Reg. ord. n. 62 del 2025 pubbl. su G.U. del 16/04/2025 n. 16

Ordinanza del Corte dei conti  del 10/02/2025

Tra: D. L.P. e altri

Oggetto:

Responsabilità amministrativa e contabile – Comuni, province e città metropolitane – Dichiarazione di dissesto – Conseguenze per gli amministratori che sono stati riconosciuti, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, al verificarsi del dissesto finanziario – Sanzioni interdittive – Divieto di ricoprire per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati – Incandidabilità, per un periodo di dieci anni, per i sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili per la medesima fattispecie, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo – Irragionevolezza della previsione di una misura interdittiva (incandidabilità o divieto di ricoprire cariche) in misura fissa (dieci anni) per una condotta, anche di natura gravemente colposa, che non abbia determinato ma anche solo contribuito, peraltro senza limiti di tempo, al dissesto dell’ente – Contrasto con i principi di gradualità sanzionatoria, proporzionalità, ragionevolezza ed eguaglianza – Irragionevole parificazione, sotto il profilo sanzionatorio, di condotte sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sia in relazione all’incidenza del loro contributo al dissesto o alla loro durata – Lesione del diritto di elettorato passivo – Disparità di trattamento con riferimento a fattispecie che incidono o sulle condizioni morali degli amministratori o riguardano responsabilità relative a infiltrazioni mafiose per le quali sussiste la possibilità di limitare la durata dell’incandidabilità tramite l’istituto della riabilitazione – Irragionevolezza di un termine fisso di incandidabilità (o divieto di ricoprire determinate cariche) sotto il profilo della mancata differenziazione o graduazione della colpa grave rispetto al dolo, nonché delle condotte “determinanti” rispetto ai quelle che esprimono un mero “contributo” – Irragionevolezza del divieto di ricoprire alcune cariche non preclusivo della possibilità di essere eletti per l’esercizio di funzioni non riguardanti la singola attività delegata ma l’intera amministrazione locale.

Norme impugnate:

decreto legislativo  del 18/08/2000  Num. 267  Art. 248  Co. 5



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art.  Co.  

Costituzione  Art. 51   Co.  



Udienza Pubblica del 3 dicembre 2025 rel. BUSCEMA


Testo dell'ordinanza

                        N. 62 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 febbraio 2025

Ordinanza  del  10  febbraio  2025  della  Corte  dei  conti  sezione
giurisdizionale per la Regione Calabria sul ricorso  proposto  da  D.
L.P. e altri. 
 
Responsabilita' amministrativa  e  contabile  -  Comuni,  province  e
  citta' metropolitane - Dichiarazione di dissesto - Conseguenze  per
  gli amministratori che sono  stati  riconosciuti,  anche  in  primo
  grado, responsabili di aver  contribuito  con  condotte,  dolose  o
  gravemente colpose,  al  verificarsi  del  dissesto  finanziario  -
  Sanzioni interdittive - Divieto di ricoprire,  per  un  periodo  di
  dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti  di  enti
  locali e di  rappresentante  di  enti  locali  presso  altri  enti,
  istituzioni ed organismi pubblici e privati - Incandidabilita', per
  un periodo di dieci anni, per i sindaci e i presidenti di provincia
  ritenuti responsabili per la medesima fattispecie, alle cariche  di
  sindaco, di  presidente  di  provincia,  di  presidente  di  Giunta
  regionale, nonche' di membro dei consigli  comunali,  dei  consigli
  provinciali,  delle  assemblee  e  dei  consigli   regionali,   del
  Parlamento e del Parlamento europeo. 
- Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
  sull'ordinamento degli enti locali), art. 248, comma 5. 


(GU n. 16 del 16-04-2025)

 
                         LA CORTE DEI CONTI 
           Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria 
 
    Composta dai seguenti magistrati: 
        Carlo Efisio Marre' Brunenghi - Presidente f.f.; 
        Sabrina Facciorusso - Giudice; 
        Guido Tarantelli - Giudice relatore; 
 
                              Ordinanza 
 
    Nel ricorso in opposizione ex art. 135 c.g.c. relativo a giudizio
sanzionatorio iscritto  al  n.  23983  del  registro  di  Segreteria,
promosso da: 
        D. L. P., nato a    il    e ivi residente   ; 
        A. V., nato a    il    e ivi residente (    ); 
        G. R., nato a    il    e ivi residente (    ); 
        P. P., nato a    il    e ivi residente (    ), 
    tutti rappresentati e difesi, come da procura alle liti in  atti,
dall'avv. Gaetano Callipo (CLLGTN64R11E041M) del foro di  Palmi,  con
domicilio  digitale  eletto  all'indirizzo   di   posta   elettronica
certificata gaetano.callipo@pec.it - ricorrenti 
    contro: 
        Procura presso la  Sezione  giurisdizionale  per  la  Regione
Calabria       della       Corte        dei        conti,        PEC:
calabria.procura@corteconticert.it - resistente 
    esaminati gli atti e i documenti di causa; 
    nella pubblica udienza del 31 ottobre 2024,  data  per  letta  la
relazione sul consenso delle parti e udito per il  ricorrente  l'Avv.
Gaetano Callipo, e per la Procura resistente il V.P.G. dott. Giovanni
Di Pietro, i quali concludevano come da verbale di udienza. 
 
