Reg. ord. n. 61 del 2025 pubbl. su G.U. del 16/04/2025 n. 16
Ordinanza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio del 25/02/2025
Tra: S. M. C/ Istituto nazionale della previdenza sociale - INPS
Oggetto:
Previdenza – Impiego pubblico – Trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età – Prevista corresponsione decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro – Riconoscimento del trattamento secondo un meccanismo di rateizzazione, differentemente articolato in base all’ammontare complessivo della prestazione – Denunciata previsione di un pagamento rateale e differito che comprime in modo irragionevole e sproporzionato i diritti dei lavoratori pubblici, non sorretta dal carattere contingente, ma essendo al contrario strutturale – Incidenza su beni e diritti dei lavoratori pubblici che godono di tutela piena e incondizionata – Lesione del diritto del lavoratore a una retribuzione sufficiente e proporzionata all’attività lavorativa svolta – Violazione degli obblighi internazionali, come declinati dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, che tutelano la sfera patrimoniale del lavoratore a garanzia della dignità della persona umana.
Norme impugnate:
decreto-legge del 28/03/1997 Num. 79 Art. 3 Co. 2
legge del 28/05/1997 Num. 140
decreto-legge del 31/05/2010 Num. 78 Art. 12 Co. 7
legge del 30/07/2010 Num. 122
Parametri costituzionali:
Costituzione Art. 36 Co.
Costituzione Art. 117 Co. 1
Protocollo addizionale alla Convenzione europea diritti dell'uomo Art. 1 Co.
Testo dell'ordinanza
N. 61 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 febbraio 2025 Ordinanza del 25 febbraio 2025 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio sul ricorso proposto da S. M. contro Istituto nazionale della previdenza sociale - INPS. Previdenza - Impiego pubblico - Trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di eta' - Prevista corresponsione decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro - Riconoscimento del trattamento secondo un meccanismo di rateizzazione, differentemente articolato in base all'ammontare complessivo della prestazione. - Decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140 e successive modifiche e integrazioni, art. 3, comma 2; decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita' economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive modifiche e integrazioni, art. 12, comma 7. (GU n. 16 del 16-04-2025) IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO Sezione quinta Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 10270 del 2024, proposto da S. M., rappresentato e difeso dall'avvocato Pietro Frisani, con domicilio digitale come da pec da registri di giustizia; Contro INPS - Istituto nazionale previdenza sociale, in persona del presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Flavia Incletolli, con domicilio digitale come da pec da registri di giustizia; Per l'accertamento - previa dichiarazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, rimettendo gli atti del giudizio alla Corte costituzionale sulla prospettata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e successive modifiche e dell'art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita' economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modifiche, con riferimento all'art. 36 della Costituzione e all'art. 1, protocollo 1, CEDU - del diritto del ricorrente in quanto cessato dal servizio per raggiunti limiti di eta' in data 30 settembre 2023 a percepire l'intero importo del TFS ancora da corrispondere da parte dell'Istituto previdenziale senza dilazioni e senza rateizzazione e la condanna del resistente a corrispondere senza dilazione l'intero importo ancora dovuto, oltre interessi e rivalutazione dal di' del dovuto sino al saldo. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Istituto previdenziale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 gennaio 2025 la dott.ssa Ida Tascone e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. Il ricorrente, ex dipendente del Ministero dell'interno - Questura di Roma, collocato in quiescenza a decorrere dal 30 settembre 2023, ha chiesto che venga accertato il suo diritto a percepire il trattamento di fine servizio (d'ora in poi TFS per brevita') senza dilazioni e senza rateizzazioni e ha chiesto la condanna dell'Istituto previdenziale a corrispondere senza dilazione l'intero importo ancora dovuto oltre interessi e rivalutazione. In particolare, il ricorrente ha dedotto in fatto che il TFS a lui spettante dovrebbe essere determinato nella misura di euro 99.675,05 - come