Reg. ord. n. 62 del 2025 pubbl. su G.U. del 16/04/2025 n. 16
Ordinanza del Corte dei conti del 10/02/2025
Tra: D. L.P. e altri
Oggetto:
Responsabilità amministrativa e contabile – Comuni, province e città metropolitane – Dichiarazione di dissesto – Conseguenze per gli amministratori che sono stati riconosciuti, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, al verificarsi del dissesto finanziario – Sanzioni interdittive – Divieto di ricoprire per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati – Incandidabilità, per un periodo di dieci anni, per i sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili per la medesima fattispecie, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo – Irragionevolezza della previsione di una misura interdittiva (incandidabilità o divieto di ricoprire cariche) in misura fissa (dieci anni) per una condotta, anche di natura gravemente colposa, che non abbia determinato ma anche solo contribuito, peraltro senza limiti di tempo, al dissesto dell’ente – Contrasto con i principi di gradualità sanzionatoria, proporzionalità, ragionevolezza ed eguaglianza – Irragionevole parificazione, sotto il profilo sanzionatorio, di condotte sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sia in relazione all’incidenza del loro contributo al dissesto o alla loro durata – Lesione del diritto di elettorato passivo – Disparità di trattamento con riferimento a fattispecie che incidono o sulle condizioni morali degli amministratori o riguardano responsabilità relative a infiltrazioni mafiose per le quali sussiste la possibilità di limitare la durata dell’incandidabilità tramite l’istituto della riabilitazione – Irragionevolezza di un termine fisso di incandidabilità (o divieto di ricoprire determinate cariche) sotto il profilo della mancata differenziazione o graduazione della colpa grave rispetto al dolo, nonché delle condotte “determinanti” rispetto ai quelle che esprimono un mero “contributo” – Irragionevolezza del divieto di ricoprire alcune cariche non preclusivo della possibilità di essere eletti per l’esercizio di funzioni non riguardanti la singola attività delegata ma l’intera amministrazione locale.
Norme impugnate:
decreto legislativo
del 18/08/2000
Num. 267
Art. 248
Co. 5
Parametri costituzionali:
Costituzione
Art. 3
Co.
Costituzione
Art. 51
Co.
Udienza Pubblica del 3 dicembre 2025 rel. BUSCEMA
Testo dell'ordinanza
N. 62 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 febbraio 2025
Ordinanza del 10 febbraio 2025 della Corte dei conti sezione
giurisdizionale per la Regione Calabria sul ricorso proposto da D.
L.P. e altri.
Responsabilita' amministrativa e contabile - Comuni, province e
citta' metropolitane - Dichiarazione di dissesto - Conseguenze per
gli amministratori che sono stati riconosciuti, anche in primo
grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o
gravemente colpose, al verificarsi del dissesto finanziario -
Sanzioni interdittive - Divieto di ricoprire, per un periodo di
dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti
locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti,
istituzioni ed organismi pubblici e privati - Incandidabilita', per
un periodo di dieci anni, per i sindaci e i presidenti di provincia
ritenuti responsabili per la medesima fattispecie, alle cariche di
sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta
regionale, nonche' di membro dei consigli comunali, dei consigli
provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del
Parlamento e del Parlamento europeo.
- Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali), art. 248, comma 5.
(GU n. 16 del 16-04-2025)
LA CORTE DEI CONTI
Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria
Composta dai seguenti magistrati:
Carlo Efisio Marre' Brunenghi - Presidente f.f.;
Sabrina Facciorusso - Giudice;
Guido Tarantelli - Giudice relatore;
Ordinanza
Nel ricorso in opposizione ex art. 135 c.g.c. relativo a giudizio
sanzionatorio iscritto al n. 23983 del registro di Segreteria,
promosso da:
D. L. P., nato a il e ivi residente ;
A. V., nato a il e ivi residente ( );
G. R., nato a il e ivi residente ( );
P. P., nato a il e ivi residente ( ),
tutti rappresentati e difesi, come da procura alle liti in atti,
dall'avv. Gaetano Callipo (CLLGTN64R11E041M) del foro di Palmi, con
domicilio digitale eletto all'indirizzo di posta elettronica
certificata gaetano.callipo@pec.it - ricorrenti
contro:
Procura presso la Sezione giurisdizionale per la Regione
Calabria della Corte dei conti, PEC:
calabria.procura@corteconticert.it - resistente
esaminati gli atti e i documenti di causa;
nella pubblica udienza del 31 ottobre 2024, data per letta la
relazione sul consenso delle parti e udito per il ricorrente l'Avv.
Gaetano Callipo, e per la Procura resistente il V.P.G. dott. Giovanni
Di Pietro, i quali concludevano come da verbale di udienza.
Fatto
1. Con ricorso del 28 maggio 2024, la Procura regionale ha
chiesto l'emissione di un decreto per l'applicazione delle sanzioni
previste dall'art. 248, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto
2000, n. 267 (di seguito TUEL) - e, dunque, ferma restando
l'applicazione delle misure interdittive afferenti allo status,
l'irrogazione di una sanzione pecuniaria pari a dieci volte la
retribuzione mensile lorda dovuta al momento della commissione della
violazione - nei confronti dei signori L. P. D. (per euro ), D. F.
(per euro ), V. A. (per euro ), R. G. (per euro ), P. P.
(per euro ) e S. M. (per euro ), nella qualita' di componenti
della Giunta comunale di , i quali, dopo l'approvazione del piano
di riequilibrio, non avrebbero posto in essere in modo effettivo le
misure e gli interventi necessari per realizzare il risanamento
dell'ente e, come accertato dalla sezione di Controllo nella
deliberazione n. 24 del 6 marzo 2019, avrebbero aggravato la
situazione economico finanziaria dell'ente, perche' responsabili di
avere contribuito, con le proprie condotte gravemente colpose, al
verificarsi del dissesto finanziario dell'ente locale, poi deliberato
dal consiglio comunale.
La domanda della Procura regionale seguiva la citata
deliberazione n. 24/2019 della Sezione di controllo per la Regione
Calabria nella quale non veniva approvato il piano di riequilibrio
finanziario predisposto dall'ente locale sussistendo rilevanti
criticita' dovute alla mancata copertura del disavanzo secondo le
previsioni del piano, alla presenza di una situazione debitoria non
corrispondente a quella descritta nel piano e ritenuta di maggiore
consistenza, anche in considerazione della mancata definizione di
accordi transattivi e di rateizzazione con i creditori, ad
un'evidente e rilevante difficolta' di riscossione delle entrate, al
mancato e insufficiente recupero dell'evasione tributaria, alle
discrasie e anomalie riscontrate nella gestione del fondo cassa
dell'ente, ad irregolarita' contabili, al ritardo nella definizione
dei pagamenti conseguenti ai piani di rientro dal debito sottoscritti
con la Regione Calabria.
La deliberazione di mancata approvazione del piano di
riequilibrio veniva confermata, in sede d'impugnazione, dalla
sentenza delle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale
composizione n. 18/2019 con conseguente adozione da parte del
consiglio comunale di della deliberazione n. del di dissesto
dell'ente.
In particolare, nella prospettazione della Procura la
dichiarazione dello stato di dissesto esprimeva una situazione di
irreversibile precarieta' finanziaria che trovava nelle gestioni
protratte per anni le cause (e concause) dell'evento poi accertato.
Sicche', gia' nel momento di ricorso alla procedura di riequilibrio
finanziario pluriennale si presuppone vi fosse una situazione di
grave criticita' dell'ente, tale da fare apparire non adeguato il
ricorso alle misure di salvaguardia degli equilibri di bilancio e di
riconoscimento di legittimita' di debiti fuori bilancio, previste
dagli articoli 193 e 194 del TUEL.
Pertanto, approvato il piano di riequilibrio, gli amministratori
dovevano attuare il risanamento ed applicare tutte le misure previste
per assicurare l'incameramento delle risorse destinate a finanziarlo
ed agire per evitare di aggravare la massa passiva come determinata
al momento della sua approvazione.
Rispetto a tali premesse, secondo la Procura, il Comune di non
aveva rispettato le condizioni fissate al momento dell'approvazione
del piano di riequilibrio, poiche' la massa passiva risultava piu'
consistente di quella stimata (anche per la sopravvenienza di nuovi e
ulteriori debiti e voci passive), le risorse individuate per il
ripiano dello squilibrio non erano state effettivamente conseguite e
alcune leve di risanamento, avevano contribuito ad ampliare il
disavanzo complessivo dell'ente, anziche' ridurlo.
Pertanto, veniva contestata ai convenuti una responsabilita' per
le condotte tenute rispetto agli interventi necessari per attuare le
misure previste dal piano di riequilibrio pluriennale, rappresentando
che la quantificazione della massa passiva da ripianare era stata
effettuata senza svolgere la rigorosa ricognizione dei debiti
preesistenti, richiesta dall'art. 243-bis del Tuel, e che, anche
durante l'attuazione del piano, le condotte assunte, attive ed
omissive, avevano concorso ad ampliare ed estendere la massa passiva
realmente gravante sull'ente.
2. I resistenti si costituivano in giudizio sollevando eccezioni
di difetto di giurisdizione (poiche' l'effetto interdittivo e'
previsto come automatico dall'art. 248, quinto comma, del TUEL, la
cui applicazione compete all'autorita' amministrativa), di
inammissibilita' della domanda, e di incostituzionalita' dell'art
248, quinto comma, (per violazione dei principi costituzionali di
ragionevolezza e di gradualita' di cui all'art. 3 della Costituzione
rispetto alla previsione della sanzione interdittiva fissa decennale
dinanzi a un diverso grado di responsabilita', anche confrontandola
con la gradualita' della sanzione prevista per i componenti del
collegio sindacale).
Nel merito, sotto diversi profili, veniva eccepita l'infondatezza
del ricorso per difetto di prova, carenze istruttorie, inesistenza
del nesso di causalita' e dell'elemento psicologico, chiedendone il
rigetto.
In particolare, veniva contestato che l'applicazione delle
sanzioni (pecuniarie e interdittive) fosse stata richiesta senza
indicare le azioni od omissioni poste in essere dall'organo di
indirizzo, con dolo o colpa grave, oltre alla circostanza che lo
stato di decozione finanziaria dell'ente, a cui non si e' riusciti a
ovviare, risaliva ad un periodo in cui nessuno dei resistenti era in
carica, ne' veniva indicato come gli amministratori vi avessero
contribuito.
Inoltre, la difesa rappresentava che il Comune di era stato
amministrato da un Commissario Prefettizio da a e che per il
periodo in contestazione ( ) i convenuti avevano amministrato per
un limitato e differente periodo di tempo, rispetto al quale non
erano state differenziate le varie responsabilita'.
Veniva dunque contestato l'asserito apporto causale degli
amministratori alle criticita' economico-finanziarie foriere del
dissesto, avuto specifico riguardo al ripiano del disavanzo, alla
situazione debitoria dell'ente, alla gestione delle entrate, alla
revisione della spesa, alle anticipazioni di liquidita', alle
anticipazioni di tesoreria e ai disallineamenti di cassa.
3. Ad esito della Camera di consiglio del 18 luglio 2024 il
Giudice Monocratico, con decreto n. 4/2024 (depositato in data 20
agosto 2024 e notificato al procuratore costituito in data 28 agosto
2024), ha cosi' statuito:
«1) rigetta il ricorso nei confronti delle convenute signore
D. F. e S. M.;
2) accerta, ai sensi e per gli effetti dell'art. 248, quinto
comma, del decreto legislativo n. 267/2000, la responsabilita' dei
convenuti signori L. P. D., V. A., R. G. e P. P., a titolo di colpa
grave, in relazione al dissesto finanziario del Comune di ,
dichiarato con la deliberazione del consiglio comunale n. del ;
3) condanna i convenuti al pagamento della sanzione
pecuniaria in favore del Comune di determinata per ciascuno come
segue: L. P. D. in euro ; V. A. in euro ; R. G. in euro P.
P. in euro ;
4) assegna il termine di quaranta giorni dalla notificazione
del presente decreto ai fini del pagamento immediato, in favore del
Comune di , delle suindicate sanzioni pecuniarie nella misura
ridotta, pari al 30%, ai sensi dell'art. 134, secondo comma, c.g.c.;
5) condanna i convenuti L. P. D. V. A. R. G. e P. P. al
pagamento, in solido, delle spese di giudizio in favore dell'Erario,
che si quantificano come da nota segretariale a margine;
6) condanna il Comune di al pagamento della complessiva
somma di euro oltre IVA, CPA e spese generali, a titolo di onorari
e diritti spettanti alla difesa delle convenute D. F. e S. M.;
7) Dispone la trasmissione del provvedimento alle autorita'
competenti, a cura della Procura Regionale presso questa Sezione
giurisdizionale, come indicato in motivazione».
4. Avverso tale decreto gli odierni ricorrenti formulavano
ricorso in opposizione ex art. 135 c.g.c. replicando, in via
preliminare, le eccezioni gia' formulate nel giudizio dinanzi al
giudice monocratico.
4.1 Nello specifico veniva eccepito il difetto di giurisdizione
della Corte dei conti in relazione alla domanda di applicazione delle
sanzioni interdittive, come formulata dalla Procura regionale,
richiamava i principi di diritto (Cassazione n. 13205 del 14 maggio
2024) secondo cui «In tema di enti locali, in caso di dichiarazione
di dissesto del Comune, le sanzioni interdittive per gli
amministratori, previste ex art. 248 TUEL, conseguono di diritto
all'accertamento dei relativi presupposti da parte del giudice
contabile, senza che quest'ultimo possa procedere alla loro
applicazione diretta, riservata all'autorita' amministrativa
competente, determinandosi altrimenti un eccesso di potere
giurisdizionale» e lamentava che il rigetto dell'eccezione nel
decreto opposto sarebbe infondata, atteso che nel ricorso
introduttivo la Procura Regionale aveva richiesto proprio la diretta
irrogazione delle sanzioni interdittive carico degli amministratori
(cfr. pag. 38 ricorso) e il Giudice avrebbe dovuto rigettare la
domanda sulle sanzioni interdittive, chieste in via di diretta
applicazione, risultando cosi' una pronuncia viziata da ultra
petizione.
4.2 Veniva poi sollevata eccezione di incostituzionalita'
dell'art. 248, comma 5, TUEL, per difetto di motivazione e violazione
dell'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui, avendo previsto
per gli amministratori comunali una sanzione interdittiva in misura
fissa decennale, impedisce di considerare il diverso grado di
responsabilita' - colpa grave o dolo - e di commisurare la sanzione
rispetto alla gravita' del fatto, con evidente violazione dei
principi costituzionali di gradualita' sanzionatoria,
proporzionalita', ragionevolezza, e parita' di trattamento previsti
dall'art. 3 della Costituzione.
La violazione dei principi costituzionali veniva prospettata
anche in considerazione della disparita' di trattamento rispetto ai
componenti del collegio dei revisori, nei cui confronti la misura
interdittiva puo' essere graduata entro la durata massima di dieci
anni, come previsto dal comma 5-bis dello stesso art. 248 TUEL,
aggiunto dall'art. 3 del decreto-legge n. 174 del 2012, convertivo
dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213.
In particolare, il decreto opposto aveva rigettato l'eccezione
richiamando la giurisprudenza costituzionale che ha qualificato il
bilancio come bene pubblico e le sentenze n. 236/2015, n. 276/2016 e
n. 230 del 2021 - con cui erano gia' state dichiarate non fondate le
questioni di legittimita' costituzionale riguardanti le norme
contenute nel decreto legislativo n. 235/2012 in tema di
incandidabilita' - sul presupposto che le norme del citato decreto
legislativo n. 235/2012 fossero «sovrapponibili» alle disposizioni
sanzionatorie dell'art. 248 comma 5 TUEL.
Secondo gli opponenti non vi sarebbe sovrapponibilita' tra le
disposizioni del decreto legislativo n. 235/2012 (che riguarda
esclusivamente cause speciali di incandidabilita' e di divieto di
ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze
definitive di condanna per (gravi) delitti non colposi, a norma
dell'art. 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190) e quelle
dell'art. 248 comma 5 TUEL (per ipotesi di incandidabilita'
conseguenti a condanne per c.d. responsabilita' da dissesto), ne'
sarebbe possibile alcuna applicazione analogica per ampliare le cause
d'incompatibilita' del decreto legislativo n. 235/2012, stante la
loro specialita' (veniva indicata sul punto la sentenza della Corte
costituzionale n. 56 dell'8 marzo 2022 che ha dichiarato ammissibile
la richiesta di referendum per abrogare l'intero decreto legislativo
n. 235/2012).
