N. 100 ORDINANZA (Atto di promovimento) 31 maggio 2022
Ordinanza del 31 maggio 2022 della Corte d'appello di Milano nel
procedimento civile promosso da Moise Ionela Maria ed altri contro
INPS - Istituto nazionale previdenza sociale.
Straniero - Politiche sociali - Reddito di cittadinanza - Requisiti -
Previsione che il beneficiario debba esser residente in Italia per
almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento
della presentazione della domanda e per tutta la durata
dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo.
In via subordinata:
Straniero - Politiche sociali - Reddito di cittadinanza - Requisiti -
Previsione che il beneficiario debba esser residente in Italia per
almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento
della presentazione della domanda e per tutta la durata
dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo - Omessa
previsione che il beneficiario, cittadino di uno Stato membro
dell'Unione europea, debba esser residente in Italia per almeno
cinque anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della
presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione
del beneficio, in modo continuativo.
In ulteriore subordine:
Straniero - Politiche sociali - Reddito di cittadinanza - Requisiti -
Previsione che il beneficiario debba esser residente in Italia per
almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento
della presentazione della domanda e per tutta la durata
dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo - Omessa
previsione che il beneficiario, cittadino di uno Stato membro
dell'Unione europea, debba esser residente in Italia negli ultimi
due anni, considerati al momento della presentazione della domanda
e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo
continuativo.
- Decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in
materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con
modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, art. 2, comma 1,
lettera a), numero 2.
(GU n. 39 del 28-09-2022)
CORTE D'APPELLO DI MILANO
(Sezione lavoro)
La Corte d'Appello di Milano, Sezione lavoro, composta da:
dott. Giovanni Picciau, Presidente;
dott. Giovanni Casella, consigliere relatore;
avv. Daniela Macaluso, giudice ausiliario,
a scioglimento della riserva assunta all'udienza del 23 maggio 2022,
ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile in grado
d'appello avverso l'ordinanza riservata del 27 luglio 2021 emessa dal
Tribunale di Milano - Sezione lavoro, est. dott.ssa De Carlo;
Promossa da Moise Ionela Maria, Stoian Gheorghita, Tanasie Stela,
Stoiculescu Florentina, Coruga Alina Daniela, Dumitru Cristian, con
gli avv.ti Alberto Guariso, Livio Neri e Ilaria Sticchi;
Contro Istituto nazionale previdenza sociale - INPS con l'avv.
Carla Maria Omodei Zorini;
Rileva quanto segue.
1) La vicenda processuale.
Con ricorso ex artt. 28, decreto legislativo n. 150/2011 e 44 TU
immigrazione («Azione civile contro la discriminazione») e 702-bis
c.p.c., depositato il 18 novembre 2020, Moise Ionela Maria, Stoian
Gheorghita, Tanasie Stela, Stoiculescu Florentina, Coruga Alina
Daniela, Dumitru Cristian e Manolea Mariana Ancuta, cittadini
comunitari (romeni) e privi della residenza nello stato italiano per
almeno dieci anni, hanno convenuto l'INPS avanti al Tribunale di
Milano - Sezione lavoro, esponendo di appartenere a famiglie in grave
condizione di fragilita', assistite da molti anni dalla Comunita' di
Sant'Egidio che le ha sostenute nella ricerca dell'alloggio e del
lavoro e nell'accompagnamento scolastico dei minori e di aver avuto,
sia nel 2019 che nel 2020, un indicatore ISEE inferiore a 9.360,00.
Cio' premesso, hanno chiesto:
preliminarmente:
il preventivo rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla
Corte di giustizia europea formulando il quesito riguardante la
compatibilita' con il diritto dell'Unione dell'art. 2, comma 1,
lettera a) del decreto-legge n. 4/2019 in relazione al requisito dei
dieci anni di residenza nello Stato italiano al fine di accedere alla
prestazione di cui e' causa (Reddito di cittadinanza - RDC): «Se
l'art. 24, comma 1, direttiva 2004/38 deve essere interpretato nel
senso che osta a una disposizione nazionale in base alla quale una
prestazione di assistenza sociale finalizzata al contrasto alla
poverta' e all'inserimento sociale e lavorativo come quella di cui
all'art. 2, comma 1, lettera a), decreto-legge n. 4/2019, sia
riservata ai soggetti che possono far valere dieci anni di residenza
in Italia, di cui gli ultimi due continuativi, con conseguente
esclusione dei cittadini di altri Stati membri che, pur avendo
esercitato legittimamente il diritto alla mobilita', avendo diritto
al soggiorno legale in Italia, ed essendo legalmente soggiornanti da
oltre tre mesi, non hanno maturato il predetto requisito» «Se, in
caso di risposta negativa al primo quesito, gli artt. 7, par. 2, e 10
par. 1 del regolamento n. 492/2011 debbano essere interpretati nel
senso che ostano a una disposizione nazionale in base alla quale una
prestazione di assistenza sociale finalizzata al contrasto alla
poverta' e all'inserimento sociale e lavorativo come quella di cui
all'art. 2, comma 1, lettera a), decreto-legge n. 4/2019, sia
riservata ai soggetti che possono far valere dieci anni di residenza
in Italia, di cui gli ultimi due continuativi, con conseguente
esclusione dei cittadini di altri Stati membri che, pur avendo
diritto al soggiorno in qualita' di lavoratori e di genitori di figli
minori che stanno completando un corso di studi, non hanno maturato
il predetto requisito»;
l'accertamento della natura discriminatoria della condotta
assunta dall'ente previdenziale con particolare riguardo, da un lato,
al disposto della circolare n. 43/2019 che prevede il requisito della
residenza decennale in Italia e, dall'altro, alla sospensione
dell'erogazione del beneficio nei confronti di tutte le ricorrenti ad
eccezione della sig.ra Manoela Mariana Ancuta (che non ha mai
presentato domanda);
in via principale:
la modifica della circolare sopra richiamata e la condanna
dell'ente previdenziale al pagamento in favore di ciascuna ricorrente
dell'importo spettante a titolo di RDC anche per la parte successiva
alla sospensione e sino al completamento dei diciotto mesi previsti
dalla legge ferma la verifica degli ulteriori requisiti ammettendo le
ricorrenti alle rispettive domande anche per i periodi successivi;
in linea subordinata:
condannare l'ente previdenziale al risarcimento del
supposto danno patito da ciascun ricorrente quale risarcimento per la
subita discriminazione nella misura della prestazione non fruita
ulteriormente ordinando all'INPS di ammettere i ricorrenti alla
procedura per l'attribuzione del beneficio;
infine, con riferimento alla posizione della sig.ra Manoela
Mariana Ancuta condannare l'ente previdenziale al risarcimento del
danno da discriminazione quantificato in euro 9.000,00 ulteriormente
ordinando di ammettere la predetta alla domanda di RDC anche per i
periodi successivi ferma la verifica degli ulteriori requisiti di
legge.
I ricorrenti hanno sostenuto che il requisito della decennalita'
della residenza nello Stato italiano richiesto dalla norma per la
fruizione del beneficio fosse contrastante con la normativa ed il
diritto comunitario per violazione del diritto alla parita' del
trattamento ed al divieto di discriminazione in ragione della
nazionalita'.
I ricorrenti hanno evidenziato altresi' l'ipotesi di un contrasto
di tale requisito con la Carta costituzionale, in particolare, con
riferimento agli artt. 3, 4, 35, 38 nonche' 117 della Costituzione.
L'INPS si e' costituita in giudizio, contestando gli assunti
avversari e domandando il rigetto del ricorso, previa eccezione di
inammissibilita' di quest'ultimo.
Il primo giudice, con ordinanza riservata del 27 luglio 2021, ha
respinto il ricorso, rilevando la legittimita' della disposizione
nazionale censurata e la conseguente assenza di discriminazione nei
confronti delle ricorrenti, condannando queste ultime, in solido tra
loro, al pagamento delle spese di lite in favore di INPS, determinate
in complessivi euro 3.000,00, oltre spese generali 15% e accessori di
legge.
In particolare, il tribunale ha rigettato, innanzitutto, la
domanda di Manoela Mariana Ancuta «a fronte della mancata
presentazione della domanda, nemmeno in formato cartaceo, non
[potendo], in concreto, ritenersi compiuta una qualsivoglia
discriminazione in danno di tale ricorrente ed imputabile all'INPS».
Nel merito, il tribunale ha ritenuto che «Nel caso di specie, in
primo luogo, e' insussistente una discriminazione diretta tra i
cittadini italiani e gli altri dell'UE, in ragione del tenore della
previsione normativa contestata da parte ricorrente. Infatti, ..., la
norma parifica il requisito di residenza per entrambe le categorie di
soggetti predetti, risultando cosi' salva la parita' di trattamento
tra loro. ... Deve essere altresi' esclusa, nella fattispecie in
esame, la sussistenza di una discriminazione indiretta fondata sulla
nazionalita' in danno dei cittadini comunitari, quali sono tutti i
ricorrenti. Infatti, la concessione del reddito, non a caso
denominato dal legislatore, "di cittadinanza", presuppone la
sussistenza di un concreto e duraturo requisito di stabile
collegamento del richiedente, cittadino italiano, comunitario o
extracomunitario che sia, con il territorio dello Stato italiano e
con il suo mercato del lavoro. Il legislatore, nell'introdurre tale
istituto, ha previsto, infatti, non solo requisititi di reddito e
patrimoniali, ma anche di collegamento con il territorio del Paese
che lo eroga.
La ragionevolezza di una analoga scelta legislativa, volta alla
selezione della platea o dei destinatari di un beneficio, e' gia'
stata oggetto di vaglio da parte della Corte costituzionale, con la
sentenza del 15 marzo 2019, n. 50. Tale decisione superava i dubbi di
legittimita' costituzionale riferiti all'assegno sociale, in quanto
concesso solo agli aventi diritto che "abbiano soggiornato legalmente
in via continuativa per almeno dieci anni nel territorio nazionale",
con riguardo ai cittadini extracomunitari (art. 20, comma 10, del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria)
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133). La
Corte ha, quindi, ampiamente affrontato il tema del riconoscimento di
tale beneficio, a condizione di un requisito di residenza prolungata.
Peraltro, pur intervenendo con riguardo alla condizione dei cittadini
extracomunitari, la Corte costituzionale afferma principi che sono
applicabili analogamente al caso di specie e alla condizione dei
cittadini comunitari ricorrenti».