                                Fatto 
 
    1. Con ricorso del  28  maggio  2024,  la  Procura  regionale  ha
chiesto l'emissione di un decreto per l'applicazione  delle  sanzioni
previste dall'art. 248, comma 5, del decreto  legislativo  18  agosto
2000,  n.  267  (di  seguito  TUEL)  -  e,  dunque,  ferma   restando
l'applicazione  delle  misure  interdittive  afferenti  allo  status,
l'irrogazione di una  sanzione  pecuniaria  pari  a  dieci  volte  la
retribuzione mensile lorda dovuta al momento della commissione  della
violazione - nei confronti dei signori L. P. D. (per euro    ), D. F.
(per euro    ), V. A. (per euro    ), R. G. (per  euro     ),  P.  P.
(per euro    ) e S. M. (per euro    ), nella qualita'  di  componenti
della Giunta comunale di    , i quali, dopo l'approvazione del  piano
di riequilibrio, non avrebbero posto in essere in modo  effettivo  le
misure e gli  interventi  necessari  per  realizzare  il  risanamento
dell'ente  e,  come  accertato  dalla  sezione  di  Controllo   nella
deliberazione  n.  24  del  6  marzo  2019,  avrebbero  aggravato  la
situazione economico finanziaria dell'ente, perche'  responsabili  di
avere contribuito, con le proprie  condotte  gravemente  colpose,  al
verificarsi del dissesto finanziario dell'ente locale, poi deliberato
dal consiglio comunale. 
    La  domanda   della   Procura   regionale   seguiva   la   citata
deliberazione n. 24/2019 della Sezione di controllo  per  la  Regione
Calabria nella quale non veniva approvato il  piano  di  riequilibrio
finanziario  predisposto  dall'ente  locale   sussistendo   rilevanti
criticita' dovute alla mancata copertura  del  disavanzo  secondo  le
previsioni del piano, alla presenza di una situazione  debitoria  non
corrispondente a quella descritta nel piano e  ritenuta  di  maggiore
consistenza, anche in considerazione  della  mancata  definizione  di
accordi  transattivi  e  di  rateizzazione  con   i   creditori,   ad
un'evidente e rilevante difficolta' di riscossione delle entrate,  al
mancato  e  insufficiente  recupero  dell'evasione  tributaria,  alle
discrasie e anomalie  riscontrate  nella  gestione  del  fondo  cassa
dell'ente, ad irregolarita' contabili, al ritardo  nella  definizione
dei pagamenti conseguenti ai piani di rientro dal debito sottoscritti
con la Regione Calabria. 
    La  deliberazione  di   mancata   approvazione   del   piano   di
riequilibrio  veniva  confermata,  in  sede   d'impugnazione,   dalla
sentenza delle Sezioni riunite della  Corte  dei  conti  in  speciale
composizione  n.  18/2019  con  conseguente  adozione  da  parte  del
consiglio comunale di    della deliberazione n.    del    di dissesto
dell'ente. 
    In   particolare,   nella   prospettazione   della   Procura   la
dichiarazione dello stato di dissesto  esprimeva  una  situazione  di
irreversibile precarieta'  finanziaria  che  trovava  nelle  gestioni
protratte per anni le cause (e concause) dell'evento  poi  accertato.
Sicche', gia' nel momento di ricorso alla procedura  di  riequilibrio
finanziario pluriennale si presuppone  vi  fosse  una  situazione  di
grave criticita' dell'ente, tale da fare  apparire  non  adeguato  il
ricorso alle misure di salvaguardia degli equilibri di bilancio e  di
riconoscimento di legittimita' di  debiti  fuori  bilancio,  previste
dagli articoli 193 e 194 del TUEL. 
    Pertanto, approvato il piano di riequilibrio, gli  amministratori
dovevano attuare il risanamento ed applicare tutte le misure previste
per assicurare l'incameramento delle risorse destinate a  finanziarlo
ed agire per evitare di aggravare la massa passiva  come  determinata
al momento della sua approvazione. 
    Rispetto a tali premesse, secondo la Procura, il Comune di    non
aveva rispettato le condizioni fissate al  momento  dell'approvazione
del piano di riequilibrio, poiche' la massa  passiva  risultava  piu'
consistente di quella stimata (anche per la sopravvenienza di nuovi e
ulteriori debiti e voci  passive),  le  risorse  individuate  per  il
ripiano dello squilibrio non erano state effettivamente conseguite  e
alcune leve  di  risanamento,  avevano  contribuito  ad  ampliare  il
disavanzo complessivo dell'ente, anziche' ridurlo. 
    Pertanto, veniva contestata ai convenuti una responsabilita'  per
le condotte tenute rispetto agli interventi necessari per attuare  le
misure previste dal piano di riequilibrio pluriennale, rappresentando
che la quantificazione della massa passiva  da  ripianare  era  stata
effettuata  senza  svolgere  la  rigorosa  ricognizione  dei   debiti
preesistenti, richiesta dall'art. 243-bis  del  Tuel,  e  che,  anche
durante l'attuazione  del  piano,  le  condotte  assunte,  attive  ed
omissive, avevano concorso ad ampliare ed estendere la massa  passiva
realmente gravante sull'ente. 
    2. I resistenti si costituivano in giudizio sollevando  eccezioni
di  difetto  di  giurisdizione  (poiche'  l'effetto  interdittivo  e'
previsto come automatico dall'art. 248, quinto comma,  del  TUEL,  la
cui   applicazione   compete   all'autorita'   amministrativa),    di
inammissibilita' della domanda,  e  di  incostituzionalita'  dell'art
248, quinto comma, (per violazione  dei  principi  costituzionali  di
ragionevolezza e di gradualita' di cui all'art. 3 della  Costituzione
rispetto alla previsione della sanzione interdittiva fissa  decennale
dinanzi a un diverso grado di responsabilita',  anche  confrontandola
con la gradualita' della  sanzione  prevista  per  i  componenti  del
collegio sindacale). 
    Nel merito, sotto diversi profili, veniva eccepita l'infondatezza
del ricorso per difetto di prova,  carenze  istruttorie,  inesistenza
del nesso di causalita' e dell'elemento psicologico,  chiedendone  il
rigetto. 
    In  particolare,  veniva  contestato  che  l'applicazione   delle
sanzioni (pecuniarie e  interdittive)  fosse  stata  richiesta  senza
indicare le azioni  od  omissioni  poste  in  essere  dall'organo  di
indirizzo, con dolo o colpa grave,  oltre  alla  circostanza  che  lo
stato di decozione finanziaria dell'ente, a cui non si e' riusciti  a
ovviare, risaliva ad un periodo in cui nessuno dei resistenti era  in
carica, ne' veniva  indicato  come  gli  amministratori  vi  avessero
contribuito. 
    Inoltre, la difesa rappresentava che il  Comune  di    era  stato
amministrato da un Commissario Prefettizio da    a    e  che  per  il
periodo in contestazione (    ) i convenuti avevano amministrato  per
un limitato e differente periodo di  tempo,  rispetto  al  quale  non
erano state differenziate le varie responsabilita'. 
    Veniva  dunque  contestato  l'asserito  apporto   causale   degli
amministratori  alle  criticita'  economico-finanziarie  foriere  del
dissesto, avuto specifico riguardo al  ripiano  del  disavanzo,  alla
situazione debitoria dell'ente, alla  gestione  delle  entrate,  alla
revisione  della  spesa,  alle  anticipazioni  di  liquidita',   alle
anticipazioni di tesoreria e ai disallineamenti di cassa. 
    3. Ad esito della Camera di  consiglio  del  18  luglio  2024  il
Giudice Monocratico, con decreto n. 4/2024  (depositato  in  data  20
agosto 2024 e notificato al procuratore costituito in data 28  agosto
2024), ha cosi' statuito: 
        «1) rigetta il ricorso nei confronti delle convenute  signore
D. F. e S. M.; 
        2) accerta, ai sensi e per gli effetti dell'art. 248,  quinto
comma, del decreto legislativo n. 267/2000,  la  responsabilita'  dei
convenuti signori L. P. D., V. A., R. G. e P. P., a titolo  di  colpa
grave, in relazione  al  dissesto  finanziario  del  Comune  di     ,
dichiarato con la deliberazione del consiglio comunale n.    del    ; 
        3)  condanna  i  convenuti  al   pagamento   della   sanzione
pecuniaria in favore del Comune di    determinata per  ciascuno  come
segue: L. P. D. in euro    ; V. A. in euro    ; R. G. in  euro     P.
P. in euro    ; 
        4) assegna il termine di quaranta giorni dalla  notificazione
del presente decreto ai fini del pagamento immediato, in  favore  del
Comune di    , delle  suindicate  sanzioni  pecuniarie  nella  misura
ridotta, pari al 30%, ai sensi dell'art. 134, secondo comma, c.g.c.; 
        5) condanna i convenuti L. P. D. V. A.  R.  G.  e  P.  P.  al
pagamento, in solido, delle spese di giudizio in favore  dell'Erario,
che si quantificano come da nota segretariale a margine; 
        6) condanna il Comune di    al  pagamento  della  complessiva
somma di euro    oltre IVA, CPA e spese generali, a titolo di onorari
e diritti spettanti alla difesa delle convenute D. F. e S. M.; 
        7) Dispone la trasmissione del provvedimento  alle  autorita'
competenti, a cura della  Procura  Regionale  presso  questa  Sezione
giurisdizionale, come indicato in motivazione». 
    4.  Avverso  tale  decreto  gli  odierni  ricorrenti  formulavano
ricorso  in  opposizione  ex  art.  135  c.g.c.  replicando,  in  via
preliminare, le eccezioni gia'  formulate  nel  giudizio  dinanzi  al
giudice monocratico. 
    4.1 Nello specifico veniva eccepito il difetto  di  giurisdizione
della Corte dei conti in relazione alla domanda di applicazione delle
sanzioni  interdittive,  come  formulata  dalla  Procura   regionale,
richiamava i principi di diritto (Cassazione n. 13205 del  14  maggio
2024) secondo cui «In tema di enti locali, in caso  di  dichiarazione
di  dissesto  del  Comune,   le   sanzioni   interdittive   per   gli
amministratori, previste ex art.  248  TUEL,  conseguono  di  diritto
all'accertamento  dei  relativi  presupposti  da  parte  del  giudice
contabile,  senza  che  quest'ultimo  possa   procedere   alla   loro
applicazione   diretta,   riservata   all'autorita'    amministrativa
competente,  determinandosi   altrimenti   un   eccesso   di   potere
giurisdizionale»  e  lamentava  che  il  rigetto  dell'eccezione  nel
decreto  opposto  sarebbe   infondata,   atteso   che   nel   ricorso
introduttivo la Procura Regionale aveva richiesto proprio la  diretta
irrogazione delle sanzioni interdittive carico  degli  amministratori
(cfr. pag. 38 ricorso) e  il  Giudice  avrebbe  dovuto  rigettare  la
domanda sulle  sanzioni  interdittive,  chieste  in  via  di  diretta
applicazione,  risultando  cosi'  una  pronuncia  viziata  da   ultra
petizione. 
    4.2  Veniva  poi  sollevata  eccezione   di   incostituzionalita'
dell'art. 248, comma 5, TUEL, per difetto di motivazione e violazione
dell'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui,  avendo  previsto
per gli amministratori comunali una sanzione interdittiva  in  misura
fissa  decennale,  impedisce  di  considerare  il  diverso  grado  di
responsabilita' - colpa grave o dolo - e di commisurare  la  sanzione
rispetto  alla  gravita'  del  fatto,  con  evidente  violazione  dei
principi     costituzionali     di     gradualita'     sanzionatoria,
proporzionalita', ragionevolezza, e parita' di  trattamento  previsti
dall'art. 3 della Costituzione. 
    La violazione  dei  principi  costituzionali  veniva  prospettata
anche in considerazione della disparita' di trattamento  rispetto  ai
componenti del collegio dei revisori, nei  cui  confronti  la  misura
interdittiva puo' essere graduata entro la durata  massima  di  dieci
anni, come previsto dal comma  5-bis  dello  stesso  art.  248  TUEL,
aggiunto dall'art. 3 del decreto-legge n. 174  del  2012,  convertivo
dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213. 
