Ritenuto in fatto
1.1. - Con ordinanza del 10 ottobre 1994, il tribunale di Patti -
giudicando sul ricorso proposto da Luciano Milio per l'annullamento
dell'elezione di Vincenzo Roberto Sindoni a sindaco del comune di
Capo d'Orlando - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15,
comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove
disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e
di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale),
come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme
in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali),
nella parte in cui riconduce la non candidabilità anche alla
condotta di detenzione di sostanza stupefacente come regolamentata
dal d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171.
Ora, osserva il giudice a quo, l'art. 15 della legge 19 marzo 1990,
n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n.
16, stabilisce al comma 1, lettera e), la non candidabilità, con
conseguente nullità dell'eventuale elezione (comma 4), di coloro nei
cui confronti pende procedimento penale per un delitto di cui
all'art. 74 (recte: 73) del testo unico approvato con d.P.R. n. 309
del 1990, "concernente la produzione o il traffico di dette
sostanze". Pur essendo il riferimento all'art. 73 di stretta
interpretazione, il senso dell'incidentale testé riportata
("concernente la produzione o il traffico") non può tuttavia essere
quello di circoscrivere soltanto ad alcune ipotesi la previsione.
Esso va inteso come rinvio alla rubrica dell'art. 73 ("produzione e
traffico") che coinvolge tutte le condotte descritte, ed è dunque
causa di non candidabilità l'essere sottoposti a giudizio per una
qualsiasi delle condotte descritte dal citato art. 73.
Rileva il tribunale che a seguito del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171
- emesso in forza del risultato positivo del referendum abrogativo
del 18 e 19 aprile 1993 - la fattispecie di reato contestata al
Sindoni ha rilevanza penale quando la sostanza sia destinata a terzi,
dal momento che è stata depenalizzata la detenzione per uso
personale. Per altro verso, però, inibendosi al giudice dell'azione
elettorale l'accertamento, anche in via incidentale, dell'ipotesi di
cui alla contestazione (il discrimine tra illecito penale e
amministrativo essendo riservato al giudice penale), si dovrebbe
statuire l'ineleggibilità per fatti la cui rilevanza penale è ormai
dubbia. Di qui, il sospetto di illegittimità dell'art. 15, comma 1,
lettera e), della legge citata, nella parte in cui sancisce la non
candidabilità di coloro che siano stati rinviati a giudizio per il
reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, potendosi
configurare una situazione di detenzione per uso personale - perciò
depenalizzata - non accertabile dal giudice dell'azione elettorale.
Sì che ad avviso del Collegio rimettente la norma è in contrasto:
con l'art. 3 della Costituzione, perché si vengono a equiparare,
in difetto di un potere di valutazione, posizioni diverse come quelle
dello spacciatore e del detentore per uso personale, nei confronti
del quale sia esercitata l'azione penale sulla scorta della normativa
previgente;
con l'art. 51 della Costituzione, perché l'applicazione della
norma porterebbe a statuire l'ineleggibilità anche in assenza di una
preclusione legislativa.
1.2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che si dichiari non fondata la questione.
2.1. - Nel corso di detto giudizio, con l'ordinanza n. 297 emessa
il 26 giugno 1995 (e iscritta al n. 507 del registro ordinanze dello
stesso anno) questa Corte ha sollevato dinanzi a sé, in riferimento
agli artt. 2, 3, 27, secondo comma, e 51, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15,
comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55, come
modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella
parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali,
provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro per i quali, in
relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a), è stato
disposto il giudizio, ovvero per coloro che sono stati presentati o
citati a comparire in udienza per il giudizio.
Nell'anzidetta ordinanza, la Corte sottolinea come - rispetto alla
questione particolare sollevata dal tribunale di Patti - sia
pregiudiziale il vaglio di legittimità costituzionale della norma
che stabilisce, in via generale, la non candidabilità a cariche
elettive quando sia stato disposto, per determinati reati, il rinvio
a giudizio. Il dubbio di legittimità costituzionale del citato art.