Avverso tale sentenza Moise Ionela Maria, Stoian Gheorghita,
Tanasie Stela, Stoiculescu Florentina, Coruga Alina Daniela, Dumitru
Cristian hanno proposto appello per i seguenti motivi:
1) il primo giudice ha confuso le norme e i principi
giurisprudenziali che regolano l'accesso alle prestazioni di
cittadini che non hanno diritto al soggiorno con le norme e i
principi applicabili ai cittadini che hanno diritto al soggiorno,
applicando alle ricorrenti i primi, senza chiedersi se esse
rientrassero nel primo o nel secondo gruppo;
2) ha cosi' ignorato che risulta incontestato che le
ricorrenti hanno diritto al soggiorno (in quanto e' stato ad esse
riconosciuto con l'iscrizione anagrafica e, in particolare, le
ricorrenti Moise, Stoicolescu e Stoian hanno anche acquisito gia'
alla data della domanda del RDC il diritto al soggiorno permanente
essendo regolarmente soggiornanti da oltre cinque anni) e, comunque,
in quanto lavoratrici ai sensi della direttiva 2004/38 (art. 7, par.
3), ai sensi della quale il cittadino che cessa di essere lavoratore
subordinato o autonomo conserva tale qualita' nei seguenti casi:
quando abbia lavorato per piu' di un anno e si sia poi
registrato come disoccupato (Stoiculescu, Moise e Dumitru);
quando abbia lavorato per meno di un anno e si sia
registrato come disoccupato (in tal caso la qualita' di lavoratore
permane ai sensi della direttiva per almeno sei mesi, periodo esteso
ad un anno dal decreto legislativo di attuazione n. 30/2007, art. 7,
comma 3): e' la condizione della ricorrente Coruga;
quando l'interessato abbia lavorato e sia temporaneamente
inabile al lavoro: e' la condizione della ricorrente Tanasie, che e'
titolare di un attestato di invalidita' comunque soggetto a revisione
e dunque di per se' non in contrasto con il requisito di una
«condizione temporanea di invalidita'»;
quando l'interessato, indipendentemente dalla sua attivita'
lavorativa piu' o meno lunga, e' familiare di lavoratore o comunque
di soggetto che abbia diritto al soggiorno: e' la condizione prevista
dal par. 1, lettera d), dell'art. 7 cit. della direttiva, in cui
rientrano ancora il ricorrente Dumitru e le ricorrenti Moise e
Stoicolescu;
3) non ha quindi potuto esaminare (avendone negato «a monte»
l'applicabilita') se un requisito cosi' prolungato contrasti con il
predetto principio ex art. 24, par. 1 della direttiva;
4) ha totalmente ignorato l'applicabilita' o meno alla
vicenda dell'art. 7, comma 2, regolamento n. 492/2011 «relativo alla
libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione».
L'INPS si e' regolarmente costituito per il gravame, chiedendo il
rigetto dell'appello e l'integrale conferma dell'ordinanza impugnata.
Dopo il deposito di memorie scritte, questa Corte si e' riservata
di valutare le questioni di costituzionalita' discusse tra le parti.
2) Questione di costituzionalita'.
Cio' premesso, questa Corte ritiene di sollevare la questione di
costituzionalita' in ordine all'art. 2, comma 1, lettera a), n. 2)
del decreto-legge n. 4/2019, convertito in legge n. 26/2019, sia
rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli artt. 3,
11 e 117, primo comma, della Costituzione (questi ultimi in relazione
agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea, all'art. 24, comma 1, direttiva 2004/38/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei
cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e all'art.
7, par. 2, del regolamento n. 492/2011 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei
lavoratori all'interno dell'Unione), atteso che il requisito di lungo
residenza appare irragionevole (per mancanza del requisito di
ragionevole correlabilita') e discriminatorio nei confronti dei
cittadini UE.
2.1 Rilevanza.
La questione di legittimita' appare assolutamente rilevante per
la decisione della presente causa in quanto l'accesso al RDC e'
subordinato al requisito della residenza in Italia per almeno dieci
anni, di cui gli ultimi due continuativi.
Ne consegue, quindi, che, essendo le ricorrenti in possesso degli
ulteriori presupposti richiesti dalla legge, l'accesso al beneficio
dipende solamente dal possesso o meno del requisito della lunga
residenza.
Non puo' neppure procedersi ad un'interpretazione
costituzionalmente orientata della norma in questione, preclusa dal
tenore letterale della disposizione che limita chiaramente il
beneficio solamente a coloro che possano vantare tale requisito di
lunga residenza.
Si puo', dunque, richiamare il principio, ripetutamente affermato
dalla Corte costituzionale (vedi sentenze n. 221/2019 e n. 102/2021,
Corte costituzionale), secondo cui «l'onere di interpretazione
conforme viene meno, lasciando il passo all'incidente di
costituzionalita', allorche' il tenore letterale della disposizione
non consenta tale interpretazione».
2.2. Non manifesta infondatezza.
L'eccezione di incostituzionalita', inoltre, appare non
manifestamente infondata in quanto, ad avviso di questo Collegio, la
norma impugnata pare contrastare con l'art. 3 della Costituzione e
con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione
agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea (che stabiliscono il divieto di discriminazione e diritto di
accesso alle prestazioni di sicurezza sociale), nonche' all'art. 24,
comma 1, direttiva 2004/38 (che sancisce la parita' di trattamento
dei cittadini dell'Unione in relazione al «diritto a prestazioni
d'assistenza sociale» erogate dallo Stato ospitante) e art. 7, par.
2, del regolamento n. 492/2011 (secondo cui il lavoratore cittadino
di uno Stato membro dell'UE «gode degli stessi vantaggi sociali e
fiscali dei lavoratori nazionali»).
In particolare, nella specie, appaiono violati gli artt. 21 e 34
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, di cui gli
artt. 24, comma 1, direttiva 2004/38 e 7, par. 2, del regolamento n.
492/2011 costituiscono concreta attuazione nel diritto derivato
dell'Unione.
L'art. 21, rubricato «Non discriminazione», statuisce - al pari
dell'art. 3 della Costituzione - «1. E' vietata qualsiasi forma di
discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il
colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche
genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le
opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una
minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'eta'
o le tendenze sessuali.
2. Nell'ambito d'applicazione del Trattato che istituisce la
Comunita' europea e del Trattato sull'Unione europea e' vietata
qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le
disposizioni particolari contenute nei trattati stessi».
L'art. 34 statuisce: «1. L'Unione riconosce e rispetta il diritto
di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali
che assicurano protezione in casi quali la maternita', la malattia,
gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in
caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalita' stabilite
dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali.
2. Ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all'interno
dell'Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai
benefici sociali conformemente al diritto comunitario e alle
legislazioni e prassi nazionali.
3. Al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la poverta',
l'Unione riconosce e rispetta il diritto all'assistenza sociale e
all'assistenza abitativa volte a garantire un'esistenza dignitosa a
tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le
modalita' stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e
prassi nazionali».
Il principio di parita' di trattamento nel settore della
sicurezza sociale, nei termini delineati dalla CDFUE e dal diritto
derivato e poi ribaditi dalla Corte di giustizia dell'Unione europea,
«si raccorda ai principi consacrati dagli artt. 3 e 31 della
Costituzione e ne avvalora e illumina il contenuto assiologico, allo
scopo di promuovere una piu' ampia ed efficace integrazione dei
cittadini dei Paesi terzi» (Corte costituzionale, sentenza n.
54/2022).
Questo Collegio ritiene di sottoporre alla Corte costituzionale i
dubbi di legittimita' costituzionale della norma in esame come di
seguito riportati.
2.3 Doppia pregiudizialita'.
La scelta di questo Collegio di sollevare questione di
costituzionalita' si giustifica in considerazione del fatto che la
norma interna sopra citata viola non solo principi eurounitari, ma
anche principi costituzionali (vedi sentenze n. 269/2017, n. 20/2019,
n. 63/2019, n. 112/2019, n. 117/2019, n. 11/2020, n. 44/2020, n.
182/2021 Corte costituzionale).
In particolare, nella citata sentenza n. 269/2017, il giudice
delle leggi ha affrontato la questione della «doppia
pregiudizialita'», fissando le seguenti regole: «Fermi restando i
principi del primato e dell'effetto diretto del diritto dell'Unione
europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e
costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti
costituisce parte del diritto dell'Unione dotata di caratteri
peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente
costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta
intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla
Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli
Stati membri). Sicche' puo' darsi il caso che la violazione di un
diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie
presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla
Carta dei diritti dell'Unione, come e' accaduto da ultimo in
riferimento al principio di legalita' dei reati e delle pene (Corte
di giustizia dell'Unione europea, Sezione grande, sentenza 5 dicembre
2017, nella causa C-42/17, M.A.S., M.B.).
Pertanto, le violazioni dei diritti della persona postulano la
necessita' di un intervento erga omnes di questa Corte, anche in
virtu' del principio che situa il sindacato accentrato di
costituzionalita' delle leggi a fondamento dell'architettura
costituzionale (art. 134 della Costituzione). La Corte giudichera'
alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei
(ex artt. 11 e 117 della Costituzione), secondo l'ordine di volta in
volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti
garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in
armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall'art. 6
del Trattato sull'Unione europea e dall'art. 52, comma 4, della CDFUE
come fonti rilevanti in tale ambito. In senso analogo, del resto, si
sono orientate altre Corti costituzionali nazionali di antica
tradizione (si veda ad esempio Corte costituzionale austriaca,
sentenza 14 marzo 2012, U 466/11-18; U 1836/11-13).
Il tutto, peraltro, in un quadro di costruttiva e leale
cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti
costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di
giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinche' sia
assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico
(art. 53 della CDFUE).
D'altra parte, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla
CDFUE a quelle previste dalla Costituzione italiana puo' generare un
concorso di rimedi giurisdizionali. A tale proposito, di fronte a
casi di "doppia pregiudizialita'" - vale a dire di controversie che
possono dare luogo a questioni di illegittimita' costituzionale e,
simultaneamente, a questioni di compatibilita' con il diritto
dell'Unione -, la stessa Corte di giustizia ha a sua volta affermato
che il diritto dell'Unione "non osta" al carattere prioritario del
giudizio di costituzionalita' di competenza delle Corti
costituzionali nazionali, purche' i giudici ordinari restino liberi
di sottoporre alla Corte di giustizia, "in qualunque fase del
procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del
procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi
questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria"; di "adottare
qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale
provvisoria dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico
dell'Unione"; di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di
legittimita' costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in
questione che abbia superato il vaglio di costituzionalita', ove, per
altri profili, la ritengano contraria al diritto dell'Unione (tra le
altre, Corte di giustizia dell'Unione europea, Sezione quinta,
sentenza 11 settembre 2014, nella causa C-112/13 A contro B e altri;
Corte di giustizia dell'Unione europea, Sezione grande, sentenza 22
giugno 2010, nelle cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli).
In linea con questi orientamenti, questa Corte ritiene che,
laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimita' tanto in
riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto
in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere
sollevata la questione di legittimita' costituzionale, fatto salvo il
ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione
o di invalidita' del diritto dell'Unione, ai sensi dell'art. 267 del
TFUE».