Peraltro, la giurisprudenza costituzionale richiamata nel decreto
non avrebbe mai riguardato i principi costituzionali di gradualita'
sanzionatoria, proporzionalita', ragionevolezza della sanzione,
nonche' di parita' di trattamento previsti dall'art. 3 della
Costituzione, considerato che l'art. 13 del decreto legislativo n.
235/2012 prevede la graduazione e la commisurazione della durata
(quantomeno quella massima) dell'incandidabilita', rispetto alla
entita' della condanna e quindi del delitto commesso, mentre l'art.
14 consente di estinguere la stessa incandidabilita' per effetto
della riabilitazione; meccanismi di graduazione e superamento della
incandidabilita' (che incide sul diritto costituzionale
all'elettorato passivo) anche a fronte delle ipotesi di condanne
penale per gravi delitti, che sono invece assenti nella
responsabilita' da dissesto (dove e' graduata solo la sanzione
pecuniaria e non quella piu' afflittiva che incide sul diritto
costituzionale di elettorato passivo, tenuto anche conto dell'ampia
gamma di condotte degli amministratori).
I ricorrenti lamentavano poi la disparita' di trattamento degli
amministratori rispetto ai componenti dell'organo di revisione, che
invece beneficiano della graduazione della sanzione rispetto alla
loro responsabilita', pur essendo richiesta la loro compartecipazione
necessaria nelle dinamiche di bilancio.
Rispetto a tali profili, dunque, veniva indicata la
giurisprudenza costituzionale espressione della necessaria
applicazione del principio di proporzionalita' in sede sanzionatoria
(sentenza n. 51/2024 secondo cui: «Numerose sentenze di questa Corte
hanno pero' ritenuto in contrasto, tra l'altro, con l'art. 3 della
Costituzione disposizioni che prevedevano l'automatica destituzione
di altri pubblici dipendenti, ovvero l'automatica cancellazione di
professionisti dall'albo, in conseguenza della loro condanna in sede
penale per determinati reati. 3.2.1.- Gia' la sentenza n. 971 del
1988 aveva colpito la previsione della destituzione di diritto degli
impiegati civili dello Stato e dei dipendenti degli enti locali della
Regione Siciliana a seguito di condanna per taluni delitti.
«L'indispensabile gradualita' sanzionatoria, ivi compresa la
misura massima destitutoria» - si era affermato in quell'occasione -
«importa [...] che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora,
alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in
difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo
automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 della
Costituzione» (punto 3 del Considerato in diritto). Poco dopo, in
relazione ai notai, la sentenza n. 40 del 1990 affermo' essere
«indispensabile che il "principio di proporzione" che e' alla base
della razionalita' che domina il "principio di eguaglianza", regoli
sempre l'adeguatezza della sanzione al caso concreto».
Conseguentemente, essa dichiaro' costituzionalmente illegittimo
l'«automatismo di un'unica massima sanzione [la destituzione],
prevista indifferentemente per l'infinita serie di situazioni che
stanno nell'area della commissione di uno stesso pur grave reato».
Automatismo che si ritenne non potesse «reggere il confronto con il
principio di eguaglianza che, come esige lo stesso trattamento per
identiche situazioni, postula un trattamento differenziato per
situazioni diverse». Identica ratio decidendi si riscontra: - nella
sentenza n. 158 del 1990, relativa alla radiazione automatica dei
dottori commercialisti; - nella sentenza n. 16 del 1991, concernente
la destituzione di diritto del dipendente regionale; - nella sentenza
n. 197 del 1993, sulla destituzione di diritto del personale
dipendente delle amministrazioni pubbliche a seguito del passaggio in
giudicato della sentenza di condanna per taluni reati, ovvero della
definitivita' del provvedimento applicativo di una misura di
prevenzione per appartenenza ad associazione di tipo mafioso; - nella
sentenza n. 2 del 1999, in materia di radiazione automatica dall'albo
dei ragionieri e periti commerciali. In epoca piu' recente, rispetto
al personale militare, la sentenza n. 268 del 2016 (riprendendo e
approfondendo principi gia' espressi nella precedente sentenza n. 363
del 1996) ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale di una
disciplina che non prevedeva l'instaurazione del procedimento
disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado,
conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai
pubblici uffici irrogata dal giudice penale. «[A] causa dell'ampiezza
dei presupposti a cui viene collegata l'automatica cessazione dal
servizio», si e' in questa occasione osservato, «le disposizioni
impugnate non possono validamente fondare, in tutti i casi in esse
ricompresi, una presunzione assoluta di inidoneita' o indegnita'
morale o, tanto meno, di pericolosita' dell'interessato, tale da
giustificare una sanzione disciplinare cosi' grave come la perdita
del grado con conseguente cessazione dal servizio. L'automatica
interruzione del rapporto di impiego e', infatti, suscettibile di
essere applicata a una troppo ampia generalita' di casi, rispetto ai
quali e' agevole formulare ipotesi in cui essa non rappresenta una
misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito».
4.3 Cio' premesso i ricorrenti si opponevano al decreto per
violazione dell'art. 248, comma 5, TUEL sotto diversi profili
(difetto di motivazione, omessa valutazione di fatti ed atti
rilevanti ai fini del giudizio, difetto di prova e carenze
istruttorie, carenza dei presupposti, difetto del nesso di
causalita', difetto dell'elemento psicologico, violazione delle norme
di contabilita'). In particolare, lamentavano che il decreto opposto
avesse desunto la sussistenza dell'elemento psicologico della colpa
grave unicamente dalla conoscenza sin dal 2012 della condizione di
squilibrio strutturale dell'ente locale e la sussistenza del nesso
causale dalla deliberazione del dissesto dell'ente locale secondo cui
«l'aggravamento della condizione economica e finanziaria dell'ente
locale nel triennio (periodo in cui i resistenti erano tutti in
carica) ha irreversibilmente compromesso l'equilibrio di bilancio
dell'ente e che parte degli odierni resistenti, quali amministratori
pro tempore, non hanno adottato politiche di bilancio funzionali al
risanamento dell'ente, cosi' contribuendo al dissesto del Comune
di », con una responsabilita' da dissesto che non sarebbe
dimostrata, ma conseguenza di un mero automatismo del dissesto
stesso.
Dunque, sarebbe stata ravvisata la responsabilita' di (alcuni)
amministratori in quanto i risultati conseguiti a rendiconto nel
triennio non hanno rispettato le previsioni contenute nella ultima
rimodulazione del Piano di Riequilibrio Finanziario.
In particolare, la Sezione regionale di controllo aveva rilevato:
a) l'aumento dei debiti fuori bilancio di parte corrente;
b) il mancato finanziamento dei debiti fuori bilancio di
parte capitale, attraverso le previste alienazioni di beni immobili
stante la mancata conclusione delle relative procedure, avviate
nel ;
c) la cronica difficolta' di riscossione delle entrate;
d) il mancato o insufficiente recupero dell'evasione
tributaria (con rischio di prescrizione o decadenza dell'ente
impositore);
e) le discrasie e le anomalie riscontrate nel fondo cassa (
);
f) la mancata trasmissione degli accordi transattivi con i
creditori, per tutti i debiti fuori bilancio riconosciuti e/o da
riconoscere e assenza di un piano di rateizzazione;
g) la mancata comunicazione e documentazione dei pagamenti
effettuati e dei rimanenti pagamenti da effettuare;
h) l'irregolare tenuta delle scritture contabili (con risorse
del fondo svalutazione crediti ripetutamente inglobate nel fondo di
riserva, in violazione dei principi di chiarezza e trasparenza);
i) il mancato miglioramento, per ciascun esercizio
finanziario del triennio , della parte disponibile del risultato
di amministrazione rispetto all'esercizio precedente, in violazione
del decreto del Ministero dell'economia e delle finanze del 2
aprile , e conseguimento di un ulteriore disavanzo nella gestione
finanziaria negli esercizi considerati;
l) il mancato ripiano, a decorrere dal , della quota
annuale da riaccertamento straordinario, pari a quote annuali di
euro ;
m) la mancata approvazione delle misure organizzative per la
tempestivita' dei pagamenti richieste dall'art. 9 del decreto-legge
n. 78/2009, anche in relazione alle previsioni dell'art. 183 del
TUEL, relative alla compatibilita' dei pagamenti con i relativi
stanziamenti di cassa;
n) la mancata indicazione dei tempi medi di pagamento, in
violazione dell'art. 41 del decreto-legge n. 66/2014;
o) la mancata indicazione sul sito internet dell'ente
dell'indicatore di tempestivita' dei pagamenti, come richiesto
dall'art. 33 del decreto legislativo n. 33/2013;
p) il ritardo sui pagamenti dei piani di rientro e
sottoscritti con la Regione Calabria.
Rispetto a tali contestazioni vi sarebbe un vizio di motivazione,
poiche' il decreto ha omesso di considerare i dati oggettivi e le
risultanze contabili documentalmente dimostrate dai resistenti. Nello
specifico, non sarebbe stato considerato che lo stato di decozione
finanziaria dell'ente, a cui non si e' riusciti ad ovviare, risale ad
un periodo in cui nessuno degli opponenti era in carica e non viene
indicato per quale motivo questi amministratori possano avervi
«contribuito» (il Comune e' stato amministrato da un Commissario
Prefettizio da a , quindi durante il periodo dal al , e
alcuni di essi sono stati in carica solo successivamente al periodo
di commissariamento).
Quanto alla motivazione dell'addebito del decreto viene indicato
che la deliberazione del dissesto dell'ente locale «ha reso evidente
che l'aggravamento della condizione economica e finanziaria dell'ente
locale nel triennio (periodo in cui i resistenti erano tutti in
carica) ha irreversibilmente compromesso l'equilibrio di bilancio
dell'ente e che (parte de)gli odierni resistenti, quali
amministratori pro tempore, non hanno adottato politiche di bilancio
funzionali al risanamento, cosi' contribuendo al dissesto del
Comune».
La responsabilita' per omissione viene contestata dai ricorrenti,
come da perizia allegata al ricorso, anche in ragione delle modifiche
normative.
Nello specifico, l'analisi delle risultanze delle singole
gestioni di competenza dal al indica che il Comune ha generato
risparmi attraverso un saldo positivo di parte corrente (avanzo
economico di parte corrente) per euro (esercizi finanziari dal
al ) e i dati nel decreto opposto non terrebbero conto delle
risultanze degli equilibri di competenza (considerato che il Comune
di aveva approvato il PRFP prima dell'entrata in vigore del
decreto legislativo n. 118/2011 con i principi dell'armonizzazione
contabile).
Veniva evidenziato che a fronte di un disavanzo acclarato con
l'approvazione del Piano di riequilibrio finanziario pluriennale
(PRFP) di euro da ripianarsi in anni dieci, la misura per il
periodo contestato (dal al ) era pari ad euro e il maggior
disavanzo pari ad ulteriori euro conseguiva al riaccertamento
straordinario dei residui al derivato in via principale
dall'applicazione dei nuovi istituti contabili introdotti
dall'armonizzazione, ed in particolare del Fondo crediti dubbia
esigibilita' (FCDE), la cui composizione viene determinata in modo
aritmetico dal principio contabile di cui all'allegato 4.2 del
decreto legislativo n. 118/2011.
Il metodo di calcolo del FCDE ha fatto si' che il disavanzo
dell'amministrazione al si attestasse ad un importo pari a di
cui di FCDE, a cio' si sono aggiunti gli ulteriori accantonamenti
previsti dalla riforma dell'armonizzazione contabile (fondo
contenzioso, riarticolazione della parte vincolata del risultato di
amministrazione, Fondo pluriennale vincolato) assenti nel precedente
ordinamento contabile.
La conferma della efficacia dell'azione di recupero nei termini
risulterebbe anche dai saldi di cassa, ampiamente positivi,
registrati dal Comune al di ogni esercizio finanziario dal al
, rispetto al dato iniziale registrato al allorquando risultava
un saldo di cassa negativo per euro , con l'effetto che il fondo
cassa positivo nel periodo di riferimento ha comportato a fine
esercizio l'assenza di scoperti per anticipazione di tesoreria.
Non vi sarebbe stata, dunque, alcuna condotta peggiorativa degli
equilibri di bilancio e quindi di causalita' aggiuntiva alla
dichiarazione di dissesto.
Venivano poi richiamate le norme intervenute dal 2015 al 2019
finalizzate al superamento e al ripiano nel tempo delle condizioni di
disavanzo, poi dichiarate incostituzionali, con effetti contabili
dirompenti sui bilanci di tutti gli enti interessati determinandone
l'inevitabile dissesto in presenza di condizione sociali ed economici
di difficolta'.
Sulla situazione debitoria di euro per debiti non rilevati nel
PRFP veniva indicato che essi erano emersi successivamente
all'approvazione del Piano di Riequilibrio (ad eccezione di un
debito, di importo oggettivamente trascurabile, di euro circa),
mentre la rimanente somma di euro era costituita dai debiti
derivanti da sentenze emesse in epoca successiva al , tramite
riconoscimento di debiti fuori bilancio.
Quanto alla mancata definizione del rapporto con la Regione
Calabria in relazione alla fornitura di acqua potabile per il periodo
1981/2004 il decreto sarebbe privo di motivazione, considerato che in
sede di redazione del piano di riequilibrio non era emersa e
conosciuta dagli amministratori una situazione di debito con la
Regione Calabria, ne' il quantum; debito che e' stato successivamente
definito in via transattiva non producendo scostamenti e squilibri
nella complessiva gestione amministrativa e finanziaria.
Quanto alla gestione delle entrate e al recupero dell'evasione
tributaria rilevatasi scarsamente produttiva richiamavano le azioni
intraprese, mentre sull'assenza di titolo per il mantenimento in
bilancio di residui per euro afferenti a trasferimenti (titolo II
delle Entrate) dello Stato per il rimborso delle spese sostenute dal
Comune per conto del Ministero della giustizia e relative al
funzionamento degli uffici giudiziari, ribadivano che tali residui
non potevano essere cancellati in quanto c'era un titolo giuridico
certo e la differenza tra i rendiconti approvati e le somme
effettivamente versate dal Ministero della giustizia era stata
giustificata dai verbali approvati dalla Corte di Appello e dai
mandati di incasso gia' prodotti (sulla correttezza del mantenimento
di residui richiamavano la sentenza del Consiglio di Stato n. 5782
del 2020).
Quanto alla revisione della spesa venivano indicate importanti
misure di razionalizzazione richiamando la relazione istruttoria
della Commissione Ministeriale sul PRFP e le misure attuate:
1) Eliminazione dei fitti passivi;
2) Le Strutture comunali a debito per il comune sono
diventate remunerative (protoconvento, parco giochi, impianto
sportivo);
3) Azzeramento di incarichi dirigenziali di carattere
fiduciario;
4) Nessun affidamento di incarichi a collaboratori esterni;
5) Notevole riduzione spese per amministratori;
6) Azzeramento spese per rimborsi e missioni;
7) Gestione interna di una serie di servizi prima dati
all'esterno ad iniziare dalla gestione del canile comunale e dalle
pulizie degli edifici di competenza comunale;
8) creazione dell'ufficio interno avvocatura.
Con riferimento alle criticita' legate all'anticipazione di
liquidita' indicavano che tale facolta' era prevista dalla legge e il
Comune l'avrebbe correttamente utilizzata.
In merito ai disallineamenti di cassa, in disparte la mancata
incidenza ai fini della dichiarazione di disseto, veniva rilevato che
si era addivenuti all'accertamento definitivo della situazione di
cassa, evidenziando che non esistono ne disavanzi e ne avanzi di
cassa.
Quanto al debito verso S. veniva indicato che era stato azzerato,
richiamando sentenze vittoriose per il Comune (con riconoscimento
della non debenza di rilevanti somme di denaro). Quindi i ricorrenti
lamentavano che non fossero stati considerati gli atti con effetti
positivi diretti sui bilanci e che non fosse stata considerata la
posizione degli assessori al bilancio. Quanto all'elemento
psicologico l'inidoneita' del piano non potrebbe rappresentare il
dato da cui far discendere, come conseguenza diretta, la
responsabilita' degli amministratori, determinando una
responsabilita' oggettiva e venivano indicati, a sostegno
dell'assenza di colpa, alcuni elementi:
tutti gli atti deliberati dalla giunta sono accettazione
della proposta degli uffici, che mettono il relativo parere di
regolarita' tecnica;
ogni atto rilevante, dalla rimodulazione del piano alla
predisposizione dei bilanci, ha il parere favorevole tanto del
responsabile che dei revisori dei conti;
la rimodulazione dei piani e' stata effettuata, la prima, nel
rispetto di una nuova norma di legge e la seconda su invito del
Ministero dell'interno che, in luogo dei prescritti 5 mesi, ha
impiegato 5 anni per il parere sul piano di riequilibrio.
