Reg. ord. n. 61 del 2025 pubbl. su G.U. del 16/04/2025 n. 16

Ordinanza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio  del 25/02/2025

Tra: S. M.  C/ Istituto nazionale della previdenza sociale - INPS



Oggetto:

Previdenza – Impiego pubblico – Trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età – Prevista corresponsione decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro – Riconoscimento del trattamento secondo un meccanismo di rateizzazione, differentemente articolato in base all’ammontare complessivo della prestazione – Denunciata previsione di un pagamento rateale e differito che comprime in modo irragionevole e sproporzionato i diritti dei lavoratori pubblici, non sorretta dal carattere contingente, ma essendo al contrario strutturale – Incidenza su beni e diritti dei lavoratori pubblici che godono di tutela piena e incondizionata – Lesione del diritto del lavoratore a una retribuzione sufficiente e proporzionata all’attività lavorativa svolta – Violazione degli obblighi internazionali, come declinati dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, che tutelano la sfera patrimoniale del lavoratore a garanzia della dignità della persona umana.

Norme impugnate:

decreto-legge  del 28/03/1997  Num. 79  Art. 3  Co. 2

legge  del 28/05/1997  Num. 140

decreto-legge  del 31/05/2010  Num. 78  Art. 12  Co. 7

legge  del 30/07/2010  Num. 122



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art. 36   Co.  

Costituzione  Art. 117   Co.

Protocollo addizionale alla Convenzione europea diritti dell'uomo  Art.  Co.  




Testo dell'ordinanza

                        N. 61 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 febbraio 2025

Ordinanza del 25 febbraio 2025 del Tribunale amministrativo regionale
per il Lazio sul ricorso proposto da S. M. contro Istituto  nazionale
della previdenza sociale - INPS. 
 
Previdenza  -  Impiego  pubblico  -  Trattamenti  di  fine  servizio,
  comunque denominati, spettanti nei casi di cessazione dal  servizio
  per raggiungimento dei limiti di  eta'  -  Prevista  corresponsione
  decorsi dodici mesi dalla  cessazione  del  rapporto  di  lavoro  -
  Riconoscimento   del   trattamento   secondo   un   meccanismo   di
  rateizzazione, differentemente  articolato  in  base  all'ammontare
  complessivo della prestazione. 
- Decreto-legge  28  marzo  1997,  n.  79  (Misure  urgenti  per   il
  riequilibrio   della    finanza    pubblica),    convertito,    con
  modificazioni, nella legge 28 maggio  1997,  n.  140  e  successive
  modifiche e integrazioni, art. 3, comma 2; decreto-legge 31  maggio
  2010,  n.  78  (Misure  urgenti  in  materia   di   stabilizzazione
  finanziaria  e  di  competitivita'  economica),   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 30 luglio  2010,  n.  122  e  successive
  modifiche e integrazioni, art. 12, comma 7. 


(GU n. 16 del 16-04-2025)