Anche successivamente, la Corte costituzionale si e' attenuta a
tale impostazione con le sentenze n. 20/2019, n. 112/2019, n.
117/2019, n. 11/2020, n. 44/2020 e n. 182/2021.
Non appare in contraddizione con l'ormai costante orientamento
sulla doppia pregiudizialita' la sentenza n. 67 del 2022, che ha
ritenuto inammissibile per irrilevanza una questione sollevata dalla
Corte di cassazione in materia di attribuzione dell'assegno per il
nucleo familiare, osservando che il rimettente avrebbe potuto
disapplicare il diritto interno contrastante con il diritto
dell'Unione. In quel caso, infatti, non veniva evocato dal rimettente
alcun diritto fondamentale garantito dalla Carta, ma si trattava
piuttosto di dare applicazione a (sole) disposizioni del diritto
derivato UE, nell'interpretazione gia' fornitane dalla Corte di
giustizia proprio a seguito di un rinvio pregiudiziale effettuato
dallo stesso giudice rimettente.
2.4 Quadro normativo e Corte costituzionale n. 19/2022.
Passando al merito della questione, e' opportuno sintetizzare
preliminarmente la disciplina del reddito di cittadinanza,
richiamando, a tal proposito, quanto gia' rilevato dalla Corte
costituzionale nella recente sentenza n. 19/2022:
«Il decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, che lo
istituisce, lo definisce "misura fondamentale di politica attiva del
lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla poverta',
alla disuguaglianza e all'esclusione sociale [...]", e lo qualifica
"livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse
disponibili" (art. 1, comma 1). Il citato decreto-legge e' stato
oggetto di modifiche (non significative ai fini del presente
giudizio) ad opera della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di
previsione dello Stato per l'anno finanziario 2022 e bilancio
pluriennale per il triennio 2022-2024).
Il reddito di cittadinanza consiste in un beneficio economico che
costituisce un'"integrazione del reddito familiare" fino alla soglia
di 6.000,00 euro annui (incrementata a seconda dei componenti del
nucleo familiare), alla quale si puo' aggiungere un'integrazione del
reddito dei nuclei familiari locatari di un'abitazione, fino ad un
massimo di 3.360,00 euro annui (art. 3, comma 1). Il beneficio e'
riconosciuto "per un periodo continuativo non superiore a diciotto
mesi" e puo' essere rinnovato, previa sospensione di un mese prima di
ciascun rinnovo (art. 3, comma 6).
La sua erogazione "e' condizionata alla dichiarazione di
immediata disponibilita' al lavoro da parte dei componenti il nucleo
familiare maggiorenni, [...] nonche' all'adesione ad un percorso
personalizzato di accompagnamento all'inserimento lavorativo e
all'inclusione sociale che prevede attivita' al servizio della
comunita', di riqualificazione professionale, di completamento degli
studi, nonche' altri impegni individuati dai servizi competenti
finalizzati all'inserimento nel mercato del lavoro e all'inclusione
sociale"» (art. 4, comma 1). Questo percorso si realizza o con il
Patto per il lavoro (stipulato presso un centro per l'impiego e che
«deve contenere gli obblighi e gli impegni previsti dal comma 8,
lettera b», che riguardano essenzialmente la ricerca attiva del
lavoro e l'accettazione delle offerte congrue) o con il Patto per
l'inclusione sociale, stipulato presso i servizi comunali competenti
per il contrasto della poverta' (art. 4, commi 7 e 12). Si tratta di
due «canali» comunicanti, nel senso che il beneficiario convocato dal
centro per l'impiego puo' essere inviato al servizio comunale e
viceversa (art. 4, commi 5-quater e 12). Il Patto per l'inclusione
sociale comprende anche gli «interventi per l'accompagnamento
all'inserimento lavorativo» (art. 4, comma 13).
Nell'ambito di entrambi i patti, «il beneficiario e' tenuto ad
offrire [...] la propria disponibilita' per la partecipazione a
progetti a titolarita' dei comuni, utili alla collettivita', in
ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di
tutela dei beni comuni, da svolgere presso il medesimo comune di
residenza, mettendo a disposizione un numero di ore compatibile con
le altre attivita' del beneficiario e comunque non inferiore al
numero di otto ore settimanali [...]» (art. 4, comma 15). Rispetto al
precedente istituto del reddito di inclusione, dunque, il reddito di
cittadinanza si caratterizza per una spiccata finalizzazione
all'inserimento lavorativo e per un piu' stringente meccanismo della
condizionalita', cioe' per un'accentuazione degli impegni assunti dai
beneficiari. Inoltre, rispetto al reddito di inclusione il reddito di
cittadinanza e' destinato a una platea piu' ampia di beneficiari, in
quanto e' prevista una soglia economica d'accesso piu' alta (art. 2,
comma 1, lettera b).
Per altro verso, come visto, il decreto-legge n. 4 del 2019, come
convertito, ha previsto un forte allungamento del periodo necessario
di residenza in Italia (da due a dieci anni).
L'art. 12 del citato decreto-legge detta le disposizioni
finanziarie per l'attuazione del reddito di cittadinanza, fissando un
limite legislativo di spesa. Il comma 1 determina la provvista
finanziaria per l'erogazione del RDC, autorizzando la spesa di
5.907,00 milioni di euro per il 2019, di 7.167,00 milioni per il
2020, di 7.391,00 milioni per il 2021 e di 7.246,00 milioni annui a
decorrere dal 2022, con imputazione ad apposito capitolo dello stato
di previsione del Ministero del lavoro, denominato «Fondo per il
reddito di cittadinanza». Tale autorizzazione di spesa e' stata
incrementata dapprima dall'art. 1, comma 371, della legge 30 dicembre
2020, n. 178 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno
finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023),
poi, per la somma di 1.000,00 milioni di euro limitatamente all'anno
2021, dall'art. 11, comma 1, del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41
(Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori
economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse
all'emergenza da COVID-19), convertito, con modificazioni, dalla
legge 21 maggio 2021, n. 69, e infine, sempre per il 2021 per la
somma di 200,00 milioni di euro, dall'art. 11, comma 13, del
decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia
economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze
indifferibili), convertito, con modificazioni, dalla legge 17
dicembre 2021, n. 215. Per gli anni 2022 e seguenti l'autorizzazione
di spesa di cui all'art. 12, comma 1, del decreto-legge n. 4 del
2019, come convertito, e' stata incrementata dall'art. 1, comma 73,
della legge n. 234 del 2021, per una somma di poco superiore ai
1.000,00 milioni all'anno.
L'art. 12, comma 9, del decreto-legge n. 4 del 2019, come
convertito, prevede che, «[i]n caso di esaurimento delle risorse
disponibili per l'esercizio di riferimento ai sensi del comma 1,
[...] con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali,
di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da
adottarsi entro trenta giorni dall'esaurimento di dette risorse, e'
ristabilita la compatibilita' finanziaria mediante rimodulazione
dell'ammontare del beneficio».
2.5 La «natura» del RDC.
La Corte costituzionale, con tale sentenza, ha compiutamente
tratteggiato la natura del RDC, evidenziandone i caratteri peculiari
che lo differenziano dalle misure esclusivamente «assistenziali»
(come l'assegno sociale), puntualizzando quanto segue:
«il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti
propri di una misura di contrasto alla poverta', non si risolve in
una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno
primario dell'individuo, ma persegue diversi e piu' articolati
obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A
tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la
temporaneita' della prestazione e il suo carattere condizionale,
cioe' la necessita' che ad essa si accompagnino precisi impegni dei
destinatari, definiti in patti sottoscritti da tutti i componenti
maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all'art.
4, commi 2 e 3, del decreto-legge n. 4 del 2019). E' inoltre prevista
la decadenza dal beneficio nel caso in cui un solo componente non
rispetti gli impegni (art. 7, comma 5, del decreto-legge n. 4 del
2019)».
2.6 Permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo.
Con la citata sentenza, la Corte costituzionale, chiamata a
delibare il denunciato contrasto tra l'art. 3 della Costituzione e il
requisito per gli stranieri di possedere il permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo, ha escluso l'incostituzionalita'
della norma sulla base della seguente argomentazione:
«occorre verificare se esista una ragionevole correlazione tra il
requisito fissato dalla norma censurata e la ratio del reddito di
cittadinanza. Come gia' ampiamente sottolineato, tale provvidenza non
si risolve in un mero sussidio economico, ma costituisce una misura
piu' articolata, comportante anche l'assunzione di precisi impegni
dei beneficiari, diretta ad immettere il nucleo familiare
beneficiario in un "percorso personalizzato di accompagnamento
all'inserimento lavorativo e all'inclusione sociale che prevede
attivita' al servizio della comunita', di riqualificazione
professionale, di completamento degli studi, nonche' altri impegni
individuati dai servizi competenti finalizzati all'inserimento nel
mercato del lavoro e all'inclusione sociale" (art. 4, comma 1, del
decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito). Va considerato inoltre
che la durata del beneficio economico e' di diciotto mesi (permanendo
i requisiti), con possibilita' di rinnovo (art. 3, comma 6).
L'orizzonte temporale della misura non e' dunque di breve
periodo, considerando sia la durata del beneficio sia il risultato
perseguito. Gli obiettivi dell'intervento implicano infatti una
complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il
legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalita', non
irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia
a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine
del reddito di cittadinanza, la titolarita' del diritto di
soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito
privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicche' la
scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur
sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non puo'
essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della
ragionevolezza».
Tali conclusioni sono assolutamente coerenti con la pregressa
giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui, in materia
sociale, le prestazioni legate ai bisogni essenziali della persona
debbono essere riconosciute a cittadini e stranieri regolarmente
soggiornanti (vedi, ad es., sentenza n. 230/2015 con riferimento alla
pensione di invalidita' civile per sordi e indennita' di
comunicazione; sentenza n. 22/2015 relativa all'indennita' di
accompagnamento per cieco ventesimista; sentenza n. 40/2013 in tema
di pensione di inabilita' civile e indennita' di accompagnamento;
sentenza n. 329/2011 in relazione all'indennita' di frequenza per
minori invalidi; sentenza n. 187/2010 in materia di assegno mensile
di invalidita', mentre per le prestazioni che vanno oltre il nucleo
dei bisogni essenziali possono essere introdotti requisiti selettivi
per i beneficiari, a condizione che rispettino il canone di
ragionevole correlabilita'.
2.7 Ragionevole correlabilita'.
Al di fuori del «nucleo essenziale», quindi, il legislatore (sia
nazionale che locale) non gode di una totale discrezionalita' nello
stabilire i criteri selettivi dei beneficiari, essendo necessario
rispettare il principio di «ragionevole correlabilita'». Tale
principio, infatti, e' stato ritenuto dalla Corte costituzionale come
indispensabile filtro per verificare la ragionevolezza dei criteri
selettivi posti dall'ordinamento per l'accesso alle prestazioni
sociali.
