzionale  tratteggiato  supra.  Come  tali,  sono
opzioni che questo Collegio stima non  praticabili  metodologicamente
ed assiologicamente non adeguate. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, ci si richiama in massima
parte a quanto gia' indicato sopra. 
    Appare, tuttavia, opportuno svolgere alcune considerazioni  sulla
adeguatezza della soluzione prospettata non soltanto con  riferimento
alle esigenze di tutela del singolo rispetto  alla  pretesa  punitiva
dello Stato, ma anche rispetto alla  rispondenza  della  stessa  alle
esigenze di difesa della collettivita'. 
    Potendo, invero, il differimento della pena essere concesso  solo
a fronte di un giudizio che  escluda  la  pericolosita'  sociale  del
condannato, l'eventuale accoglimento della questione non esporrebbe a
maggiori rischi il consorzio civile; i potenziali  destinatari  della
norma, infatti, rimarrebbero solo  coloro  che,  incapaci  di  essere
sottoposti  a  pena,  non  rappresentano  piu'  un  pericolo  per  la
societa'. 
    Ancora, si consideri che la rinuncia alla esecuzione  della  pena
rimarrebbe ancorata all'esperimento di  accertamenti  particolarmente
pregnanti in punto di attuale assenza della capacita'  di  essere  la
persona sottoposta a pena e di irreversibilita' di talestato, secondo
le medesime opzioni normative assunte sul terreno della capacita'  di
stare in processo dagli articoli 70 e seguenti c.p.p. 
    Da ultimo,  preme  evidenziarsi  che  in  caso  di  eventuali  ed
imprevedibili mutamenti  nella  condizione  della  persona  (che  non
dovrebbero verificarsi, ma non possono non  essere  considerati  come
evenienza, seppur remota) tali  da  far  riacquistare  al  condannato
capacita' di essere sottoposto ad esecuzione penale, sarebbe comunque
possibile rivalutare la posizione  dell'interessato.  Invero,  da  un
lato le pronunce della magistratura di  sorveglianza  sono  rese  con
ordinanza e vige, in generale, un principio  di  revocabilita'  delle
stesse ove si accerti che la situazione di  fatto  sulla  base  della
quale esse sono  state  emesse  risulta  difforme  o  sostanzialmente
mutata;  dall'altro,  a  fronte  di  una  pronuncia  di  non  doversi
procedere all'esecuzione, che non attiene  al  merito  del  giudizio,
potrebbe immaginarsi la riedizione di nuovo  giudizio,  eventualmente
da promuoversi da parte della Procura  competente,  onde  sollecitare
una rivalutazione. Ma, e' bene indicarlo,  si  dovrebbe  trattare  di
casi  piu'  che   eccezionali,   a   fronte   della   condizione   di
irreversibilita' accertata. 
    In  presenza  di  profili  di  pericolosita'   sociale,   invece,
rimarrebbero valide  le  opzioni  costituzionalmente  indicate  dalla
Consulta nella sentenza n. 99/2019, quali la  detenzione  domiciliare
umanitaria,  adeguata  a  contemperare   le   contrapposte   esigenze
rilevanti nel caso concreto. 
    E' chiaro che, nella prospettiva sin qui sostenuta, una pena  che
risulti priva di qualsiasi possibilita' di proiezione rieducativa per
incapacita'  del  condannato  si  porrebbe  in  termini  problematici
rispetto all'art. 27 comma 3 Cost. anche laddove eseguita nelle forme
della  detenzione  domiciliare  nei  confronti  di  chi  sia,  pero',
pericoloso; ma un tale approfondimento della questione, oltre  a  non
essere rilevante nel caso di specie, posto che si e' escluso  G.  sia
soggetto pericoloso, dovrebbe essere piu' adeguatamente oggetto di un
intervento  legislativo  che  ripensi  il  rapporto  tra  incapacita'
irreversibile ed esecuzione della  pena  nelle  diverse  sfumature  e
combinazioni che possono presentarsi nella realta',  potendo  esservi
diverse soluzioni ipotizzabili per disciplinare la materia. 
    Ma, quantomeno rispetto a chi  sia  stato  giudicato  stabilmente
incapace e non piu' socialmente  pericoloso,  come  G.  ,  e  che  si
vedrebbe  comunque  non  sottoposto  a  pena,  non  paiono   emergere
alternative costituzionalmente adeguate ulteriori rispetto  a  quella
qui indicata e di cui si auspica l'accoglimento. 

 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva,
nei  termini  indicati,  questione  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. dell'art. 147 codice penale per violazione degli articoli 3
comma 2, 24, 27 comma 3, 111 comma 2 Cost. e 117 Cost.  in  relazione
all'art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevede che  «Se,  a  seguito
degli accertamenti esperiti,  ove  occorra  anche  mediante  perizia,
risulta che lo stato psicofisico del condannato e' tale  da  impedire
la cosciente sottoposizione all'esecuzione  della  pena  e  che  tale
stato e' irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a
procedere o ordinanza di doversi procedere.». 
    Sospende  il  giudizio  in  corso  sino  all'esito  del  giudizio
incidentale di legittimita' costituzionale; 
    Dispone  che,  a  cura  della   cancelleria,   gli   atti   siano
immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale, e che la presente
ordinanza  sia  notificata  alle  parti  in  causa  ed  al   pubblico
ministero, nonche' al Presidente del Consiglio dei  ministri,  e  che
sia anche comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
      Cosi' deciso in Bologna, il 29 aprile 2025. 
 
                       Il Presidente: Vassallo 
 
 
                                     Il Magistrato estensore: Romano