 
         IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO 
 
 
                           Sezione quinta 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 10270 del 2024, proposto da S. M., rappresentato  e
difeso dall'avvocato Pietro Frisani, con domicilio digitale  come  da
pec da registri di giustizia; 
    Contro INPS - Istituto nazionale previdenza sociale,  in  persona
del presidente pro  tempore,  rappresentato  e  difeso  dall'avvocato
Flavia Incletolli, con domicilio digitale come da pec da registri  di
giustizia; 
    Per l'accertamento - previa  dichiarazione  di  rilevanza  e  non
manifesta    infondatezza    della    questione    di    legittimita'
costituzionale,  rimettendo  gli  atti  del   giudizio   alla   Corte
costituzionale   sulla   prospettata   questione   di    legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997,
n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio  della  finanza  pubblica),
convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140,  e
successive modifiche e dell'art. 12, comma 7,  del  decreto-legge  31
maggio 2010, n. 78 (Misure  urgenti  in  materia  di  stabilizzazione
finanziaria  e  di   competitivita'   economica),   convertito,   con
modificazioni, nella legge 30  luglio  2010,  n.  122,  e  successive
modifiche, con riferimento all'art. 36 della Costituzione e  all'art.
1, protocollo 1, CEDU - del diritto del ricorrente in quanto  cessato
dal servizio per raggiunti limiti di eta' in data 30 settembre 2023 a
percepire l'intero importo del TFS ancora da corrispondere  da  parte
dell'Istituto previdenziale senza dilazioni e senza  rateizzazione  e
la condanna del resistente a corrispondere senza  dilazione  l'intero
importo ancora dovuto, oltre interessi e rivalutazione  dal  di'  del
dovuto sino al saldo. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visto  l'atto   di   costituzione   in   giudizio   dell'Istituto
previdenziale; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nell'udienza pubblica del  giorno  10  gennaio  2025  la
dott.ssa  Ida  Tascone  e  uditi  per  le  parti  i  difensori   come
specificato nel verbale; 
    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. 
    Il  ricorrente,  ex  dipendente  del  Ministero  dell'interno   -
Questura  di  Roma,  collocato  in  quiescenza  a  decorrere  dal  30
settembre 2023, ha chiesto che  venga  accertato  il  suo  diritto  a
percepire il trattamento di fine  servizio  (d'ora  in  poi  TFS  per
brevita') senza dilazioni e  senza  rateizzazioni  e  ha  chiesto  la
condanna dell'Istituto previdenziale a corrispondere senza  dilazione
l'intero importo ancora dovuto oltre interessi e rivalutazione. 
    In particolare, il ricorrente ha dedotto in fatto che  il  TFS  a
lui spettante  dovrebbe  essere  determinato  nella  misura  di  euro
99.675,05 - come da prospetto di simulazione estratto dal sito MyINPS
- e che detta somma, essendo superiore ad euro  50.000,00,  ai  sensi
dell'art. 1, comma 484, della  legge  n.  147/2013,  dovrebbe  essere
corrisposta allo stesso in due rate, la  prima  al  1°  gennaio  2025
(ovvero nel terzo mese successivo all'acquisito del diritto  avvenuto
a seguito del decorso del termine di dodici mesi dalla cessazione dal
servizio in data 1° ottobre 2024) e la seconda al 1° gennaio 2026. 
    Con memoria depositata nei termini  dell'art.  73,  c.p.a.  viene
precisato  che  «solo  in  data  22  ottobre  2024,  quindi  dopo  la
presentazione  del  ricorso,  l'INPS  ha  disposto  con  bonifico  il
pagamento in favore del sig. M. di una  singola  e  parziale  tranche
della  prestazione  (euro  43.649,30,  somma  peraltro  inferiore  ai
50.000,00 euro previsti dalla legge)». 
    Il ricorrente, nel motivare in ordine  alla  propria  pretesa  di
vedersi riconosciuto il trattamento di  fine  servizio,  ha  rilevato
l'illegittimita' costituzionale delle norme  che  hanno  disposto  la
rateizzazione chiedendo la sospensione del  presente  giudizio  e  la
rimessione degli atti innanzi alla Corte costituzionale. 
    L'Istituto  previdenziale  si  e'  costituito  in  giudizio   con
apposita memoria ed ha eccepito il difetto  di  legittimazione  e  la
carenza di interesse del ricorrente, nonche' l'inammissibilita' della
domanda in quanto, cosi' come formulata, si risolve  nella  richiesta
di annullamento di un provvedimento di rango formalmente legislativo,
che esula dalle attribuzioni del  giudice  amministrativo;  ha,  poi,
dedotto  l'infondatezza  della  domanda  perche'  le   modalita'   di
pagamento  adottate  sarebbero   pienamente   conformi   al   dettato
normativo. 
    Alla pubblica udienza del 10 gennaio 2025  il  ricorso  e'  stato
trattenuto in decisione. 
    In  via  preliminare  occorre  esaminare   l'eccezione   spiegata
dall'Istituto previdenziale in ordine alla carenza di  legittimazione
e dell'interesse a ricorrere dell'istante, che risulta destituita  di
fondamento. 
    In  particolare,  la  parte   resistente   lamenta   la   mancata
impugnazione di un provvedimento da parte del ricorrente,  posto  che
lo stesso si sarebbe limitato a chiedere «l'accertamento del  proprio
diritto a percepire senza rateizzazione l'indennita' di buona uscita,
in vista della futura liquidazione e del futuro  pagamento  in  forma
rateale»  (pag.  2  della  memoria  di  costituzione),   mentre   «il
provvedimento che si assume lesivo non [sarebbe] ancora  intervenuto,
non essendo ancora scaduti i termini per la liquidazione della  buona
uscita...» e, allo stato, il pregiudizio sarebbe «meramente futuro  e
ipotetico» (pag. 3 della memoria di costituzione). 
    Al riguardo, occorre rilevare come, nel caso di specie, l'oggetto
del giudizio non  si  sostanzia  in  un'azione  di  annullamento  del
provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, bensi' in una mera
azione di accertamento di un diritto soggettivo e, segnatamente,  del
diritto del ricorrente alla corresponsione della  prestazione  a  lui
spettante senza dilazioni e rateizzazioni. 
    Orbene, tralasciando i casi in cui la domanda di accertamento  e'
contemplata dal codice del processo amministrativo (cfr. articoli  31
e 34, comma 3, c.p.a.), si deve ribadire che sin dai primi  tempi  di
applicazione   della   disciplina   processuale   la   giurisprudenza
amministrativa - con la sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato del 13 luglio 2022, n. 8 - ha affermato  che,  nel  contesto