Con sentenza n. 137/2021, la Corte costituzionale ha ribadito che
«il legislatore puo' legittimamente circoscrivere la platea dei
beneficiari delle stesse prestazioni sociali, purche' le sue scelte
rispettino rigorosamente il canone di ragionevolezza; trattandosi di
provvidenze a tutela di soggetti fragili, infatti, le eventuali
limitazioni all'accesso devono esprimere un'esigenza chiara e
razionale, senza determinare discriminazioni (sentenze n. 50 del
2019, n. 166 del 2018, n. 133 del 2013 e n. 432 del 2005)».
In particolare, la Corte, nella sentenza n. 432/2005, riguardante
una legge della Regione Lombardia che riservava il trasporto gratuito
per gli invalidi sulle linee regionali ai soli cittadini italiani, ha
affermato: «distinguere, ai fini della applicabilita' della misura in
questione, cittadini italiani da cittadini di paesi stranieri ...
finisce dunque per introdurre nel tessuto normativo elementi di
distinzione del tutto arbitrari, non essendovi alcuna ragionevole
correlabilita' tra quella condizione positiva di ammissibilita' del
beneficio (la cittadinanza italiana, appunto) e gli altri peculiari
requisiti (invalidita' al 100% e residenza) che ne condizionano il
riconoscimento e ne definiscono la ratio e la funzione».
Dev'essere, quindi, escluso che il principio della «ragionevole
correlabilita'» consenta di utilizzare esclusivamente il criterio
della cittadinanza.
Una norma assistenziale, infatti, ha come sua ratio quella di
accordare un beneficio di sostegno. L'esclusione di chi sia privo
dello status civitatis si basa su una condizione personale di per se'
irrilevante rispetto al bisogno e dunque completamente estranea alla
ratio del sostegno. Conseguentemente, il criterio della cittadinanza
non potrebbe mai essere introdotto, neppure per prestazioni del tutto
esterne al nucleo essenziale.
2.8 Radicamento territoriale.
Anche il criterio selettivo costituito dal requisito del
cosiddetto «radicamento territoriale», cioe' della presenza per un
periodo sufficientemente lungo sul territorio nazionale o regionale,
e' stato oggetto di vaglio da parte della Corte costituzionale e
della CGUE.
E' proprio tale requisito che assume rilevanza nella presente
causa, avendo il legislatore condizionato l'accesso al beneficio del
RDC al requisito della residenza di almeno dieci anni nel territorio
nazionale.
In via generale, la Corte costituzionale (vedi sentenza 20 luglio
2018, n. 166) ha affermato che «ogni norma che imponga distinzioni
fra varie categorie di persone in ragione della cittadinanza e della
residenza per regolare l'accesso alle prestazioni sociali deve pur
sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 della
Costituzione (...) tale principio puo' ritenersi rispettato solo
qualora esista una "causa normativa" della differenziazione, che sia
"giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui
e' subordinata l'attribuzione del beneficio e gli altri peculiari
requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la
ratio" (sentenza n. 107 del 2018). Una simile ragionevole causa
normativa puo' in astratto consistere nella richiesta di un titolo
che dimostri il carattere non episodico o di breve durata della
permanenza sul territorio dello Stato: anche in questi casi,
peraltro, occorre pur sempre che sussista una ragionevole
correlazione tra la richiesta e le situazioni di bisogno o di
disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state
previste (sentenza n. 133 del 2013).
Infine - continua la Corte costituzionale - "occorre che la
distinzione non si traduca mai nell'esclusione del non cittadino dal
godimento dei diritti fondamentali che attengono ai 'bisogni primari'
della persona, indifferenziabili e indilazionabili, riconosciuti
invece ai cittadini (come precisato in progresso di tempo, ad
esempio, dalle sentenze n. 306 del 2008, n. 187 del 2010, n. 2, n. 40
e n. 172 del 2013, n. 22 e n. 230 del 2015, n. 107 del 2018). Piu'
specificamente, in relazione al requisito della residenza
qualificata, [la] Corte con la sentenza n. 222 del 2013 ha ritenuto
che le politiche sociali dirette al soddisfacimento dei bisogni
abitativi possono prendere in considerazione un radicamento
territoriale ulteriore rispetto alla semplice residenza, purche'
contenuto in limiti non palesemente arbitrari o irragionevoli"».
La Corte costituzionale, quindi, piu' volte chiamata a verificare
la legittimita' dei requisiti di lungo-residenza variamente
introdotti dalle norme regionali, ha dichiarato incostituzionali
tutte le disposizioni che prevedono requisiti di lungo-residenza per
i soli cittadini stranieri, differenziando in modo illegittimo, sia
pure mediante il riferimento alla residenza, la posizione dei
cittadini italiani e quella degli stranieri. Proprio per questo la
Corte ha dichiarato incostituzionali i seguenti requisiti di
residenza nella regione (ove la provvidenza e' stata istituita)
previsti per i soli stranieri:
trentasei mesi per tutte le prestazioni sociali (Corte
costituzionale n. 40/2011 - Regione Friuli: in questo caso, la legge
regionale aveva previsto che il «diritto ad accedere agli interventi
e ai servizi del sistema integrato» fosse riconosciuto soltanto a
«tutti i cittadini comunitari residenti in regione da almeno
trentasei mesi»);
cinque anni per un assegno familiare (Corte costituzionale n.
133/2013 - Regione Trentino-Alto Adige);
cinque anni sul territorio nazionale per tutte le prestazioni
(Corte costituzionale n. 222/2013 - Regione Friuli);
cinque anni per le prestazioni sociali di natura economica
(Corte costituzionale n. 2/2013 - Provincia Bolzano);
cinque anni per prestazioni per il diritto allo studio
universitario (Corte costituzionale n. 2/2013 - Provincia Bolzano);
un anno per sovvenzioni all'apprendimento delle lingue
straniere (Corte costituzionale n. 2/2013 - Provincia Bolzano);
cinque anni sul territorio nazionale (quale componente
dell'accesso al permesso di lungo periodo) per l'assegno di cura
(Corte costituzionale n. 172/2013).
Piu' complessa si pone la questione (che qui interessa) dei
requisiti di residenza previsti indifferentemente per italiani e
stranieri.
Sul punto, come detto, la Corte costituzionale e' orientata nel
senso che il criterio selettivo della residenza «non episodica» sul
territorio risponda ai criteri di «ragionevole correlabilita'» e che,
per le prestazioni «non essenziali», sia anche ragionevole richiedere
un certo «radicamento territoriale» purche' senza distinzioni tra
italiani e stranieri.
La Corte infatti (vedi, ad es., sentenze n. 40/2011 e n. 2/2013)
ha affermato il principio secondo cui: «E' possibile subordinare, non
irragionevolmente, l'erogazione di determinate prestazioni sociali,
non dirette a rimediare a gravi situazioni di urgenza, alla
circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero alla
permanenza ne dimostri il carattere non episodico».
2.9 Il requisito della residenza protratta per un tempo
sproporzionato.
Non risponde invece ai requisiti di ragionevole correlabilita' il
requisito della residenza protratta per un tempo sproporzionato.
La Corte, infatti, ha sempre affermato che, «mentre la residenza
costituisce, rispetto a una provvidenza regionale, "un criterio non
irragionevole per l'attuazione del beneficio", non altrettanto puo'
dirsi quanto alla residenza protratta per un predeterminato e
significativo periodo di tempo (nella specie, quinquennale). La
previsione di un simile requisito, infatti, ove di carattere generale
e dirimente, non risulta rispettoso dei principi di ragionevolezza e
di uguaglianza, in quanto introduce nel tessuto normativo elementi di
distinzione arbitrari non essendovi alcuna ragionevole correlazione
tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno o di
disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che
costituiscono il presupposto di fruibilita' delle provvidenze in
questione» (sentenza n. 222/2013), non essendo possibile «presumere,
in termini assoluti, che lo stato di bisogno di chi risieda su un
territorio da un periodo inferiore a quello richiesto, sia minore
rispetto a quello di chi vi risiede da piu' tempo» (sentenza n.
40/2011).
Reiterando costantemente argomentazioni di questo tipo, la Corte
ha dichiarato incostituzionali i seguenti requisiti previsti per la
generalita' dei richiedenti, italiani e stranieri:
tre anni di residenza ininterrotta nella Provincia di Trento
per un «assegno di cura» (sentenza n. 172/2013);
ventiquattro mesi nella Regione Friuli per l'accesso al Fondo
regionale per il contrasto ai fenomeni di poverta' e disagio sociale
e per il diritto a percepire assegni di studio (sentenza n.
222/2013);
otto anni nella Regione Valle d'Aosta per l'accesso agli
alloggi ERP (sentenza n. 168/2014);
almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la
data di presentazione della domanda per beneficiare dei servizi
abitativi pubblici nella Regione Lombardia (sentenza n. 44/2020).
In sostanza, tali sentenze non fanno altro che ribadire il
principio fondamentale, sempre affermato dalla Corte costituzionale,
secondo cui il requisito del radicamento territoriale puo' fungere da
ragionevole criterio selettivo solamente in relazione alle
provvidenze non correlate a situazioni di bisogno o di disagio e
dirette, quindi, a soddisfare finalita' eccedenti il nucleo
intangibile dei diritti fondamentali della persona, solo se risponde
ad un criterio di proporzionalita' e ragionevolezza.
La CGUE, chiamata a vagliare la compatibilita' con la normativa
europea del requisito del soggiorno pregresso sul territorio dello
Stato richiesto per beneficiare di una prestazione di inabilita', ha
affermato che «se e' pur vero che le modalita' di applicazione di
tale requisito non appaiono di per se' irragionevoli, occorre
nondimeno rilevare che esso presenta un carattere troppo esclusivo.
Infatti, imponendo periodi specifici di soggiorno pregresso sul
territorio dello Stato membro competente, il requisito di soggiorno
pregresso privilegia indebitamente un elemento che non e'
necessariamente rappresentativo del grado reale ed effettivo di
collegamento tra il richiedente una prestazione per inabilita'
temporanea per giovani disabili ed il detto Stato membro, con
esclusione di ogni altro elemento rappresentativo. Esso eccede in tal
modo quanto necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito»
(sentenza 1° luglio 2011, causa C-503/09, Stewart-Regno Unito,
ripresa dalla successiva sentenza 4 ottobre 2013, causa C-220/12,
Meneses-Region Hannover che, in tema di bonus studio, ha ribadito che
«la prova richiesta da uno Stato membro per poter far valere
l'esistenza di un grado reale di collegamento non deve avere
carattere troppo esclusivo, privilegiando indebitamente un elemento
non necessariamente rappresentativo del grado reale ed effettivo di
collegamento tra il richiedente e lo Stato membro medesimo, restando
escluso qualsiasi altro elemento rappresentativo»).