Rispetto a tali atti ed attivita' non vi sarebbe la colpa grave
(«sprezzante trascuratezza dei propri doveri, resa estensiva
attraverso un comportamento improntato a massima negligenza o
imprudenza ovvero ad una particolare non curanza degli interessi
pubblici»), tenuto conto che il piano e' stato rimodulato nel e vi
e' stato il giudizio ampiamente favorevole dei revisori dei conti e
nel parere sull'aggiornamento del piano di riequilibrio del ,
successivo ai pareri sui bilanci contenenti le «raccomandazioni»,
l'organo di revisione (nominato della Prefettura) indica con delibera
n. del i miglioramenti intervenuti.
I revisori hanno attestato che tutte le misure attuate hanno dato
i risultati previsti e l'amministrazione ha puntualmente dato seguito
alle sollecitazioni dell'organo di revisione.
In particolare, veniva indicato che il punto di partenza e' la
dichiarazione di ente strutturalmente deficitario con la delibera
della Corte dei conti del , mentre il punto di approdo e' la
delibera della commissione presso il Ministero dell'interno del
che definisce il comune di ente non strutturalmente deficitario,
dando atto del miglioramento sostanziale della situazione; venivano
richiamati poi i singoli interventi migliorativi adottati.
A dimostrazione della riduzione dell'anticipazione di tesoreria e
della volonta' politica di limitarne l'utilizzo veniva indicato il
parere della commissione del Ministero dell'interno dove sono
rilevati soltanto euro di interessi per anticipazioni per gli
anni e del poiche' vi si e' fatto ricorso solo per tre mesi nei
quali si attendevano i trasferimenti statali.
Quanto ai dati contabili la perizia di parte allegata richiamava
le modifiche di questi a seguito dell'entrata in vigore del bilancio
armonizzato.
Concludevano gli opponenti, dunque, chiedendo di accogliere le
eccezioni preliminari, ed in ogni caso accogliere integralmente
l'opposizione e per l'effetto riformare integralmente e/ annullare il
decreto opposto, con ogni contestuale declaratoria di insussistenza
di responsabilita' in capo agli opponenti.
5. Con decreto presidenziale n. 246 del 1° ottobre 2024 veniva
fissata l'udienza per la discussione il giorno 31 ottobre 2024,
ritualmente notificato alla Procura regionale resistente, unitamente
al ricorso in opposizione, in data 5 ottobre 2024.
6. All'udienza del 31 ottobre 2024 sono comparsi l'Avv. Gaetano
Callipo per gli opponenti e il V.P.G. dott. Giovanni Di Pietro per la
Procura opposta che concludevano come da verbale di udienza.
La causa veniva trattenuta in decisione.
Diritto
7. In via pregiudiziale viene in rilievo l'eccezione di
incostituzionalita' dell'art. 248, comma 5, TUEL, per difetto di
motivazione e violazione dell'art. 3 della Costituzione, nella parte
in cui, avendo previsto per gli amministratori comunali una sanzione
interdittiva in misura fissa decennale, impedisce di considerare il
diverso grado di responsabilita' - colpa grave o dolo - e di
commisurare la sanzione rispetto alla gravita' del fatto, con
violazione dei principi costituzionali di gradualita' sanzionatoria,
proporzionalita', ragionevolezza, e parita' di trattamento previsti
dall'art. 3 della Costituzione; eccezione prospettata anche
confrontando la disparita' di trattamento con i componenti del
collegio dei revisori, nei cui confronti la misura interdittiva puo'
essere graduata entro la durata massima di dieci anni, come previsto
dal comma 5-bis dello stesso art. 248 TUEL, aggiunto dall'art. 3
decreto-legge n. 174 del 2012, convertivo dalla legge 7 dicembre
2012, n. 213.
La questione di legittimita' costituzionale sollevata deve essere
esaminata, in via pregiudiziale rispetto ad ogni altra eccezione,
alla luce della sua rilevanza e non manifesta infondatezza.
Tali profili devono avere come punto di partenza la disciplina
dell'art. 248, comma 5, TUEL e la sua portata nell'ordinamento
interno come tracciato dalla giurisprudenza.
In particolare, la norma nella sua formulazione antecedente a
quella attuale prevedeva che «gli amministratori che la Corte dei
conti ha riconosciuto responsabili, anche in primo grado, di danni
cagionati con dolo o colpa grave, nei cinque anni precedenti il
verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un
periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti
di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti,
istituzioni ed organismi pubblici e privati, ove la Corte, valutate
le circostanze e le cause che hanno determinato il dissesto, accerti
che questo e' diretta conseguenza delle azioni od omissioni per le
quali l'amministratore e' stato riconosciuto responsabile», oltre ad
ulteriori specifiche incandidabilita' per i Sindaci.
Il legislatore e' intervenuto con l'art. 3, comma 1, lettera s)
del decreto-legge n. 174 del 2012, convertito con modifiche dalla
legge n. 213/2012, novellando il comma 5.
In particolare, la nuova formulazione ha previsto che «gli
amministratori che la Corte dei conti ha riconosciuto, anche in primo
grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o
gravemente colpose, sia omissive che commissive, al verificarsi del
dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di dieci
anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e
di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed
organismi pubblici e privati», mantenendo le ulteriori
incandidabilita' per i Sindaci e specificando che «Ai medesimi
soggetti, ove riconosciuti responsabili, le sezioni giurisdizionali
regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari
ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la
retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della
violazione.»
La novella, dunque, oltre ad introdurre la previsione di una
sanzione pecuniaria, ha eliminato il limite di indagine ai cinque
anni precedenti al dissesto e ha previsto che la responsabilita'
possa essere riferita anche a quelle condotte che abbiano
semplicemente «contribuito» al verificarsi del dissesto, in luogo
della precedente impostazione del dissesto quale «diretta
conseguenza» delle condotte; quindi, vengono in rilievo quelle azioni
ed omissioni che abbiano anche solo facilitato o aggravato il
dissesto e, dunque, che si siano poste in termini di contributo
concausale e non di necessaria sufficienza alla realizzazione
dell'evento dissesto.
Sotto la vigenza della nuova disciplina si e' registrato un
contrasto tra alcune pronunce in cui il giudice contabile, in
applicazione dell'art. 248, comma 5, TUEL, ha espressamente irrogato
la sanzione relativa all'incandidabilita' degli amministratori, a
fronte di altre nelle quali si e' limitato all'accertamento della
responsabilita' rimettendo l'irrogazione della sanzione ad altra
autorita' amministrativa («Dal medesimo ed unico accertamento
discendono, infatti, due effetti: quello di condanna alla sanzione
pecuniaria, cosi' come previsto dall'art. 248, comma 5 e 5-bis, e
quello dichiarativo, automatico e conseguenziale, in ordine alla
sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle sanzioni
interdittive o di status previste dai medesimi commi, che verranno
poi irrogate dall'autorita' amministrativa competente», Corte dei
conti, Sez. Giur. Calabria, sentenza n. 122/2021).
Su tale contrasto sono intervenute le Sezioni Riunite della Corte
dei conti (sentenza n. 4/2022/QM) che hanno indicato il principio
secondo cui «Con il rito sanzionatorio previsto dagli articoli 133 e
ss. del c.g.c. possono valutarsi l'applicazione delle sanzioni
pecuniarie previste dai comma 5 e 5-bis dell'art. 248 del decreto
legislativo n. 267/2000 e i presupposti di fatto che determinano le
connesse misure interdittive, previste dai medesimi commi quali
effetto giuridico della condotta sanzionata».
In particolare, nel corpo delle argomentazioni, la sentenza ha
ritenuto che «le sanzioni interdittive (o "di status") conseguono di
diritto all'unico accertamento della responsabilita' alla
contribuzione del dissesto, nell'ambito del medesimo rito
sanzionatorio, in quanto il positivo accertamento della
responsabilita' da contribuzione al dissesto si pone come condizione
necessaria per la sussistenza dei presupposti per l'applicazione
delle citate sanzioni di status: da tale accertamento discende,
infatti, il duplice effetto della condanna alla sanzione pecuniaria e
quello dichiarativo, automatico e consequenziale, in ordine alla
sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle sanzioni
interdittive di cui innanzi;
il giudice contabile, pertanto, ha cognizione piena su entrambi
gli effetti che derivano dall'unico accertamento in ordine alla
responsabilita' degli amministratori e dei revisori che abbiano
contribuito, con dolo o colpa grave e con condotte omissive o
commissive, al verificarsi del dissesto».
Successivamente sono intervenute anche le Sezioni Unite della
Corte di cassazione con l'ordinanza n. 13205/2024 sul riparto di
giurisdizione rilevando che «la giurisdizione della Corte dei conti
si radica, secondo quanto previsto dalla citata norma, sull'unico
accertamento in ordine alla sussistenza del nesso causale fra la
condotta tenuta ed il conseguente dissesto che non richiede piu' una
causalita' diretta, bensi' il solo contributo causale, ma da esso
consegue l'irrogazione delle sole sanzioni pecuniarie, tra un minimo
e un massimo stabilito dalla norma.
Invece, le sanzioni interdittive, stabilite per gli ex
amministratori (differentemente che per i revisori contabili) in
misura fissa, sono un effetto automatico previsto dalla legge, cosi'
da non rendere necessaria una declaratoria ("comando") del giudice.
Dal medesimo ed unico accertamento discendono dunque due effetti:
quello di condanna alla sanzione pecuniaria, cosi' come previsto
dall'art. 248, comma 5 e 5-bis, del TUEL, e quello automatico e
conseguenziale, di sola "sussistenza dei presupposti per
l'applicazione delle sanzioni interdittive o di status previste dai
medesimi commi", che verranno poi applicate dall'autorita'
amministrativa competente.
In definitiva, il legislatore, con l'art. 248, comma 5, che qui
interessa, del TUEL, nel testo risultante dalle modifiche del 2012,
ha inteso attribuire espressamente al giudice contabile il potere di
valutare la sussistenza dei presupposti per l'applicazione non solo
delle sanzioni pecuniarie ma anche delle sanzioni c.d. interdittive,
ma queste ultime conseguono come effetto automatico dell'accertamento
della responsabilita' per dissesto.
Le sanzioni c.d. di status discendono dunque non dalla volonta'
del giudice, ma dalla volonta' del legislatore, sulla quale la
volizione giudiziale, una volta espressasi sull'an della
responsabilita', non puo' incidere.
Ne consegue che la decisione del giudice contabile, una volta
accertata la responsabilita' dell'ex amministratore dell'Ente locale
da dissesto, ha e deve avere, riguardo alle misure c.d. interdittive
(quelle qui in esame), una chiara portata meramente dichiarativa
della voluntas legis e dunque deve limitarsi all'accertamento della
sussistenza dei presupposti per il divieto previsto dalla legge,
restando la relativa declaratoria-applicazione compito dell'autorita'
amministrativa competente».
Cio' premesso sulla portata dell'azione del giudice contabile
rispetto agli effetti di legge sullo status, il giudizio sottoposto
all'esame della Sezione attiene - per la parte di cui si discute -
all'accertamento di responsabilita' per «aver contribuito con
condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive che commissive,
al verificarsi del dissesto finanziario» e, dunque, dei presupposti
per poter poi irrogare (il giudice contabile) la sanzione pecuniaria
nei termini edittali (da cinque a venti volte la retribuzione mensile
lorda) previsti dalla norma, mentre l'ulteriore divieto di ricoprire
cariche e, dunque, quella che viene impropriamente indicata come
sanzione sullo status politico degli amministratori e' un effetto
ultroneo ed automatico che consegue all'accertamento dei presupposti
(responsabilita') da parte della Corte dei conti, ma che viene poi
materialmente disposto con provvedimento amministrativo da altra
autorita' competente, la quale, stando al dato testuale della norma,
non ha pero' alcuna discrezionalita' in merito all'an e al quantum
temporale della sanzione (personale) da irrogare.
Da questi elementi discende, dunque, l'esame sulla rilevanza
dell'eccezione.
A tal fine occorre evidenziare che dalla natura meramente
dichiarativa del provvedimento (e dal relativo accertamento della
sussistenza dei presupposti) discende l'effetto automatico relativo
allo status, rispetto al quale l'autorita' amministrativa preposta e'
tenuto ad adottare il relativo provvedimento senza alcun potere
decisionale.
Ora, la circostanza che la pronuncia del giudice contabile incida
solo in via mediata sull'irrogazione della sanzione relativa allo
status, non elimina di per se' la rilevanza della questione ai fini
della decisione, considerato che l'effetto primo e diretto e' proprio
l'accertamento dei presupposti di legge per l'applicazione delle
condizioni di status, rispetto alle quali la Corte di cassazione ha
appunto chiarito che esse discendono dalla volonta' del legislatore
«sulla quale la volizione giudiziale, una volta espressasi sull'an
della responsabilita', non puo' incidere».
Dunque, le limitazioni di status cosi' congeniate si configurano
di fatto come un procedimento bifasico, la prima parte
sull'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto di natura
giurisdizionale rimessa alla Corte dei conti e quella successiva di
mera determinazione sull'incandidabilita' in termini fissi e non
modulabili di competenza dell'autorita' amministrativa.
In questi termini, l'unico momento nel quale gli effetti
pregiudizievoli dell'accertamento (dell'unico accertamento a duplice
effetto sanzionatorio, pecuniario e di status) possono essere
censurati di incostituzionalita' e' proprio il giudizio dinanzi alla
Corte dei conti che non puo' non tener conto - ai fini dell'eccezione
- degli effetti di legge consequenziali al proprio decisum, ancorche'
poi irrogati da un'autorita' amministrativa.
Ne' potrebbe il giudice contabile scindere i due momenti
disconoscendo - ai fini della rilevanza - gli effetti che la legge
collega espressamente al proprio accertamento, nel rispetto del
rapporto necessario tra protasi ed apodosi.
Peraltro, per come la norma e' strutturata, emerge che
l'accertamento della Corte dei conti sul contributo al dissesto
finanziario ha come primo effetto voluto dal legislatore e vincolato
alla pronuncia (seppur poi irrogato da altro soggetto) proprio il
divieto di ricoprire determinate cariche pubbliche e solo
successivamente (ultimo capoverso del comma 5) la sanzione
pecuniaria.
Quindi, essendo la condizione di status l'elemento principale che
consegue alla sentenza che accerta la responsabilita' delle condotte,
la questione di legittimita' costituzionale della norma rileva
necessariamente ai fini della decisione, non potendosi separare
l'accertamento (prima) dai suoi effetti (poi) sulla condizione di
status (sebbene mediati dal provvedimento amministrativo), essendo
effetto consequenziale e non discrezionale («l'incandidabilita' non
e' una "sanzione di status", ma e' un effetto ex lege che limita il
diritto (costituzionalmente garantito a ogni cittadino dall'art. 51
della Costituzione) all'elettorato passivo, in un delicato
bilanciamento con altri principi costituzionali sanciti dagli
articoli 54 e 97 della Costituzione. Quando la norma che pone il
divieto, prescrive, ai fini dell'applicazione, la comunicazione
all'autorita' amministrativa, a questa compete il potere-dovere di
procedere in conformita'», cfr. Corte dei conti, sentenza Sez. II
App., n. 173 del 26 giugno 2023).
Ne' potrebbe superarsi la rilevanza della questione - in questa
sede - sulla considerazione che l'incostituzionalita' della norma
potrebbe essere fatta valere successivamente a valle dell'adozione
dell'atto amministrativo sull'incandidabilita', nella fase di
eventuale impugnazione.
Infatti, partendo dal concetto di unicita' dell'accertamento in
ordine alla sussistenza del nesso causale fra la condotta tenuta
dall'amministratore ed il conseguente dissesto e all'effetto
«automatico previsto dalla legge, cosi' da non rendere necessaria una
declaratoria ("comando") del giudice», come indicato dalle Sezioni
Unite della Corte di cassazione, viene in evidenza che il momento
topico nel quale l'eccezione assume rilevanza e' proprio quello nel
quale la condotta degli amministratori viene giudicata e rispetto
alla quale l'eccezione di incostituzionalita' della norma, per
violazione del principio di ragionevolezza non prevedendo una
sanzione di status con termini differenziati rispetto alle singole
condotte in luogo del termine fisso decennale, assume la rilevanza
nei termini piu' ampi.
Infatti, l'eccezione sollevata ha rilievo in questa sede
contabile perche' la violazione dell'art. 3 (in rapporto anche con
l'art. 51) della Costituzione e' riferita proprio alla necessita' di
ancorare l'estensione temporale delle limitazioni sullo status
(effetto automatico che non necessita del comando del giudice) alle
condotte, il cui accertamento unico avviene dinanzi alla Corte dei
conti e, dunque, in tale momento - anche ai fini accertativi del
contributo causale (e delle sue modalita') - gli effetti di legge (e
il relativo parametro di costituzionalita') incidono sulla decisione.