dell'atipicita' dei rimedi giurisdizionali,  risulta  ammissibile  in
via generale la domanda  di  accertamento,  sussistendo  un  adeguato
interesse. 
    Invero, la garanzia  di  tutela  giurisdizionale  prevista  dagli
articoli 24, 103 e 113 della Carta costituzionale  impone  anche  per
gli interessi legittimi, come  pacificamente  ritenuto  nel  processo
civile per  i  diritti  soggettivi,  l'esperibilita'  dell'azione  di
accertamento autonomo, con particolare riguardo a  tutti  i  casi  in
cui, mancando  il  provvedimento  da  impugnare,  una  simile  azione
risulti indispensabile per la soddisfazione  concreta  della  pretesa
sostanziale del ricorrente. 
    La mancata previsione, nel testo finale del codice, di una  norma
esplicita sull'azione  generale  di  accertamento,  non  puo'  essere
considerata sintomatica della volonta'  legislativa  di  sancire  una
preclusione di dubbia costituzionalita', ma e' spiegabile, anche alla
luce  degli  elementi  ricavabili  dai  lavori  preparatori,  con  la
considerazione  che  le  azioni  tipizzate,   idonee   a   conseguire
statuizioni dichiarative, di condanna e  costitutive,  consentono  di
norma una tutela idonea ed adeguata che non ha  bisogno  di  pronunce
meramente dichiarative in cui la  funzione  di  accertamento  non  si
appalesa strumentale all'adozione di altra pronuncia di cognizione ma
si  presenta,  per  cosi'  dire,  allo  stato   puro,   ossia   senza
sovrapposizione di altre funzioni. Ne deriva,  di  contro,  che,  ove
dette azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente  il  bisogno
di tutela, l'azione di  accertamento  atipica,  ove  sorretta  da  un
interesse ad agire concreto ed attuale ex art.  100,  del  codice  di
procedura civile,  risulta  praticabile  in  forza  delle  coordinate
costituzionali ed europee. 
    Nel caso in esame, peraltro,  si  chiede  la  tutela  di  diritti
soggettivi in materia di pubblico impiego  non  contrattualizzato,  e
quindi in  ambito  di  giurisdizione  esclusiva  amministrativa,  con
l'ovvia  conseguenza  che  l'azione  di  accertamento   deve   essere
senz'altro  ammessa,  negli  stessi  limiti  in  cui   essa   sarebbe
ammissibile in un processo  civile,  avente  per  oggetto  situazioni
soggettive similari. 
    Il sig. M. ha, in  sostanza,  correttamente  dedotto  la  lesione
della propria posizione giuridica sostanziale,  indicando  tutti  gli
elementi di diritto e di fatto posti a fondamento  della  domanda  di
accertamento rispetto alla quale risulta  titolare  di  un  interesse
qualificato e differenziato legittimante l'azione. 
    Parimenti del tutto infondata e' l'eccezione di  inammissibilita'
per impugnazione diretta delle norme ritenute incostituzionali. 
    In realta', il ricorrente ha chiesto l'accertamento  del  proprio
diritto a ottenere il pagamento immediato e integrale del trattamento
di fine servizio e, al fine di  dimostrare  le  proprie  pretese,  ha
dedotto  l'illegittimita'   costituzionale   delle   norme   che   ne
disciplinano la corresponsione. 
    Passando all'esame del merito  del  ricorso  occorre  previamente
esaminare la questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla
parte ricorrente. 
    Le disposizioni della cui compatibilita' con la  Costituzione  si
dubita  stabiliscono  che  «1.  Il  trattamento   pensionistico   dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art.  1,  comma
2, del decreto legislativo  3  febbraio  1993,  n.  29  e  successive
modificazioni, compresi quelli di cui ai commi  4  e  5  dell'art.  2
dello stesso decreto legislativo, e' corrisposto  in  via  definitiva
entro il mese successivo alla cessazione dal servizio. In  ogni  caso
l'ente erogatore, entro la predetta data, provvede a corrispondere in
via provvisoria un trattamento non  inferiore  al  90  per  cento  di
quello previsto,  fatte  salve  le  disposizioni  eventualmente  piu'
favorevoli. 2. Alla liquidazione dei trattamenti  di  fine  servizio,
comunque denominati, per  i  dipendenti  di  cui  al  comma  1,  loro
superstiti o aventi causa, che  ne  hanno  titolo,  l'ente  erogatore
provvede decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del  rapporto  di
lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento  dei
limiti  di  eta'  o  di  servizio  previsti  dagli   ordinamenti   di
appartenenza,  per  collocamento  a  riposo  d'ufficio  a  causa  del
raggiungimento dell'anzianita' massima  di  servizio  prevista  dalle
norme di legge o  di  regolamento  applicabili  nell'amministrazione,
decorsi dodici mesi dalla cessazione del  rapporto  di  lavoro.  Alla
corresponsione agli aventi diritto l'ente provvede entro i successivi
tre mesi, decorsi i quali sono dovuti  gli  interessi»  (art.  3  del
decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 convertito con modificazioni dalla
legge 28 maggio 1997, n. 140). 
    «7. A titolo di concorso al  consolidamento  dei  conti  pubblici
attraverso il contenimento della dinamica della  spesa  corrente  nel
rispetto   degli   obiettivi    di    finanza    pubblica    previsti
dall'aggiornamento del programma di stabilita' e crescita, dalla data
di entrata in vigore del presente provvedimento, con  riferimento  ai
dipendenti   delle   amministrazioni   pubbliche   come   individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del  comma  3,
dell'art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196  il  riconoscimento
dell'indennita' di buonuscita, dell'indennita'  premio  di  servizio,
del  trattamento  di  fine  rapporto  e  di  ogni  altra   indennita'
equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata  spettante  a
seguito di cessazione a vario titolo dall'impiego e' effettuato: 
        a) in un unico importo  annuale  se  l'ammontare  complessivo
della prestazione, al lordo delle  relative  trattenute  fiscali,  e'
complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro; 
        b) in due importi annuali se  l'ammontare  complessivo  della
prestazione,  al  lordo  delle  relative   trattenute   fiscali,   e'
complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro.
In tal caso il primo importo annuale e'  pari  a  50.000  euro  e  il
secondo importo annuale e' pari all'ammontare residuo; 
        c) in tre importi annuali se  l'ammontare  complessivo  della
prestazione,  al  lordo  delle  relative   trattenute   fiscali,   e'
complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro, in  tal  caso  il
primo importo annuale e' pari  a  50.000  euro,  il  secondo  importo
annuale e' pari a 50.000 euro e il  terzo  importo  annuale  e'  pari
all'ammontare residuo» (art. 12, comma  7,  decreto-legge  31  maggio
2010, n. 78 convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio  2010,
n. 122). 
    Le norme in questione, per la loro  chiarezza  testuale,  non  si
prestano   a   interpretazioni   adeguatrici   o   costituzionalmente
orientate,  comportando  il  rigetto  del  ricorso  con   conseguente
dilazione del termine del pagamento delle somme spettanti al pubblico
dipendente per effetto della cessazione  del  rapporto  di  servizio,
potendo  quindi  essere  soltanto  assoggettate  allo  scrutinio   di
legittimita' costituzionale. 
    Tali  elementi  fondano,  innanzitutto,  il   presupposto   della
rilevanza della questione, ai sensi  dell'art.  23,  comma  2,  della
legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo il quale e'  necessario  che  «il
giudizio  non   possa   essere   definito   indipendentemente   dalla
risoluzione della questione  di  legittimita'  costituzionale»  della
norma primaria contestata. 
    Parimenti, il conflitto delle norme in esame con il principio  di
giusta  retribuzione  e  di  tutela  della  sfera  patrimoniale   del
lavoratore, radicato nell'art. 36 della Costituzione e nell'art. 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione al parametro interposto
dell'art. 1 del protocollo n. 1, CEDU,  si  presenta,  ad  avviso  di
questo  Collegio,  «non  manifestamente  infondato»,  ai  sensi   del
medesimo art. 23 della legge n. 87/1953. 
    E'  opinione  di  questo  Tribunale  che  sia  rilevante  e   non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
degli articoli 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo  1997,  n.  79,
convertito con modificazioni dalla legge 28 maggio 1997,  n.  140,  e
dell'art. 12, comma 7, del  decreto-legge  31  maggio  2010,  n.  78,
convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122,  per
contrasto con l'art. 36  e  l'art.  117,  comma  primo,  della  Carta
costituzionale in relazione al parametro interposto dell'art.  1  del
protocollo n. 1 alla Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma il 4  novembre
1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la  legge  4
agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del protocollo  addizionale  alla
Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952). 
    Con precedente ordinanza di rimessione (17 maggio 2022, n.  6223)
questo Tribunale (Sezione terza quater) ha sollevato,  per  contrasto
all'art. 36 della Costituzione, la medesima questione di legittimita'
costituzionale, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata,
con riferimento proprio agli articoli 3, comma 2,  del  decreto-legge
28 marzo 1997, n.  79  (Misure  urgenti  per  il  riequilibrio  della
finanza pubblica), convertito con modificazioni dalla legge 28 maggio
1997, n. 140, e 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n.  78
(Misure urgenti  in  materia  di  stabilizzazione  finanziaria  e  di
competitivita' economica), convertito con modificazioni  dalla  legge
30 luglio 2010, n. 122. 
    Il dubbio di incompatibilita' tra gli articoli 3,  comma  2,  del
decreto-legge n. 79/1997 e 12, comma 7, del decreto-legge n. 78/2010,
e l'art. 36 della Costituzione e' stato alimentato  dall'esame  della
giurisprudenza della Corte costituzionale, con  particolare  riguardo
alla sentenza n. 159 del  25  giugno  2019,  che,  nel  ritenere  non
fondate le eccezioni  di  incostituzionalita'  degli  articoli  sopra
detti con particolare riguardo ai lavoratori che non hanno  raggiunto
i limiti  di  eta'  o  di  servizio  previsti  dagli  ordinamenti  di
appartenenza, ha ritenuto che «La disciplina che ha  progressivamente
dilatato  i  tempi  di  erogazione  delle  prestazioni  dovute   alla
cessazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzonte  temporale
definito e la iniziale connessione con il  consolidamento  dei  conti
pubblici che l'aveva giustificata.  Con  particolare  riferimento  ai
casi in cui sono raggiunti i limiti di eta' e di servizio, la duplice
funzione  retributiva  e  previdenziale  delle  indennita'  di   fine
rapporto,  conquistate  "attraverso  la  prestazione   dell'attivita'
lavorativa e come frutto di essa" (sentenza n. 106  del  1996,  punto
2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere  compromessa,  in
contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la  giusta
retribuzione, anche differita, tutelano  la  dignita'  della  persona
umana». 
    Secondo la giurisprudenza  della  Corte  le  indennita'  di  fine
rapporto «costituiscono parte  del  compenso  dovuto  per  il  lavoro
prestato, la cui corresponsione viene differita - appunto in funzione
previdenziale -  onde  agevolare  il  superamento  delle  difficolta'
economiche che possono insorgere nel momento in  cui  viene  meno  la
retribuzione»  (sentenza  n.  458/2005),  ritenendosi,  in  sostanza,
l'essenziale  natura  di  retribuzione  differita  collegata  a   una
concorrente funzione previdenziale (cfr. sentenza n. 438/2005). 
    L'art. 36 della  Costituzione  statuisce  che  il  lavoratore  ha
diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualita'  e  quantita'
del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare e  a  se'  ed
alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. 
    La retribuzione, pertanto, da una parte, non deve mai perdere  il
suo collegamento con la prestazione lavorativa svolta e,  dall'altro,
deve essere adeguata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 della  Carta
costituzionale,  avendo  a  riguardo  non  solo  alla  entita'  della
retribuzione, ma anche alla tempestivita' della sua corresponsione. 
    E' infatti evidente che una retribuzione  corrisposta  con  ampio
ritardo  ha  per  il  lavoratore  una  utilita'  inferiore  a  quella
corrisposta tempestivamente. 
    Proprio il carattere di retribuzione differita riconosciuta  alle
indennita' di fine rapporto, comporta la necessita' che anche  queste
ultime debbano  essere  corrisposte  tempestivamente  e  non  possano
essere diluite strutturalmente oltre la  fuoriuscita  dal  mondo  del
lavoro. 
    Cio' a maggior ragione se  si  considera  che,  notoriamente,  il