da prospetto di simulazione estratto dal sito MyINPS - e che detta somma, essendo superiore ad euro 50.000,00, ai sensi dell'art. 1, comma 484, della legge n. 147/2013, dovrebbe essere corrisposta allo stesso in due rate, la prima al 1° gennaio 2025 (ovvero nel terzo mese successivo all'acquisito del diritto avvenuto a seguito del decorso del termine di dodici mesi dalla cessazione dal servizio in data 1° ottobre 2024) e la seconda al 1° gennaio 2026. Con memoria depositata nei termini dell'art. 73, c.p.a. viene precisato che «solo in data 22 ottobre 2024, quindi dopo la presentazione del ricorso, l'INPS ha disposto con bonifico il pagamento in favore del sig. M. di una singola e parziale tranche della prestazione (euro 43.649,30, somma peraltro inferiore ai 50.000,00 euro previsti dalla legge)». Il ricorrente, nel motivare in ordine alla propria pretesa di vedersi riconosciuto il trattamento di fine servizio, ha rilevato l'illegittimita' costituzionale delle norme che hanno disposto la rateizzazione chiedendo la sospensione del presente giudizio e la rimessione degli atti innanzi alla Corte costituzionale. L'Istituto previdenziale si e' costituito in giudizio con apposita memoria ed ha eccepito il difetto di legittimazione e la carenza di interesse del ricorrente, nonche' l'inammissibilita' della domanda in quanto, cosi' come formulata, si risolve nella richiesta di annullamento di un provvedimento di rango formalmente legislativo, che esula dalle attribuzioni del giudice amministrativo; ha, poi, dedotto l'infondatezza della domanda perche' le modalita' di pagamento adottate sarebbero pienamente conformi al dettato normativo. Alla pubblica udienza del 10 gennaio 2025 il ricorso e' stato trattenuto in decisione. In via preliminare occorre esaminare l'eccezione spiegata dall'Istituto previdenziale in ordine alla carenza di legittimazione e dell'interesse a ricorrere dell'istante, che risulta destituita di fondamento. In particolare, la parte resistente lamenta la mancata impugnazione di un provvedimento da parte del ricorrente, posto che lo stesso si sarebbe limitato a chiedere «l'accertamento del proprio diritto a percepire senza rateizzazione l'indennita' di buona uscita, in vista della futura liquidazione e del futuro pagamento in forma rateale» (pag. 2 della memoria di costituzione), mentre «il provvedimento che si assume lesivo non [sarebbe] ancora intervenuto, non essendo ancora scaduti i termini per la liquidazione della buona uscita...» e, allo stato, il pregiudizio sarebbe «meramente futuro e ipotetico» (pag. 3 della memoria di costituzione). Al riguardo, occorre rilevare come, nel caso di specie, l'oggetto del giudizio non si sostanzia in un'azione di annullamento del provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, bensi' in una mera azione di accertamento di un diritto soggettivo e, segnatamente, del diritto del ricorrente alla corresponsione della prestazione a lui spettante senza dilazioni e rateizzazioni. Orbene, tralasciando i casi in cui la domanda di accertamento e' contemplata dal codice del processo amministrativo (cfr. articoli 31 e 34, comma 3, c.p.a.), si deve ribadire che sin dai primi tempi di applicazione della disciplina processuale la giurisprudenza amministrativa - con la sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 13 luglio 2022, n. 8 - ha affermato che, nel contesto dell'atipicita' dei rimedi giurisdizionali, risulta ammissibile in via generale la domanda di accertamento, sussistendo un adeguato interesse. Invero, la garanzia di tutela giurisdizionale prevista dagli articoli 24, 103 e 113 della Carta costituzionale impone anche per gli interessi legittimi, come pacificamente ritenuto nel processo civile per i diritti soggettivi, l'esperibilita' dell'azione di accertamento autonomo, con particolare riguardo a tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti indispensabile per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente. La mancata previsione, nel testo finale del codice, di una norma esplicita sull'azione generale di accertamento, non puo' essere considerata sintomatica della volonta' legislativa di sancire una preclusione di dubbia costituzionalita', ma e' spiegabile, anche alla luce degli elementi ricavabili dai lavori preparatori, con la considerazione che le azioni tipizzate, idonee a conseguire statuizioni dichiarative, di condanna e costitutive, consentono di norma una tutela idonea ed adeguata che non ha bisogno di pronunce meramente dichiarative in cui la funzione di accertamento non si appalesa strumentale all'adozione di altra pronuncia