Peraltro, anche a voler ritenere che l'effetto di legge sullo
status non sia una conseguenza diretta della pronuncia del giudice
contabile, ma un effetto «indiretto» dell'accertamento, in ogni caso
la questione sarebbe rilevante, dovendosi necessariamente riferire la
valutazione sulla costituzionalita' delle norme da applicare a tutti
gli effetti che la decisione genera.
Quanto alla non manifesta infondatezza si evidenzia che
dall'impostazione della «interpretazione adeguatrice» della sentenza
della Corte costituzionale n. 356 del 1996 («le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne
interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di
darne), ma perche' e' impossibile darne interpretazioni
costituzionali», cfr. § 4) e dalla successiva previsione della
necessita' di «verificare, prima di sollevare la questione di
costituzionalita', la concreta possibilita' di attribuire alla norma
denunciata un significato diverso da quello censurato e tale da
superare i prospettati dubbi di legittimita' costituzionale» (ord.
322/2001, penultimo cpv. della parte in fatto e diritto) si e'
passati alla tesi contenuta nella sentenza n. 235/2014 (secondo cui
la non condivisione della possibile soluzione ermeneutica conforme a
Costituzione, in quanto sufficientemente argomentata, «non rileva
piu' in termini di inammissibilita' - ma solo, in tesi, di eventuale
non fondatezza - della questione in esame», cfr. § 5 del considerato
in diritto) e a quella della sentenza n. 262 del 2015 («ai fini
dell'ammissibilita' della questione, e' sufficiente che il giudice a
quo esplori la possibilita' di un'interpretazione conforme alla Carta
fondamentale e, come avviene nel caso di specie, la escluda
consapevolmente», cfr. § 2.3 del considerato in diritto), per
approdare ai principi indicati nella sentenza n. 42 del 2017 (§ 2.2
del considerato in diritto, secondo cui «Se, dunque, "le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne
interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di
darne)" (sentenza n. 356 del 1996), cio' non significa che, ove sia
improbabile o difficile prospettarne un'interpretazione
costituzionalmente orientata, la questione non debba essere
scrutinata nel merito. Anzi, tale scrutinio, ricorrendo le predette
condizioni, si rivela, come nella specie, necessario, pure solo al
fine di stabilire se la soluzione conforme a Costituzione rifiutata
dal giudice rimettente sia invece possibile»).
Sulla base di tali criteri deve essere scrutinata la domanda
sulla legittimita' dell'art. 248, comma 5 del TUEL per violazione
dell'art. 3, della Costituzione, laddove ha previsto l'effetto di
legge dell'incandidabilita' e il divieto di ricoprire determinate
cariche per un termine determinato e fisso di dieci anni,
prescindendo dalla natura gravemente colposa o dolosa della condotta
(o dell'entita' del contributo causale all'evento dissesto). Sul
punto occorre premettere che il vaglio di costituzionalita' richiesto
ha come punto di riferimento indiscutibile l'uso del potere
discrezionale del Parlamento su cui non e' previsto alcun sindacato
(art. 28 della legge n. 87 del 1953), quindi ben potrebbe il
legislatore prevedere - in linea astratta - la contrazione dei
diritti di elettorato passivo per un periodo di dieci anni quale
misura afflittiva e, ancor di piu', special preventiva per il danno
che gli amministratori hanno provocato (rectius contribuito a
provocare) con il dissesto dell'ente.
Tuttavia, tale limitazione - estremamente pervasiva andando ad
incidere sui diritti riconosciuti dall'art. 51 della Costituzione -
in tanto e' ammissibile in quanto sia conforme al principio di
ragionevolezza, avendo anche riguardo al modo in cui il legislatore
ha normato situazioni simili.
In questo senso gli opponenti hanno richiamato alcune fattispecie
rappresentative di casi indicati come simili, con discipline diverse
che denoterebbero una disparita' di trattamento.
In particolare:
da un lato hanno richiamato la previsione dell'art. 248,
comma 5-bis, del TUEL che, con riferimento ai revisori, prevede un
termine massimo della sanzione e, dunque, la sua modulabilita';
dall'altro lato hanno indicato le previsioni del decreto
legislativo n. 235/2012 in tema di incandidabilita' (la cui relativa
giurisprudenza costituzionale era stata addotta dal decreto opposto,
a supporto del rigetto dell'eccezione).
Quanto alla previsione di un limite massimo del divieto di
ricoprire cariche (e, dunque, modulabile) per i membri del collegio
dei revisori, si ritiene che il termine di paragone sia privo di
pregio, considerato che diversi sono i ruoli svolti
dall'amministratore e dal revisore e diversa e' la responsabilita'
che le due figure rivestono nelle dinamiche dell'ente.
Il revisore, infatti, sebbene dotato di specifiche competenze
professionali, e' comunque un soggetto che svolge funzione di ausilio
e di controllo dell'attivita' posta in essere dagli amministratori i
quali, avvalendosi dell'attivita' degli uffici tecnici, gestiscono la
cosa pubblica, avendo il potere e relativo dovere di operare per il
meglio, in condizioni ordinarie, e con particolare oculatezza per il
risanamento, nella gestione di crisi dell'ente (quale la condizione
di predissesto, con piano di riequilibrio approvato, di cui si
discute).
La diversa qualifica soggettiva (e di funzioni) configura dunque
fattispecie che non sono in alcun modo sovrapponibili.
Quanto invece all'eccepita incostituzionalita' riferita a
gradualita' sanzionatoria, proporzionalita', ragionevolezza della
sanzione, nonche' disparita' di trattamento previsti dall'art. 3
della Costituzione, si osserva che il termine fisso decennale
indicato, di per se', non ha alcun rilievo o profilo di
incostituzionalita', essendo un termine (pari a due consiliature
complete) evidentemente ritenuto congruo dal legislatore
nell'esercizio della sua discrezionalita' normativa.
In merito, peraltro, non puo' non indicarsi il ruolo centrale che
assume nell'ordinamento - e, di riflesso nella previsione
sanzionatoria - il bilancio dello Stato (alla cui tutela la norma e'
orientata), a cui concorre necessariamente quello dei singoli enti
locali, anche alla luce del principio di equita' intragenerazionale e
intergenerazionale a cui l'equilibrio del bilancio e' preposto (Corte
costituzionale sentenza n. 18/2019, sentenza n. 115/2020, sentenza n.
246/2021), incidente altresi' sul legame fiduciario che caratterizza
il mandato elettorale e la rappresentanza democratica degli eletti
(Corte costituzionale sentenza n. 228/2017) e in ragione della
necessita' per l'amministratore di porre in essere azioni
indispensabili ad incentivare il buon andamento dei servizi e
pratiche di amministrazione ispirate a una oculata e proficua
spendita delle risorse della collettivita' (in tal senso, Corte
costituzionale sentenze n. 235 del 2021 e n. 18 del 2019).
Quindi, in adesione a tale impostazione la previsione incisiva
sullo status personale prevista dal legislatore (preclusione a
ricoprire cariche per dieci anni) - confortata dalla giurisprudenza
costituzionale - non presenterebbe profili di incostituzionalita'
laddove messa in relazione solamente con il bilancio dello Stato,
atteso che esso ha comunque un ruolo fondamentale superindividuale
destinato ad incidere sulla vita dell'intera cittadinanza e in
termini intragenerazionali, rispetto al quale l'interesse del singolo
(nei cui confronti sono state accertate delle responsabilita')
sarebbe recessivo, con l'effetto che la limitazione del diritto
costituzionale all'elettorato passivo troverebbe ragionevole
giustificazione nell'esigenza di tutelare l'equilibrio di bilancio.
Tuttavia, se letta nel sistema della incandidabilita' ex lege,
allora la previsione dell'art. 248, comma 5, TUEL si evidenzia per
alcune peculiarita' di fondo che non sono giustificate dalla
preminenza del bilancio dello Stato e dell'equilibrio a cui esso e'
orientato (art. 97 della Costituzione) e che stridono con il rispetto
dei criteri di gradualita' «sanzionatoria», proporzionalita',
ragionevolezza, nonche' di parita' di trattamento ai quali la stessa
discrezionalita' del legislatore deve conformarsi.
In particolare, fermi restando i principi espressi dalla
giurisprudenza costituzionale, appare non manifestamente infondata la
questione di legittimita' costituzionale laddove prospetta come
irragionevole la previsione di una automatica incandidabilita' (e
divieto di ricoprire cariche) per un termine fisso di dieci anni per
una condotta, anche di natura gravemente colposa, che abbia non
«determinato» (come nella versione originaria della disposizione,
rispetto alla quale l'eccezione d'incostituzionalita' non avrebbe
avuto rilievo), ma anche solo «contribuito» - peraltro senza limiti
di tempo - al dissesto dell'ente.
Vengono infatti unificate ai fini dell'incandidabilita', violando
irragionevolmente il principio di parita' di trattamento e di
proporzionalita', le condotte connotate da dolo che abbiano
determinato con contributo estensivamente incisivo e protratto nel
tempo il dissesto dell'ente con quelle condotte, invece, connotate da
colpa grave, circoscritte magari a singoli episodi risalenti nel
tempo (anche a consiliature antecedenti un eventuale piano di
riequilibrio finanziario), ma che secondo la nuova formulazione
abbiano comunque «contribuito», ancorche' in maniera minima, al
dissesto dell'ente.
La previsione di una incandidabilita' (divieto di ricoprire
cariche) decennale, ancorche' non sia configurabile come sanzione nei
termini indicati dalla giurisprudenza, in ogni caso incide
inevitabilmente nella vita (e, dunque, sui diritti costituzionalmente
garantiti) degli amministratori e, pertanto, l'effetto ex lege
previsto dal legislatore deve rientrare nel parametro della
ragionevolezza riferita, da un lato, al diritto all'elettorato
passivo di cui all'art. 51 della Costituzione e, dall'altro, alla
tutela degli interessi costituzionali protetti dagli articoli 54 e
97, della Costituzione.
Inoltre, secondo la prospettazione dei convenuti, tale
irragionevolezza emergerebbe anche dal raffronto con altre
fattispecie.
Sul punto si osserva che lo stesso TUEL prevede, all'art. 143,
comma 11, l'ipotesi d'incandidabilita' per gli amministratori,
relativa allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali
conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo
mafioso o similare, disponendo espressamente, fatte salve misure
interdittive o accessorie, che «gli amministratori responsabili delle
condotte che hanno dato causa allo scioglimento di cui al presente
articolo non possono essere candidati alle elezioni per la Camera dei
deputati, per il Senato della Repubblica e per il Parlamento europeo
nonche' alle elezioni regionali, provinciali, comunali e
circoscrizionali, in relazione ai due turni elettorali successivi
allo scioglimento stesso, qualora la loro incandidabilita' sia
dichiarata con provvedimento definitivo». Tale fattispecie ricorre
nell'ipotesi, disciplinata dal primo comma dell'art. 143, allorquando
«emergono concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti
diretti o indiretti con la criminalita' organizzata di tipo mafioso o
similare degli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, ovvero su
forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare
un'alterazione del procedimento di formazione della volonta' degli
organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon
andamento o l'imparzialita' delle amministrazioni comunali e
provinciali, nonche' il regolare funzionamento dei servizi ad esse
affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante
pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica».
Oltre questa fattispecie viene in rilievo - e richiamata dagli
opponenti - l'incandidabilita' di cui al decreto legislativo n.
235/2012, rispetto alla quale ha argomentato il decreto opposto nel
rigettare l'eccezione d'incostituzionalita'.
In particolare, con riferimento agli enti locali, l'art. 10
prevede l'incandidabilita' alle elezioni provinciali, comunali e
circoscrizionali e comunque il divieto di ricoprire la carica di
amministratore (sindaco, assessore, consigliere, etc.), per coloro
che hanno riportato condanne definitive per fattispecie delittuose di
particolare rilievo sociale (associazione di tipo mafioso, traffico
di sostanze stupefacenti, in tema di immigrazione e terrorismo,
diverse ipotesi di delitti compiuti da pubblici ufficiali contro la
pubblica amministrazione, quali peculato, concussione, corruzione,
etc.), oltre alle ipotesi di condanna definitiva per delitti non
colposi con condanna non inferiore a due anni di reclusione e alle
ipotesi di applicazione definitiva di misura di prevenzione per
appartenenza ad associazioni (tra cui quella di tipo mafioso).
Rispetto a tali ipotesi, tuttavia, l'art. 15, comma 3, prevede
che «La sentenza di riabilitazione, ai sensi degli articoli 178 e
seguenti del codice penale, e' l'unica causa di estinzione anticipata
dell'incandidabilita' e ne comporta la cessazione per il periodo di
tempo residuo».
Dunque, viene in rilievo che il legislatore, a fronte di ipotesi
di condanna definitiva per delitti che incidono significativamente
nella vita della pubblica amministrazione (si pensi oltre all'ipotesi
dell'art. 416-bis del codice penale anche al peculato, concussione o
corruzione) prevede la possibilita' di limitare l'incandidabilita' e,
cosi', restituire al condannato il diritto elettorale passivo,
tramite l'istituto della riabilitazione.
Per contro, tale possibilita' di porre fine all'incandidabilita'
e' preclusa nell'ipotesi in cui un amministratore, a titolo di colpa
grave, con la propria condotta anche risalente nel tempo, abbia
«contribuito» al dissesto dell'ente.
Tale disparita' di trattamento sembra indicare la non manifesta
infondatezza dell'eccezione di incostituzionalita' della norma,
rispetto al parametro dell'art. 3 della Costituzione, sollevata dalle
parti opponenti.
Se nelle due fattispecie indicate la contrazione del diritto di
elettorato passivo trova una sua necessaria giustificazione
costituzionale con riferimento a quelle omissioni che incidono o
sulle condizioni morali degli amministratori (incandidabilita' ai
sensi del decreto legislativo n. 235/2012, relativa a condanne
definitive) o a responsabilita' relative a infiltrazioni mafiose
(art. 143, comma 11, TUEL), la stessa misura appare irragionevole -
considerato che viene applicata in misura fissa e non graduata -
rispetto ad ipotesi in cui non solo manca l'incisivita'
dell'infiltrazione mafiosa (elemento che inquina l'intero apparato
amministrativo non solo da un punto di vista economico, ma anche
morale e di rispetto della legalita') o l'accertamento definitivo di
reati associativi o connessi con la funzione pubblica esercitata a
danno dell'amministrazione stessa, ma addirittura si potrebbe
assistere a condotte risalenti nel tempo (non essendo piu' previsto
il termine degli ultimi cinque anni), caratterizzate da colpa grave
(espressione dell'incapacita' di amministrare) e che hanno meramente
«contribuito» al dissesto, eventualmente anche in maniera marginale
(in luogo del precedente «determinato»).
Rispetto alla stessa norma, dunque, il termine fisso
d'incandidabilita' (o divieto di ricoprire determinate cariche) per
dieci anni appare irragionevole laddove unifica sia ipotesi di colpa
grave che dolo, nonche' condotte «determinanti» con quelle che
esprimono un mero «contributo», senza alcuna possibilita' di
distinzione e di graduazione.
Inoltre, proprio perche' il profilo di incostituzionalita' ai
fini della non manifesta infondatezza deve essere vagliato alla luce
di discipline simili, non appare sorretto da proporzionalita' la
previsione di incandidabilita' per un periodo di dieci anni per gli
amministratori che hanno solo «contribuito» anche in un tempo remoto
e a titolo di colpa grave, senza alcuna possibilita' di emendazione,
a fronte di ipotesi in cui pur in presenza di condanna in sede penale
(es. ex art. 10, decreto legislativo n. 235/2012) con conseguente
incandidabilita', e' prevista la possibilita' di poter tornare a far
parte dell'elettorato passivo, grazie alla sentenza di riabilitazione
ex articoli 178 ss. del codice penale.
In altri termini, il principio di ragionevolezza e
proporzionalita' della previsione dell'art. 248, comma 5, TUEL, non
appare rispettato dalla norma, laddove viene trattata con maggior
rigore la semplice ipotesi di colpa grave per un mero contributo
causale al dissesto, ancorche' risalente nel tempo (con
incandidabilita' assoluta per dieci anni) rispetto alle ipotesi, ad
esempio, di condanna definitiva per reati di associazione mafiosa o
contro la pubblica amministrazione, per le quali e' prevista la
possibilita' di riabilitazione.
Peraltro, la stessa norma appare irragionevole e contraddittoria
sotto un altro profilo.