lavoratore, sia pubblico che privato, specie se in eta' avanzata,  in
molti casi si propone - proprio attraverso  l'integrale  e  immediata
percezione di detto trattamento - di recuperare una somma gia'  spesa
o in via di erogazione per le principali necessita' di  vita,  ovvero
di fronteggiare o adempiere in modo definitivo ad impegni  finanziari
gia' assunti, magari da tempo. 
    E' poi da ricordare che la  Corte  ha  piu'  volte  affermato  il
principio per il quale una misura quale quella in esame, per superare
lo scrutinio  di  costituzionalita',  non  puo'  riguardare  un  arco
temporale indefinito,  ma  deve  essere  giustificato  da  una  crisi
contingente e deve atteggiarsi quale misura una tantum  (sentenze  n.
178 del 2015 e n. 173 del 2016). 
    La misura in questione, al contrario, pur legata a una situazione
di crisi contingente non ha una durata prestabilita ma ha assunto  un
carattere strutturale. 
    Infatti, l'art. 3 del decreto-legge n. 79 del  1997  ha  previsto
dapprima un termine minimo di sei  mesi  per  la  liquidazione  delle
indennita' di fine servizio; termine che l'art. 1, comma 22,  lettera
a), del decreto-legge n. 138 del 2011 ha fissato in sei mesi  per  il
solo caso di pensionamento di vecchiaia e ha innalzato a ventiquattro
mesi per l'ipotesi di un pensionamento di anzianita'. 
    Il termine di sei mesi, sancito per i pensionamenti di vecchiaia,
e' stato innalzato a dodici mesi dall'art. 1, comma 484, lettera  b),
della legge n. 147 del 2013, mentre resta immutato il termine  minimo
di ventiquattro mesi per le indennita' di fine  servizio  corrisposte
per il caso di pensionamenti anticipati. Vige poi sempre un ulteriore
termine di tre mesi  per  l'effettiva  erogazione:  solo  quando  sia
decorso  infruttuosamente  tale  ultimo  termine,  sono  dovuti   gli
interessi. 
    L'art. 12, comma 7, del decreto-legge n. 78 del 2010 - a  seguito
delle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 484, lettera a),  della
legge n. 147 del 2013 - ha previsto un meccanismo  di  rateizzazione,
articolato secondo soglie piu' elevate rispetto a quelle oggi vigenti
(una rata annuale per le indennita' fino a 50.000,00 euro;  due  rate
annuali oltre i 50.000,00 e fino ai 100.000,00 euro; tre rate annuali
per le indennita' di importo che e' pari o  superiore  ai  100.000,00
euro). 
    Con la legge di stabilita' per il 2014, con l'art. 1, comma  484,
in  sostanza,  si  e'  aggravato  il  sacrificio   imposto   con   il
differimento gia' stabilito nel 1997,  ampliando  a  dodici  mesi  il
termine minimo per la liquidazione delle indennita' di fine  servizio
e prevedendo un meccanismo di rateizzazione che penalizza oltremodo i
beneficiari  dei  trattamenti  in  esame,  perche'  e'  piu'  gravoso
rispetto a quello stabilito dal decreto-legge n. 78  del  2010  nella
sua originaria versione. 
    Dall'esame della sentenza n. 130  del  23  giugno  2023  adottata
dalla  Consulta  a  seguito  della  citata  ordinanza  di  rimessione
(Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - Roma - Sezione III
quater  -  17  maggio  2022,  n.  6223)  si  evince  che   l'Istituto
previdenziale dichiara  di  farsi  carico  del  monito  espresso  dal
giudice delle leggi nella precedente sentenza n. 159 del 2019, con la
quale si e' rilevato che, nei casi in cui sono raggiunti i limiti  di
eta' e di servizio, la duplice funzione, retributiva e previdenziale,
delle indennita' di cui si tratta rischia di essere  compromessa,  in
contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la  giusta
retribuzione, anche differita, tutelano la dignita' della persona. 
    Evidenzia l'Istituto che successivamente a tale  pronuncia,  sono
stati adottati il decreto del Presidente del Consiglio  dei  ministri
22 aprile 2020,  n.  51  (Regolamento  in  materia  di  anticipo  del
TFS/TFR, in attuazione dell'art. 23, comma 7,  del  decreto-legge  28
gennaio 2019, n. 4, convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  28
marzo 2019, n. 26),  contenente  le  modalita'  di  attuazione  delle
disposizioni di cui all'art. 23 del decreto-legge n. 4 del 2019, come
convertito,  nonche'  il  decreto  del  Ministro  per   la   pubblica
amministrazione   19   agosto   2020,    relativo    all'approvazione
dell'accordo  quadro  per  il   finanziamento   dell'anticipo   della
liquidazione dell'indennita' di fine servizio  comunque  determinata,
secondo quanto previsto dall'art. 23, comma 2, del decreto-legge n. 4
del 2019, come convertito, accordo siglato tra il Ministro del lavoro
e delle politiche sociali, il Ministro dell'economia e delle finanze,
il Ministro per la pubblica amministrazione e l'Associazione bancaria
italiana. 
    Espone,  ancora,  l'INPS  che  gli  atti  citati  consentono   ai
lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art.
1, comma 2, del decreto legislativo 30  marzo  2001,  n.  165  (Norme
generali  sull'ordinamento   del   lavoro   alle   dipendenze   delle
amministrazioni pubbliche) - che cessano o sono cessati dal  servizio
con diritto a pensione  per  raggiungimento  dei  requisiti  previsti
dall'art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201  (Disposizioni
urgenti per la crescita, l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti
pubblici), convertito, con modificazioni,  nella  legge  22  dicembre
2011, n. 214, o  con  diritto  a  pensione  al  raggiungimento  della
cosiddetta «quota 100» come previsto dall'art. 14  del  decreto-legge
n.  4  del  2019,  come  convertito  -  di  presentare  a  banche  ed
intermediari finanziari richiesta di finanziamento per una somma pari
all'importo dell'indennita' di fine servizio maturata,  nella  misura
massima di  45.000  euro  ovvero  all'importo  spettante  qualora  la
predetta indennita' sia di importo inferiore. 
    In aggiunta, lo stesso  sottolinea  che,  con  deliberazione  del
consiglio di amministrazione dell'INPS 9 novembre 2022,  n.  219,  e'
stata istituita una nuova prestazione a favore  degli  iscritti  alla
Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali,  avente  ad
oggetto l'anticipazione ordinaria delle somme spettanti ai dipendenti
pubblici a titolo di trattamento di fine servizio o di trattamento di
fine rapporto. 
    Sennonche' le misure appena illustrate risultano  inadeguate,  in
quanto - come sancito anche dal giudice delle leggi nella  successiva
sentenza n. 130 del 23 giugno 2023 intervenuta a seguito della citata