di cognizione ma si presenta, per cosi' dire, allo stato puro, ossia senza sovrapposizione di altre funzioni. Ne deriva, di contro, che, ove dette azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il bisogno di tutela, l'azione di accertamento atipica, ove sorretta da un interesse ad agire concreto ed attuale ex art. 100, del codice di procedura civile, risulta praticabile in forza delle coordinate costituzionali ed europee. Nel caso in esame, peraltro, si chiede la tutela di diritti soggettivi in materia di pubblico impiego non contrattualizzato, e quindi in ambito di giurisdizione esclusiva amministrativa, con l'ovvia conseguenza che l'azione di accertamento deve essere senz'altro ammessa, negli stessi limiti in cui essa sarebbe ammissibile in un processo civile, avente per oggetto situazioni soggettive similari. Il sig. M. ha, in sostanza, correttamente dedotto la lesione della propria posizione giuridica sostanziale, indicando tutti gli elementi di diritto e di fatto posti a fondamento della domanda di accertamento rispetto alla quale risulta titolare di un interesse qualificato e differenziato legittimante l'azione. Parimenti del tutto infondata e' l'eccezione di inammissibilita' per impugnazione diretta delle norme ritenute incostituzionali. In realta', il ricorrente ha chiesto l'accertamento del proprio diritto a ottenere il pagamento immediato e integrale del trattamento di fine servizio e, al fine di dimostrare le proprie pretese, ha dedotto l'illegittimita' costituzionale delle norme che ne disciplinano la corresponsione. Passando all'esame del merito del ricorso occorre previamente esaminare la questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla parte ricorrente. Le disposizioni della cui compatibilita' con la Costituzione si dubita stabiliscono che «1. Il trattamento pensionistico dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni, compresi quelli di cui ai commi 4 e 5 dell'art. 2 dello stesso decreto legislativo, e' corrisposto in via definitiva entro il mese successivo alla cessazione dal servizio. In ogni caso l'ente erogatore, entro la predetta data, provvede a corrispondere in via provvisoria un trattamento non inferiore al 90 per cento di quello previsto, fatte salve le disposizioni eventualmente piu' favorevoli. 2. Alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, per i dipendenti di cui al comma 1, loro superstiti o aventi causa, che ne hanno titolo, l'ente erogatore provvede decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di eta' o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianita' massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell'amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. Alla corresponsione agli aventi diritto l'ente provvede entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi» (art. 3 del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 convertito con modificazioni dalla legge 28 maggio 1997, n. 140). «7. A titolo di concorso al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall'aggiornamento del programma di stabilita' e crescita, dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento, con riferimento ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3, dell'art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 il riconoscimento dell'indennita' di buonuscita, dell'indennita' premio di servizio, del trattamento di fine rapporto e di ogni altra indennita' equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall'impiego e' effettuato: a) in un unico importo annuale se l'ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, e' complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro; b) in due importi annuali se l'ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, e' complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro. In tal caso il primo importo annuale e' pari a 50.000 euro e il secondo importo annuale e' pari all'ammontare residuo; c) in tre importi annuali se l'ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, e' complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro, in tal caso il primo importo annuale e' pari a 50.000 euro, il secondo importo annuale e' pari a 50.000 euro e il terzo importo annuale e' pari all'ammontare residuo» (art. 12, comma 7, decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122). Le norme in questione, per la loro chiarezza testuale, non si prestano a interpretazioni adeguatrici o costituzionalmente orientate, comportando il rigetto del ricorso con conseguente dilazione del termine del pagamento delle somme spettanti al pubblico