Infatti, ove si ritenesse non irragionevole il divieto di
ricoprire determinate cariche per dieci anni degli amministratori che
hanno contribuito al dissesto dell'ente, rispetto a condotte che
incidono sulla stessa moralita' ed onesta' dei medesimi e che vedono
la possibilita' di ridurre o far cessare l'incandidabilita', in
ragione della prevalenza delle esigenze di tutela del bilancio
potenzialmente pregiudicato dalla mala gestio degli amministratori,
si' da precludere la possibilita' che continuino ad amministrare,
viene in rilievo la circostanza che agli stessi sia preclusa la
possibilita' per dieci anni di ricoprire la carica di assessore, di
revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali
presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati, ma
possono essere eletti Sindaci e quindi gestire non la singola
attivita' delegata, ma l'intera amministrazione comunale. Per tali
ragioni l'impossibilita' di interpretare secondo Costituzione la
norma induce a prospettare la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 248, comma 5, decreto legislativo n.
267/2000, laddove dispone per gli amministratori il divieto di
ricoprire incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti
locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti,
istituzioni ed organismi pubblici e privati, per un periodo fisso di
dieci anni e non graduabile, a fronte di condotte che abbiano
contribuito al dissesto dell'ente, sia a titolo di dolo che di colpa
grave.
2. Pertanto, ai sensi e per gli effetti degli articoli 134 della
Costituzione e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, devono
dichiararsi rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 248, comma 5, del decreto
legislativo n. 267/2000 sopra prospettate, e deve di conseguenza
disporsi la sospensione del giudizio in oggetto, ordinando
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e gli
altri adempimenti a cura della cancelleria di cui al dispositivo.
3. Le spese del giudizio saranno liquidate alla definizione
integrale del merito della presente controversia.
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Calabria, non
definitivamente pronunciando con riferimento al giudizio di
opposizione ex art. 135 c.g.c. relativo a giudizio sanzionatorio
iscritto al n. 23983 del Registro di Segreteria:
Visti l'art. 134 della Costituzione e l'art. 23 della legge
11 marzo 1953, n. 87;
Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate, in
riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione, le questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 248, comma 5, del decreto
legislativo n. 267/2000, prospettate nei termini di cui in
motivazione;
Ordina la sospensione del giudizio;
Ordina alla Segreteria della Sezione di provvedere:
all'immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale;
alla notificazione della presente ordinanza alle parti in
causa, al pubblico ministero e al Presidente del Consiglio dei
ministri;
alla comunicazione della presente ordinanza ai Presidenti
delle Camere del Parlamento;
ad ogni altro adempimento di competenza.
Spese del giudizio al definitivo.
Cosi' deciso in Catanzaro nelle camere di consiglio del 31
ottobre - 11 dicembre 2024.
Il Presidente f.f.: Marre' Brunenghi
Oggetto:
Responsabilità amministrativa e contabile – Comuni, province e città metropolitane – Dichiarazione di dissesto – Conseguenze per gli amministratori che sono stati riconosciuti, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, al verificarsi del dissesto finanziario – Sanzioni interdittive – Divieto di ricoprire per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati – Incandidabilità, per un periodo di dieci anni, per i sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili per la medesima fattispecie, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo – Irragionevolezza della previsione di una misura interdittiva (incandidabilità o divieto di ricoprire cariche) in misura fissa (dieci anni) per una condotta, anche di natura gravemente colposa, che non abbia determinato ma anche solo contribuito, peraltro senza limiti di tempo, al dissesto dell’ente – Contrasto con i principi di gradualità sanzionatoria, proporzionalità, ragionevolezza ed eguaglianza – Irragionevole parificazione, sotto il profilo sanzionatorio, di condotte sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sia in relazione all’incidenza del loro contributo al dissesto o alla loro durata – Lesione del diritto di elettorato passivo – Disparità di trattamento con riferimento a fattispecie che incidono o sulle condizioni morali degli amministratori o riguardano responsabilità relative a infiltrazioni mafiose per le quali sussiste la possibilità di limitare la durata dell’incandidabilità tramite l’istituto della riabilitazione – Irragionevolezza di un termine fisso di incandidabilità (o divieto di ricoprire determinate cariche) sotto il profilo della mancata differenziazione o graduazione della colpa grave rispetto al dolo, nonché delle condotte “determinanti” rispetto ai quelle che esprimono un mero “contributo” – Irragionevolezza del divieto di ricoprire alcune cariche non preclusivo della possibilità di essere eletti per l’esercizio di funzioni non riguardanti la singola attività delegata ma l’intera amministrazione locale.
Norme impugnate:
decreto legislativo del 18/08/2000 Num. 267 Art. 248 Co. 5
Parametri costituzionali:
Costituzione Art. 3 Co.
Costituzione Art. 51 Co.
Udienza Pubblica del 3 dicembre 2025 rel. BUSCEMA
Testo dell'ordinanza
N. 62 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 febbraio 2025 Ordinanza del 10 febbraio 2025 della Corte dei conti sezione giurisdizionale per la Regione Calabria sul ricorso proposto da D. L.P. e altri. Responsabilita' amministrativa e contabile - Comuni, province e citta' metropolitane - Dichiarazione di dissesto - Conseguenze per gli amministratori che sono stati riconosciuti, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, al verificarsi del dissesto finanziario - Sanzioni interdittive - Divieto di ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati - Incandidabilita', per un periodo di dieci anni, per i sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili per la medesima fattispecie, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonche' di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo. - Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), art. 248, comma 5. (GU n. 16 del 16-04-2025) LA CORTE DEI CONTI Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria Composta dai seguenti magistrati: Carlo Efisio Marre' Brunenghi - Presidente f.f.; Sabrina Facciorusso - Giudice; Guido Tarantelli - Giudice relatore; Ordinanza Nel ricorso in opposizione ex art. 135 c.g.c. relativo a giudizio sanzionatorio iscritto al n. 23983 del registro di Segreteria, promosso da: D. L. P., nato a il e ivi residente ; A. V., nato a il e ivi residente ( ); G. R., nato a il e ivi residente ( ); P. P., nato a il e ivi residente ( ), tutti rappresentati e difesi, come da procura alle liti in atti, dall'avv. Gaetano Callipo (CLLGTN64R11E041M) del foro di Palmi, con domicilio digitale eletto all'indirizzo di posta elettronica certificata gaetano.callipo@pec.it - ricorrenti contro: Procura presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria della Corte dei conti, PEC: calabria.procura@corteconticert.it - resistente esaminati gli atti e i documenti di causa; nella pubblica udienza del 31 ottobre 2024, data per letta la relazione sul consenso delle parti e udito per il ricorrente l'Avv. Gaetano Callipo, e per la Procura resistente il V.P.G. dott. Giovanni Di Pietro, i quali concludevano come da verbale di udienza. Fatto 1. Con ricorso del 28 maggio 2024, la Procura regionale ha chiesto l'emissione di un decreto per l'applicazione delle sanzioni previste dall'art. 248, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (di seguito TUEL) - e, dunque, ferma restando l'applicazione delle misure interdittive afferenti allo status, l'irrogazione di una sanzione pecuniaria pari a dieci volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento della commissione della violazione - nei confronti dei signori L. P. D. (per euro ), D. F. (per euro ), V. A. (per euro ), R. G. (per euro ), P. P. (per euro ) e S. M. (per euro ), nella qualita' di componenti della Giunta comunale di , i quali, dopo l'approvazione del piano di riequilibrio, non avrebbero posto in essere in modo effettivo le misure e gli interventi necessari per realizzare il risanamento dell'ente e, come accertato dalla sezione di Controllo nella deliberazione n. 24 del 6 marzo 2019, avrebbero aggravato la situazione economico finanziaria dell'ente, perche' responsabili di avere contribuito, con le proprie condotte gravemente colpose, al verificarsi del dissesto finanziario dell'ente locale, poi deliberato dal consiglio comunale. La domanda della Procura regionale seguiva la citata deliberazione n. 24/2019 della Sezione di controllo per la Regione Calabria nella quale non veniva approvato il piano di riequilibrio finanziario predisposto dall'ente locale sussistendo rilevanti criticita' dovute alla mancata copertura del disavanzo secondo le previsioni del piano, alla presenza di una situazione debitoria non corrispondente a quella descritta nel piano e ritenuta di maggiore consistenza, anche in considerazione della mancata definizione di accordi transattivi e di rateizzazione con i creditori, ad un'evidente e rilevante difficolta' di riscossione delle entrate, al mancato e insufficiente recupero dell'evasione tributaria, alle discrasie e anomalie riscontrate nella gestione del fondo cassa dell'ente, ad irregolarita' contabili, al ritardo nella definizione dei pagamenti conseguenti ai piani di rientro dal debito sottoscritti con la Regione Calabria. La deliberazione di mancata approvazione del piano di riequilibrio veniva confermata, in sede d'impugnazione, dalla sentenza delle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione n. 18/2019 con conseguente adozione da parte del consiglio comunale di della deliberazione n. del di dissesto dell'ente. In particolare, nella prospettazione della Procura la dichiarazione dello stato di dissesto esprimeva una situazione di irreversibile precarieta' finanziaria che trovava nelle gestioni protratte per anni le cause (e concause) dell'evento poi accertato. Sicche', gia' nel momento di ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale si presuppone vi fosse una situazione di grave criticita' dell'ente, tale da fare apparire non adeguato il ricorso alle misure di salvaguardia degli equilibri di bilancio e di riconoscimento di legittimita' di debiti fuori bilancio, previste dagli articoli 193 e 194 del TUEL. Pertanto, approvato il piano di riequilibrio, gli amministratori dovevano attuare il risanamento ed applicare tutte le misure previste per assicurare l'incameramento delle risorse destinate a finanziarlo ed agire per evitare di aggravare la massa passiva come determinata al momento della sua approvazione. Rispetto a tali premesse, secondo la Procura, il Comune di non aveva rispettato le condizioni fissate al momento dell'approvazione del piano di riequilibrio, poiche' la massa passiva risultava piu' consistente di quella stimata (anche per la sopravvenienza di nuovi e ulteriori debiti e voci passive), le risorse individuate per il ripiano dello squilibrio non erano state effettivamente conseguite e alcune leve di risanamento, avevano contribuito ad ampliare il disavanzo complessivo dell'ente, anziche' ridurlo. Pertanto, veniva contestata ai convenuti una responsabilita' per le condotte tenute rispetto agli interventi necessari per attuare le misure previste dal piano di riequilibrio pluriennale, rappresentando che la quantificazione della massa passiva da ripianare era stata effettuata senza svolgere la rigorosa ricognizione dei debiti preesistenti, richiesta dall'art. 243-bis del Tuel, e che, anche durante l'attuazione del piano, le condotte assunte, attive ed omissive, avevano concorso ad ampliare ed estendere la massa passiva realmente gravante sull'ente. 2. I resistenti si costituivano in giudizio sollevando eccezioni di difetto di giurisdizione (poiche' l'effetto interdittivo e' previsto come automatico dall'art. 248, quinto comma, del TUEL, la cui applicazione compete all'autorita' amministrativa), di inammissibilita' della domanda, e di incostituzionalita' dell'art 248, quinto comma, (per violazione dei principi costituzionali di ragionevolezza e di gradualita' di cui all'art. 3 della Costituzione rispetto alla previsione della sanzione interdittiva fissa decennale dinanzi a un diverso grado di responsabilita', anche confrontandola con la gradualita' della sanzione prevista per i componenti del collegio sindacale). Nel merito, sotto diversi profili, veniva eccepita l'infondatezza del ricorso per difetto di prova, carenze istruttorie, inesistenza del nesso di causalita' e dell'elemento psicologico, chiedendone il rigetto. In particolare, veniva contestato che l'applicazione delle sanzioni (pecuniarie e interdittive) fosse stata richiesta senza indicare le azioni od omissioni poste in essere dall'organo di indirizzo, con dolo o colpa grave, oltre alla circostanza che lo stato di decozione finanziaria dell'ente, a cui non si e' riusciti a ovviare, risaliva ad un periodo in cui nessuno dei resistenti era in carica, ne' veniva indicato come gli amministratori vi avessero contribuito. Inoltre, la difesa rappresentava che il Comune di era stato amministrato da un Commissario Prefettizio da a e che per il periodo in contestazione ( ) i convenuti avevano amministrato per un limitato e differente periodo di tempo, rispetto al quale non erano state differenziate le varie responsabilita'. Veniva dunque contestato l'asserito apporto causale degli amministratori alle criticita' economico-finanziarie foriere del dissesto, avuto specifico riguardo al ripiano del disavanzo, alla situazione debitoria dell'ente, alla gestione delle entrate, alla revisione della spesa, alle anticipazioni di liquidita', alle anticipazioni di tesoreria e ai disallineamenti di cassa. 3. Ad esito della Camera di consiglio del 18 luglio 2024 il Giudice Monocratico, con decreto n. 4/2024 (depositato in data 20 agosto 2024 e notificato al procuratore costituito in data 28 agosto 2024), ha cosi' statuito: «1) rigetta il ricorso nei confronti delle convenute signore D. F. e S. M.; 2) accerta, ai sensi e per gli effetti dell'art. 248, quinto comma, del decreto legislativo n. 267/2000, la responsabilita' dei convenuti signori L. P. D., V. A., R. G. e P. P., a titolo di colpa grave, in relazione al dissesto finanziario del Comune di , dichiarato con la deliberazione del consiglio comunale n. del ; 3) condanna i convenuti al pagamento della sanzione pecuniaria in favore del Comune di determinata per ciascuno come segue: L. P. D. in euro ; V. A. in euro ; R. G. in euro P. P. in euro ; 4) assegna il termine di quaranta giorni dalla notificazione del presente decreto ai fini del pagamento immediato, in favore del Comune di , delle suindicate sanzioni pecuniarie nella misura ridotta, pari al 30%, ai sensi dell'art. 134, secondo comma, c.g.c.; 5) condanna i convenuti L. P. D. V. A. R. G. e P. P. al pagamento, in solido, delle spese di giudizio in favore dell'Erario, che si quantificano come da nota segretariale a margine; 6) condanna il Comune di al pagamento della complessiva somma di euro oltre IVA, CPA e spese generali, a titolo di onorari e diritti spettanti alla difesa delle convenute D. F. e S. M.; 7) Dispone la trasmissione del provvedimento alle autorita' competenti, a cura della Procura Regionale presso questa Sezione giurisdizionale, come indicato in motivazione». 4. Avverso tale decreto gli odierni ricorrenti formulavano ricorso in opposizione ex art. 135 c.g.c. replicando, in via preliminare, le eccezioni gia' formulate nel giudizio dinanzi al giudice monocratico. 4.1 Nello specifico veniva eccepito il difetto di giurisdizione della Corte dei conti in relazione alla domanda di applicazione delle sanzioni interdittive, come formulata dalla Procura regionale, richiamava i principi di diritto (Cassazione n. 13205 del 14 maggio 2024) secondo cui «In tema di enti locali, in caso di dichiarazione di dissesto del Comune, le sanzioni interdittive per gli amministratori, previste ex art. 248 TUEL, conseguono di diritto all'accertamento dei relativi presupposti da parte del giudice contabile, senza che quest'ultimo possa procedere alla loro applicazione diretta, riservata all'autorita' amministrativa competente, determinandosi altrimenti un eccesso di potere giurisdizionale» e lamentava che il rigetto dell'eccezione nel decreto opposto sarebbe infondata, atteso che nel ricorso introduttivo la Procura Regionale aveva richiesto proprio la diretta irrogazione delle sanzioni interdittive carico degli amministratori (cfr. pag. 38 ricorso) e il Giudice avrebbe dovuto rigettare la domanda sulle sanzioni interdittive, chieste in via di diretta applicazione, risultando cosi' una pronuncia viziata da ultra petizione. 4.2 Veniva poi sollevata eccezione di incostituzionalita' dell'art. 248, comma 5, TUEL, per difetto di motivazione e violazione dell'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui, avendo previsto per gli amministratori comunali una sanzione interdittiva in misura fissa decennale, impedisce di considerare il diverso grado di responsabilita' - colpa grave o dolo - e di commisurare la sanzione rispetto alla gravita' del fatto, con evidente violazione dei principi costituzionali di gradualita' sanzionatoria, proporzionalita', ragionevolezza, e parita' di trattamento previsti dall'art. 3 della Costituzione. La violazione dei principi costituzionali veniva prospettata anche in considerazione della disparita' di trattamento rispetto ai componenti del collegio dei revisori, nei cui confronti la misura interdittiva puo' essere graduata entro la durata massima di dieci anni, come previsto dal comma 5-bis dello stesso art. 248 TUEL, aggiunto dall'art. 3 del decreto-legge n. 174 del 2012, convertivo dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213. In particolare, il decreto opposto aveva rigettato l'eccezione richiamando la giurisprudenza costituzionale che ha qualificato il bilancio come bene pubblico e le sentenze n. 236/2015, n. 276/2016 e n. 230 del 2021 - con cui erano gia' state dichiarate non fondate le questioni di legittimita' costituzionale riguardanti le norme contenute nel decreto legislativo n. 235/2012 in tema di incandidabilita' - sul presupposto che le norme del citato decreto legislativo n. 235/2012 fossero «sovrapponibili» alle disposizioni sanzionatorie dell'art. 248 comma 5 TUEL. Secondo gli opponenti non vi sarebbe sovrapponibilita' tra le disposizioni del decreto legislativo n. 235/2012 (che riguarda esclusivamente cause speciali di incandidabilita' e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per (gravi) delitti non colposi, a norma dell'art. 