ordinanza di rimessione - non si registra, allo  stato,  una  riforma
organica   specificamente   volta   a   porre   rimedio   al   vulnus
costituzionale riscontrato. 
    Non    puo',    infatti,    ritenersi    tale    la    disciplina
dell'anticipazione  della  prestazione  dettata  dall'art.   23   del
decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, ai sensi del  quale  e'
possibile richiedere il finanziamento di una somma, pari  all'importo
massimo di 45.000 euro, dell'indennita' di  fine  servizio  maturata,
garantito dalla cessione pro solvendo del credito avente  ad  oggetto
l'emolumento, dietro versamento di  un  tasso  di  interesse  fissato
dall'art. 4, comma 2, del decreto  ministeriale  19  agosto  2020  in
misura pari al rendimento  medio  dei  titoli  pubblici  (Rendistato)
maggiorato dello 0,40 per cento. 
    Analoghe  considerazioni,  peraltro,  possono  essere  svolte  in
merito all'anticipazione istituita con la deliberazione del consiglio
di amministrazione  dell'INPS  9  novembre  2022,  n.  219.  Essa  e'
prevista  a  favore  degli  iscritti  alla  Gestione  unitaria  delle
prestazioni creditizie e  sociali  e  consente  di  usufruire  di  un
finanziamento pari all'intero ammontare del  trattamento  maturato  e
liquido, erogato al tasso di interesse pari all'1  per  cento  fisso,
unitamente alle spese di amministrazione in misura pari allo 0,50 per
cento dell'importo, dietro cessione pro solvendo della corrispondente
quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine
rapporto; a cio' si aggiunga che si registra la  definitiva  chiusura
dell'accesso alla misura per gli iscritti al Fondo credito. 
    Le normative richiamate investono, infatti,  solo  indirettamente
la disciplina dei tempi di corresponsione  delle  spettanze  di  fine
servizio. 
    Esse non apportano alcuna modifica alle norme in scrutinio, ma si
limitano a riconoscere all'avente diritto la facolta' di  evitare  la
percezione differita dell'indennita' accedendo pero' al finanziamento
oneroso delle stesse somme dovutegli a tale  titolo.  Il  legislatore
non ha, dunque, ancora espunto dal sistema  il  meccanismo  dilatorio
all'origine della riscontrata violazione,  ne'  si  e'  fatto  carico
della  spesa  necessaria  a  ripristinare   l'ordine   costituzionale
violato, ma ha riversato  sullo  stesso  lavoratore  il  costo  della
fruizione tempestiva di un emolumento che,  essendo  rapportato  alla
retribuzione e alla durata del rapporto e quindi,  attraverso  questi
due parametri, alla quantita' e alla qualita' del  lavoro,  e'  parte
del compenso dovuto per il servizio prestato  (sentenza  n.  106  del
1996). 
    Nello specifico, con la citata sentenza n. 130 del 23 giugno 2023
la Corte costituzionale ha scrutinato la  questione  di  legittimita'
costituzionale  in  riferimento  all'art.  36   della   Costituzione,
evidenziando che la legittimita'  costituzionale  delle  norme  dalle
quali possa scaturire una restrizione dei  diritti  patrimoniali  del
lavoratore e' condizionata alla rigorosa delimitazione temporale  dei
sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali  devono  essere
«eccezionali, transeunti, non  arbitrari  e  consentanei  allo  scopo
prefisso» (ordinanza n. 299 del 1999), e come il termine dilatorio di
dodici mesi quale risultante dall'art. 3, comma 2, del  decreto-legge
n. 79 del 1997 convertito  nella  legge  gia'  citata,  ad  oggi  non
rispetti piu' ne' il requisito  della  temporaneita',  ne'  i  limiti
posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalita'. 
    Si  tratta  di  una  previsione  che  non  costituisce  piu'   un
intervento urgente di  riequilibrio  finanziario  ma  di  una  misura
avente carattere strutturale che ha dunque perso  la  sua  originaria
ragionevolezza. 
    La perdurante  dilatazione  dei  tempi  di  corresponsione  delle
indennita' di fine servizio rischia di vanificare anche  la  funzione
previdenziale, in quanto contrasta con  la  particolare  esigenza  di
tutela avvertita dal dipendente al termine dell'attivita'  lavorativa
cui deve ulteriormente aggiungersi il fatto che la dilazione  non  e'
controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione  monetaria  e
dunque incide in maniera rilevante sulla consistenza economica  della
prestazione, stante anche il  sensibile  incremento  della  pressione
inflazionistica del quadro macroeconomico attuale  e  posto  che,  ai
sensi dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79  del  1997,  allo
scadere del termine annuale e di quello ulteriore di  tre  mesi  sono
dovuti i soli interessi di mora. 
    La Corte  costituzionale  ha  dunque  concluso,  pur  dichiarando
inammissibili le questioni sottoposte, con la considerazione che, per
porre  rimedio  alla  situazione  sopra   evidenziata,   occorre   un
intervento del legislatore affinche' trovi una soluzione che  miri  a
superare il differimento della liquidazione  e  del  pagamento  delle
indennita' di fine servizio, in ossequio ai principi  di  adeguatezza
della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalita',  e  che  si
sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via
agli altri. 
    Allo stato, pero', non risulta adottata alcuna organica revisione
dell'intera  materia,  peraltro  indicata  come  indifferibile  negli
ultimi anni nell'ambito  del  dibattito  parlamentare,  registrandosi
solo un'iniziativa legislativa (C. 1254 sulla riduzione  dei  termini
per la liquidazione del trattamento di fine servizio  dei  dipendenti
delle amministrazioni) volta  a  sancire  la  riduzione  del  termine
dilatorio per la liquidazione nei casi  di  cessazione  dal  servizio
(anche  a  seguito  di   collocamento   a   riposo   d'ufficio)   per
raggiungimento dei limiti di eta' o di servizio  e  la  rivalutazione
delle  fasce  di  importo  per  l'erogazione  rateale  dei   medesimi
trattamenti. 
    Come riportato nella relazione illustrativa, la proposta di legge
intende adempiere al monito espresso dalla Corte costituzionale  che,
nella gia' indicata sentenza n. 130 del 2023,  ha  rilevato  come  la
ridefinizione  delle  norme  relative   al   termine   dilatorio   di
differimento dei trattamenti in questione (con  limitato  riferimento
ai trattamenti spettanti nei casi  di  cessazione  dal  servizio  per
raggiungimento dei limiti di eta' o di servizio, o per collocamento a
riposo d'ufficio a causa del raggiungimento  dell'anzianita'  massima