dipendente per effetto della cessazione del rapporto di servizio, potendo quindi essere soltanto assoggettate allo scrutinio di legittimita' costituzionale. Tali elementi fondano, innanzitutto, il presupposto della rilevanza della questione, ai sensi dell'art. 23, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo il quale e' necessario che «il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale» della norma primaria contestata. Parimenti, il conflitto delle norme in esame con il principio di giusta retribuzione e di tutela della sfera patrimoniale del lavoratore, radicato nell'art. 36 della Costituzione e nell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione al parametro interposto dell'art. 1 del protocollo n. 1, CEDU, si presenta, ad avviso di questo Collegio, «non manifestamente infondato», ai sensi del medesimo art. 23 della legge n. 87/1953. E' opinione di questo Tribunale che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli articoli 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito con modificazioni dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell'art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per contrasto con l'art. 36 e l'art. 117, comma primo, della Carta costituzionale in relazione al parametro interposto dell'art. 1 del protocollo n. 1 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952). Con precedente ordinanza di rimessione (17 maggio 2022, n. 6223) questo Tribunale (Sezione terza quater) ha sollevato, per contrasto all'art. 36 della Costituzione, la medesima questione di legittimita' costituzionale, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento proprio agli articoli 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito con modificazioni dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita' economica), convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122. Il dubbio di incompatibilita' tra gli articoli 3, comma 2, del decreto-legge n. 79/1997 e 12, comma 7, del decreto-legge n. 78/2010, e l'art. 36 della Costituzione e' stato alimentato dall'esame della giurisprudenza della Corte costituzionale, con particolare riguardo alla sentenza n. 159 del 25 giugno 2019, che, nel ritenere non fondate le eccezioni di incostituzionalita' degli articoli sopra detti con particolare riguardo ai lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di eta' o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, ha ritenuto che «La disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l'aveva giustificata. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di eta' e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennita' di fine rapporto, conquistate "attraverso la prestazione dell'attivita' lavorativa e come frutto di essa" (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignita' della persona umana». Secondo la giurisprudenza della Corte le indennita' di fine rapporto «costituiscono parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione viene differita - appunto in funzione previdenziale - onde agevolare il superamento delle difficolta' economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione» (sentenza n. 458/2005), ritenendosi, in sostanza, l'essenziale natura di retribuzione differita collegata a una concorrente funzione previdenziale (cfr. sentenza n. 438/2005). L'art. 36 della Costituzione statuisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualita' e quantita' del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare e a se' ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. La retribuzione, pertanto, da una parte, non deve mai perdere il suo collegamento con la prestazione lavorativa svolta e, dall'altro, deve essere adeguata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 della Carta costituzionale, avendo a riguardo non solo alla entita' della retribuzione, ma anche alla tempestivita' della sua corresponsione. E' infatti evidente che una retribuzione corrisposta con ampio ritardo ha per il lavoratore una utilita' inferiore a quella corrisposta tempestivamente. Proprio il carattere di retribuzione differita riconosciuta alle indennita' di fine rapporto, comporta la necessita' che anche queste ultime debbano essere corrisposte tempestivamente e non possano essere diluite strutturalmente oltre la fuoriuscita dal mondo del lavoro. Cio' a maggior ragione se si considera che, notoriamente, il lavoratore, sia pubblico che privato, specie se in eta' avanzata, in molti casi si propone - proprio attraverso l'integrale e immediata percezione di detto trattamento - di recuperare una somma gia' spesa o