    In particolare, il decreto opposto  aveva  rigettato  l'eccezione
richiamando la giurisprudenza costituzionale che  ha  qualificato  il
bilancio come bene pubblico e le sentenze n. 236/2015, n. 276/2016  e
n. 230 del 2021 - con cui erano gia' state dichiarate non fondate  le
questioni  di  legittimita'  costituzionale  riguardanti   le   norme
contenute  nel  decreto  legislativo   n.   235/2012   in   tema   di
incandidabilita' - sul presupposto che le norme  del  citato  decreto
legislativo n. 235/2012 fossero  «sovrapponibili»  alle  disposizioni
sanzionatorie dell'art. 248 comma 5 TUEL. 
    Secondo gli opponenti non vi  sarebbe  sovrapponibilita'  tra  le
disposizioni  del  decreto  legislativo  n.  235/2012  (che  riguarda
esclusivamente cause speciali di incandidabilita'  e  di  divieto  di
ricoprire cariche  elettive  e  di  Governo  conseguenti  a  sentenze
definitive di condanna per  (gravi)  delitti  non  colposi,  a  norma
dell'art. 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190) e  quelle
dell'art.  248  comma  5  TUEL  (per  ipotesi   di   incandidabilita'
conseguenti a condanne per c.d.  responsabilita'  da  dissesto),  ne'
sarebbe possibile alcuna applicazione analogica per ampliare le cause
d'incompatibilita' del decreto legislativo  n.  235/2012,  stante  la
loro specialita' (veniva indicata sul punto la sentenza  della  Corte
costituzionale n. 56 dell'8 marzo 2022 che ha dichiarato  ammissibile
la richiesta di referendum per abrogare l'intero decreto  legislativo
n. 235/2012). 
    Peraltro, la giurisprudenza costituzionale richiamata nel decreto
non avrebbe mai riguardato i principi costituzionali  di  gradualita'
sanzionatoria,  proporzionalita',  ragionevolezza   della   sanzione,
nonche'  di  parita'  di  trattamento  previsti  dall'art.  3   della
Costituzione, considerato che l'art. 13 del  decreto  legislativo  n.
235/2012 prevede la graduazione  e  la  commisurazione  della  durata
(quantomeno  quella  massima)  dell'incandidabilita',  rispetto  alla
entita' della condanna e quindi del delitto commesso,  mentre  l'art.
14 consente di estinguere  la  stessa  incandidabilita'  per  effetto
della riabilitazione; meccanismi di graduazione e  superamento  della
incandidabilita'   (che    incide    sul    diritto    costituzionale
all'elettorato passivo) anche a  fronte  delle  ipotesi  di  condanne
penale  per  gravi   delitti,   che   sono   invece   assenti   nella
responsabilita' da  dissesto  (dove  e'  graduata  solo  la  sanzione
pecuniaria e non  quella  piu'  afflittiva  che  incide  sul  diritto
costituzionale di elettorato passivo, tenuto anche  conto  dell'ampia
gamma di condotte degli amministratori). 
    I ricorrenti lamentavano poi la disparita' di  trattamento  degli
amministratori rispetto ai componenti dell'organo di  revisione,  che
invece beneficiano della graduazione  della  sanzione  rispetto  alla
loro responsabilita', pur essendo richiesta la loro compartecipazione
necessaria nelle dinamiche di bilancio. 
    Rispetto   a   tali   profili,   dunque,   veniva   indicata   la
giurisprudenza   costituzionale    espressione    della    necessaria
applicazione del principio di proporzionalita' in sede  sanzionatoria
(sentenza n. 51/2024 secondo cui: «Numerose sentenze di questa  Corte
hanno pero' ritenuto in contrasto, tra l'altro, con  l'art.  3  della
Costituzione disposizioni che prevedevano  l'automatica  destituzione
di altri pubblici dipendenti, ovvero  l'automatica  cancellazione  di
professionisti dall'albo, in conseguenza della loro condanna in  sede
penale per determinati reati. 3.2.1.- Gia' la  sentenza  n.  971  del
1988 aveva colpito la previsione della destituzione di diritto  degli
impiegati civili dello Stato e dei dipendenti degli enti locali della
Regione Siciliana a seguito di condanna per taluni delitti. 
    «L'indispensabile  gradualita'  sanzionatoria,  ivi  compresa  la
misura massima destitutoria» - si era affermato in quell'occasione  -
«importa [...] che le valutazioni relative siano ricondotte,  ognora,
alla naturale sede di valutazione: il procedimento  disciplinare,  in
difetto di che ogni relativa norma risulta  incoerente,  per  il  suo
automatismo,  e  conseguentemente  irrazionale  ex   art.   3   della
Costituzione» (punto 3 del Considerato in  diritto).  Poco  dopo,  in
relazione ai notai, la  sentenza  n.  40  del  1990  affermo'  essere
«indispensabile che il "principio di proporzione" che  e'  alla  base
della razionalita' che domina il "principio di  eguaglianza",  regoli
sempre   l'adeguatezza   della   sanzione    al    caso    concreto».
Conseguentemente,  essa  dichiaro'   costituzionalmente   illegittimo
l'«automatismo  di  un'unica  massima  sanzione  [la   destituzione],
prevista indifferentemente per l'infinita  serie  di  situazioni  che
stanno nell'area della commissione di uno stesso  pur  grave  reato».
Automatismo che si ritenne non potesse «reggere il confronto  con  il
principio di eguaglianza che, come esige lo  stesso  trattamento  per
identiche  situazioni,  postula  un  trattamento  differenziato   per
situazioni diverse». Identica ratio decidendi si riscontra:  -  nella
sentenza n. 158 del 1990, relativa  alla  radiazione  automatica  dei
dottori commercialisti; - nella sentenza n. 16 del 1991,  concernente
la destituzione di diritto del dipendente regionale; - nella sentenza
n.  197  del  1993,  sulla  destituzione  di  diritto  del  personale
dipendente delle amministrazioni pubbliche a seguito del passaggio in
giudicato della sentenza di condanna per taluni reati,  ovvero  della
definitivita'  del  provvedimento  applicativo  di  una   misura   di
prevenzione per appartenenza ad associazione di tipo mafioso; - nella
sentenza n. 2 del 1999, in materia di radiazione automatica dall'albo
dei ragionieri e periti commerciali. In epoca piu' recente,  rispetto
al personale militare, la sentenza n. 268  del  2016  (riprendendo  e
approfondendo principi gia' espressi nella precedente sentenza n. 363
del  1996)  ha  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  di  una
disciplina  che  non  prevedeva  l'instaurazione   del   procedimento
disciplinare per la cessazione dal servizio per  perdita  del  grado,
conseguente alla pena accessoria della  interdizione  temporanea  dai
pubblici uffici irrogata dal giudice penale. «[A] causa dell'ampiezza
dei presupposti a cui viene  collegata  l'automatica  cessazione  dal
servizio», si e' in  questa  occasione  osservato,  «le  disposizioni
impugnate non possono validamente fondare, in tutti i  casi  in  esse
ricompresi, una presunzione  assoluta  di  inidoneita'  o  indegnita'
morale o, tanto meno,  di  pericolosita'  dell'interessato,  tale  da
giustificare una sanzione disciplinare cosi' grave  come  la  perdita
del grado  con  conseguente  cessazione  dal  servizio.  L'automatica
interruzione del rapporto di impiego  e',  infatti,  suscettibile  di
essere applicata a una troppo ampia generalita' di casi, rispetto  ai
quali e' agevole formulare ipotesi in cui essa  non  rappresenta  una
misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito». 
    4.3 Cio' premesso i  ricorrenti  si  opponevano  al  decreto  per
violazione  dell'art.  248,  comma  5,  TUEL  sotto  diversi  profili
(difetto  di  motivazione,  omessa  valutazione  di  fatti  ed   atti
rilevanti  ai  fini  del  giudizio,  difetto  di  prova   e   carenze
istruttorie,  carenza  dei  presupposti,   difetto   del   nesso   di
causalita', difetto dell'elemento psicologico, violazione delle norme
di contabilita'). In particolare, lamentavano che il decreto  opposto
avesse desunto la sussistenza dell'elemento psicologico  della  colpa
grave unicamente dalla conoscenza sin dal 2012  della  condizione  di
squilibrio strutturale dell'ente locale e la  sussistenza  del  nesso
causale dalla deliberazione del dissesto dell'ente locale secondo cui
«l'aggravamento della condizione economica  e  finanziaria  dell'ente
locale nel triennio    (periodo in cui i resistenti  erano  tutti  in
carica) ha irreversibilmente  compromesso  l'equilibrio  di  bilancio
dell'ente e che parte degli odierni resistenti, quali  amministratori
pro tempore, non hanno adottato politiche di bilancio  funzionali  al
risanamento dell'ente, cosi'  contribuendo  al  dissesto  del  Comune
di     »,  con  una  responsabilita'  da  dissesto  che  non  sarebbe
dimostrata, ma  conseguenza  di  un  mero  automatismo  del  dissesto
stesso. 
    Dunque, sarebbe stata ravvisata la  responsabilita'  di  (alcuni)
amministratori in quanto i  risultati  conseguiti  a  rendiconto  nel
triennio    non hanno rispettato le previsioni contenute nella ultima
rimodulazione del Piano di Riequilibrio Finanziario. 
    In particolare, la Sezione regionale di controllo aveva rilevato: 
        a) l'aumento dei debiti fuori bilancio di parte corrente; 
        b) il mancato finanziamento  dei  debiti  fuori  bilancio  di
parte capitale, attraverso le previste alienazioni di  beni  immobili
stante la  mancata  conclusione  delle  relative  procedure,  avviate
nel    ; 
        c) la cronica difficolta' di riscossione delle entrate; 
        d)  il  mancato  o   insufficiente   recupero   dell'evasione
tributaria  (con  rischio  di  prescrizione  o  decadenza   dell'ente
impositore); 
        e) le discrasie e le anomalie riscontrate nel fondo cassa (  
); 
        f) la mancata trasmissione degli accordi  transattivi  con  i
creditori, per tutti i debiti  fuori  bilancio  riconosciuti  e/o  da
riconoscere e assenza di un piano di rateizzazione; 
        g) la mancata comunicazione e  documentazione  dei  pagamenti
effettuati e dei rimanenti pagamenti da effettuare; 
        h) l'irregolare tenuta delle scritture contabili (con risorse
del fondo svalutazione crediti ripetutamente inglobate nel  fondo  di
riserva, in violazione dei principi di chiarezza e trasparenza); 
        i)  il   mancato   miglioramento,   per   ciascun   esercizio
finanziario del triennio    , della parte disponibile  del  risultato
di amministrazione rispetto all'esercizio precedente,  in  violazione
del decreto  del  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze  del  2
aprile    , e conseguimento di un ulteriore disavanzo nella  gestione
finanziaria negli esercizi considerati; 
        l) il mancato ripiano,  a  decorrere  dal     ,  della  quota
annuale da riaccertamento straordinario,  pari  a  quote  annuali  di
euro    ; 
        m) la mancata approvazione delle misure organizzative per  la
tempestivita' dei pagamenti richieste dall'art. 9  del  decreto-legge
n. 78/2009, anche in relazione  alle  previsioni  dell'art.  183  del
TUEL, relative alla  compatibilita'  dei  pagamenti  con  i  relativi
stanziamenti di cassa; 
        n) la mancata indicazione dei tempi  medi  di  pagamento,  in
violazione dell'art. 41 del decreto-legge n. 66/2014; 
        o)  la  mancata  indicazione  sul  sito  internet   dell'ente
dell'indicatore  di  tempestivita'  dei  pagamenti,  come   richiesto
dall'art. 33 del decreto legislativo n. 33/2013; 
        p) il ritardo sui pagamenti  dei  piani  di  rientro     e   
 sottoscritti con la Regione Calabria. 
    Rispetto a tali contestazioni vi sarebbe un vizio di motivazione,
poiche' il decreto ha omesso di considerare i  dati  oggettivi  e  le
risultanze contabili documentalmente dimostrate dai resistenti. Nello