di servizio), nonche' al riconoscimento secondo modalita' rateali dei
medesimi trattamenti che superino un determinato importo, deve essere
operata   dal   legislatore,   mediante   scelte   discrezionali   di
rimodulazione che tengano conto del differimento generale del termine
di liquidazione; in ogni caso,  per  tale  proposta  non  sembra  che
l'iter legislativo di approvazione risulti efficacemente avviato  con
conseguente violazione reiterata del dettato costituzionale (sentenze
gia' citate, n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023). 
    Poste tali premesse, si puo' ritenere che -  come  sostenuto  dal
giudice delle leggi - la previsione di un pagamento rateale  comprima
in maniera irragionevole e sproporzionata i  diritti  dei  lavoratori
pubblici,  in  violazione  dell'art.  36  della  Carta,  non  essendo
sorretta dal carattere contingente, ma al contrario avendo  carattere
strutturale. 
    La retribuzione, pertanto, da una parte, non deve mai perdere  il
suo collegamento con la prestazione lavorativa svolta e,  dall'altro,
deve essere adeguata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 della Carta,
con riferimento non solo alla entita' della  retribuzione,  ma  anche
alla tempestivita' della sua corresponsione. 
    E' infatti evidente che una retribuzione  corrisposta  con  ampio
ritardo  ha  per  il  lavoratore  una  utilita'  inferiore  a  quella
corrisposta tempestivamente. 
    Proprio il carattere di retribuzione differita riconosciuta  alle
indennita' di fine rapporto comporta la necessita' che  anche  queste
ultime debbano  essere  corrisposte  tempestivamente  e  non  possano
essere diluite strutturalmente oltre la  fuoriuscita  dal  mondo  del
lavoro. 
    Come e' noto, il lavoratore, sia pubblico che privato, specie  se
in eta' avanzata, in molti  casi  si  propone  -  proprio  attraverso
l'integrale  e  immediata  percezione  di  detto  trattamento  -   di
recuperare una somma gia'  spesa  o  in  via  di  erogazione  per  le
principali necessita' di vita, ovvero di fronteggiare o adempiere  in
modo definitivo ad impegni finanziari gia' assunti, magari da tempo. 
    La Corte costituzionale ha piu' volte affermato il principio  per
il quale una misura quale quella in esame, per superare lo  scrutinio
di  costituzionalita',  non  puo'  riguardare   un   arco   temporale
indefinito, ma deve essere giustificato da una  crisi  contingente  e
deve atteggiarsi quale misura una tantum (sentenze n. 178 del 2015  e
n. 173 del 2016). 
    Peraltro, non puo' non rilevarsi il  contrasto  con  l'art.  117,
comma primo, della Costituzione, in relazione al parametro interposto
dell'art. 1 protocollo n. 1 alla  CEDU  (concernente  il  diritto  al
rispetto della proprieta',  tra  cui  rientra  anche  la  tutela  dei
diritti di credito) posto che -  per  costante  giurisprudenza  della
Corte europea dei diritti dell'uomo  (Fabian  c.  Ungheria  [GC],  n.
78117/13, 5 settembre 2017; Stefanetti,  n.  21838/10,  15  settembre
2014) - le pensioni e conseguentemente anche il trattamento  di  fine
servizio maturato per effetto della vita lavorativa costituiscono  un
«bene» ai sensi della Convenzione. 
    Secondo le norme generali applicabili, il diritto matura ed entra
a far parte  del  patrimonio  del  titolare  al  momento  in  cui  si
soddisfano i requisiti per il pensionamento  (collocamento  a  riposo
per raggiunti limiti di eta' o di servizio). Nel caso  di  specie  il
differimento e la rateazione del trattamento di fine servizio di  cui
alla normativa in oggetto  e'  tale  da  pregiudicare  l'essenza  dei
diritti pensionistici  del  soggetto,  trattandosi  di  misura  ormai
divenuta definitiva e strutturale,  che  va  a  violare  il  disposto
dell'art. 1, prot. n. 1, CEDU laddove il trattamento di fine servizio
costituisce espressione di una legittima aspettativa  della  persona,
gia'  entrata  a  far  parte  del  suo  patrimonio  per  effetto  del
raggiungimento dei requisiti necessari. 
    Sul punto, non puo' non richiamarsi la delicata  questione  sorta
con  riferimento  ai  diritti   finanziariamente   condizionati   con
riferimento all'esigibilita' dei diritti nei  «limiti  delle  risorse
disponibili» (cfr. sentenza della Corte  costituzionale  16  dicembre
2016, n. 275). 
    La Corte delle leggi ha chiarito in questa  importante  pronuncia
che e' «la  garanzia  dei  diritti  incomprimibili  ad  incidere  sul
bilancio, e non l'equilibrio di questo a  condizionarne  la  doverosa
erogazione». Nella sostanza, neppure in  materia  finanziaria  esiste
«un limite assoluto alla cognizione del giudice di  costituzionalita'
delle leggi», in  quanto  l'avvenuto  inserimento  del  principio  di
pareggio di bilancio in Costituzione ne comporta l'inserimento «nella
tavola complessiva dei valori costituzionali», per cui «non  si  puo'
ipotizzare che la legge di  approvazione  del  bilancio  o  qualsiasi
altra legge incidente sulla  stessa  costituiscano  una  zona  franca
sfuggente a qualsiasi sindacato del giudice di costituzionalita', dal
momento che non vi puo' essere alcun  valore  costituzionale  la  cui
attuazione possa essere ritenuta esente  dalla  inviolabile  garanzia
rappresentata dal giudizio di legittimita' costituzionale». 
    Orbene, la previsione di un pagamento rateale del  TFS  non  puo'
essere  arbitrariamente  differito  e  reso  incerto  da   previsioni
legislative, le quali - seppur inserite in manovre finanziarie  volte
a sopperire a contingenti  esigenze  di  riequilibrio  finanziario  -
finiscono cosi' con l'incidere  su  beni  e  diritti  dei  lavoratori
pubblici  che  godono  di  tutela  piena   ed   incondizionata,   con
conseguente  sacrificio  della  sua   effettivita',   in   violazione
dell'art.  36  della  Costituzione,  che  sancisce  il  criterio   di
proporzionalita' della retribuzione, e dell'art.  117,  primo  comma,
della Costituzione, alla luce delle norme della Convenzione  europea,
come interpretate dalla Corte di Strasburgo, che  tutelano  la  sfera
patrimoniale del lavoratore a garanzia della dignita'  della  persona
umana. 
    Il giudizio presente va  quindi  sospeso,  con  trasmissione,  ai
sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, degli atti  alla
Corte   costituzionale,   affinche'   decida   della   questione   di
legittimita'  costituzionale  che,   con   la   presente   ordinanza,
incidentalmente si pone. 