in via di erogazione per le principali necessita' di vita, ovvero di fronteggiare o adempiere in modo definitivo ad impegni finanziari gia' assunti, magari da tempo. E' poi da ricordare che la Corte ha piu' volte affermato il principio per il quale una misura quale quella in esame, per superare lo scrutinio di costituzionalita', non puo' riguardare un arco temporale indefinito, ma deve essere giustificato da una crisi contingente e deve atteggiarsi quale misura una tantum (sentenze n. 178 del 2015 e n. 173 del 2016). La misura in questione, al contrario, pur legata a una situazione di crisi contingente non ha una durata prestabilita ma ha assunto un carattere strutturale. Infatti, l'art. 3 del decreto-legge n. 79 del 1997 ha previsto dapprima un termine minimo di sei mesi per la liquidazione delle indennita' di fine servizio; termine che l'art. 1, comma 22, lettera a), del decreto-legge n. 138 del 2011 ha fissato in sei mesi per il solo caso di pensionamento di vecchiaia e ha innalzato a ventiquattro mesi per l'ipotesi di un pensionamento di anzianita'. Il termine di sei mesi, sancito per i pensionamenti di vecchiaia, e' stato innalzato a dodici mesi dall'art. 1, comma 484, lettera b), della legge n. 147 del 2013, mentre resta immutato il termine minimo di ventiquattro mesi per le indennita' di fine servizio corrisposte per il caso di pensionamenti anticipati. Vige poi sempre un ulteriore termine di tre mesi per l'effettiva erogazione: solo quando sia decorso infruttuosamente tale ultimo termine, sono dovuti gli interessi. L'art. 12, comma 7, del decreto-legge n. 78 del 2010 - a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 484, lettera a), della legge n. 147 del 2013 - ha previsto un meccanismo di rateizzazione, articolato secondo soglie piu' elevate rispetto a quelle oggi vigenti (una rata annuale per le indennita' fino a 50.000,00 euro; due rate annuali oltre i 50.000,00 e fino ai 100.000,00 euro; tre rate annuali per le indennita' di importo che e' pari o superiore ai 100.000,00 euro). Con la legge di stabilita' per il 2014, con l'art. 1, comma 484, in sostanza, si e' aggravato il sacrificio imposto con il differimento gia' stabilito nel 1997, ampliando a dodici mesi il termine minimo per la liquidazione delle indennita' di fine servizio e prevedendo un meccanismo di rateizzazione che penalizza oltremodo i beneficiari dei trattamenti in esame, perche' e' piu' gravoso rispetto a quello stabilito dal decreto-legge n. 78 del 2010 nella sua originaria versione. Dall'esame della sentenza n. 130 del 23 giugno 2023 adottata dalla Consulta a seguito della citata ordinanza di rimessione (Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - Roma - Sezione III quater - 17 maggio 2022, n. 6223) si evince che l'Istituto previdenziale dichiara di farsi carico del monito espresso dal giudice delle leggi nella precedente sentenza n. 159 del 2019, con la quale si e' rilevato che, nei casi in cui sono raggiunti i limiti di eta' e di servizio, la duplice funzione, retributiva e previdenziale, delle indennita' di cui si tratta rischia di essere compromessa, in contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignita' della persona. Evidenzia l'Istituto che successivamente a tale pronuncia, sono stati adottati il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 22 aprile 2020, n. 51 (Regolamento in materia di anticipo del TFS/TFR, in attuazione dell'art. 23, comma 7, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26), contenente le modalita' di attuazione delle disposizioni di cui all'art. 23 del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, nonche' il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 19 agosto 2020, relativo all'approvazione dell'accordo quadro per il finanziamento dell'anticipo della liquidazione dell'indennita' di fine servizio comunque determinata, secondo quanto previsto dall'art. 23, comma 2, del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, accordo siglato tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell'economia e delle finanze, il Ministro per la pubblica amministrazione e l'Associazione bancaria italiana. Espone, ancora, l'INPS che gli atti citati consentono ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) - che cessano o sono cessati dal servizio con diritto a pensione per raggiungimento dei requisiti previsti dall'art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, o con diritto a pensione al raggiungimento della cosiddetta «quota 100» come previsto dall'art. 14 del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito - di presentare a