specifico, non sarebbe stato considerato che lo  stato  di  decozione
finanziaria dell'ente, a cui non si e' riusciti ad ovviare, risale ad
un periodo in cui nessuno degli opponenti era in carica e  non  viene
indicato  per  quale  motivo  questi  amministratori  possano  avervi
«contribuito» (il Comune e'  stato  amministrato  da  un  Commissario
Prefettizio da    a    , quindi durante il periodo dal    al     ,  e
alcuni di essi sono stati in carica solo successivamente  al  periodo
di commissariamento). 
    Quanto alla motivazione dell'addebito del decreto viene  indicato
che la deliberazione del dissesto dell'ente locale «ha reso  evidente
che l'aggravamento della condizione economica e finanziaria dell'ente
locale nel triennio    (periodo in cui i resistenti  erano  tutti  in
carica) ha irreversibilmente  compromesso  l'equilibrio  di  bilancio
dell'ente   e   che   (parte   de)gli   odierni   resistenti,   quali
amministratori pro tempore, non hanno adottato politiche di  bilancio
funzionali  al  risanamento,  cosi'  contribuendo  al  dissesto   del
Comune». 
    La responsabilita' per omissione viene contestata dai ricorrenti,
come da perizia allegata al ricorso, anche in ragione delle modifiche
normative. 
    Nello  specifico,  l'analisi  delle  risultanze   delle   singole
gestioni di competenza dal     al    indica che il Comune ha generato
risparmi attraverso un  saldo  positivo  di  parte  corrente  (avanzo
economico di parte corrente) per euro    (esercizi  finanziari  dal  
 al    ) e i dati nel decreto  opposto  non  terrebbero  conto  delle
risultanze degli equilibri di competenza (considerato che  il  Comune
di    aveva approvato  il  PRFP  prima  dell'entrata  in  vigore  del
decreto legislativo n. 118/2011 con  i  principi  dell'armonizzazione
contabile). 
    Veniva evidenziato che a fronte di  un  disavanzo  acclarato  con
l'approvazione del  Piano  di  riequilibrio  finanziario  pluriennale
(PRFP) di euro    da ripianarsi in  anni  dieci,  la  misura  per  il
periodo contestato (dal   al   ) era pari ad  euro     e  il  maggior
disavanzo pari ad  ulteriori  euro     conseguiva  al  riaccertamento
straordinario  dei  residui  al      derivato   in   via   principale
dall'applicazione   dei   nuovi   istituti    contabili    introdotti
dall'armonizzazione, ed  in  particolare  del  Fondo  crediti  dubbia
esigibilita' (FCDE), la cui composizione viene  determinata  in  modo
aritmetico dal  principio  contabile  di  cui  all'allegato  4.2  del
decreto legislativo n. 118/2011. 
    Il metodo di calcolo del FCDE  ha  fatto  si'  che  il  disavanzo
dell'amministrazione al    si attestasse ad un importo pari  a     di
cui    di FCDE, a cio' si sono aggiunti gli ulteriori  accantonamenti
previsti   dalla   riforma   dell'armonizzazione   contabile   (fondo
contenzioso, riarticolazione della parte vincolata del  risultato  di
amministrazione, Fondo pluriennale vincolato) assenti nel  precedente
ordinamento contabile. 
    La conferma della efficacia dell'azione di recupero  nei  termini
risulterebbe  anche  dai  saldi  di   cassa,   ampiamente   positivi,
registrati dal Comune al    di ogni esercizio finanziario dal    al  
 , rispetto al dato iniziale registrato al     allorquando  risultava
un saldo di cassa negativo per euro    , con l'effetto che  il  fondo
cassa positivo nel  periodo  di  riferimento  ha  comportato  a  fine
esercizio l'assenza di scoperti per anticipazione di tesoreria. 
    Non vi sarebbe stata, dunque, alcuna condotta peggiorativa  degli
equilibri  di  bilancio  e  quindi  di  causalita'  aggiuntiva   alla
dichiarazione di dissesto. 
    Venivano poi richiamate le norme intervenute  dal  2015  al  2019
finalizzate al superamento e al ripiano nel tempo delle condizioni di
disavanzo, poi dichiarate  incostituzionali,  con  effetti  contabili
dirompenti sui bilanci di tutti gli enti  interessati  determinandone
l'inevitabile dissesto in presenza di condizione sociali ed economici
di difficolta'. 
    Sulla situazione debitoria di euro    per debiti non rilevati nel
PRFP  veniva  indicato  che   essi   erano   emersi   successivamente
all'approvazione del  Piano  di  Riequilibrio  (ad  eccezione  di  un
debito, di importo oggettivamente trascurabile,  di  euro     circa),
mentre la rimanente  somma  di  euro     era  costituita  dai  debiti
derivanti da sentenze emesse in  epoca  successiva  al     ,  tramite
riconoscimento di debiti fuori bilancio. 
    Quanto alla mancata  definizione  del  rapporto  con  la  Regione
Calabria in relazione alla fornitura di acqua potabile per il periodo
1981/2004 il decreto sarebbe privo di motivazione, considerato che in
sede di  redazione  del  piano  di  riequilibrio  non  era  emersa  e
conosciuta dagli amministratori  una  situazione  di  debito  con  la
Regione Calabria, ne' il quantum; debito che e' stato successivamente
definito in via transattiva non producendo  scostamenti  e  squilibri
nella complessiva gestione amministrativa e finanziaria. 
    Quanto alla gestione delle entrate e  al  recupero  dell'evasione
tributaria rilevatasi scarsamente produttiva richiamavano  le  azioni
intraprese, mentre sull'assenza di  titolo  per  il  mantenimento  in
bilancio di residui per euro    afferenti a trasferimenti (titolo  II
delle Entrate) dello Stato per il rimborso delle spese sostenute  dal
Comune  per  conto  del  Ministero  della  giustizia  e  relative  al
funzionamento degli uffici giudiziari, ribadivano  che  tali  residui
non potevano essere cancellati in quanto c'era  un  titolo  giuridico
certo  e  la  differenza  tra  i  rendiconti  approvati  e  le  somme
effettivamente  versate  dal  Ministero  della  giustizia  era  stata
giustificata dai verbali approvati  dalla  Corte  di  Appello  e  dai
mandati di incasso gia' prodotti (sulla correttezza del  mantenimento
di residui richiamavano la sentenza del Consiglio di  Stato  n.  5782
del 2020). 
    Quanto alla revisione della spesa  venivano  indicate  importanti
misure di  razionalizzazione  richiamando  la  relazione  istruttoria
della Commissione Ministeriale sul PRFP e le misure attuate: 
        1) Eliminazione dei fitti passivi; 
        2)  Le  Strutture  comunali  a  debito  per  il  comune  sono
diventate  remunerative  (protoconvento,   parco   giochi,   impianto
sportivo); 
        3)  Azzeramento  di  incarichi  dirigenziali   di   carattere
fiduciario; 
        4) Nessun affidamento di incarichi a collaboratori esterni; 
        5) Notevole riduzione spese per amministratori; 
        6) Azzeramento spese per rimborsi e missioni; 
        7) Gestione interna  di  una  serie  di  servizi  prima  dati
all'esterno ad iniziare dalla gestione del canile  comunale  e  dalle
pulizie degli edifici di competenza comunale; 
        8) creazione dell'ufficio interno avvocatura. 
    Con  riferimento  alle  criticita'  legate  all'anticipazione  di
liquidita' indicavano che tale facolta' era prevista dalla legge e il
Comune l'avrebbe correttamente utilizzata. 
    In merito ai disallineamenti di cassa,  in  disparte  la  mancata
incidenza ai fini della dichiarazione di disseto, veniva rilevato che
si era addivenuti all'accertamento  definitivo  della  situazione  di
cassa, evidenziando che non esistono ne  disavanzi  e  ne  avanzi  di
cassa. 
    Quanto al debito verso S. veniva indicato che era stato azzerato,
richiamando sentenze vittoriose per  il  Comune  (con  riconoscimento
della non debenza di rilevanti somme di denaro). Quindi i  ricorrenti
lamentavano che non fossero stati considerati gli  atti  con  effetti
positivi diretti sui bilanci e che non  fosse  stata  considerata  la
posizione  degli   assessori   al   bilancio.   Quanto   all'elemento
psicologico l'inidoneita' del piano  non  potrebbe  rappresentare  il
dato  da  cui  far   discendere,   come   conseguenza   diretta,   la
responsabilita'    degli     amministratori,     determinando     una
responsabilita'   oggettiva   e   venivano   indicati,   a   sostegno
dell'assenza di colpa, alcuni elementi: 
        tutti gli atti  deliberati  dalla  giunta  sono  accettazione
della proposta degli  uffici,  che  mettono  il  relativo  parere  di
regolarita' tecnica; 
        ogni atto  rilevante,  dalla  rimodulazione  del  piano  alla
predisposizione dei  bilanci,  ha  il  parere  favorevole  tanto  del
responsabile che dei revisori dei conti; 
        la rimodulazione dei piani e' stata effettuata, la prima, nel
rispetto di una nuova norma di legge  e  la  seconda  su  invito  del
Ministero dell'interno che,  in  luogo  dei  prescritti  5  mesi,  ha
impiegato 5 anni per il parere sul piano di riequilibrio. 
    Rispetto a tali atti ed attivita' non vi sarebbe la  colpa  grave
(«sprezzante  trascuratezza  dei  propri   doveri,   resa   estensiva
attraverso  un  comportamento  improntato  a  massima  negligenza   o
imprudenza ovvero ad una  particolare  non  curanza  degli  interessi
pubblici»), tenuto conto che il piano e' stato rimodulato nel    e vi
e' stato il giudizio ampiamente favorevole dei revisori dei  conti  e
nel parere sull'aggiornamento del  piano  di  riequilibrio  del     ,
successivo ai pareri sui  bilanci  contenenti  le  «raccomandazioni»,
l'organo di revisione (nominato della Prefettura) indica con delibera
n.    del    i miglioramenti intervenuti. 
    I revisori hanno attestato che tutte le misure attuate hanno dato
i risultati previsti e l'amministrazione ha puntualmente dato seguito
alle sollecitazioni dell'organo di revisione. 
    In particolare, veniva indicato che il punto di  partenza  e'  la
dichiarazione di ente strutturalmente  deficitario  con  la  delibera
della Corte dei conti del    , mentre  il  punto  di  approdo  e'  la
delibera della commissione presso  il  Ministero  dell'interno  del  
 che definisce il comune di    ente non strutturalmente  deficitario,
dando atto del miglioramento sostanziale della  situazione;  venivano
richiamati poi i singoli interventi migliorativi adottati. 
    A dimostrazione della riduzione dell'anticipazione di tesoreria e
della volonta' politica di limitarne l'utilizzo  veniva  indicato  il
parere  della  commissione  del  Ministero  dell'interno  dove   sono
rilevati soltanto    euro di  interessi  per  anticipazioni  per  gli
anni    e del    poiche' vi si e' fatto ricorso solo per tre mesi nei
quali si attendevano i trasferimenti statali. 
    Quanto ai dati contabili la perizia di parte allegata  richiamava
le modifiche di questi a seguito dell'entrata in vigore del  bilancio
armonizzato. 
    Concludevano gli opponenti, dunque, chiedendo  di  accogliere  le
eccezioni preliminari,  ed  in  ogni  caso  accogliere  integralmente
l'opposizione e per l'effetto riformare integralmente e/ annullare il
decreto opposto, con ogni contestuale declaratoria  di  insussistenza
di responsabilita' in capo agli opponenti. 
    5. Con decreto presidenziale n. 246 del 1°  ottobre  2024  veniva
fissata l'udienza per la  discussione  il  giorno  31  ottobre  2024,
ritualmente notificato alla Procura regionale resistente,  unitamente
al ricorso in opposizione, in data 5 ottobre 2024. 
    6. All'udienza del 31 ottobre 2024 sono comparsi  l'Avv.  Gaetano
Callipo per gli opponenti e il V.P.G. dott. Giovanni Di Pietro per la
Procura opposta che concludevano come da verbale di udienza. 
    La causa veniva trattenuta in decisione. 
 