La sola residenza, quindi, non puo' integrare di per se' un
criterio affidabile che possa attestare un effettivo collegamento con
lo Stato che eroga la provvidenza.
2.10 Discriminazione indiretta.
Va altresi' rilevato come la giurisprudenza della CGUE abbia
sempre dato per scontato che un requisito di lungo-residenza possa
costituire una discriminazione indiretta in ragione della
cittadinanza, senza necessita' di appoggiarsi a un particolare dato
statistico.
In particolare, la CGUE, con sentenza 16 gennaio 2003,
Commissione c. Repubblica italiana, causa C-388/01 (relativa alle
agevolazioni tariffarie per l'accesso ai Musei comunali assicurate
alle sole persone residenti), ha affermato: «13. Risulta del pari
dalla giurisprudenza della Corte (v., in particolare, sentenza 5
dicembre 1989, causa C-3/88, Commissione/Italia, Race, pag. 4035,
punto 8) che il principio di parita' di trattamento, del quale l'art.
49 CE e' specifica espressione, vieta non soltanto le discriminazioni
palesi basate sulla cittadinanza; ma anche qualsiasi forma di
discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri
distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato. 14. Cio'
avviene, in particolare, nel caso di una misura che preveda una
distinzione basata sul criterio della residenza, in quanto
quest'ultimo rischia di operare principalmente a danno dei cittadini
di altri Stati membri, considerato che il piu' delle volte i non
residenti sono cittadini di altri Stati membri (v., in particolare,
sentenza 29 aprile 1999, causa C-224/97, Ciola, Race, punto 14). A
tale riguardo e' irrilevante che la misura controversa riguardi,
eventualmente, tanto i cittadini italiani residenti nelle altre parti
del territorio nazionale quanto i cittadini degli altri Stati membri.
Perche' una misura possa essere qualificata come discriminatoria non
e' necessario che abbia l'effetto di favorire tutti i cittadini
nazionali o di discriminare soltanto i cittadini degli altri Stati
membri esclusi i cittadini nazionali (v., in tal senso, in
particolare sentenza 6 giugno 2000, causa C-281/98, Angonese, Race,
pag. 1-4139, punto 41).»
Nello stesso senso, la CGUE, con sentenza 10 marzo 1993,
Commissione c. Lussemburgo, causa C-111/91 (relativa ad una
disposizione che prevedeva, ai fini dell'erogazione di un assegno di
natalita' una tantum, il requisito di anzianita' di residenza
nell'anno antecedente alla nascita) aveva gia' chiarito che «le norme
del Trattato e dell'art. 7 del regolamento n. 1612/1968 in materia di
parita' di trattamento vietano non soltanto le discriminazioni palesi
basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi discriminazione
dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di riferimento,
pervenga al medesimo risultato (sentenza 12 febbraio 1974, causa
152/73, Sotgiu, Race, pag. 153, punto 11 della motivazione). 10. Tale
e' appunto il caso del requisito che la madre abbia risieduto nel
territorio del Granducato durante l'intero anno precedente la nascita
del bambino. Un requisito del genere, infatti, puo' essere piu'
facilmente soddisfatto da una cittadina lussemburghese che da una
cittadina di un altro Stato membro (v. sentenza 17 novembre 1992,
causa C-279/89, Commissione/Regno Unito, Race, pag. 1-5785, punto 42
della motivazione».
Cio' che la Corte di giustizia vuole sottolineare, quindi, e' che
la percentuale di cittadini che risiedono da lungo tempo sul
territorio nazionale (o regionale) e' certamente superiore alla
corrispondente percentuale di stranieri. Conseguentemente, un simile
criterio, basato sulla lunga residenza, finisce per costituire - di
norma - una discriminazione indiretta tra cittadini e stranieri.
2.11 Corte costituzionale n. 19/2022: Prospettiva di stabilita'.
In questo quadro giurisprudenziale (definito dalle citate
sentenze della Corte costituzionale sul principio della ragionevole
correlabilita' e da quelle della CGUE sulla discriminatorieta'
indiretta) si colloca la citata decisione della Corte costituzionale
n. 19/2022 il cui esito negativo non e' dirimente per la questione
odierna.
Dalle motivazioni di tale sentenza emerge, infatti, che cio' che
sorregge la «ragionevole correlabilita'» tra requisito del permesso
di lungo periodo e ratio della prestazione non e' tanto il pregresso
inserimento sociale del richiedente (che sarebbe inesigibile da chi
appunto accede a una prestazione volta all'inserimento sociale, non
potendo essere l'inserimento sociale ad un tempo requisito e
finalita' della prestazione), ne' la pregressa residenza (che la
Corte non considera affatto nel punto della motivazione dedicato alla
«ragionevole correlabilita'»), ma esclusivamente la natura a tempo
indeterminato del permesso.
Dunque, il fondamento della ritenuta «ragionevolezza» e' solo
nella prospettiva di stabilita', attestata dal fatto che il
beneficiario non deve sottoporsi ogni due anni alla verifica del
titolo di soggiorno.
La Corte prescinde, quindi, totalmente dal fatto che il requisito
del permesso di lungo periodo comporta anche una presenza pregressa
di almeno cinque anni e non considera questo un elemento utile al
fine della giustificazione del requisito.
Considera, invece, che il lungo-soggiornante ha un permesso a
tempo indeterminato e percio' e' ragionevole riservare a lui il
percorso di inserimento sociale.
Cosi' argomentando, la Corte conferma, dunque, il suo
orientamento (espresso da ultimo nella sentenza n. 44/2020) secondo
il quale la pregressa residenza in un determinato luogo, di per se'
considerata, e' priva di qualsiasi valore prognostico circa la futura
stabilizzazione su un territorio (tanto piu', puo' aggiungersi,
quando l'ordinamento consideri anche la residenza discontinua),
dovendosi invece avere riguardo a «indici di probabilita' di
permanenza per il futuro».
La Corte, infatti, nella citata sentenza, in relazione
all'accesso all'edilizia residenziale pubblica, ha cosi' chiaramente
affermato: «La previa residenza ultraquinquennale non e' di per se'
indice di un'elevata probabilita' di permanenza in un determinato
ambito territoriale, mentre a tali fini risulterebbero ben piu'
significativi altri elementi sui quali si possa ragionevolmente
fondare una prognosi di stanzialita'. In altri termini, la rilevanza
conferita a una condizione del passato, quale e' la residenza nei
cinque anni precedenti, non sarebbe comunque oggettivamente idonea a
evitare il "rischio di instabilita'" del beneficiario dell'alloggio
di edilizia residenziale pubblica, obiettivo che dovrebbe invece
essere perseguito avendo riguardo agli indici di probabilita' di
permanenza per il futuro».
Anche in relazione ai beneficiari del RDC si ripropone la stessa
valutazione prognostica e si deve concludere che la preventiva
residenza non puo' ragionevolmente fondare una prognosi di
stanzialita', essendovi altri elementi maggiormente sintomatici in
grado di attestare tale situazione, come, ad es., essere iscritto
all'anagrafe, essere titolare di un'abitazione, essere un
"lavoratore" che, rimasto incolpevolmente privo di occupazione, e'
seriamente in cerca di un nuovo impiego, essere genitore di figli
regolarmente iscritti al ciclo scolastico, etc.: tali condizioni
costituiscono certamente la spia di una piu' che probabile permanenza
nel territorio italiano per il futuro.
2.12 Posizione dei cittadini UE: parita' di trattamento con i
cittadini italiani nell'accesso alle prestazioni di assistenza
sociale.
In questa sede, cio' che si deve esaminare e' la posizione dei
cittadini dell'UE nonche' dei loro familiari, titolari del diritto di
soggiorno temporaneo o permanente, presi in considerazione dall'art.
2 del citato decreto-legge n. 4/2019, convertito in legge n. 26/2019.
Occorre premettere che la disciplina del soggiorno dei cittadini
europei e dei loro familiari (di Paesi terzi) in Italia e' contenuta
nel decreto legislativo n. 30/2007 che ha dato attuazione alla
direttiva 2004/38/CE.
Per il soggiorno non superiore a tre mesi (c.d. «di breve
durata») non vi sono formalita' particolari a carico di quei
cittadini e familiari: in specie, essi godono della parita' di
trattamento rispetto ai cittadini italiani, ma non accedono alle
prestazioni di assistenza sociale che non derivino dall'attivita'
esercitata o da specifiche norme di legge.
Il soggiorno superiore a tre mesi (c.d. «di lunga durata»),
invece, e' possibile solo a determinate condizioni che implicano, in
sostanza, la disponibilita' di risorse sufficienti per non gravare
sull'assistenza sociale dello Stato ospite e da' diritto, tra
l'altro, a svolgere attivita' lavorative e alle prestazioni di
assistenza sociale a parita' di trattamento con i cittadini italiani
(art. 7, decreto legislativo n. 30/2007).
Le modalita', infatti, con le quali l'ordinamento prevede la
verifica delle condizioni che fondano il diritto al soggiorno dei
cittadini dell'Unione sono previste dal citato art. 7, decreto
legislativo n. 30/2007 e consistono nell'iscrizione anagrafica,
prevista dall'art. 9 del decreto stesso.
In sede di iscrizione all'anagrafe il cittadino dell'Unione deve
dimostrare di essere lavoratore dipendente o autonomo o di essere
familiare di un lavoratore dipendente o autonomo o di avere «risorse
economiche sufficienti per non diventare un onere a carico
dell'assistenza sociale nel periodo di soggiorno»: una volta
effettuate tali verifiche, che competono all'amministrazione
comunale, il cittadino dell'Unione formalizza il suo diritto al
soggiorno per un periodo superiore a tre mesi e, decorsi cinque anni,
acquisisce il diritto al soggiorno permanente ai sensi dell'art. 14,
decreto legislativo n. 30/2007 («Il cittadino dell'Unione che ha
soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nel
territorio nazionale ha diritto al soggiorno permanente ...»).
Tale ultimo diritto e' irrevocabile, nel senso che prescinde
dalle eventuali successive modifiche della sua situazione economica e
personale.
Il punto e' disciplinato dall'art. 16, par. 1 della direttiva, a
norma del quale il diritto al soggiorno permanente «non e'
subordinato alle condizioni di cui al capo terzo» e, dunque, neppure
alla condizione di «non diventare un onere eccessivo per il sistema
sociale dello stato membro ospitante» (vedi anche art. 14, comma 1,
decreto legislativo n. 30/2007).
Per quel che interessa, i beneficiari del diritto di soggiorno e
di soggiorno permanente in Italia godono della parita' di trattamento
con i cittadini italiani anche nell'accesso alle prestazioni di
assistenza sociale (artt. 24, direttiva 2004/38 e 19, decreto
legislativo n. 30/2007).