banche ed intermediari finanziari richiesta di finanziamento per una somma pari all'importo dell'indennita' di fine servizio maturata, nella misura massima di 45.000 euro ovvero all'importo spettante qualora la predetta indennita' sia di importo inferiore. In aggiunta, lo stesso sottolinea che, con deliberazione del consiglio di amministrazione dell'INPS 9 novembre 2022, n. 219, e' stata istituita una nuova prestazione a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali, avente ad oggetto l'anticipazione ordinaria delle somme spettanti ai dipendenti pubblici a titolo di trattamento di fine servizio o di trattamento di fine rapporto. Sennonche' le misure appena illustrate risultano inadeguate, in quanto - come sancito anche dal giudice delle leggi nella successiva sentenza n. 130 del 23 giugno 2023 intervenuta a seguito della citata ordinanza di rimessione - non si registra, allo stato, una riforma organica specificamente volta a porre rimedio al vulnus costituzionale riscontrato. Non puo', infatti, ritenersi tale la disciplina dell'anticipazione della prestazione dettata dall'art. 23 del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, ai sensi del quale e' possibile richiedere il finanziamento di una somma, pari all'importo massimo di 45.000 euro, dell'indennita' di fine servizio maturata, garantito dalla cessione pro solvendo del credito avente ad oggetto l'emolumento, dietro versamento di un tasso di interesse fissato dall'art. 4, comma 2, del decreto ministeriale 19 agosto 2020 in misura pari al rendimento medio dei titoli pubblici (Rendistato) maggiorato dello 0,40 per cento. Analoghe considerazioni, peraltro, possono essere svolte in merito all'anticipazione istituita con la deliberazione del consiglio di amministrazione dell'INPS 9 novembre 2022, n. 219. Essa e' prevista a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali e consente di usufruire di un finanziamento pari all'intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse pari all'1 per cento fisso, unitamente alle spese di amministrazione in misura pari allo 0,50 per cento dell'importo, dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine rapporto; a cio' si aggiunga che si registra la definitiva chiusura dell'accesso alla misura per gli iscritti al Fondo credito. Le normative richiamate investono, infatti, solo indirettamente la disciplina dei tempi di corresponsione delle spettanze di fine servizio. Esse non apportano alcuna modifica alle norme in scrutinio, ma si limitano a riconoscere all'avente diritto la facolta' di evitare la percezione differita dell'indennita' accedendo pero' al finanziamento oneroso delle stesse somme dovutegli a tale titolo. Il legislatore non ha, dunque, ancora espunto dal sistema il meccanismo dilatorio all'origine della riscontrata violazione, ne' si e' fatto carico della spesa necessaria a ripristinare l'ordine costituzionale violato, ma ha riversato sullo stesso lavoratore il costo della fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantita' e alla qualita' del lavoro, e' parte del compenso dovuto per il servizio prestato (sentenza n. 106 del 1996). Nello specifico, con la citata sentenza n. 130 del 23 giugno 2023 la Corte costituzionale ha scrutinato la questione di legittimita' costituzionale in riferimento all'art. 36 della Costituzione, evidenziando che la legittimita' costituzionale delle norme dalle quali possa scaturire una restrizione dei diritti patrimoniali del lavoratore e' condizionata alla rigorosa delimitazione temporale dei sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali devono essere «eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso» (ordinanza n. 299 del 1999), e come il termine dilatorio di dodici mesi quale risultante dall'art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1997 convertito nella legge gia' citata, ad oggi non rispetti piu' ne' il requisito della temporaneita', ne' i limiti posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalita'. Si tratta di una previsione che non costituisce piu' un intervento urgente di riequilibrio finanziario ma di una misura avente carattere strutturale che ha dunque perso la sua originaria ragionevolezza. La perdurante dilatazione dei tempi di corresponsione delle indennita' di fine servizio rischia di vanificare anche la funzione previdenziale, in quanto contrasta con la particolare esigenza di tutela avvertita dal dipendente al termine dell'attivita' lavorativa cui deve ulteriormente aggiungersi il fatto che la dilazione non e' controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione monetaria