                               Diritto 
 
    7.  In  via  pregiudiziale  viene  in  rilievo   l'eccezione   di
incostituzionalita' dell'art. 248, comma  5,  TUEL,  per  difetto  di
motivazione e violazione dell'art. 3 della Costituzione, nella  parte
in cui, avendo previsto per gli amministratori comunali una  sanzione
interdittiva in misura fissa decennale, impedisce di  considerare  il
diverso grado di  responsabilita'  -  colpa  grave  o  dolo  -  e  di
commisurare  la  sanzione  rispetto  alla  gravita'  del  fatto,  con
violazione dei principi costituzionali di gradualita'  sanzionatoria,
proporzionalita', ragionevolezza, e parita' di  trattamento  previsti
dall'art.  3  della   Costituzione;   eccezione   prospettata   anche
confrontando la  disparita'  di  trattamento  con  i  componenti  del
collegio dei revisori, nei cui confronti la misura interdittiva  puo'
essere graduata entro la durata massima di dieci anni, come  previsto
dal comma 5-bis dello stesso art.  248  TUEL,  aggiunto  dall'art.  3
decreto-legge n. 174 del 2012,  convertivo  dalla  legge  7  dicembre
2012, n. 213. 
    La questione di legittimita' costituzionale sollevata deve essere
esaminata, in via pregiudiziale rispetto  ad  ogni  altra  eccezione,
alla luce della sua rilevanza e non manifesta infondatezza. 
    Tali profili devono avere come punto di  partenza  la  disciplina
dell'art. 248, comma  5,  TUEL  e  la  sua  portata  nell'ordinamento
interno come tracciato dalla giurisprudenza. 
    In particolare, la norma nella  sua  formulazione  antecedente  a
quella attuale prevedeva che «gli amministratori  che  la  Corte  dei
conti ha riconosciuto responsabili, anche in primo  grado,  di  danni
cagionati con dolo o colpa  grave,  nei  cinque  anni  precedenti  il
verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire,  per  un
periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei  conti
di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri  enti,
istituzioni ed organismi pubblici e privati, ove la  Corte,  valutate
le circostanze e le cause che hanno determinato il dissesto,  accerti
che questo e' diretta conseguenza delle azioni od  omissioni  per  le
quali l'amministratore e' stato riconosciuto responsabile», oltre  ad
ulteriori specifiche incandidabilita' per i Sindaci. 
    Il legislatore e' intervenuto con l'art. 3, comma 1,  lettera  s)
del decreto-legge n. 174 del 2012,  convertito  con  modifiche  dalla
legge n. 213/2012, novellando il comma 5. 
    In particolare,  la  nuova  formulazione  ha  previsto  che  «gli
amministratori che la Corte dei conti ha riconosciuto, anche in primo
grado, responsabili  di  aver  contribuito  con  condotte,  dolose  o
gravemente colpose, sia omissive che commissive, al  verificarsi  del
dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di  dieci
anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali  e
di rappresentante di enti locali presso altri  enti,  istituzioni  ed
organismi   pubblici   e   privati»,    mantenendo    le    ulteriori
incandidabilita' per  i  Sindaci  e  specificando  che  «Ai  medesimi
soggetti, ove riconosciuti responsabili, le  sezioni  giurisdizionali
regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari
ad un minimo di cinque e  fino  ad  un  massimo  di  venti  volte  la
retribuzione mensile lorda dovuta al  momento  di  commissione  della
violazione.» 
    La novella, dunque, oltre ad  introdurre  la  previsione  di  una
sanzione pecuniaria, ha eliminato il limite  di  indagine  ai  cinque
anni precedenti al dissesto e  ha  previsto  che  la  responsabilita'
possa  essere  riferita  anche  a   quelle   condotte   che   abbiano
semplicemente «contribuito» al verificarsi  del  dissesto,  in  luogo
della   precedente   impostazione   del   dissesto   quale   «diretta
conseguenza» delle condotte; quindi, vengono in rilievo quelle azioni
ed omissioni  che  abbiano  anche  solo  facilitato  o  aggravato  il
dissesto e, dunque, che si  siano  poste  in  termini  di  contributo
concausale  e  non  di  necessaria  sufficienza  alla   realizzazione
dell'evento dissesto. 
    Sotto la vigenza della  nuova  disciplina  si  e'  registrato  un
contrasto tra  alcune  pronunce  in  cui  il  giudice  contabile,  in
applicazione dell'art. 248, comma 5, TUEL, ha espressamente  irrogato
la sanzione relativa  all'incandidabilita'  degli  amministratori,  a
fronte di altre nelle quali si  e'  limitato  all'accertamento  della
responsabilita' rimettendo  l'irrogazione  della  sanzione  ad  altra
autorita'  amministrativa  («Dal  medesimo  ed   unico   accertamento
discendono, infatti, due effetti: quello di  condanna  alla  sanzione
pecuniaria, cosi' come previsto dall'art. 248, comma  5  e  5-bis,  e
quello dichiarativo, automatico  e  conseguenziale,  in  ordine  alla
sussistenza  dei  presupposti  per  l'applicazione   delle   sanzioni
interdittive o di status previste dai medesimi  commi,  che  verranno
poi irrogate dall'autorita'  amministrativa  competente»,  Corte  dei
conti, Sez. Giur. Calabria, sentenza n. 122/2021). 
    Su tale contrasto sono intervenute le Sezioni Riunite della Corte
dei conti (sentenza n. 4/2022/QM) che  hanno  indicato  il  principio
secondo cui «Con il rito sanzionatorio previsto dagli articoli 133  e
ss.  del  c.g.c.  possono  valutarsi  l'applicazione  delle  sanzioni
pecuniarie previste dai comma 5 e 5-bis  dell'art.  248  del  decreto
legislativo n. 267/2000 e i presupposti di fatto che  determinano  le
connesse misure  interdittive,  previste  dai  medesimi  commi  quali
effetto giuridico della condotta sanzionata». 
    In particolare, nel corpo delle argomentazioni,  la  sentenza  ha
ritenuto che «le sanzioni interdittive (o "di status") conseguono  di
diritto   all'unico   accertamento   della    responsabilita'    alla
contribuzione   del   dissesto,   nell'ambito   del   medesimo   rito
sanzionatorio,   in   quanto   il   positivo    accertamento    della
responsabilita' da contribuzione al dissesto si pone come  condizione
necessaria per la  sussistenza  dei  presupposti  per  l'applicazione
delle citate sanzioni  di  status:  da  tale  accertamento  discende,
infatti, il duplice effetto della condanna alla sanzione pecuniaria e
quello dichiarativo, automatico  e  consequenziale,  in  ordine  alla
sussistenza  dei  presupposti  per  l'applicazione   delle   sanzioni
interdittive di cui innanzi; 
    il giudice contabile, pertanto, ha cognizione piena  su  entrambi
gli effetti che  derivano  dall'unico  accertamento  in  ordine  alla
responsabilita' degli  amministratori  e  dei  revisori  che  abbiano
contribuito, con dolo  o  colpa  grave  e  con  condotte  omissive  o
commissive, al verificarsi del dissesto». 
    Successivamente sono intervenute anche  le  Sezioni  Unite  della
Corte di cassazione con l'ordinanza  n.  13205/2024  sul  riparto  di
giurisdizione rilevando che «la giurisdizione della Corte  dei  conti
si radica, secondo quanto previsto  dalla  citata  norma,  sull'unico
accertamento in ordine alla sussistenza  del  nesso  causale  fra  la
condotta tenuta ed il conseguente dissesto che non richiede piu'  una
causalita' diretta, bensi' il solo contributo  causale,  ma  da  esso
consegue l'irrogazione delle sole sanzioni pecuniarie, tra un  minimo
e un massimo stabilito dalla norma. 
    Invece,  le  sanzioni  interdittive,   stabilite   per   gli   ex
amministratori (differentemente che  per  i  revisori  contabili)  in
misura fissa, sono un effetto automatico previsto dalla legge,  cosi'
da non rendere necessaria una declaratoria ("comando") del giudice. 
    Dal medesimo ed unico accertamento discendono dunque due effetti:
quello di condanna alla  sanzione  pecuniaria,  cosi'  come  previsto
dall'art. 248, comma 5 e 5-bis,  del  TUEL,  e  quello  automatico  e
conseguenziale,   di   sola   "sussistenza   dei   presupposti    per
l'applicazione delle sanzioni interdittive o di status  previste  dai
medesimi  commi",   che   verranno   poi   applicate   dall'autorita'
amministrativa competente. 
    In definitiva, il legislatore, con l'art. 248, comma 5,  che  qui
interessa, del TUEL, nel testo risultante dalle modifiche  del  2012,
ha inteso attribuire espressamente al giudice contabile il potere  di
valutare la sussistenza dei presupposti per l'applicazione  non  solo
delle sanzioni pecuniarie ma anche delle sanzioni c.d.  interdittive,
ma queste ultime conseguono come effetto automatico dell'accertamento
della responsabilita' per dissesto. 
    Le sanzioni c.d. di status discendono dunque non  dalla  volonta'
del giudice, ma  dalla  volonta'  del  legislatore,  sulla  quale  la
volizione   giudiziale,   una   volta   espressasi   sull'an    della
responsabilita', non puo' incidere. 
    Ne consegue che la decisione del  giudice  contabile,  una  volta
accertata la responsabilita' dell'ex amministratore dell'Ente  locale
da dissesto, ha e deve avere, riguardo alle misure c.d.  interdittive
(quelle qui in esame),  una  chiara  portata  meramente  dichiarativa
della voluntas legis e dunque deve limitarsi  all'accertamento  della
sussistenza dei presupposti per  il  divieto  previsto  dalla  legge,
restando la relativa declaratoria-applicazione compito dell'autorita'
amministrativa competente». 
    Cio' premesso sulla portata  dell'azione  del  giudice  contabile
rispetto agli effetti di legge sullo status, il  giudizio  sottoposto
all'esame della Sezione attiene - per la parte di cui  si  discute  -
all'accertamento  di  responsabilita'  per  «aver   contribuito   con
condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive  che  commissive,
al verificarsi del dissesto finanziario» e, dunque,  dei  presupposti
per poter poi irrogare (il giudice contabile) la sanzione  pecuniaria
nei termini edittali (da cinque a venti volte la retribuzione mensile
lorda) previsti dalla norma, mentre l'ulteriore divieto di  ricoprire
cariche e, dunque, quella  che  viene  impropriamente  indicata  come
sanzione sullo status politico degli  amministratori  e'  un  effetto
ultroneo ed automatico che consegue all'accertamento dei  presupposti
(responsabilita') da parte della Corte dei conti, ma  che  viene  poi
materialmente disposto  con  provvedimento  amministrativo  da  altra
autorita' competente, la quale, stando al dato testuale della  norma,
non ha pero' alcuna discrezionalita' in merito all'an  e  al  quantum
temporale della sanzione (personale) da irrogare. 
    Da questi elementi  discende,  dunque,  l'esame  sulla  rilevanza
dell'eccezione. 
    A  tal  fine  occorre  evidenziare  che  dalla  natura  meramente
dichiarativa del provvedimento (e  dal  relativo  accertamento  della
sussistenza dei presupposti) discende l'effetto  automatico  relativo
allo status, rispetto al quale l'autorita' amministrativa preposta e'
tenuto ad adottare  il  relativo  provvedimento  senza  alcun  potere
decisionale. 
    Ora, la circostanza che la pronuncia del giudice contabile incida
solo in via mediata sull'irrogazione  della  sanzione  relativa  allo
status, non elimina di per se' la rilevanza della questione  ai  fini
della decisione, considerato che l'effetto primo e diretto e' proprio
l'accertamento dei presupposti  di  legge  per  l'applicazione  delle
condizioni di status, rispetto alle quali la Corte di  cassazione  ha
appunto chiarito che esse discendono dalla volonta'  del  legislatore
«sulla quale la volizione giudiziale, una  volta  espressasi  sull'an
della responsabilita', non puo' incidere». 
    Dunque, le limitazioni di status cosi' congeniate si  configurano
di  fatto   come   un   procedimento   bifasico,   la   prima   parte
sull'accertamento dei presupposti di fatto e  di  diritto  di  natura
giurisdizionale rimessa alla Corte dei conti e quella  successiva  di
mera determinazione sull'incandidabilita'  in  termini  fissi  e  non
modulabili di competenza dell'autorita' amministrativa. 
    In  questi  termini,  l'unico  momento  nel  quale  gli   effetti
pregiudizievoli dell'accertamento (dell'unico accertamento a  duplice
effetto  sanzionatorio,  pecuniario  e  di  status)  possono   essere