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190) e quelle dell'art. 248 comma 5 TUEL (per ipotesi di incandidabilita' conseguenti a condanne per c.d. responsabilita' da dissesto), ne' sarebbe possibile alcuna applicazione analogica per ampliare le cause d'incompatibilita' del decreto legislativo n. 235/2012, stante la loro specialita' (veniva indicata sul punto la sentenza della Corte costituzionale n. 56 dell'8 marzo 2022 che ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per abrogare l'intero decreto legislativo n. 235/2012). Peraltro, la giurisprudenza costituzionale richiamata nel decreto non avrebbe mai riguardato i principi costituzionali di gradualita' sanzionatoria, proporzionalita', ragionevolezza della sanzione, nonche' di parita' di trattamento previsti dall'art. 3 della Costituzione, considerato che l'art. 13 del decreto legislativo n. 235/2012 prevede la graduazione e la commisurazione della durata (quantomeno quella massima) dell'incandidabilita', rispetto alla entita' della condanna e quindi del delitto commesso, mentre l'art. 14 consente di estinguere la stessa incandidabilita' per effetto della riabilitazione; meccanismi di graduazione e superamento della incandidabilita' (che incide sul diritto costituzionale all'elettorato passivo) anche a fronte delle ipotesi di condanne penale per gravi delitti, che sono invece assenti nella responsabilita' da dissesto (dove e' graduata solo la sanzione pecuniaria e non quella piu' afflittiva che incide sul diritto costituzionale di elettorato passivo, tenuto anche conto dell'ampia gamma di condotte degli amministratori). I ricorrenti lamentavano poi la disparita' di trattamento degli amministratori rispetto ai componenti dell'organo di revisione, che invece beneficiano della graduazione della sanzione rispetto alla loro responsabilita', pur essendo richiesta la loro compartecipazione necessaria nelle dinamiche di bilancio. Rispetto a tali profili, dunque, veniva indicata la giurisprudenza costituzionale espressione della necessaria applicazione del principio di proporzionalita' in sede sanzionatoria (sentenza n. 51/2024 secondo cui: «Numerose sentenze di questa Corte hanno pero' ritenuto in contrasto, tra l'altro, con l'art. 3 della Costituzione disposizioni che prevedevano l'automatica destituzione di altri pubblici dipendenti, ovvero l'automatica cancellazione di professionisti dall'albo, in conseguenza della loro condanna in sede penale per determinati reati. 3.2.1.- Gia' la sentenza n. 971 del 1988 aveva colpito la previsione della destituzione di diritto degli impiegati civili dello Stato e dei dipendenti degli enti locali della Regione Siciliana a seguito di condanna per taluni delitti. «L'indispensabile gradualita' sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria» - si era affermato in quell'occasione - «importa [...] che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 della Costituzione» (punto 3 del Considerato in diritto). Poco dopo, in relazione ai notai, la sentenza n. 40 del 1990 affermo' essere «indispensabile che il "principio di proporzione" che e' alla base della razionalita' che domina il "principio di eguaglianza", regoli sempre l'adeguatezza della sanzione al caso concreto». Conseguentemente, essa dichiaro' costituzionalmente illegittimo l'«automatismo di un'unica massima sanzione [la destituzione], prevista indifferentemente per l'infinita serie di situazioni che stanno nell'area della commissione di uno stesso pur grave reato». Automatismo che si ritenne non potesse «reggere il confronto con il principio di eguaglianza che, come esige lo stesso trattamento per identiche situazioni, postula un trattamento differenziato per situazioni diverse». Identica ratio decidendi si riscontra: - nella sentenza n. 158 del 1990, relativa alla radiazione automatica dei dottori commercialisti; - nella sentenza n. 16 del 1991, concernente la destituzione di diritto del dipendente regionale; - nella sentenza n. 197 del 1993, sulla destituzione di diritto del personale dipendente delle amministrazioni pubbliche a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per taluni reati, ovvero della definitivita' del provvedimento applicativo di una misura di prevenzione per appartenenza ad associazione di tipo mafioso; - nella sentenza n. 2 del 1999, in materia di radiazione automatica dall'albo dei ragionieri e periti commerciali. In epoca piu' recente, rispetto al personale militare, la sentenza n. 268 del 2016 (riprendendo e approfondendo principi gia' espressi nella precedente sentenza n. 363 del 1996) ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale di una disciplina che non prevedeva l'instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado, conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici irrogata dal giudice penale. «[A] causa dell'ampiezza dei presupposti a cui viene collegata l'automatica cessazione dal servizio», si e' in questa occasione osservato, «le disposizioni impugnate non possono validamente fondare, in tutti i casi in esse ricompresi, una presunzione assoluta di inidoneita' o indegnita' morale o, tanto meno, di pericolosita' dell'interessato, tale da giustificare una sanzione disciplinare cosi' grave come la perdita del grado con conseguente cessazione dal servizio. L'automatica interruzione del rapporto di impiego e', infatti, suscettibile di essere applicata a una troppo ampia generalita' di casi, rispetto ai quali e' agevole formulare ipotesi in cui essa non rappresenta una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito». 4.3 Cio' premesso i ricorrenti si opponevano al decreto per violazione dell'art. 248, comma 5, TUEL sotto diversi profili (difetto di motivazione, omessa valutazione di fatti ed atti rilevanti ai fini del giudizio, difetto di prova e carenze istruttorie, carenza dei presupposti, difetto del nesso di causalita', difetto dell'elemento psicologico, violazione delle norme di contabilita'). In particolare, lamentavano che il decreto opposto avesse desunto la sussistenza dell'elemento psicologico della colpa grave unicamente dalla conoscenza sin dal 2012 della condizione di squilibrio strutturale dell'ente locale e la sussistenza del nesso causale dalla deliberazione del dissesto dell'ente locale secondo cui «l'aggravamento della condizione economica e finanziaria dell'ente locale nel triennio (periodo in cui i resistenti erano tutti in carica) ha irreversibilmente compromesso l'equilibrio di bilancio dell'ente e che parte degli odierni resistenti, quali amministratori pro tempore, non hanno adottato politiche di bilancio funzionali al risanamento dell'ente, cosi' contribuendo al dissesto del Comune di », con una responsabilita' da dissesto che non sarebbe dimostrata, ma conseguenza di un mero automatismo del dissesto stesso. Dunque, sarebbe stata ravvisata la responsabilita' di (alcuni) amministratori in quanto i risultati conseguiti a rendiconto nel triennio non hanno rispettato le previsioni contenute nella ultima rimodulazione del Piano di Riequilibrio Finanziario. In particolare, la Sezione regionale di controllo aveva rilevato: a) l'aumento dei debiti fuori bilancio di parte corrente; b) il mancato finanziamento dei debiti fuori bilancio di parte capitale, attraverso le previste alienazioni di beni immobili stante la mancata conclusione delle relative procedure, avviate nel ; c) la cronica difficolta' di riscossione delle entrate; d) il mancato o insufficiente recupero dell'evasione tributaria (con rischio di prescrizione o decadenza dell'ente impositore); e) le discrasie e le anomalie riscontrate nel fondo cassa ( ); f) la mancata trasmissione degli accordi transattivi con i creditori, per tutti i debiti fuori bilancio riconosciuti e/o da riconoscere e assenza di un piano di rateizzazione; g) la mancata comunicazione e documentazione dei pagamenti effettuati e dei rimanenti pagamenti da effettuare; h) l'irregolare tenuta delle scritture contabili (con risorse del fondo svalutazione crediti ripetutamente inglobate nel fondo di riserva, in violazione dei principi di chiarezza e trasparenza); i) il mancato miglioramento, per ciascun esercizio finanziario del triennio , della parte disponibile del risultato di amministrazione rispetto all'esercizio precedente, in violazione del decreto del Ministero dell'economia e delle finanze del 2 aprile , e conseguimento di un ulteriore disavanzo nella gestione finanziaria negli esercizi considerati; l) il mancato ripiano, a decorrere dal , della quota annuale da riaccertamento straordinario, pari a quote annuali di euro ; m) la mancata approvazione delle misure organizzative per la tempestivita' dei pagamenti richieste dall'art. 9 del decreto-legge n. 78/2009, anche in relazione alle previsioni dell'art. 183 del TUEL, relative alla compatibilita' dei pagamenti con i relativi stanziamenti di cassa; n) la mancata indicazione dei tempi medi di pagamento, in violazione dell'art. 41 del decreto-legge n. 66/2014; o) la mancata indicazione sul sito internet dell'ente dell'indicatore di tempestivita' dei pagamenti, come richiesto dall'art. 33 del decreto legislativo n. 33/2013; p) il ritardo sui pagamenti dei piani di rientro e sottoscritti con la Regione Calabria. Rispetto a tali contestazioni vi sarebbe un vizio di motivazione, poiche' il decreto ha omesso di considerare i dati oggettivi e le risultanze contabili documentalmente dimostrate dai resistenti. Nello specifico, non sarebbe stato considerato che lo stato di decozione finanziaria dell'ente, a cui non si e' riusciti ad ovviare, risale ad un periodo in cui nessuno degli opponenti era in carica e non viene indicato per quale motivo questi amministratori possano avervi «contribuito» (il Comune e' stato amministrato da un Commissario Prefettizio da a , quindi durante il periodo dal al , e alcuni di essi sono stati in carica solo successivamente al periodo di commissariamento). Quanto alla motivazione dell'addebito del decreto viene indicato che la deliberazione del dissesto dell'ente locale «ha reso evidente che l'aggravamento della condizione economica e finanziaria dell'ente locale nel triennio (periodo in cui i resistenti erano tutti in carica) ha irreversibilmente compromesso l'equilibrio di bilancio dell'ente e che (parte de)gli odierni resistenti, quali amministratori pro tempore, non hanno adottato politiche di bilancio funzionali al risanamento, cosi' contribuendo al dissesto del Comune». La responsabilita' per omissione viene contestata dai ricorrenti, come da perizia allegata al ricorso, anche in ragione delle modifiche normative. Nello specifico, l'analisi delle risultanze delle singole gestioni di competenza dal al indica che il Comune ha generato risparmi attraverso un saldo positivo di parte corrente (avanzo economico di parte corrente) per euro (esercizi finanziari dal al ) e i dati nel decreto opposto non terrebbero conto delle risultanze degli equilibri di competenza (considerato che il Comune di aveva approvato il PRFP prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 118/2011 con i principi dell'armonizzazione contabile). Veniva evidenziato che a fronte di un disavanzo acclarato con l'approvazione del Piano di riequilibrio finanziario pluriennale (PRFP) di euro da ripianarsi in anni dieci, la misura per il periodo contestato (dal al ) era pari ad euro e il maggior disavanzo pari ad ulteriori euro conseguiva al riaccertamento straordinario dei residui al derivato in via principale dall'applicazione dei nuovi istituti contabili introdotti dall'armonizzazione, ed in particolare del Fondo crediti dubbia esigibilita' (FCDE), la cui composizione viene determinata in modo aritmetico dal principio contabile di cui all'allegato 4.2 del decreto legislativo n. 118/2011. Il metodo di calcolo del FCDE ha fatto si' che il disavanzo dell'amministrazione al si attestasse ad un importo pari a di cui di FCDE, a cio' si sono aggiunti gli ulteriori accantonamenti previsti dalla riforma dell'armonizzazione contabile (fondo contenzioso, riarticolazione della parte vincolata del risultato di amministrazione, Fondo pluriennale vincolato) assenti nel precedente ordinamento contabile. La conferma della efficacia dell'azione di recupero nei termini risulterebbe anche dai saldi di cassa, ampiamente positivi, registrati dal Comune al di ogni esercizio finanziario dal al , rispetto al dato iniziale registrato al allorquando risultava un saldo di cassa negativo per euro , con l'effetto che il fondo cassa positivo nel periodo di riferimento ha comportato a fine esercizio l'assenza di scoperti per anticipazione di tesoreria. Non vi sarebbe stata, dunque, alcuna condotta peggiorativa degli equilibri di bilancio e quindi di causalita' aggiuntiva alla dichiarazione di dissesto. Venivano poi richiamate le norme intervenute dal 2015 al 2019 finalizzate al superamento e al ripiano nel tempo delle condizioni di disavanzo, poi dichiarate incostituzionali, con effetti contabili dirompenti sui bilanci di tutti gli enti interessati determinandone l'inevitabile dissesto in presenza di condizione sociali ed economici di difficolta'. Sulla situazione debitoria di euro per debiti non rilevati nel PRFP veniva indicato che essi erano emersi successivamente all'approvazione del Piano di Riequilibrio (ad eccezione di un debito, di importo oggettivamente trascurabile, di euro circa), mentre la rimanente somma di euro era costituita dai debiti derivanti da sentenze emesse in epoca successiva al , tramite riconoscimento di debiti fuori bilancio. Quanto alla mancata definizione del rapporto con la Regione Calabria in relazione alla fornitura di acqua potabile per il periodo 1981/2004 il decreto sarebbe privo di motivazione, considerato che in sede di redazione del piano di riequilibrio non era emersa e conosciuta dagli amministratori una situazione di debito con la Regione Calabria, ne' il quantum; debito che e' stato successivamente definito in via transattiva non producendo scostamenti e squilibri nella complessiva gestione amministrativa e finanziaria. Quanto alla gestione delle entrate e al recupero dell'evasione tributaria rilevatasi scarsamente produttiva richiamavano le azioni intraprese, mentre sull'assenza di titolo per il mantenimento in bilancio di residui per euro afferenti a trasferimenti (titolo II delle Entrate) dello Stato per il rimborso delle spese sostenute dal Comune per conto del Ministero della giustizia e relative al funzionamento degli uffici giudiziari, ribadivano che tali residui non potevano essere cancellati in quanto c'era un titolo giuridico certo e la differenza tra i rendiconti approvati e le somme effettivamente versate dal Ministero della giustizia era stata giustificata dai verbali approvati dalla Corte di Appello e dai mandati di incasso gia' prodotti (sulla correttezza del mantenimento di residui richiamavano la sentenza del Consiglio di Stato n. 5782 del 2020). Quanto alla revisione della spesa venivano indicate importanti misure di razionalizzazione richiamando la relazione istruttoria della Commissione Ministeriale sul PRFP e le misure attuate: 1) Eliminazione dei fitti passivi; 2) Le Strutture comunali a debito per il comune sono diventate remunerative (protoconvento, parco giochi, impianto sportivo); 3) Azzeramento di incarichi dirigenziali di carattere fiduciario; 4) Nessun affidamento di incarichi a collaboratori esterni; 5) Notevole riduzione spese per amministratori; 6) Azzeramento spese per rimborsi e missioni; 7) Gestione interna di una serie di servizi prima dati all'esterno ad iniziare dalla gestione del canile comunale e dalle pulizie degli edifici di competenza comunale; 8) creazione dell'ufficio interno avvocatura. Con riferimento alle criticita' legate all'anticipazione di liquidita' indicavano che tale facolta' era prevista dalla legge e il Comune l'avrebbe correttamente utilizzata. In merito ai disallineamenti di cassa, in disparte la mancata incidenza ai fini della dichiarazione di disseto, veniva rilevato che si era addivenuti all'accertamento definitivo della situazione di cassa, evidenziando che non esistono ne disavanzi e ne avanzi di cassa. Quanto al debito verso S. veniva indicato che era stato azzerato, richiamando sentenze vittoriose per il Comune (con riconoscimento della non debenza di rilevanti somme di denaro). Quindi i ricorrenti lamentavano che non fossero stati considerati gli atti con effetti positivi diretti sui bilanci e che non fosse stata considerata la posizione degli assessori al bilancio. Quanto all'elemento psicologico l'inidoneita' del piano non potrebbe rappresentare il dato da cui far discendere, come conseguenza diretta, la responsabilita' degli amministratori, determinando una responsabilita' oggettiva e venivano indicati, a sostegno dell'assenza di colpa, alcuni elementi: tutti gli atti deliberati dalla giunta sono accettazione della proposta degli uffici, che mettono il relativo parere di regolarita' tecnica; ogni atto rilevante, dalla rimodulazione del piano alla predisposizione dei bilanci, ha il parere favorevole tanto del responsabile che dei revisori dei conti; la rimodulazione dei piani e' stata effettuata, la prima, nel rispetto di una nuova norma di legge e la seconda su invito del Ministero dell'interno che, in luogo dei prescritti 5 mesi, ha impiegato 5 anni per il parere sul piano di riequilibrio. Rispetto a tali atti ed attivita' non vi sarebbe la colpa grave («sprezzante trascuratezza dei propri doveri, resa estensiva attraverso un comportamento improntato a massima negligenza o imprudenza ovvero ad una particolare non curanza degli interessi pubblici»), tenuto conto che il piano e' stato rimodulato nel e vi e' stato il giudizio ampiamente favorevole dei revisori dei conti e nel parere sull'aggiornamento del piano di riequilibrio del , successivo ai pareri sui bilanci contenenti le «raccomandazioni», l'organo di revisione (nominato della Prefettura) indica con delibera n. del i miglioramenti intervenuti. I revisori hanno attestato che tutte le misure attuate hanno dato i risultati previsti e l'amministrazione ha puntualmente dato seguito alle sollecitazioni dell'organo di revisione. In particolare, veniva indicato che il punto di partenza e' la dichiarazione di ente strutturalmente deficitario con la delibera della Corte dei conti del , mentre il punto di approdo e' la delibera della commissione presso il Ministero dell'interno del che definisce il comune di ente non strutturalmente deficitario, dando atto del miglioramento sostanziale della situazione; venivano richiamati poi i singoli interventi migliorativi adottati. A dimostrazione della riduzione dell'anticipazione di tesoreria e della volonta' politica di limitarne l'utilizzo veniva indicato il parere della commissione del Ministero dell'interno dove sono rilevati soltanto euro di interessi per anticipazioni per gli anni e del poiche' vi si e' fatto ricorso solo per tre mesi nei quali si attendevano i trasferimenti statali. Quanto ai dati contabili la perizia di parte allegata richiamava le modifiche di questi a seguito dell'entrata in vigore del bilancio armonizzato. Concludevano gli opponenti, dunque, chiedendo di accogliere le eccezioni preliminari, ed in ogni caso accogliere integralmente l'opposizione e per l'effetto riformare integralmente e/ annullare il decreto opposto, con ogni contestuale declaratoria di insussistenza di responsabilita' in capo agli opponenti. 