In particolare, l'art. 24 della direttiva precisa quanto segue:
«1. Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste
dal Trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino dell'Unione che
risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato
membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di
tale Stato nel campo di applicazione del Trattato. Il beneficio di
tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza di
uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del
diritto di soggiorno permanente.
2. In deroga al paragrafo 1, lo Stato membro ospitante non e'
tenuto ad attribuire il diritto a prestazioni d'assistenza sociale
durante i primi tre mesi di soggiorno o, se del caso, durante il
periodo piu' lungo previsto all'art. 14, paragrafo 4, lettera b), ne'
e' tenuto a concedere prima dell'acquisizione del diritto di
soggiorno permanente aiuti di mantenimento agli studi, compresa la
formazione professionale, consistenti in borse di studio o prestiti
per studenti, a persone che non siano lavoratori subordinati o
autonomi, che non mantengano tale status o loro familiari».
Secondo la Corte di giustizia dell'Unione europea, le
«prestazioni d'assistenza sociale» fanno riferimento «all'insieme dei
regimi di assistenza istituiti da autorita' pubbliche a livello
nazionale, regionale o locale, a cui puo' ricorrere un soggetto che
non disponga delle risorse economiche sufficienti a far fronte ai
bisogni elementari propri e a quelli della sua famiglia». Tra queste
prestazioni assistenziali possono essere annoverate quelle
«prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo
previste dalla legislazione la quale ... ha caratteristiche tanto
della legislazione in materia di sicurezza sociale di cui all'art. 3,
paragrafo 1, quanto di quella relativa all'assistenza sociale» ed, in
particolare, quelle intese «a garantire, alle persone interessate, un
reddito minimo di sussistenza in relazione al contesto economico e
sociale dello Stato membro interessato» (art. 70, par. 2, regolamento
n. 883/2004).
Con la sentenza dell'11 novembre 2014 , causa C-333/13, Dano,
punto 63, la Corte ha chiarito che «"le prestazioni speciali in
denaro di carattere non contributivo" previste dall'art. 70,
paragrafo 2, [del] regolamento [n. 883/2004] ben ricadono nella
nozione di "prestazioni d'assistenza sociale" ai sensi dell'art. 24,
paragrafo 2, della direttiva 2004/38. Tale nozione, infatti, fa
riferimento all'insieme dei regimi di assistenza istituiti da
autorita' pubbliche a livello nazionale, regionale o locale, a cui
puo' ricorrere un soggetto che non disponga delle risorse economiche
sufficienti a far fronte ai bisogni elementari propri e a quelli
della sua famiglia e che rischia, per questo, di diventare, durante
il suo soggiorno, un onere per le finanze pubbliche dello Stato
membro ospitante che potrebbe produrre conseguenze sul livello
globale dell'aiuto che puo' essere concesso da tale Stato».
Le «prestazioni di assistenza sociale» rientrano tra le
prestazioni di «sicurezza sociale» di cui al regolamento n. 883/2004,
alle quali il giudice sovranazionale riconduce tutte le prestazioni
che vengono erogate dagli Stati membri in base a criteri oggettivi e
predeterminati, indipendentemente dalla modalita' di finanziamento e
senza discrezionalita' del soggetto erogatore (vedi, da ultimo, Corte
di giustizia, 2 settembre 2021, causa C-350/20, O.D. e a.c. INPS,
punti 53 e segg.).
Ne consegue che il RDC e la PDC - essendo misure rivolte al
contrasto alla poverta' assoluta che vengono corrisposte con le
modalita' sopra ricordate - possono rientrare in detta nozione
(avendo appunto lo scopo ex art. 70, regolamento n. 883/2004 di
«garantire, alle persone interessate, un reddito minimo di
sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello Stato
membro interessato») e, quindi, debbono essere concesse a tutti i
cittadini UE in regime di parita' di trattamento.
L'art. 24 della direttiva 2004/38 dispone - come abbiamo visto -
che «ogni cittadino dell'Unione che risiede, in base alla presente
direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari
trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di
applicazione del Trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai
familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano
titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno
permanente».
Sulla base della direttiva, la parita' di trattamento
nell'accesso alle prestazioni di assistenza sociale riguarderebbe
appieno, pero', solo i soggiornanti permanenti, mentre per quelli di
breve e di lungo periodo, se «inattivi», e' solo discrezionale.
Infatti, il par. 2 del citato art. 24, afferma che «lo Stato
membro ospitante non e' tenuto ad attribuire il diritto a prestazioni
d'assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno o, se del
caso, durante il periodo piu' lungo previsto all'art. 14, paragrafo
4, lettera b)», cioe' qualora «siano entrati nel territorio dello
Stato membro ospitante per cercare un posto di lavoro». «In tal caso
i cittadini dell'Unione e i membri della loro famiglia non possono
essere allontanati fino a quando i cittadini dell'Unione possono
dimostrare di essere alla ricerca di un posto di lavoro e di avere
buone possibilita' di trovarlo» (art. 14, comma 4, lettera b).
Negli ultimi anni, la Corte ha precisato queste deroghe in modo
da evitare che i cittadini europei inattivi divengano un onere
eccessivo per gli Stati ospitanti.
Nel gia' citato caso Dano, il giudice sovranazionale ha ricordato
che tali Stati non sono tenuti a corrispondere dette prestazioni ai
cittadini di altri Stati membri non solo in caso di soggiorno di
breve periodo (conforme la sentenza del 25 febbraio 2016, C-299/14,
Garcia-Nieto e al.), ma anche qualora essi non rispettino le
condizioni per il soggiorno di lungo periodo, ad es., se non
lavorano, non dispongono di risorse proprie sufficienti e soggiornano
con il solo fine di beneficiare di un aiuto sociale.
Nella sentenza Alimanovic (15 settembre 2015, causa C-67/14), la
Corte ha poi affermato la possibilita' di escludere dalle prestazioni
in parola anche quei cittadini di altri Stati membri il cui diritto
di soggiorno di lungo periodo nello Stato ospitante e' giustificato
unicamente dalla ricerca di un lavoro dopo averlo perso da piu' di
sei mesi, senza che rilevi la dimostrazione di essere alla ricerca di
un nuovo lavoro e di avere buone possibilita' di trovarlo.
In sostanza, per la direttiva 2004/38, come interpretata dalla
Corte di giustizia, solo i cittadini europei «economicamente attivi»
hanno sempre diritto ad accedere a tali prestazioni in condizioni di
parita' di trattamento con i cittadini dello Stato ospite.
Il legislatore italiano, pero', nel disciplinare il RDC, non si
e' attenuto a tali principi restrittivi (non avvalendosi della deroga
di cui al citato par. 2, dell'art. 24 della direttiva), dato che
l'art. 2, decreto-legge n. 4/2019 richiede sotto il profilo
soggettivo la mera titolarita' della cittadinanza UE per la richiesta
del RDC, ponendosi cosi' come lex specialis e permettendo a tutti i
cittadini europei soggiornanti legalmente in Italia di accedere al
beneficio, senza limitarlo a quelli economicamente attivi.
Il comma primo di tale norma, infatti, stabilisce che «Il RDC e'
riconosciuto ai nuclei familiari in possesso cumulativamente, al
momento della presentazione della domanda e per tutta la durata
dell'erogazione del beneficio, dei seguenti requisiti:
a) con riferimento ai requisiti di cittadinanza, residenza e
soggiorno, il componente richiedente il beneficio deve essere (...):
1) in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi
facenti parte dell'Unione europea, ovvero suo familiare, come
individuato dall'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo
6 febbraio 2007, n. 30, che sia titolare del diritto di soggiorno o
del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi terzi
in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo ...».
Gli stranieri, quindi, che hanno diritto, in presenza degli altri
requisiti ed in particolare di quelli di tipo economico, di accedere
all'erogazione del reddito di cittadinanza sono:
i soggetti aventi cittadinanza in uno dei Paesi dell'Unione
europea;
i soggetti aventi cittadinanza in un Paese extra-UE che sia
in possesso di un permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo
periodo;
i soggetti aventi cittadinanza di un Paese extra-UE se e'
familiare di un cittadino italiano o di un cittadino di un Paese
dell'Unione europea ed e' in possesso di titolo di soggiorno di lungo
periodo o permanente.
2.13 Il requisito della residenza decennale.
Tuttavia, il legislatore, al comma 2 di detta norma, ha
introdotto un altro requisito (cumulativo): il possesso in capo al
richiedente della residenza in Italia «per almeno dieci anni, di cui
gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della
domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo
continuativo».
Tale requisito, avendo di fatto ristretto il novero dei
richiedenti al di la' delle deroghe ammesse dal decreto legislativo
n. 30/2007 e dalla direttiva 2004/38, ha l'effetto di escludere non
solo i titolari del soggiorno di breve durata ma anche quelli
titolari del soggiorno di lunga durata, non importa se attivi o
inattivi, nonche' un buon numero di soggiornanti permanenti se
residenti da meno di dieci anni.
2.13.1 Discriminazione indiretta.
Occorre, innanzitutto ammettere che il predetto requisito della
residenza decennale non rappresenta una discriminazione direttamente
basata sulla nazionalita' - come tale vietata, ad es., in base agli
artt. 18 TFUE e 24 direttiva 2004/38 (per i cittadini europei e loro
familiari), agli artt. 45 TFUE e 7, par. 2, regolamento n. 492/2019
(per i lavoratori), e al citato art. 4, regolamento n. 883/2004
(relativo ai sistemi di sicurezza sociale) - perche' la norma
impugnata lo estende anche ai cittadini italiani.
Esso pero', ad avviso del Collegio, opera una discriminazione
«indiretta» dato che sfavorisce i cittadini di altri Stati membri in
misura maggiore rispetto ai cittadini italiani: per i primi, in gran
parte nati e cresciuti al di fuori del territorio italiano, e'
oggettivamente piu' arduo soddisfare una condizione di questo tipo
rispetto a chi, come i secondi, puo' piu' facilmente maturare i
periodi di residenza utili.
In altri termini, come affermato dalla Corte di giustizia, il
requisito della residenza «rischia di operare principalmente a danno
dei cittadini di altri Stati membri, considerato che il piu' delle
volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri» (sentenza
del 16 gennaio 2003, causa C-388/01, Commissione c. Italia, punto 14.
V. anche la sentenza del 18 luglio 2007, causa C-212/05, Hartmann,
punto 31).
Il carattere discriminatorio emerge anche dal fatto che solo gli
ultimi due anni devono essere continuativi: anche in questo caso, per
i cittadini italiani e' molto piu' facile dimostrare di aver
«accumulato» i primi otto anni di residenza nel territorio italiano,
in periodi anche lontani tra loro e spesso sin dalla nascita,
rispetto ai cittadini di altri Stati UE che in buona parte si
trasferiscono in Italia dopo un certo numero di anni trascorsi
altrove.