censurati di incostituzionalita' e' proprio il giudizio dinanzi  alla
Corte dei conti che non puo' non tener conto - ai fini dell'eccezione
- degli effetti di legge consequenziali al proprio decisum, ancorche'
poi irrogati da un'autorita' amministrativa. 
    Ne'  potrebbe  il  giudice  contabile  scindere  i  due   momenti
disconoscendo - ai fini della rilevanza - gli effetti  che  la  legge
collega espressamente  al  proprio  accertamento,  nel  rispetto  del
rapporto necessario tra protasi ed apodosi. 
    Peraltro,  per  come  la  norma  e'   strutturata,   emerge   che
l'accertamento della Corte  dei  conti  sul  contributo  al  dissesto
finanziario ha come primo effetto voluto dal legislatore e  vincolato
alla pronuncia (seppur poi irrogato da  altro  soggetto)  proprio  il
divieto  di  ricoprire   determinate   cariche   pubbliche   e   solo
successivamente  (ultimo  capoverso  del   comma   5)   la   sanzione
pecuniaria. 
    Quindi, essendo la condizione di status l'elemento principale che
consegue alla sentenza che accerta la responsabilita' delle condotte,
la  questione  di  legittimita'  costituzionale  della  norma  rileva
necessariamente ai  fini  della  decisione,  non  potendosi  separare
l'accertamento (prima) dai suoi effetti  (poi)  sulla  condizione  di
status (sebbene mediati dal  provvedimento  amministrativo),  essendo
effetto consequenziale e non discrezionale  («l'incandidabilita'  non
e' una "sanzione di status", ma e' un effetto ex lege che  limita  il
diritto (costituzionalmente garantito a ogni cittadino  dall'art.  51
della  Costituzione)   all'elettorato   passivo,   in   un   delicato
bilanciamento  con  altri  principi  costituzionali   sanciti   dagli
articoli 54 e 97 della Costituzione. Quando  la  norma  che  pone  il
divieto,  prescrive,  ai  fini  dell'applicazione,  la  comunicazione
all'autorita' amministrativa, a questa compete  il  potere-dovere  di
procedere in conformita'», cfr. Corte dei  conti,  sentenza  Sez.  II
App., n. 173 del 26 giugno 2023). 
    Ne' potrebbe superarsi la rilevanza della questione -  in  questa
sede - sulla considerazione  che  l'incostituzionalita'  della  norma
potrebbe essere fatta valere successivamente  a  valle  dell'adozione
dell'atto  amministrativo  sull'incandidabilita',   nella   fase   di
eventuale impugnazione. 
    Infatti, partendo dal concetto di unicita'  dell'accertamento  in
ordine alla sussistenza del nesso  causale  fra  la  condotta  tenuta
dall'amministratore  ed  il  conseguente   dissesto   e   all'effetto
«automatico previsto dalla legge, cosi' da non rendere necessaria una
declaratoria ("comando") del giudice», come  indicato  dalle  Sezioni
Unite della Corte di cassazione, viene in  evidenza  che  il  momento
topico nel quale l'eccezione assume rilevanza e' proprio  quello  nel
quale la condotta degli amministratori  viene  giudicata  e  rispetto
alla  quale  l'eccezione  di  incostituzionalita'  della  norma,  per
violazione  del  principio  di  ragionevolezza  non  prevedendo   una
sanzione di status con termini differenziati  rispetto  alle  singole
condotte in luogo del termine fisso decennale,  assume  la  rilevanza
nei termini piu' ampi. 
    Infatti,  l'eccezione  sollevata  ha  rilievo  in   questa   sede
contabile perche' la violazione dell'art. 3 (in  rapporto  anche  con
l'art. 51) della Costituzione e' riferita proprio alla necessita'  di
ancorare  l'estensione  temporale  delle  limitazioni  sullo   status
(effetto automatico che non necessita del comando del  giudice)  alle
condotte, il cui accertamento unico avviene dinanzi  alla  Corte  dei
conti e, dunque, in tale momento -  anche  ai  fini  accertativi  del
contributo causale (e delle sue modalita') - gli effetti di legge  (e
il relativo parametro di costituzionalita') incidono sulla decisione. 
    Peraltro, anche a voler ritenere che  l'effetto  di  legge  sullo
status non sia una conseguenza diretta della  pronuncia  del  giudice
contabile, ma un effetto «indiretto» dell'accertamento, in ogni  caso
la questione sarebbe rilevante, dovendosi necessariamente riferire la
valutazione sulla costituzionalita' delle norme da applicare a  tutti
gli effetti che la decisione genera. 
    Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza   si   evidenzia   che
dall'impostazione della «interpretazione adeguatrice» della  sentenza
della Corte  costituzionale  n.  356  del  1996  («le  leggi  non  si
dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile  darne
interpretazioni  incostituzionali  (e  qualche  giudice  ritenga   di
darne),   ma   perche'   e'   impossibile    darne    interpretazioni
costituzionali», cfr.  §  4)  e  dalla  successiva  previsione  della
necessita'  di  «verificare,  prima  di  sollevare  la  questione  di
costituzionalita', la concreta possibilita' di attribuire alla  norma
denunciata un significato diverso  da  quello  censurato  e  tale  da
superare i prospettati dubbi di  legittimita'  costituzionale»  (ord.
322/2001, penultimo cpv. della  parte  in  fatto  e  diritto)  si  e'
passati alla tesi contenuta nella sentenza n. 235/2014  (secondo  cui
la non condivisione della possibile soluzione ermeneutica conforme  a
Costituzione, in quanto  sufficientemente  argomentata,  «non  rileva
piu' in termini di inammissibilita' - ma solo, in tesi, di  eventuale
non fondatezza - della questione in esame», cfr. § 5 del  considerato
in diritto) e a quella della sentenza  n.  262  del  2015  («ai  fini
dell'ammissibilita' della questione, e' sufficiente che il giudice  a
quo esplori la possibilita' di un'interpretazione conforme alla Carta
fondamentale  e,  come  avviene  nel  caso  di  specie,  la   escluda
consapevolmente»,  cfr.  §  2.3  del  considerato  in  diritto),  per
approdare ai principi indicati nella sentenza n. 42 del 2017  (§  2.2
del considerato in diritto, secondo cui «Se, dunque, "le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile  darne
interpretazioni  incostituzionali  (e  qualche  giudice  ritenga   di
darne)" (sentenza n. 356 del 1996), cio' non significa che,  ove  sia
improbabile    o    difficile     prospettarne     un'interpretazione
costituzionalmente  orientata,  la   questione   non   debba   essere
scrutinata nel merito. Anzi, tale scrutinio, ricorrendo  le  predette
condizioni, si rivela, come nella specie, necessario,  pure  solo  al
fine di stabilire se la soluzione conforme a  Costituzione  rifiutata
dal giudice rimettente sia invece possibile»). 
    Sulla base di tali criteri  deve  essere  scrutinata  la  domanda
sulla legittimita' dell'art. 248, comma 5  del  TUEL  per  violazione
dell'art. 3, della Costituzione, laddove  ha  previsto  l'effetto  di
legge dell'incandidabilita' e il  divieto  di  ricoprire  determinate
cariche  per  un  termine  determinato  e  fisso   di   dieci   anni,
prescindendo dalla natura gravemente colposa o dolosa della  condotta
(o dell'entita' del  contributo  causale  all'evento  dissesto).  Sul
punto occorre premettere che il vaglio di costituzionalita' richiesto
ha  come  punto  di  riferimento  indiscutibile  l'uso   del   potere
discrezionale del Parlamento su cui non e' previsto  alcun  sindacato
(art. 28 della  legge  n.  87  del  1953),  quindi  ben  potrebbe  il
legislatore prevedere -  in  linea  astratta  -  la  contrazione  dei
diritti di elettorato passivo per un  periodo  di  dieci  anni  quale
misura afflittiva e, ancor di piu', special preventiva per  il  danno
che  gli  amministratori  hanno  provocato  (rectius  contribuito   a
provocare) con il dissesto dell'ente. 
    Tuttavia, tale limitazione - estremamente  pervasiva  andando  ad
incidere sui diritti riconosciuti dall'art. 51 della  Costituzione  -
in tanto e' ammissibile  in  quanto  sia  conforme  al  principio  di
ragionevolezza, avendo anche riguardo al modo in cui  il  legislatore
ha normato situazioni simili. 
    In questo senso gli opponenti hanno richiamato alcune fattispecie
rappresentative di casi indicati come simili, con discipline  diverse
che denoterebbero una disparita' di trattamento. 
    In particolare: 
        da un lato hanno  richiamato  la  previsione  dell'art.  248,
comma 5-bis, del TUEL che, con riferimento ai  revisori,  prevede  un
termine massimo della sanzione e, dunque, la sua modulabilita'; 
        dall'altro lato hanno  indicato  le  previsioni  del  decreto
legislativo n. 235/2012 in tema di incandidabilita' (la cui  relativa
giurisprudenza costituzionale era stata addotta dal decreto  opposto,
a supporto del rigetto dell'eccezione). 
    Quanto alla previsione  di  un  limite  massimo  del  divieto  di
ricoprire cariche (e, dunque, modulabile) per i membri  del  collegio
dei revisori, si ritiene che il termine  di  paragone  sia  privo  di
pregio,   considerato   che   diversi    sono    i    ruoli    svolti
dall'amministratore e dal revisore e diversa  e'  la  responsabilita'
che le due figure rivestono nelle dinamiche dell'ente. 
    Il revisore, infatti, sebbene  dotato  di  specifiche  competenze
professionali, e' comunque un soggetto che svolge funzione di ausilio
e di controllo dell'attivita' posta in essere dagli amministratori  i
quali, avvalendosi dell'attivita' degli uffici tecnici, gestiscono la
cosa pubblica, avendo il potere e relativo dovere di operare  per  il
meglio, in condizioni ordinarie, e con particolare oculatezza per  il
risanamento, nella gestione di crisi dell'ente (quale  la  condizione
di predissesto, con  piano  di  riequilibrio  approvato,  di  cui  si
discute). 
    La diversa qualifica soggettiva (e di funzioni) configura  dunque
fattispecie che non sono in alcun modo sovrapponibili. 
    Quanto  invece  all'eccepita   incostituzionalita'   riferita   a
gradualita'  sanzionatoria,  proporzionalita',  ragionevolezza  della
sanzione, nonche' disparita'  di  trattamento  previsti  dall'art.  3
della  Costituzione,  si  osserva  che  il  termine  fisso  decennale
indicato,  di  per  se',  non  ha  alcun   rilievo   o   profilo   di
incostituzionalita', essendo un  termine  (pari  a  due  consiliature
complete)   evidentemente   ritenuto    congruo    dal    legislatore
nell'esercizio della sua discrezionalita' normativa. 
    In merito, peraltro, non puo' non indicarsi il ruolo centrale che
assume  nell'ordinamento  -   e,   di   riflesso   nella   previsione
sanzionatoria - il bilancio dello Stato (alla cui tutela la norma  e'
orientata), a cui concorre necessariamente quello  dei  singoli  enti
locali, anche alla luce del principio di equita' intragenerazionale e
intergenerazionale a cui l'equilibrio del bilancio e' preposto (Corte
costituzionale sentenza n. 18/2019, sentenza n. 115/2020, sentenza n.
246/2021), incidente altresi' sul legame fiduciario che  caratterizza
il mandato elettorale e la rappresentanza  democratica  degli  eletti
(Corte costituzionale  sentenza  n.  228/2017)  e  in  ragione  della
necessita'  per  l'amministratore   di   porre   in   essere   azioni
indispensabili  ad  incentivare  il  buon  andamento  dei  servizi  e
pratiche  di  amministrazione  ispirate  a  una  oculata  e  proficua
spendita delle risorse  della  collettivita'  (in  tal  senso,  Corte
costituzionale sentenze n. 235 del 2021 e n. 18 del 2019). 
    Quindi, in adesione a tale impostazione  la  previsione  incisiva
sullo  status  personale  prevista  dal  legislatore  (preclusione  a
ricoprire cariche per dieci anni) - confortata  dalla  giurisprudenza
costituzionale - non  presenterebbe  profili  di  incostituzionalita'
laddove messa in relazione solamente con  il  bilancio  dello  Stato,
atteso che esso ha comunque un  ruolo  fondamentale  superindividuale
destinato ad  incidere  sulla  vita  dell'intera  cittadinanza  e  in
termini intragenerazionali, rispetto al quale l'interesse del singolo
(nei  cui  confronti  sono  state  accertate  delle  responsabilita')
sarebbe recessivo, con  l'effetto  che  la  limitazione  del  diritto
costituzionale   all'elettorato   passivo   troverebbe    ragionevole
giustificazione nell'esigenza di tutelare l'equilibrio di bilancio. 