5. Con decreto presidenziale n. 246 del 1° ottobre 2024 veniva fissata l'udienza per la discussione il giorno 31 ottobre 2024, ritualmente notificato alla Procura regionale resistente, unitamente al ricorso in opposizione, in data 5 ottobre 2024. 6. All'udienza del 31 ottobre 2024 sono comparsi l'Avv. Gaetano Callipo per gli opponenti e il V.P.G. dott. Giovanni Di Pietro per la Procura opposta che concludevano come da verbale di udienza. La causa veniva trattenuta in decisione. Diritto 7. In via pregiudiziale viene in rilievo l'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 248, comma 5, TUEL, per difetto di motivazione e violazione dell'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui, avendo previsto per gli amministratori comunali una sanzione interdittiva in misura fissa decennale, impedisce di considerare il diverso grado di responsabilita' - colpa grave o dolo - e di commisurare la sanzione rispetto alla gravita' del fatto, con violazione dei principi costituzionali di gradualita' sanzionatoria, proporzionalita', ragionevolezza, e parita' di trattamento previsti dall'art. 3 della Costituzione; eccezione prospettata anche confrontando la disparita' di trattamento con i componenti del collegio dei revisori, nei cui confronti la misura interdittiva puo' essere graduata entro la durata massima di dieci anni, come previsto dal comma 5-bis dello stesso art. 248 TUEL, aggiunto dall'art. 3 decreto-legge n. 174 del 2012, convertivo dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213. La questione di legittimita' costituzionale sollevata deve essere esaminata, in via pregiudiziale rispetto ad ogni altra eccezione, alla luce della sua rilevanza e non manifesta infondatezza. Tali profili devono avere come punto di partenza la disciplina dell'art. 248, comma 5, TUEL e la sua portata nell'ordinamento interno come tracciato dalla giurisprudenza. In particolare, la norma nella sua formulazione antecedente a quella attuale prevedeva che «gli amministratori che la Corte dei conti ha riconosciuto responsabili, anche in primo grado, di danni cagionati con dolo o colpa grave, nei cinque anni precedenti il verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati, ove la Corte, valutate le circostanze e le cause che hanno determinato il dissesto, accerti che questo e' diretta conseguenza delle azioni od omissioni per le quali l'amministratore e' stato riconosciuto responsabile», oltre ad ulteriori specifiche incandidabilita' per i Sindaci. Il legislatore e' intervenuto con l'art. 3, comma 1, lettera s) del decreto-legge n. 174 del 2012, convertito con modifiche dalla legge n. 213/2012, novellando il comma 5. In particolare, la nuova formulazione ha previsto che «gli amministratori che la Corte dei conti ha riconosciuto, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive che commissive, al verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati», mantenendo le ulteriori incandidabilita' per i Sindaci e specificando che «Ai medesimi soggetti, ove riconosciuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione.» La novella, dunque, oltre ad introdurre la previsione di una sanzione pecuniaria, ha eliminato il limite di indagine ai cinque anni precedenti al dissesto e ha previsto che la responsabilita' possa essere riferita anche a quelle condotte che abbiano semplicemente «contribuito» al verificarsi del dissesto, in luogo della precedente impostazione del dissesto quale «diretta conseguenza» delle condotte; quindi, vengono in rilievo quelle azioni ed omissioni che abbiano anche solo facilitato o aggravato il dissesto e, dunque, che si siano poste in termini di contributo concausale e non di necessaria sufficienza alla realizzazione dell'evento dissesto. Sotto la vigenza della nuova disciplina si e' registrato un contrasto tra alcune pronunce in cui il giudice contabile, in applicazione dell'art. 248, comma 5, TUEL, ha espressamente irrogato la sanzione relativa all'incandidabilita' degli amministratori, a fronte di altre nelle quali si e' limitato all'accertamento della responsabilita' rimettendo l'irrogazione della sanzione ad altra autorita' amministrativa («Dal medesimo ed unico accertamento discendono, infatti, due effetti: quello di condanna alla sanzione pecuniaria, cosi' come previsto dall'art. 248, comma 5 e 5-bis, e quello dichiarativo, automatico e conseguenziale, in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle sanzioni interdittive o di status previste dai medesimi commi, che verranno poi irrogate dall'autorita' amministrativa competente», Corte dei conti, Sez. Giur. Calabria, sentenza n. 122/2021). Su tale contrasto sono intervenute le Sezioni Riunite della Corte dei conti (sentenza n. 4/2022/QM) che hanno indicato il principio secondo cui «Con il rito sanzionatorio previsto dagli articoli 133 e ss. del c.g.c. possono valutarsi l'applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dai comma 5 e 5-bis dell'art. 248 del decreto legislativo n. 267/2000 e i presupposti di fatto che determinano le connesse misure interdittive, previste dai medesimi commi quali effetto giuridico della condotta sanzionata». In particolare, nel corpo delle argomentazioni, la sentenza ha ritenuto che «le sanzioni interdittive (o "di status") conseguono di diritto all'unico accertamento della responsabilita' alla contribuzione del dissesto, nell'ambito del medesimo rito sanzionatorio, in quanto il positivo accertamento della responsabilita' da contribuzione al dissesto si pone come condizione necessaria per la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle citate sanzioni di status: da tale accertamento discende, infatti, il duplice effetto della condanna alla sanzione pecuniaria e quello dichiarativo, automatico e consequenziale, in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle sanzioni interdittive di cui innanzi; il giudice contabile, pertanto, ha cognizione piena su entrambi gli effetti che derivano dall'unico accertamento in ordine alla responsabilita' degli amministratori e dei revisori che abbiano contribuito, con dolo o colpa grave e con condotte omissive o commissive, al verificarsi del dissesto». Successivamente sono intervenute anche le Sezioni Unite della Corte di cassazione con l'ordinanza n. 13205/2024 sul riparto di giurisdizione rilevando che «la giurisdizione della Corte dei conti si radica, secondo quanto previsto dalla citata norma, sull'unico accertamento in ordine alla sussistenza del nesso causale fra la condotta tenuta ed il conseguente dissesto che non richiede piu' una causalita' diretta, bensi' il solo contributo causale, ma da esso consegue l'irrogazione delle sole sanzioni pecuniarie, tra un minimo e un massimo stabilito dalla norma. Invece, le sanzioni interdittive, stabilite per gli ex amministratori (differentemente che per i revisori contabili) in misura fissa, sono un effetto automatico previsto dalla legge, cosi' da non rendere necessaria una declaratoria ("comando") del giudice. Dal medesimo ed unico accertamento discendono dunque due effetti: quello di condanna alla sanzione pecuniaria, cosi' come previsto dall'art. 248, comma 5 e 5-bis, del TUEL, e quello automatico e conseguenziale, di sola "sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle sanzioni interdittive o di status previste dai medesimi commi", che verranno poi applicate dall'autorita' amministrativa competente. In definitiva, il legislatore, con l'art. 248, comma 5, che qui interessa, del TUEL, nel testo risultante dalle modifiche del 2012, ha inteso attribuire espressamente al giudice contabile il potere di valutare la sussistenza dei presupposti per l'applicazione non solo delle sanzioni pecuniarie ma anche delle sanzioni c.d. interdittive, ma queste ultime conseguono come effetto automatico dell'accertamento della responsabilita' per dissesto. Le sanzioni c.d. di status discendono dunque non dalla volonta' del giudice, ma dalla volonta' del legislatore, sulla quale la volizione giudiziale, una volta espressasi sull'an della responsabilita', non puo' incidere. Ne consegue che la decisione del giudice contabile, una volta accertata la responsabilita' dell'ex amministratore dell'Ente locale da dissesto, ha e deve avere, riguardo alle misure c.d. interdittive (quelle qui in esame), una chiara portata meramente dichiarativa della voluntas legis e dunque deve limitarsi all'accertamento della sussistenza dei presupposti per il divieto previsto dalla legge, restando la relativa declaratoria-applicazione compito dell'autorita' amministrativa competente». Cio' premesso sulla portata dell'azione del giudice contabile rispetto agli effetti di legge sullo status, il giudizio sottoposto all'esame della Sezione attiene - per la parte di cui si discute - all'accertamento di responsabilita' per «aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive che commissive, al verificarsi del dissesto finanziario» e, dunque, dei presupposti per poter poi irrogare (il giudice contabile) la sanzione pecuniaria nei termini edittali (da cinque a venti volte la retribuzione mensile lorda) previsti dalla norma, mentre l'ulteriore divieto di ricoprire cariche e, dunque, quella che viene impropriamente indicata come sanzione sullo status politico degli amministratori e' un effetto ultroneo ed automatico che consegue all'accertamento dei presupposti (responsabilita') da parte della Corte dei conti, ma che viene poi materialmente disposto con provvedimento amministrativo da altra autorita' competente, la quale, stando al dato testuale della norma, non ha pero' alcuna discrezionalita' in merito all'an e al quantum temporale della sanzione (personale) da irrogare. Da questi elementi discende, dunque, l'esame sulla rilevanza dell'eccezione. A tal fine occorre evidenziare che dalla natura meramente dichiarativa del provvedimento (e dal relativo accertamento della sussistenza dei presupposti) discende l'effetto automatico relativo allo status, rispetto al quale l'autorita' amministrativa preposta e' tenuto ad adottare il relativo provvedimento senza alcun potere decisionale. Ora, la circostanza che la pronuncia del giudice contabile incida solo in via mediata sull'irrogazione della sanzione relativa allo status, non elimina di per se' la rilevanza della questione ai fini della decisione, considerato che l'effetto primo e diretto e' proprio l'accertamento dei presupposti di legge per l'applicazione delle condizioni di status, rispetto alle quali la Corte di cassazione ha appunto chiarito che esse discendono dalla volonta' del legislatore «sulla quale la volizione giudiziale, una volta espressasi sull'an della responsabilita', non puo' incidere». Dunque, le limitazioni di status cosi' congeniate si configurano di fatto come un procedimento bifasico, la prima parte sull'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto di natura giurisdizionale rimessa alla Corte dei conti e quella successiva di mera determinazione sull'incandidabilita' in termini fissi e non modulabili di competenza dell'autorita' amministrativa. In questi termini, l'unico momento nel quale gli effetti pregiudizievoli dell'accertamento (dell'unico accertamento a duplice effetto sanzionatorio, pecuniario e di status) possono essere censurati di incostituzionalita' e' proprio il giudizio dinanzi alla Corte dei conti che non puo' non tener conto - ai fini dell'eccezione - degli effetti di legge consequenziali al proprio decisum, ancorche' poi irrogati da un'autorita' amministrativa. Ne' potrebbe il giudice contabile scindere i due momenti disconoscendo - ai fini della rilevanza - gli effetti che la legge collega espressamente al proprio accertamento, nel rispetto del rapporto necessario tra protasi ed apodosi. Peraltro, per come la norma e' strutturata, emerge che l'accertamento della Corte dei conti sul contributo al dissesto finanziario ha come primo effetto voluto dal legislatore e vincolato alla pronuncia (seppur poi irrogato da altro soggetto) proprio il divieto di ricoprire determinate cariche pubbliche e solo successivamente (ultimo capoverso del comma 5) la sanzione pecuniaria. Quindi, essendo la condizione di status l'elemento principale che consegue alla sentenza che accerta la responsabilita' delle condotte, la questione di legittimita' costituzionale della norma rileva necessariamente ai fini della decisione, non potendosi separare l'accertamento (prima) dai suoi effetti (poi) sulla condizione di status (sebbene mediati dal provvedimento amministrativo), essendo effetto consequenziale e non discrezionale («l'incandidabilita' non e' una "sanzione di status", ma e' un effetto ex lege che limita il diritto (costituzionalmente garantito a ogni cittadino dall'art. 51 della Costituzione) all'elettorato passivo, in un delicato bilanciamento con altri principi costituzionali sanciti dagli articoli 54 e 97 della Costituzione. Quando la norma che pone il divieto, prescrive, ai fini dell'applicazione, la comunicazione all'autorita' amministrativa, a questa compete il potere-dovere di procedere in conformita'», cfr. Corte dei conti, sentenza Sez. II App., n. 173 del 26 giugno 2023). Ne' potrebbe superarsi la rilevanza della questione - in questa sede - sulla considerazione che l'incostituzionalita' della norma potrebbe essere fatta valere successivamente a valle dell'adozione dell'atto amministrativo sull'incandidabilita', nella fase di eventuale impugnazione. Infatti, partendo dal concetto di unicita' dell'accertamento in ordine alla sussistenza del nesso causale fra la condotta tenuta dall'amministratore ed il conseguente dissesto e all'effetto «automatico previsto dalla legge, cosi' da non rendere necessaria una declaratoria ("comando") del giudice», come indicato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, viene in evidenza che il momento topico nel quale l'eccezione assume rilevanza e' proprio quello nel quale la condotta degli amministratori viene giudicata e rispetto alla quale l'eccezione di incostituzionalita' della norma, per violazione del principio di ragionevolezza non prevedendo una sanzione di status con termini differenziati rispetto alle singole condotte in luogo del termine fisso decennale, assume la rilevanza nei termini piu' ampi. Infatti, l'eccezione sollevata ha rilievo in questa sede contabile perche' la violazione dell'art. 3 (in rapporto anche con l'art. 51) della Costituzione e' riferita proprio alla necessita' di ancorare l'estensione temporale delle limitazioni sullo status (effetto automatico che non necessita del comando del giudice) alle condotte, il cui accertamento unico avviene dinanzi alla Corte dei conti e, dunque, in tale momento - anche ai fini accertativi del contributo causale (e delle sue modalita') - gli effetti di legge (e il relativo parametro di costituzionalita') incidono sulla decisione. Peraltro, anche a voler ritenere che l'effetto di legge sullo status non sia una conseguenza diretta della pronuncia del giudice contabile, ma un effetto «indiretto» dell'accertamento, in ogni caso la questione sarebbe rilevante, dovendosi necessariamente riferire la valutazione sulla costituzionalita' delle norme da applicare a tutti gli effetti che la decisione genera. Quanto alla non manifesta infondatezza si evidenzia che dall'impostazione della «interpretazione adeguatrice» della sentenza della Corte costituzionale n. 356 del 1996 («le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perche' e' impossibile darne interpretazioni costituzionali», cfr. § 4) e dalla successiva previsione della necessita' di «verificare, prima di sollevare la questione di costituzionalita', la concreta possibilita' di attribuire alla norma denunciata un significato diverso da quello censurato e tale da superare i prospettati dubbi di legittimita' costituzionale» (ord. 322/2001, penultimo cpv. della parte in fatto e diritto) si e' passati alla tesi contenuta nella sentenza n. 235/2014 (secondo cui la non condivisione della possibile soluzione ermeneutica conforme a