La Corte di giustizia - come sopra detto - ha piu' volte
affermato che le restrizioni fondate sulla residenza - cosi' come
ogni restrizione delle liberta' fondamentali dei Trattati - possono
risolversi in discriminazioni non solo dirette (come nel caso della
condizione della residenza imposta dal Belgio solo ai lavoratori di
altri Stati membri per l'accesso al c.d. «minimex», una misura simile
al RDC: sentenze del 27 marzo 1985, causa 249/83, Hoeckx, e causa
122/84, Scrivner), ma anche indirette, vietate al pari delle prime
qualora non si basino su considerazioni oggettive indipendenti dalla
cittadinanza dei soggetti interessati e non siano proporzionate
rispetto all'obiettivo da raggiungere (vedi, ad es., le sentenze del
18 luglio 2006, causa C-406/04, De Cuyper, punto 40; del 26 ottobre
2006, causa C-192/05, Tas-Hagen e Tas, punto 33; del 23 ottobre 2007,
cause riunite C-11 e 12/06, Morgan e Bucher, punto 33; e del 18
luglio 2013, cause riunite C-523 e 585/11, Prinz, punto 23).
Posto che una misura e' proporzionata nel caso in cui sia idonea
a realizzare l'obiettivo perseguito senza andare oltre quanto
necessario per il suo raggiungimento (sentenze De Cuyper, punti 40 e
42; Morgan e Bucher, punto 33; Prinz, punto 33), il giudice
sovranazionale ha talvolta valorizzato il requisito del grado reale
di integrazione, sostenendo che una condizione unica di residenza
rischia di escludere dal beneficio i cittadini europei che non
soddisfino detta condizione ma abbiano, cio' nonostante, effettivi
collegamenti sotto il profilo dell'integrazione in tale Stato
(sentenza del 26 febbraio 2015, causa C-359/13, Martens, punto 39. V.
anche la sentenza del 13 dicembre 2012, causa C-379/11, Caves Krier
Freres, punto 53).
2.13.2 Sproporzionatezza.
Ad avviso del Collegio, il requisito della residenza decennale e
biennale continuativa di cui all'art. 2, decreto-legge n. 4/2019
risulta sproporzionato perche' privo di ragionevole correlabilita' e,
quindi, indirettamente discriminatorio - proprio in virtu' del fatto
che non prende in considerazione il grado effettivo di integrazione
di quei cittadini europei e loro familiari che, pur risiedendo in
Italia da meno tempo o in maniera non continuativa negli ultimi due
anni, sono, sulla base di altri concordanti elementi,
sufficientemente integrati nel nostro Paese.
In particolare, tale ulteriore requisito si pone in palese
contrasto con l'art. 24 della direttiva 2004/38/CE, laddove afferma,
in tema di prestazioni d'assistenza sociale, la parita' di
trattamento del cittadino europeo (vedi anche l'art. 19, decreto
legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 - Attuazione della direttiva
2004/38/CE).
Dal Report RDC Aprile 2022 redatto dall'INPS emerge, infatti, che
nell'88% dei casi il richiedente la prestazione e' cittadino
italiano, nell'8% e' un cittadino extracomunitario in possesso di un
permesso di soggiorno, nel 4% e' un cittadino europeo. E cio',
nonostante, dal Report ISTAT 2020 risulta che la quota di persone
considerate a rischio poverta', che tra i cittadini italiani e' pari
al 18,9% del totale, sale al 24,2% per i cittadini comunitari e al
36% nel caso degli extra-comunitari.
Peraltro, la stessa relazione del Comitato scientifico per la
valutazione del reddito di cittadinanza dell'ottobre 2021, ha
segnalato, tra le maggiori criticita' della misura, proprio il
requisito della residenza decennale, responsabile dell'esclusione, di
fatto, di un'ampia parte di stranieri. Al fine di superare tale
problema, il Comitato ha proposto di applicare al RDC il requisito
biennale previsto per il REM (reddito di emergenza), ovvero, in
subordine, di abbassare il requisito a cinque anni.
L'ampliamento della categoria dei cittadini europei e loro
familiari si riverbererebbe in senso favorevole anche sui cittadini
italiani che abbiano o non abbiano esercitato i diritti di
circolazione dei Trattati UE. Quanto ai primi, da tempo la Corte di
giustizia ha affermato che non si ricade in situazioni puramente
interne - e che, quindi, le norme del diritto UE possono essere fatte
valere nei confronti dello Stato membro di cittadinanza - nel caso in
cui i cittadini nazionali beneficino o abbiano beneficiato della
liberta' di circolazione. Pertanto, i cittadini italiani che abbiano
spostato la propria residenza in altri Stati membri e siano a un
certo punto rientrati in Italia sarebbero trattati in maniera non
meno favorevole dei cittadini europei e loro familiari, accedendo
cosi' al RDC e alla PDC alle stesse loro (piu' favorevoli) condizioni
anche se non soddisfano il requisito della residenza indicato dalla
normativa. Peraltro tali cittadini italiani, cosi' come quelli che
non hanno mai usufruito del diritto di circolazione e che cosi'
subirebbero una discriminazione c.d. «a rovescio», si vedrebbero
garantire la parita' di trattamento anche in base all'art. 53 della
legge n. 234/2012, per il quale «nei confronti dei cittadini italiani
non trovano applicazione norme dell'ordinamento giuridico italiano o
prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla
condizione e al trattamento garantiti nell'ordinamento italiano ai
cittadini dell'Unione europea».
Alla luce delle sopraesposte argomentazioni, i cittadini
dell'Unione, aventi diritto di soggiorno, si trovano in posizione del
tutto analoga a quella esaminata dalla Corte costituzionale del
soggiornante extracomunitario di lungo periodo, potendo perdere il
diritto al soggiorno solo in casi eccezionali, analogamente al
titolare del permesso di lungo soggiornante (che ha ottenuto il
titolo dopo cinque anni di residenza in Italia); e non essendo
sottoposti alla procedura di rinnovo della autorizzazione al
soggiorno.
Ne deriva, allora, che il cittadino dell'Unione avente diritto al
soggiorno soddisfi quella condizione che, secondo la sentenza n.
19/2022, giustifica l'apposizione di requisiti restrittivi per
l'accesso a una prestazione di «inserimento sociale» quale il RDC.
Sussistendo tale condizione, l'ulteriore requisito di aver
soggiornato per un periodo piu' o meno lungo in Italia (in periodi
eventualmente anche lontanissimi nel tempo), e' - come detto - privo
di qualsiasi rilevanza sotto il profilo delle prospettive di
«stabilizzazione» e, dunque, e' privo di "ragionevole correlazione"
proprio secondo i parametri indicati dalla sentenza n. 19/2022.
Tutte le predette considerazioni rilevano anche nell'ambito del
giudizio di «giustificazione» della discriminazione indiretta e
portano a concludere che il requisito di residenza decennale, da un
lato, persegue uno scopo di dubbia legittimita' (aiutare i bisognosi
di un inserimento sociale solo in quanto «radicati» nel territorio e
non in quanto bisognosi) e, dall'altro, persegue detta finalita' con
mezzi sicuramente non «proporzionati e necessari».
Il «particolare svantaggio» che grava sui cittadini UE a causa
del predetto requisito non e', quindi, giustificato ed e' percio' in
contrasto con il divieto di discriminazione in ragione della
nazionalita' nell'accesso ai vantaggi sociali ex art. 7, par. 2 del
regolamento e anche con il diritto alla parita' di trattamento di cui
all'art. 24, direttiva 2004/38.
Va inoltre osservato che la scelta di premiare il «bisognoso
stanziale» rispetto al «bisognoso mobile» non e' sostenuta da nessun
argomento convincente: anzi, la persona bisognosa tende naturalmente
a spostarsi al fine di ricercare nuove opportunita' e poter cosi'
diventare, appunto, meno bisognosa; chi invece ha gia' un tenore di
vita dignitoso - anche solo per il fatto di aver ottenuto un
contratto di locazione decente o per essere riuscito ad acquistare
una casa, anche se di qualita' minimale - tendera' naturalmente a una
minore mobilita': ma appunto se ha gia' raggiunto un decoroso livello
di vita non dovrebbe essere collocato al primo posto tra i
destinatari di interventi di sostegno.
D'altra parte, varie ricerche sociologiche (vedi ricerca Eupolis
Lombardia del 2015) dimostrano che, in particolare nei contesti
urbanizzati del Nord, i soggetti piu' bisognosi sono le famiglie
giovani con elevata mobilita' e quindi con una bassa anzianita' di
residenza nella medesima regione.
Infine, se proprio si volesse ritenere che il «radicamento
territoriale» debba essere uno dei criteri di accesso al welfare, non
e' neppure detto che il riferimento alla pregressa residenza,
sganciata da qualsiasi ulteriore elemento di «stabilita'» (quale puo'
essere appunto un lavoro o un alloggio) fornisca una prognosi
significativa circa la stabilita' futura del beneficiario; il quale
ben potrebbe migrare - per un motivo qualsiasi - anche il giorno dopo
aver avuto accesso a una determinata prestazione.
Nella specie, peraltro, il "radicamento" e' garantito dal fatto
che, per beneficiare del RDC e del progetto di inserimento sociale,
il soggetto debba risiedere stabilmente nel territorio dello Stato
italiano «per tutta la durata del beneficio» (art. 2, lettera a), n.
2, decreto-legge n. 19/2019).
L'erogazione del beneficio e', infatti, condizionata alla
dichiarazione di immediata disponibilita' al lavoro da parte dei
componenti il nucleo familiare maggiorenni, nonche' all'adesione ad
un percorso personalizzato di accompagnamento all'inserimento
lavorativo e all'inclusione sociale che prevede attivita' al servizio
della comunita', di riqualificazione professionale, di completamento
degli studi, nonche' altri impegni individuati dai servizi competenti
finalizzati all'inserimento nel mercato del lavoro e all'inclusione
sociale.
Il soggetto beneficiario, quindi, si obbliga a rispettare il
«Patto per il lavoro» (il cui contenuto e' descritto nell'art. 4,
comma 8, lettera b) e ad accettare la proposta di assunzione
«congrua» (comma 9) e a sottoporsi al percorso personalizzato di
inserimento sociale (comma 12 e segg.), pena la perdita del
beneficio.
Nel caso in cui il bisogno sia complesso, i servizi dei comuni
competenti per il contrasto alla poverta' procedono ad una
valutazione multidimensionale del nucleo familiare al fine di avviare
il percorso di attivazione sociale e lavorativa coinvolgendo, oltre
ai servizi per l'impiego, altri enti territoriali competenti. La
valutazione multidimensionale e' composta da un'analisi preliminare e
da un quadro di analisi approfondito che mettono in luce bisogni e
punti di forza della famiglia al fine di condividere con la famiglia
gli interventi e gli impegni necessari a garantire il percorso di
fuoriuscita dalla poverta' che verranno sottoscritti con il «Patto
per l'inclusione sociale».