    Tuttavia, se letta nel sistema della  incandidabilita'  ex  lege,
allora la previsione dell'art. 248, comma 5, TUEL  si  evidenzia  per
alcune  peculiarita'  di  fondo  che  non  sono  giustificate   dalla
preminenza del bilancio dello Stato e dell'equilibrio a cui  esso  e'
orientato (art. 97 della Costituzione) e che stridono con il rispetto
dei  criteri  di   gradualita'   «sanzionatoria»,   proporzionalita',
ragionevolezza, nonche' di parita' di trattamento ai quali la  stessa
discrezionalita' del legislatore deve conformarsi. 
    In  particolare,  fermi  restando  i  principi   espressi   dalla
giurisprudenza costituzionale, appare non manifestamente infondata la
questione  di  legittimita'  costituzionale  laddove  prospetta  come
irragionevole la previsione di  una  automatica  incandidabilita'  (e
divieto di ricoprire cariche) per un termine fisso di dieci anni  per
una condotta, anche di  natura  gravemente  colposa,  che  abbia  non
«determinato» (come nella  versione  originaria  della  disposizione,
rispetto alla quale  l'eccezione  d'incostituzionalita'  non  avrebbe
avuto rilievo), ma anche solo «contribuito» - peraltro  senza  limiti
di tempo - al dissesto dell'ente. 
    Vengono infatti unificate ai fini dell'incandidabilita', violando
irragionevolmente  il  principio  di  parita'  di  trattamento  e  di
proporzionalita',  le  condotte  connotate  da   dolo   che   abbiano
determinato con contributo estensivamente incisivo  e  protratto  nel
tempo il dissesto dell'ente con quelle condotte, invece, connotate da
colpa grave, circoscritte magari  a  singoli  episodi  risalenti  nel
tempo  (anche  a  consiliature  antecedenti  un  eventuale  piano  di
riequilibrio finanziario),  ma  che  secondo  la  nuova  formulazione
abbiano comunque  «contribuito»,  ancorche'  in  maniera  minima,  al
dissesto dell'ente. 
    La previsione  di  una  incandidabilita'  (divieto  di  ricoprire
cariche) decennale, ancorche' non sia configurabile come sanzione nei
termini  indicati  dalla  giurisprudenza,   in   ogni   caso   incide
inevitabilmente nella vita (e, dunque, sui diritti costituzionalmente
garantiti)  degli  amministratori  e,  pertanto,  l'effetto  ex  lege
previsto  dal  legislatore  deve  rientrare   nel   parametro   della
ragionevolezza  riferita,  da  un  lato,  al  diritto  all'elettorato
passivo di cui all'art. 51 della  Costituzione  e,  dall'altro,  alla
tutela degli interessi costituzionali protetti dagli  articoli  54  e
97, della Costituzione. 
    Inoltre,  secondo   la   prospettazione   dei   convenuti,   tale
irragionevolezza  emergerebbe   anche   dal   raffronto   con   altre
fattispecie. 
    Sul punto si osserva che lo stesso TUEL  prevede,  all'art.  143,
comma  11,  l'ipotesi  d'incandidabilita'  per  gli   amministratori,
relativa  allo  scioglimento  dei  consigli  comunali  e  provinciali
conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di  tipo
mafioso o similare,  disponendo  espressamente,  fatte  salve  misure
interdittive o accessorie, che «gli amministratori responsabili delle
condotte che hanno dato causa allo scioglimento di  cui  al  presente
articolo non possono essere candidati alle elezioni per la Camera dei
deputati, per il Senato della Repubblica e per il Parlamento  europeo
nonche'   alle   elezioni   regionali,   provinciali,   comunali    e
circoscrizionali, in relazione ai  due  turni  elettorali  successivi
allo  scioglimento  stesso,  qualora  la  loro  incandidabilita'  sia
dichiarata con provvedimento definitivo».  Tale  fattispecie  ricorre
nell'ipotesi, disciplinata dal primo comma dell'art. 143, allorquando
«emergono concreti, univoci  e  rilevanti  elementi  su  collegamenti
diretti o indiretti con la criminalita' organizzata di tipo mafioso o
similare degli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, ovvero  su
forme  di  condizionamento  degli   stessi,   tali   da   determinare
un'alterazione del procedimento di formazione  della  volonta'  degli
organi  elettivi  ed  amministrativi  e  da  compromettere  il   buon
andamento  o  l'imparzialita'  delle   amministrazioni   comunali   e
provinciali, nonche' il regolare funzionamento dei  servizi  ad  esse
affidati, ovvero che risultino tali da arrecare  grave  e  perdurante
pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica». 
    Oltre questa fattispecie viene in rilievo -  e  richiamata  dagli
opponenti - l'incandidabilita'  di  cui  al  decreto  legislativo  n.
235/2012, rispetto alla quale ha argomentato il decreto  opposto  nel
rigettare l'eccezione d'incostituzionalita'. 
    In particolare, con  riferimento  agli  enti  locali,  l'art.  10
prevede l'incandidabilita'  alle  elezioni  provinciali,  comunali  e
circoscrizionali e comunque il divieto  di  ricoprire  la  carica  di
amministratore (sindaco, assessore, consigliere,  etc.),  per  coloro
che hanno riportato condanne definitive per fattispecie delittuose di
particolare rilievo sociale (associazione di tipo  mafioso,  traffico
di sostanze stupefacenti,  in  tema  di  immigrazione  e  terrorismo,
diverse ipotesi di delitti compiuti da pubblici ufficiali  contro  la
pubblica amministrazione, quali  peculato,  concussione,  corruzione,
etc.), oltre alle ipotesi di  condanna  definitiva  per  delitti  non
colposi con condanna non inferiore a due anni di  reclusione  e  alle
ipotesi di applicazione  definitiva  di  misura  di  prevenzione  per
appartenenza ad associazioni (tra cui quella di tipo mafioso). 
    Rispetto a tali ipotesi, tuttavia, l'art. 15,  comma  3,  prevede
che «La sentenza di riabilitazione, ai sensi  degli  articoli  178  e
seguenti del codice penale, e' l'unica causa di estinzione anticipata
dell'incandidabilita' e ne comporta la cessazione per il  periodo  di
tempo residuo». 
    Dunque, viene in rilievo che il legislatore, a fronte di  ipotesi
di condanna definitiva per delitti  che  incidono  significativamente
nella vita della pubblica amministrazione (si pensi oltre all'ipotesi
dell'art. 416-bis del codice penale anche al peculato, concussione  o
corruzione) prevede la possibilita' di limitare l'incandidabilita' e,
cosi',  restituire  al  condannato  il  diritto  elettorale  passivo,
tramite l'istituto della riabilitazione. 
    Per contro, tale possibilita' di porre fine  all'incandidabilita'
e' preclusa nell'ipotesi in cui un amministratore, a titolo di  colpa
grave, con la propria  condotta  anche  risalente  nel  tempo,  abbia
«contribuito» al dissesto dell'ente. 
    Tale disparita' di trattamento sembra indicare la  non  manifesta
infondatezza  dell'eccezione  di  incostituzionalita'  della   norma,
rispetto al parametro dell'art. 3 della Costituzione, sollevata dalle
parti opponenti. 
    Se nelle due fattispecie indicate la contrazione del  diritto  di
elettorato  passivo  trova   una   sua   necessaria   giustificazione
costituzionale con riferimento a  quelle  omissioni  che  incidono  o
sulle condizioni morali  degli  amministratori  (incandidabilita'  ai
sensi del  decreto  legislativo  n.  235/2012,  relativa  a  condanne
definitive) o a  responsabilita'  relative  a  infiltrazioni  mafiose
(art. 143, comma 11, TUEL), la stessa misura appare  irragionevole  -
considerato che viene applicata in misura  fissa  e  non  graduata  -
rispetto  ad  ipotesi   in   cui   non   solo   manca   l'incisivita'
dell'infiltrazione mafiosa (elemento che  inquina  l'intero  apparato
amministrativo non solo da un punto  di  vista  economico,  ma  anche
morale e di rispetto della legalita') o l'accertamento definitivo  di
reati associativi o connessi con la funzione  pubblica  esercitata  a
danno  dell'amministrazione  stessa,  ma  addirittura   si   potrebbe
assistere a condotte risalenti nel tempo (non essendo  piu'  previsto
il termine degli ultimi cinque anni), caratterizzate da  colpa  grave
(espressione dell'incapacita' di amministrare) e che hanno  meramente
«contribuito» al dissesto, eventualmente anche in  maniera  marginale
(in luogo del precedente «determinato»). 
    Rispetto  alla   stessa   norma,   dunque,   il   termine   fisso
d'incandidabilita' (o divieto di ricoprire determinate  cariche)  per
dieci anni appare irragionevole laddove unifica sia ipotesi di  colpa
grave che  dolo,  nonche'  condotte  «determinanti»  con  quelle  che
esprimono  un  mero  «contributo»,  senza  alcuna   possibilita'   di
distinzione e di graduazione. 
    Inoltre, proprio perche' il  profilo  di  incostituzionalita'  ai
fini della non manifesta infondatezza deve essere vagliato alla  luce
di discipline simili, non  appare  sorretto  da  proporzionalita'  la
previsione di incandidabilita' per un periodo di dieci anni  per  gli
amministratori che hanno solo «contribuito» anche in un tempo  remoto
e a titolo di colpa grave, senza alcuna possibilita' di  emendazione,
a fronte di ipotesi in cui pur in presenza di condanna in sede penale
(es. ex art. 10, decreto legislativo  n.  235/2012)  con  conseguente
incandidabilita', e' prevista la possibilita' di poter tornare a  far
parte dell'elettorato passivo, grazie alla sentenza di riabilitazione
ex articoli 178 ss. del codice penale. 
    In   altri   termini,   il   principio   di   ragionevolezza    e
proporzionalita' della previsione dell'art. 248, comma 5,  TUEL,  non
appare rispettato dalla norma, laddove  viene  trattata  con  maggior
rigore la semplice ipotesi di colpa  grave  per  un  mero  contributo
causale   al   dissesto,   ancorche'   risalente   nel   tempo   (con
incandidabilita' assoluta per dieci anni) rispetto alle  ipotesi,  ad
esempio, di condanna definitiva per reati di associazione  mafiosa  o
contro la pubblica amministrazione,  per  le  quali  e'  prevista  la
possibilita' di riabilitazione. 
    Peraltro, la stessa norma appare irragionevole e  contraddittoria
sotto un altro profilo. 
    Infatti,  ove  si  ritenesse  non  irragionevole  il  divieto  di
ricoprire determinate cariche per dieci anni degli amministratori che
hanno contribuito al dissesto  dell'ente,  rispetto  a  condotte  che
incidono sulla stessa moralita' ed onesta' dei medesimi e che  vedono
la possibilita' di  ridurre  o  far  cessare  l'incandidabilita',  in
ragione della  prevalenza  delle  esigenze  di  tutela  del  bilancio
potenzialmente pregiudicato dalla mala gestio  degli  amministratori,
si' da precludere la possibilita'  che  continuino  ad  amministrare,
viene in rilievo la circostanza  che  agli  stessi  sia  preclusa  la
possibilita' per dieci anni di ricoprire la carica di  assessore,  di
revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti  locali
presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici  e  privati,  ma
possono essere  eletti  Sindaci  e  quindi  gestire  non  la  singola
attivita' delegata, ma l'intera amministrazione  comunale.  Per  tali
ragioni l'impossibilita'  di  interpretare  secondo  Costituzione  la
norma   induce   a   prospettare   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  248,  comma  5,  decreto  legislativo   n.
267/2000, laddove  dispone  per  gli  amministratori  il  divieto  di
ricoprire incarichi di assessore,  di  revisore  dei  conti  di  enti
locali  e  di  rappresentante  di  enti  locali  presso  altri  enti,
istituzioni ed organismi pubblici e privati, per un periodo fisso  di
dieci anni e  non  graduabile,  a  fronte  di  condotte  che  abbiano
contribuito al dissesto dell'ente, sia a titolo di dolo che di  colpa
grave. 
    2. Pertanto, ai sensi e per gli effetti degli articoli 134  della
Costituzione  e  23  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,   devono
dichiararsi rilevanti e non manifestamente infondate le questioni  di
legittimita' costituzionale  dell'art.  248,  comma  5,  del  decreto
legislativo n. 267/2000 sopra  prospettate,  e  deve  di  conseguenza
disporsi  la  sospensione  del   giudizio   in   oggetto,   ordinando
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale  e  gli
altri adempimenti a cura della cancelleria di cui al dispositivo. 
    3. Le spese  del  giudizio  saranno  liquidate  alla  definizione
integrale del merito della presente controversia. 