15, comma 1, lettera e), della legge n. 55 del 1990 va posto in
riferimento alla presunzione di non colpevolezza dell'imputato sino
alla condanna definitiva, di cui all'art. 27, secondo comma, nonché
agli artt. 2, 3 e 51, primo comma, della Costituzione.
2.2. - Nel giudizio introdotto dall'ordinanza di questa Corte è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ricordando come la non
candidabilità abbia carattere cautelare; e sostenendo che non rileva
il principio costituzionale di non colpevolezza, per cui la questione
sarebbe infondata anche sulla base della considerazione che
nell'ordinamento sussistono cause di ineleggibilità non ancorate ad
alcuna presunzione, né ad alcun indizio o sospetto d'illecito, ma a
semplici ragioni di opportunità o di convenienza (si richiama in
proposito l'art. 10 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361).
2.3. - È stato depositato, il 22 settembre 1995, atto di
intervento di Giacomo Mancini, sospeso dalla carica di sindaco di
Cosenza, ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, della legge in esame, il
quale afferma di avere interesse all'esito del presente giudizio di
costituzionalità, perché la decisione relativa alla non
candidabilità non potrà non riflettersi sulla sospensione dei
candidati eletti.
Nell'imminenza della camera di consiglio (il 12 gennaio 1996) è
stato infine depositato, tardivamente, atto di intervento di
Giancarlo Cito, anch'egli sospeso dalla carica di sindaco di Taranto.
Considerato in diritto
1. - Questa Corte è stata investita dal tribunale di Patti della
questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1,
lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato
dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui
sancisce la non candidabilità, con conseguente nullità
dell'elezione, di coloro i quali sono stati rinviati a giudizio per
un delitto di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, pur
potendosi configurare in concreto una condotta di detenzione di
sostanze stupefacenti, per uso personale, depenalizzata ai sensi del
d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 (emesso a seguito di referendum
abrogativo). I parametri invocati sono l'art. 3, per l'irragionevole
equiparazione di situazioni diverse, e l'art. 51 della Costituzione,
perché potrebbe sussistere l'ineleggibilità anche nell'ipotesi,
accertabile dal giudice penale, di avvenuta depenalizzazione del
fatto.
Viene ora all'esame la questione di legittimità costituzionale
sollevata da questa Corte, in via pregiudiziale, nel corso del
giudizio incidentale promosso dal tribunale di Patti. La questione
investe, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, secondo comma, e 51,
primo comma, della Costituzione, lo stesso art. 15, comma 1, lettera
e), della citata legge n. 55 del 1990, novellata dalla legge n. 16
del 1992, nella parte in cui prevede la non candidabilità alle
elezioni regionali, comunali, provinciali e circoscrizionali di
coloro per i quali - in relazione ai delitti indicati nella
precedente lettera a) - è stato disposto il giudizio, ovvero di
coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per
il giudizio.
2. - Preliminarmente va dichiarato inammissibile sia l'atto di
intervento di Giancarlo Cito, perché tardivo, sia quello di Giacomo
Mancini, dal momento che, analogamente al Cito, il Mancini non era
parte nel giudizio promosso con l'ordinanza emessa dal tribunale di
Patti.
3. - Occorre dunque valutare la legittimità costituzionale della
norma che stabilisce, in via generale, la non candidabilità a
cariche elettive di coloro per i quali sia stato disposto il
giudizio, con riguardo ai reati indicati.
La questione è fondata in base ai principi contenuti negli artt.
2, 3 e 51 della Costituzione.
Individuando la ratio della legge n. 16 del 1992, la quale ha
profondamente modificato l'impianto della legge n. 55 del 1990,
questa Corte ha riconosciuto che, nelle sue varie disposizioni, essa
tutela beni di primaria importanza, minacciati dall'infiltrazione
della criminalità organizzata di stampo mafioso negli enti locali:
le misure eccezionali adottate tendono a salvaguardare il buon
andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, l'ordine
e la sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi
(sentenze nn. 118 del 1994, 197 del 1993 e 407 del 1992). Proprio al
fine di garantire questi valori, la legge n. 16 del 1992 integra le
misure interdittive, provvisorie, già previste dalla legge n. 55 del
1990 nei confronti dei titolari di organi di amministrazione attiva,
e per la prima volta introduce fattispecie di non candidabilità che
incidono sulla costituzione delle assemblee elettive; fattispecie
che, interferendo sulla formazione della rappresentanza, devono
essere sottoposte a un controllo particolarmente stringente. In tale
ipotesi, infatti, la norma incide direttamente sul diritto di
partecipazione alla vita pubblica, quindi sui meccanismi che danno
concretezza al principio della rappresentatività democratica nel
governo degli enti locali, in quanto enti esponenziali delle
collettività sottostanti (cfr. sentenza n. 97 del 1991).