L'adesione a tale progetto personalizzato fa sorgere gia' di per
se' una «prospettiva di stabilita'» in capo allo straniero, essendosi
questi impegnato a rispettare, unitamente al proprio nucleo
familiare, il contenuto degli obblighi indicati nel patto tra cui
quello di seguire il percorso di avviamento al lavoro e di inclusione
sociale.
2.13.3 Questione principale di incostituzionalita'.
In via principale, quindi, questo Collegio ritiene rilevante e
non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3, 11 e 117,
primo comma, della Costituzione, questi ultimi in relazione agli
artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea, all'art. 24, comma 1, direttiva 2004/38/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei
cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e all'art.
7, par. 2, del regolamento n. 492/2011 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei
lavoratori all'interno dell'Unione, la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera a), n. 2), del
decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni,
dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in
materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in
cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba
essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi
due, considerati al momento della presentazione della domanda e per
tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo».
2.13.4 In subordine, riduzione del requisito di residenza decennale:
«punti di riferimento» ricavabili dal sistema che inducono a
diminuire il requisito ad almeno cinque anni complessivi o agli
ultimi due anni continuativi.
In subordine, se si dovesse comunque ritenere che, nella specie,
attesa la natura «mista» del beneficio, possa dirsi legittima
l'imposizione di un requisito di residenza pregressa, questo giudice
non puo' fare a meno di osservare che il requisito della residenza
decennale appaia in ogni caso sproporzionato e non ragionevole.
Facendo riferimento alla sopracitata sentenza n. 19/2022, il
Collegio ritiene che l'imposizione di un gravoso requisito di
pregressa residenza sia esorbitante rispetto ai confini della
ragionevolezza e, quindi, non sia funzionale alla ratio del reddito
di cittadinanza poiche', se e' vero che «l'orizzonte temporale della
misura non e' di breve periodo» e che «il legislatore, nell'esercizio
della sua discrezionalita', non irragionevolmente ha destinato agli
stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato», deve
ritenersi, in generale, che il possesso di un titolo di soggiorno
(quantomeno) permanente sia sufficiente a concretizzare quel
«consolidato radicamento nel territorio» che attesti la «stabilita'
della presenza sul territorio» e garantisca, quindi, «l'assunzione di
precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere il nucleo
familiare beneficiario in un "percorso personalizzato di
accompagnamento all'inserimento lavorativo e all'inclusione sociale
che prevede attivita' al servizio della comunita', di
riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonche'
altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati
all'inserimento nel mercato del lavoro e all'inclusione sociale"
(art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito)»
(Corte costituzionale n. 19/2022).
A tal proposito, la Corte costituzionale (vedi, ad es., sentenza
n. 157 del 2021 in tema di patrocinio a spese dello Stato) ha
affermato che, anche nei casi in cui sia riconosciuto al legislatore
la potesta' di disciplinare la materia con «una rilevante
discrezionalita'», «tuttavia, questo non sottrae tale formazione al
giudizio sulla legittimita' costituzionale, in presenza di una
«manifesta irragionevolezza o arbitrarieta' delle scelte adottate (da
ultimo, sentenze n. 97 del 2019 e n. 81 del 2017; ordinanza n. 3 del
2020)» (sentenza n. 47 del 2020), in quanto e' necessario «evitare
zone franche immuni dal sindacato di legittimita' costituzionale,
tanto piu' ove siano coinvolti i diritti fondamentali e il principio
di eguaglianza, che incarna il modo di essere di tali diritti»
(sentenza n. 63 del 2021).
A cio' deve aggiungersi che la «ammissibilita' delle questioni di
legittimita' costituzionale risulta [...] condizionata non tanto
dall'esistenza di un'unica soluzione costituzionalmente obbligata,
quanto dalla presenza nell'ordinamento di una o piu' soluzioni
costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo
coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (si veda, da
ultimo, la sentenza n. 252 del 2020 e in senso conforme le sentenze
n. 224 del 2020; n. 99 del 2019; n. 233, n. 222 e n. 41 del 2018; n.
236 del 2016)» (sentenza n. 63 del 2021). In tale prospettiva, onde
non sovrapporre la propria discrezionalita' a quella del Parlamento,
la valutazione della Corte deve essere condotta attraverso «"precisi
punti di riferimento e soluzioni gia' esistenti" (ex multis, sentenze
n. 224 del 2020 e n. 233 e n. 222 del 2018; n. 236 del 2016)».
Alla luce di tale insegnamento, ad avviso di questo Collegio,
dall'ordinamento emergono chiari «punti di riferimento» che inducono
a ritenere che, in relazione ai cittadini UE, possa essere piu' che
sufficiente (per garantire l'esigenza di una prospettiva di
stabilita' dello straniero) la pregressa residenza quinquennale
che da' diritto al rilascio del permesso di soggiorno permanente.
Nello specifico contesto, questo giudice rimettente sollecita, in
via subordinata rispetto all'accoglimento delle questioni secondo il
petitum di cui al punto 2.13.3, un intervento sostitutivo della
Corte, segnalando che nell'ordinamento sono rilevabili «precisi punti
di riferimento» rappresentati dal citato decreto legislativo n.
30/2007 che ha dato attuazione alla direttiva 2004/38/CE, prevedendo,
in particolare, che «Il cittadino dell'Unione che ha soggiornato
legalmente ed in via continuativa per cinque anni nel territorio
nazionale ha diritto al soggiorno permanente ...».
Deve pertanto ritenersi che la residenza prolungata per un
periodo che permetta allo straniero (cittadino UE) di acquisire un
titolo di soggiorno a tempo indeterminato (ovvero non revocabile se
non per ipotesi eccezionali) possa considerarsi requisito sufficiente
a garantire il "radicamento territoriale" in quanto, per ottenere
tale titolo, l'ordinamento ha gia' valutato il carattere stabile
della residenza dello straniero.
Ne consegue, allora, che la pretesa - per accedere al RDC - di un
ulteriore requisito di lunga residenza non appare giustificato ne'
ragionevole, ma solamente finalizzato a ridurre la platea degli
stranieri che possano beneficiare di tale sussidio.
La questione appare rilevante in quanto - come sopra esposto - le
ricorrenti Dumitru, Coruga e Tanasie, al momento della presentazione
della domanda, risultavano residenti in Italia da meno di cinque anni
(le prime due dal 2016, l'ultima dal 2019).
In via subordinata, questo giudice dichiara rilevante e non
manifestamente infondata, in riferimento agli stessi parametri
evocati al punto 1 del dispositivo, la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera a), n. 2) del
decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni,
dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in
materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in
cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba
essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi
due, considerati al momento della presentazione della domanda e per
tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo»,
anziche' prevedere che il beneficiario del reddito di cittadinanza
che sia cittadino di uno Stato membro dell'Unione europea debba
essere «residente in Italia per almeno cinque anni, di cui gli ultimi
due, considerati al momento della presentazione della domanda e per
tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo».
Ancora in subordine, appare piu' che sufficiente, per garantire
la prospettiva della stabilita', che il beneficiario sia residente in
modo continuativo negli ultimi due anni, come previsto dalla stessa
norma impugnata (che pretende pero' che tale requisito si inserisca
nell'ambito della complessiva residenza decennale). Il cittadino UE,
infatti, dopo i primi tre mesi, se si trova in determinate
condizioni, puo' chiedere l'iscrizione all'anagrafe, dimostrando, ad
es., di essere un lavoratore subordinato o autonomo nello Stato; di
disporre per se' stesso e per i propri familiari di risorse
economiche sufficienti; di essere iscritto presso un istituto
pubblico o privato riconosciuto per seguirvi come attivita'
principale un corso di studi o di formazione professionale, etc.
La residenza biennale continuativa rappresenta senz'altro un
elemento sintomatico del radicamento territoriale dello straniero
comunitario il quale, per tale carattere, risulta meritevole di
essere assoggettato al percorso di integrazione sociale prevista dal
RDC.
In via ulteriormente subordinata, questo Collegio dichiara,
quindi, rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento ai
medesimi parametri evocati al punto 1 del dispositivo, la questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera a), n.
2) del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante
«Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di
pensioni»), nella parte in cui prevede che il beneficiario del
reddito di cittadinanza debba essere «residente in Italia per almeno
dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della
presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del
beneficio, in modo continuativo», anziche' prevedere che il
beneficiario del reddito di cittadinanza che sia cittadino di uno
Stato membro dell'Unione europea debba essere «residente in Italia
negli ultimi due anni, considerati al momento della presentazione
della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in
modo continuativo».
P.Q.M.
Visti gli artt. 137 della Costituzione e 23 della legge n.
87/1953:
1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata in
riferimento agli artt. 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione,
questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea, all'art. 24, comma 1, direttiva
2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile
2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro
familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio
degli Stati membri, e all'art. 7, par. 2, del regolamento n. 492/2011
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo
alla libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione, la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 1,
lettera a), n. 2) del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4,
convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26
(recante «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza
e di pensioni»), nella parte in cui prevede che il beneficiario del
reddito di cittadinanza debba essere «residente in Italia per almeno
dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della
presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del
beneficio, in modo continuativo»;
2) in via subordinata, dichiara rilevante e non
manifestamente infondata, in riferimento agli stessi parametri
evocati al punto 1 del dispositivo, la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera a), n. 2) del
decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni,
dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in
materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in
cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba
essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi
due, considerati al momento della presentazione della domanda e per
tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo»,
anziche' prevedere che il beneficiario del reddito di cittadinanza
che sia cittadino di uno Stato membro dell'Unione europea debba
essere «residente in Italia per almeno cinque anni, di cui gli ultimi
due, considerati al momento della presentazione della domanda e per
tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo»;
3) in via ulteriormente subordinata, dichiara rilevante e non
manifestamente infondata, in riferimento ai medesimi parametri
evocati al punto 1 del dispositivo, la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera a), n. 2) del
decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni,
dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in
materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in
cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba
essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi
due, considerati al momento della presentazione della domanda e per
tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo»,
anziche' prevedere che il beneficiario del reddito di cittadinanza
che sia cittadino di uno Stato membro dell'Unione europea debba
essere «residente in Italia negli ultimi due anni, considerati al
momento della presentazione della domanda e per tutta la durata
dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo»;
Sospende il presente giudizio;
Ordina alla cancelleria di trasmettere gli atti alla Corte
costituzionale;
Ordina alla cancelleria di notificare la presente ordinanza alle
parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e di notificarla ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Milano, 30 maggio 2022
Il Presidente: Picciau
Il relatore: Casella