 
                               P.Q.M. 
 
    La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Calabria,  non
definitivamente  pronunciando  con   riferimento   al   giudizio   di
opposizione ex art. 135  c.g.c.  relativo  a  giudizio  sanzionatorio
iscritto al n. 23983 del Registro di Segreteria: 
        Visti l'art. 134 della Costituzione e l'art. 23  della  legge
11 marzo 1953, n. 87; 
        Dichiara  rilevanti  e  non  manifestamente   infondate,   in
riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione, le questioni  di
legittimita' costituzionale  dell'art.  248,  comma  5,  del  decreto
legislativo  n.  267/2000,  prospettate  nei  termini   di   cui   in
motivazione; 
        Ordina la sospensione del giudizio; 
        Ordina alla Segreteria della Sezione di provvedere: 
          all'immediata   trasmissione   degli   atti   alla    Corte
costituzionale; 
          alla notificazione della presente ordinanza alle  parti  in
causa, al pubblico  ministero  e  al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
          alla comunicazione della presente ordinanza  ai  Presidenti
delle Camere del Parlamento; 
          ad ogni altro adempimento di competenza. 
        Spese del giudizio al definitivo. 
          Cosi' deciso in Catanzaro nelle camere di consiglio del  31
ottobre - 11 dicembre 2024. 
 
                Il Presidente f.f.: Marre' Brunenghi