e dunque incide in maniera rilevante sulla consistenza economica della prestazione, stante anche il sensibile incremento della pressione inflazionistica del quadro macroeconomico attuale e posto che, ai sensi dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1997, allo scadere del termine annuale e di quello ulteriore di tre mesi sono dovuti i soli interessi di mora. La Corte costituzionale ha dunque concluso, pur dichiarando inammissibili le questioni sottoposte, con la considerazione che, per porre rimedio alla situazione sopra evidenziata, occorre un intervento del legislatore affinche' trovi una soluzione che miri a superare il differimento della liquidazione e del pagamento delle indennita' di fine servizio, in ossequio ai principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalita', e che si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri. Allo stato, pero', non risulta adottata alcuna organica revisione dell'intera materia, peraltro indicata come indifferibile negli ultimi anni nell'ambito del dibattito parlamentare, registrandosi solo un'iniziativa legislativa (C. 1254 sulla riduzione dei termini per la liquidazione del trattamento di fine servizio dei dipendenti delle amministrazioni) volta a sancire la riduzione del termine dilatorio per la liquidazione nei casi di cessazione dal servizio (anche a seguito di collocamento a riposo d'ufficio) per raggiungimento dei limiti di eta' o di servizio e la rivalutazione delle fasce di importo per l'erogazione rateale dei medesimi trattamenti. Come riportato nella relazione illustrativa, la proposta di legge intende adempiere al monito espresso dalla Corte costituzionale che, nella gia' indicata sentenza n. 130 del 2023, ha rilevato come la ridefinizione delle norme relative al termine dilatorio di differimento dei trattamenti in questione (con limitato riferimento ai trattamenti spettanti nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di eta' o di servizio, o per collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianita' massima di servizio), nonche' al riconoscimento secondo modalita' rateali dei medesimi trattamenti che superino un determinato importo, deve essere operata dal legislatore, mediante scelte discrezionali di rimodulazione che tengano conto del differimento generale del termine di liquidazione; in ogni caso, per tale proposta non sembra che l'iter legislativo di approvazione risulti efficacemente avviato con conseguente violazione reiterata del dettato costituzionale (sentenze gia' citate, n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023). Poste tali premesse, si puo' ritenere che - come sostenuto dal giudice delle leggi - la previsione di un pagamento rateale comprima in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell'art. 36 della Carta, non essendo sorretta dal carattere contingente, ma al contrario avendo carattere strutturale. La retribuzione, pertanto, da una parte, non deve mai perdere il suo collegamento con la prestazione lavorativa svolta e, dall'altro, deve essere adeguata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 della Carta, con riferimento non solo alla entita' della retribuzione, ma anche alla tempestivita' della sua corresponsione. E' infatti evidente che una retribuzione corrisposta con ampio ritardo ha per il lavoratore una utilita' inferiore a quella corrisposta tempestivamente. Proprio il carattere di retribuzione differita riconosciuta alle indennita' di fine rapporto comporta la necessita' che anche queste ultime debbano essere corrisposte tempestivamente e non possano essere diluite strutturalmente oltre la fuoriuscita dal mondo del lavoro. Come e' noto, il lavoratore, sia pubblico che privato, specie se in eta' avanzata, in molti casi si propone - proprio attraverso l'integrale e immediata percezione di detto trattamento - di recuperare una somma gia' spesa o in via di erogazione per le principali necessita' di vita, ovvero di fronteggiare o adempiere in modo definitivo ad impegni finanziari gia' assunti, magari da tempo. La Corte costituzionale ha piu' volte affermato il principio per il quale una misura quale quella in esame, per superare lo scrutinio di costituzionalita', non puo' riguardare un arco temporale indefinito, ma deve essere giustificato da una crisi contingente e deve atteggiarsi quale misura una tantum (sentenze n. 178 del 2015 e n. 173 del 2016). Peraltro, non puo' non rilevarsi il contrasto con l'art. 117, comma primo, della Costituzione, in relazione al parametro interposto dell'art. 1 protocollo n. 1 alla CEDU (concernente il diritto al rispetto