 
                               P.Q.M. 
 
    Il Tribunale  amministrativo  regionale  per  il  Lazio  (Sezione
quinta): 
        Dichiara  rilevante  e  non   manifestamente   infondata   la
questione di legittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente; 
        Sospende il giudizio e, ai sensi dell'art. 23 della legge  11
marzo 1953, n. 87; 
        Dispone la trasmissione degli atti alla Corte  costituzionale
affinche' si pronunci sulla questione di legittimita'  costituzionale
degli articoli 3, comma 2, del decreto-legge n. 79/1997 e  12,  comma
7, del decreto-legge n. 78/2010, per contrasto con  l'art.  36  della
Costituzione e  l'art.  117,  primo  comma,  della  Costituzione,  in
relazione all'art. 1 del protocollo n. 1 alla CEDU; 
        Dispone la comunicazione della presente ordinanza alle  parti
in causa, nonche' la sua notificazione al  Presidente  del  Consiglio
dei  ministri,  al  Presidente  del  Senato  della  Repubblica  e  al
Presidente della Camera dei deputati; 
        Rinvia ogni  ulteriore  statuizione  all'esito  del  giudizio
incidentale promosso con la presente ordinanza. 
    Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1
e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli
5 e 6 del regolamento (UE) 2016/679  del  Parlamento  europeo  e  del
Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della  dignita'
della  parte  interessata,  manda  alla   Segreteria   di   procedere
all'oscuramento delle generalita'. 
    Cosi' deciso in Roma nella Camera  di  consiglio  del  giorno  10
gennaio 2025 con l'intervento dei magistrati: 
        Leonardo Spagnoletti - Presidente; 
        Virginia Arata - referendario; 
        Ida Tascone - referendario, estensore. 
 
                     Il Presidente: Spagnoletti 
 
 
                                                 L'estensore: Tascone