Costituzione, in quanto sufficientemente argomentata, «non rileva piu' in termini di inammissibilita' - ma solo, in tesi, di eventuale non fondatezza - della questione in esame», cfr. § 5 del considerato in diritto) e a quella della sentenza n. 262 del 2015 («ai fini dell'ammissibilita' della questione, e' sufficiente che il giudice a quo esplori la possibilita' di un'interpretazione conforme alla Carta fondamentale e, come avviene nel caso di specie, la escluda consapevolmente», cfr. § 2.3 del considerato in diritto), per approdare ai principi indicati nella sentenza n. 42 del 2017 (§ 2.2 del considerato in diritto, secondo cui «Se, dunque, "le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)" (sentenza n. 356 del 1996), cio' non significa che, ove sia improbabile o difficile prospettarne un'interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito. Anzi, tale scrutinio, ricorrendo le predette condizioni, si rivela, come nella specie, necessario, pure solo al fine di stabilire se la soluzione conforme a Costituzione rifiutata dal giudice rimettente sia invece possibile»). Sulla base di tali criteri deve essere scrutinata la domanda sulla legittimita' dell'art. 248, comma 5 del TUEL per violazione dell'art. 3, della Costituzione, laddove ha previsto l'effetto di legge dell'incandidabilita' e il divieto di ricoprire determinate cariche per un termine determinato e fisso di dieci anni, prescindendo dalla natura gravemente colposa o dolosa della condotta (o dell'entita' del contributo causale all'evento dissesto). Sul punto occorre premettere che il vaglio di costituzionalita' richiesto ha come punto di riferimento indiscutibile l'uso del potere discrezionale del Parlamento su cui non e' previsto alcun sindacato (art. 28 della legge n. 87 del 1953), quindi ben potrebbe il legislatore prevedere - in linea astratta - la contrazione dei diritti di elettorato passivo per un periodo di dieci anni quale misura afflittiva e, ancor di piu', special preventiva per il danno che gli amministratori hanno provocato (rectius contribuito a provocare) con il dissesto dell'ente. Tuttavia, tale limitazione - estremamente pervasiva andando ad incidere sui diritti riconosciuti dall'art. 51 della Costituzione - in tanto e' ammissibile in quanto sia conforme al principio di ragionevolezza, avendo anche riguardo al modo in cui il legislatore ha normato situazioni simili. In questo senso gli opponenti hanno richiamato alcune fattispecie rappresentative di casi indicati come simili, con discipline diverse che denoterebbero una disparita' di trattamento. In particolare: da un lato hanno richiamato la previsione dell'art. 248, comma 5-bis, del TUEL che, con riferimento ai revisori, prevede un termine massimo della sanzione e, dunque, la sua modulabilita'; dall'altro lato hanno indicato le previsioni del decreto legislativo n. 235/2012 in tema di incandidabilita' (la cui relativa giurisprudenza costituzionale era stata addotta dal decreto opposto, a supporto del rigetto dell'eccezione). Quanto alla previsione di un limite massimo del divieto di ricoprire cariche (e, dunque, modulabile) per i membri del collegio dei revisori, si ritiene che il termine di paragone sia privo di pregio, considerato che diversi sono i ruoli svolti dall'amministratore e dal revisore e diversa e' la responsabilita' che le due figure rivestono nelle dinamiche dell'ente. Il revisore, infatti, sebbene dotato di specifiche competenze professionali, e' comunque un soggetto che svolge funzione di ausilio e di controllo dell'attivita' posta in essere dagli amministratori i quali, avvalendosi dell'attivita' degli uffici tecnici, gestiscono la cosa pubblica, avendo il potere e relativo dovere di operare per il meglio, in condizioni ordinarie, e con particolare oculatezza per il risanamento, nella gestione di crisi dell'ente (quale la condizione di predissesto, con piano di riequilibrio approvato, di cui si discute). La diversa qualifica soggettiva (e di funzioni) configura dunque fattispecie che non sono in alcun modo sovrapponibili. Quanto invece all'eccepita incostituzionalita' riferita a gradualita' sanzionatoria, proporzionalita', ragionevolezza della sanzione, nonche' disparita' di trattamento previsti dall'art. 3 della Costituzione, si osserva che il termine fisso decennale indicato, di per se', non ha alcun rilievo o profilo di incostituzionalita', essendo un termine (pari a due consiliature complete) evidentemente ritenuto congruo dal legislatore nell'esercizio della sua discrezionalita' normativa. In merito, peraltro, non puo' non indicarsi il ruolo centrale che assume nell'ordinamento - e, di riflesso nella previsione sanzionatoria - il bilancio dello Stato (alla cui tutela la norma e' orientata), a cui concorre necessariamente quello dei singoli enti locali, anche alla luce del principio di equita' intragenerazionale e intergenerazionale a cui l'equilibrio del bilancio e' preposto (Corte costituzionale sentenza n. 18/2019, sentenza n. 115/2020, sentenza n. 246/2021), incidente altresi' sul legame fiduciario che caratterizza il mandato elettorale e la rappresentanza democratica degli eletti (Corte costituzionale sentenza n. 228/2017) e in ragione della necessita' per l'amministratore di porre in essere azioni indispensabili ad incentivare il buon andamento dei servizi e pratiche di amministrazione ispirate a una oculata e proficua spendita delle risorse della collettivita' (in tal senso, Corte costituzionale sentenze n. 235 del 2021 e n. 18 del 2019). Quindi, in adesione a tale impostazione la previsione incisiva sullo status personale prevista dal legislatore (preclusione a ricoprire cariche per dieci anni) - confortata dalla giurisprudenza costituzionale - non presenterebbe profili di incostituzionalita' laddove messa in relazione solamente con il bilancio dello Stato, atteso che esso ha comunque un ruolo fondamentale superindividuale destinato ad incidere sulla vita dell'intera cittadinanza e in termini intragenerazionali, rispetto al quale l'interesse del singolo (nei cui confronti sono state accertate delle responsabilita') sarebbe recessivo, con l'effetto che la limitazione del diritto costituzionale all'elettorato passivo troverebbe ragionevole giustificazione nell'esigenza di tutelare l'equilibrio di bilancio. Tuttavia, se letta nel sistema della incandidabilita' ex lege, allora la previsione dell'art. 248, comma 5, TUEL si evidenzia per alcune peculiarita' di fondo che non sono giustificate dalla preminenza del bilancio dello Stato e dell'equilibrio a cui esso e' orientato (art. 97 della Costituzione) e che stridono con il rispetto dei criteri di gradualita' «sanzionatoria», proporzionalita', ragionevolezza, nonche' di parita' di trattamento ai quali la stessa discrezionalita' del legislatore deve conformarsi. In particolare, fermi restando i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, appare non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale laddove prospetta come irragionevole la previsione di una automatica incandidabilita' (e divieto di ricoprire cariche) per un termine fisso di dieci anni per una condotta, anche di natura gravemente colposa, che abbia non «determinato» (come nella versione originaria della disposizione, rispetto alla quale l'eccezione d'incostituzionalita' non avrebbe avuto rilievo), ma anche solo «contribuito» - peraltro senza limiti di tempo - al dissesto dell'ente. Vengono infatti unificate ai fini dell'incandidabilita', violando irragionevolmente il principio di parita' di trattamento e di proporzionalita', le condotte connotate da dolo che abbiano determinato con contributo estensivamente incisivo e protratto nel tempo il dissesto dell'ente con quelle condotte, invece, connotate da colpa grave, circoscritte magari a singoli episodi risalenti nel tempo (anche a consiliature antecedenti un eventuale piano di riequilibrio finanziario), ma che secondo la nuova formulazione abbiano comunque «contribuito», ancorche' in maniera minima, al dissesto dell'ente. La previsione di una incandidabilita' (divieto di ricoprire cariche) decennale, ancorche' non sia configurabile come sanzione nei termini indicati dalla giurisprudenza, in ogni caso incide inevitabilmente nella vita (e, dunque, sui diritti costituzionalmente garantiti) degli amministratori e, pertanto, l'effetto ex lege previsto dal legislatore deve rientrare nel parametro della ragionevolezza riferita, da un lato, al diritto all'elettorato passivo di cui all'art. 51 della Costituzione e, dall'altro, alla tutela degli interessi costituzionali protetti dagli articoli 54 e 97, della Costituzione. Inoltre, secondo la prospettazione dei convenuti, tale irragionevolezza emergerebbe anche dal raffronto con altre fattispecie. Sul punto si osserva che lo stesso TUEL prevede, all'art. 143, comma 11, l'ipotesi d'incandidabilita' per gli amministratori, relativa allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare, disponendo espressamente, fatte salve misure interdittive o accessorie, che «gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento di cui al presente articolo non possono essere candidati alle elezioni per la Camera dei deputati, per il Senato della Repubblica e per il Parlamento europeo nonche' alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, in relazione ai due turni elettorali successivi allo scioglimento stesso, qualora la loro incandidabilita' sia dichiarata con provvedimento definitivo». Tale fattispecie ricorre nell'ipotesi, disciplinata dal primo comma dell'art. 143, allorquando «emergono concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalita' organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, ovvero su forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un'alterazione del procedimento di formazione della volonta' degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l'imparzialita' delle amministrazioni comunali e provinciali, nonche' il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica». Oltre questa fattispecie viene in rilievo - e richiamata dagli opponenti - l'incandidabilita' di cui al decreto legislativo n. 235/2012, rispetto alla quale ha argomentato il decreto opposto nel rigettare l'eccezione d'incostituzionalita'. In particolare, con riferimento agli enti locali, l'art. 10 prevede l'incandidabilita' alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e comunque il divieto di ricoprire la carica di amministratore (sindaco, assessore, consigliere, etc.), per coloro che hanno riportato condanne definitive per fattispecie delittuose di particolare rilievo sociale (associazione di tipo mafioso, traffico di sostanze stupefacenti, in tema di immigrazione e terrorismo, diverse ipotesi di delitti compiuti da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, quali peculato, concussione, corruzione, etc.), oltre alle ipotesi di condanna definitiva per delitti non colposi con condanna non inferiore a due anni di reclusione e alle ipotesi di applicazione definitiva di misura di prevenzione per appartenenza ad associazioni (tra cui quella di tipo mafioso). Rispetto a tali ipotesi, tuttavia, l'art. 15, comma 3, prevede che «La sentenza di riabilitazione, ai sensi degli articoli 178 e seguenti del codice penale, e' l'unica causa di estinzione anticipata dell'incandidabilita' e ne comporta la cessazione per il periodo di tempo residuo». Dunque, viene in rilievo che il legislatore, a fronte di ipotesi di condanna definitiva per delitti che incidono significativamente nella vita della pubblica amministrazione (si pensi oltre all'ipotesi dell'art. 416-bis del codice penale anche al peculato, concussione o corruzione) prevede la possibilita' di limitare l'incandidabilita' e, cosi', restituire al condannato il diritto elettorale passivo, tramite l'istituto della riabilitazione. Per contro, tale possibilita' di porre fine all'incandidabilita' e' preclusa nell'ipotesi in cui un amministratore, a titolo di colpa grave, con la propria condotta anche risalente nel tempo, abbia «contribuito» al dissesto dell'ente. Tale disparita' di trattamento sembra indicare la non manifesta infondatezza dell'eccezione di incostituzionalita' della norma, rispetto al parametro dell'art. 3 della Costituzione, sollevata dalle parti opponenti. Se nelle due fattispecie indicate la contrazione del diritto di elettorato passivo trova una sua necessaria giustificazione costituzionale con riferimento a quelle omissioni che incidono o sulle condizioni morali degli amministratori (incandidabilita' ai sensi del decreto legislativo n. 235/2012, relativa a condanne definitive) o a responsabilita' relative a infiltrazioni mafiose (art. 143, comma 11, TUEL), la stessa misura appare irragionevole - considerato che viene applicata in misura fissa e non graduata - rispetto ad ipotesi in cui non solo manca l'incisivita' dell'infiltrazione mafiosa (elemento che inquina l'intero apparato amministrativo non solo da un punto di vista economico, ma anche morale e di rispetto della legalita') o l'accertamento definitivo di reati associativi o connessi con la funzione pubblica esercitata a danno dell'amministrazione stessa, ma addirittura si potrebbe assistere a condotte risalenti nel tempo (non essendo piu' previsto il termine degli ultimi cinque anni), caratterizzate da colpa grave (espressione dell'incapacita' di amministrare) e che hanno meramente «contribuito» al dissesto, eventualmente anche in maniera marginale (in luogo del precedente «determinato»). Rispetto alla stessa norma, dunque, il termine fisso d'incandidabilita' (o divieto di ricoprire determinate cariche) per dieci anni appare irragionevole laddove unifica sia ipotesi di colpa grave che dolo, nonche' condotte «determinanti» con quelle che esprimono un mero «contributo», senza alcuna possibilita' di distinzione e di graduazione. Inoltre, proprio perche' il profilo di incostituzionalita' ai fini della non manifesta infondatezza deve essere vagliato alla luce di discipline simili, non appare sorretto da proporzionalita' la previsione di incandidabilita' per un periodo di dieci anni per gli amministratori che hanno solo «contribuito» anche in un tempo remoto e a titolo di colpa grave, senza alcuna possibilita' di emendazione, a fronte di ipotesi in cui pur in presenza di condanna in sede penale (es. ex art. 10, decreto legislativo n. 235/2012) con conseguente incandidabilita', e' prevista la possibilita' di poter tornare a far parte dell'elettorato passivo, grazie alla sentenza di riabilitazione ex articoli 178 ss. del codice penale. In altri termini, il principio di ragionevolezza e proporzionalita' della previsione dell'art. 248, comma 5, TUEL, non appare rispettato dalla norma, laddove viene trattata con maggior rigore la semplice ipotesi di colpa grave per un mero contributo causale al dissesto, ancorche' risalente nel tempo (con incandidabilita' assoluta per dieci anni) rispetto alle ipotesi, ad esempio, di condanna definitiva per reati di associazione mafiosa o contro la pubblica amministrazione, per le quali e' prevista la possibilita' di riabilitazione. Peraltro, la stessa norma appare irragionevole e contraddittoria sotto un altro profilo. Infatti, ove si ritenesse non irragionevole il divieto di ricoprire determinate cariche per dieci anni degli amministratori che hanno contribuito al dissesto dell'ente, rispetto a condotte che incidono sulla stessa moralita' ed onesta' dei medesimi e che vedono la possibilita' di ridurre o far cessare l'incandidabilita', in ragione della prevalenza delle esigenze di tutela del bilancio potenzialmente pregiudicato dalla mala gestio degli amministratori, si' da precludere la possibilita' che continuino ad amministrare, viene in rilievo la circostanza che agli stessi sia preclusa la possibilita' per dieci anni di ricoprire la carica di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati, ma possono essere eletti Sindaci e quindi gestire non la singola attivita' delegata, ma l'intera amministrazione comunale. Per tali ragioni l'impossibilita' di interpretare secondo Costituzione la norma induce a prospettare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 248, comma 5, decreto legislativo n. 267/2000, laddove dispone per gli amministratori il divieto di ricoprire incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati, per un periodo fisso di dieci anni e non graduabile, a fronte di condotte che abbiano contribuito al dissesto dell'ente, sia a titolo di dolo che di colpa grave. 2. Pertanto, ai sensi e per gli effetti degli articoli 134 della Costituzione e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, devono dichiararsi rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 248, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000 sopra prospettate, e deve di conseguenza disporsi la sospensione del giudizio in oggetto, ordinando l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e gli altri adempimenti a cura della cancelleria di cui al dispositivo. 3. Le spese del giudizio saranno liquidate alla definizione integrale del merito della presente controversia. P.Q.M. La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Calabria, non definitivamente pronunciando con riferimento al giudizio di opposizione ex art. 135 c.g.c. relativo a giudizio sanzionatorio iscritto al n. 23983 del Registro di Segreteria: Visti l'art. 134 della Costituzione e l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate, in riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 248, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, prospettate nei termini di cui in motivazione; Ordina la sospensione del giudizio; Ordina alla Segreteria della Sezione di provvedere: all'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; alla notificazione della presente ordinanza alle parti in causa, al pubblico ministero e al Presidente del Consiglio dei ministri; alla comunicazione della presente ordinanza ai Presidenti delle Camere del Parlamento; ad ogni altro adempimento di competenza. Spese del giudizio al definitivo. Cosi' deciso in Catanzaro nelle camere di consiglio del 31 ottobre - 11 dicembre 2024. Il Presidente f.f.: Marre' Brunenghi