della proprieta', tra cui rientra anche la tutela dei diritti di credito) posto che - per costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Fabian c. Ungheria [GC], n. 78117/13, 5 settembre 2017; Stefanetti, n. 21838/10, 15 settembre 2014) - le pensioni e conseguentemente anche il trattamento di fine servizio maturato per effetto della vita lavorativa costituiscono un «bene» ai sensi della Convenzione. Secondo le norme generali applicabili, il diritto matura ed entra a far parte del patrimonio del titolare al momento in cui si soddisfano i requisiti per il pensionamento (collocamento a riposo per raggiunti limiti di eta' o di servizio). Nel caso di specie il differimento e la rateazione del trattamento di fine servizio di cui alla normativa in oggetto e' tale da pregiudicare l'essenza dei diritti pensionistici del soggetto, trattandosi di misura ormai divenuta definitiva e strutturale, che va a violare il disposto dell'art. 1, prot. n. 1, CEDU laddove il trattamento di fine servizio costituisce espressione di una legittima aspettativa della persona, gia' entrata a far parte del suo patrimonio per effetto del raggiungimento dei requisiti necessari. Sul punto, non puo' non richiamarsi la delicata questione sorta con riferimento ai diritti finanziariamente condizionati con riferimento all'esigibilita' dei diritti nei «limiti delle risorse disponibili» (cfr. sentenza della Corte costituzionale 16 dicembre 2016, n. 275). La Corte delle leggi ha chiarito in questa importante pronuncia che e' «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l'equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione». Nella sostanza, neppure in materia finanziaria esiste «un limite assoluto alla cognizione del giudice di costituzionalita' delle leggi», in quanto l'avvenuto inserimento del principio di pareggio di bilancio in Costituzione ne comporta l'inserimento «nella tavola complessiva dei valori costituzionali», per cui «non si puo' ipotizzare che la legge di approvazione del bilancio o qualsiasi altra legge incidente sulla stessa costituiscano una zona franca sfuggente a qualsiasi sindacato del giudice di costituzionalita', dal momento che non vi puo' essere alcun valore costituzionale la cui attuazione possa essere ritenuta esente dalla inviolabile garanzia rappresentata dal giudizio di legittimita' costituzionale». Orbene, la previsione di un pagamento rateale del TFS non puo' essere arbitrariamente differito e reso incerto da previsioni legislative, le quali - seppur inserite in manovre finanziarie volte a sopperire a contingenti esigenze di riequilibrio finanziario - finiscono cosi' con l'incidere su beni e diritti dei lavoratori pubblici che godono di tutela piena ed incondizionata, con conseguente sacrificio della sua effettivita', in violazione dell'art. 36 della Costituzione, che sancisce il criterio di proporzionalita' della retribuzione, e dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, alla luce delle norme della Convenzione europea, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, che tutelano la sfera patrimoniale del lavoratore a garanzia della dignita' della persona umana. Il giudizio presente va quindi sospeso, con trasmissione, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, degli atti alla Corte costituzionale, affinche' decida della questione di legittimita' costituzionale che, con la presente ordinanza, incidentalmente si pone. P.Q.M. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Sezione quinta): Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente; Sospende il giudizio e, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale affinche' si pronunci sulla questione di legittimita' costituzionale degli articoli 3, comma 2, del decreto-legge n. 79/1997 e 12, comma 7, del decreto-legge n. 78/2010, per contrasto con l'art. 36 della Costituzione e l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 1 del protocollo n. 1 alla CEDU; Dispone la comunicazione della presente ordinanza alle parti in causa, nonche' la sua notificazione al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati; Rinvia ogni ulteriore statuizione all'esito del giudizio incidentale promosso con la presente ordinanza. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignita' della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalita'. Cosi' deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 10 gennaio 2025 con l'intervento dei magistrati: Leonardo Spagnoletti - Presidente; Virginia Arata - referendario; Ida Tascone - referendario, estensore. Il Presidente: Spagnoletti L'estensore: Tascone