La normativa in esame prevede la non candidabilità alle elezioni
comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché regionali, di
coloro i quali sono stati condannati, anche con sentenza non
definitiva, per alcuni delitti (ad es. associazione di tipo mafioso,
di cui all'art. 416-bis del codice penale, o peculato, art. 314,
concussione, art. 317, etc.), e di coloro per i quali è disposto il
giudizio limitatamente ad alcuni dei delitti previsti, nella specie
quelli, di notevole gravità, indicati alla lettera a) dell'art. 15
citato. La legge n. 16 interviene, dunque, anche sulla posizione dei
componenti le assemblee rappresentative e di coloro che intendono
concorrere alle cariche elettive, nell'esercizio del diritto di
elettorato passivo.
Ora, tale non candidabilità va considerata come particolarissima
causa di ineleggibilità (sentenza n. 407 del 1992) che il
legislatore ha configurato in relazione a vicende processuali
(condanna o rinvio a giudizio), e anche nel caso in cui siano
adottate misure di prevenzione per indiziati di appartenenza a una
delle associazioni di cui all'art. 1 della legge 31 maggio 1965, n.
575, come sostituito dall'art. 13 della legge 13 settembre 1982, n.
646. L'elezione di coloro che versano nelle condizioni di non
candidabilità è nulla (art. 15, comma 4), senza che sia in alcun
modo possibile per l'interessato rimuovere l'impedimento
all'elezione, come invece è ammesso per le cause di ineleggibilità
derivanti da uffici ricoperti attraverso la presentazione delle
dimissioni o il collocamento in aspettativa (cfr. ancora la sentenza
n. 97 del 1991).
La verifica di legittimità costituzionale deve effettuarsi
innanzitutto alla luce del diritto di elettorato passivo, che l'art.
51 della Costituzione assicura in via generale, e che questa Corte ha
ricondotto alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall'art. 2
della Costituzione (sentenze nn. 571 del 1989 e 235 del 1988). Né
tale controllo può arrestarsi dinanzi all'osservazione che esiste un
nesso di strumentalità tra la non candidabilità e i valori di
rilievo costituzionale testé ricordati: le restrizioni del contenuto
di un diritto inviolabile sono ammissibili solo nei limiti
indispensabili alla tutela di altri interessi di rango
costituzionale, e ciò in base alla regola della necessarietà e
della ragionevole proporzionalità di tale limitazione (sentenza n.
467 del 1991, cons. dir., n. 5; sui limiti posti a diritti
inviolabili da esigenze di conservazione dell'ordine pubblico, v.,
fra le varie, le sentenze nn. 138 del 1985 e 102 del 1975). Qui si
deve accertare se la non candidabilità sia dunque indispensabile per
assicurare la salvaguardia di detti valori, se sia misura
proporzionata al fine perseguito o non finisca piuttosto per alterare
i meccanismi di partecipazione dei cittadini alla vita politica,
delineati dal titolo IV, parte I, della Carta costituzionale,
comprimendo un diritto inviolabile senza adeguata giustificazione di
rilievo costituzionale.
Nel compiere tale verifica, non bisogna dimenticare che
"l'eleggibilità è la regola, e l'ineleggibilità l'eccezione": le
norme che derogano al principio della generalità del diritto
elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono
contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le
esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (v. già la
sentenza n. 46 del 1969, indi la sentenza n. 166 del 1972, fino alle
sentenze nn. 571 del 1989 e 344 del 1993). Considerazioni che questa
Corte ha già svolto con riguardo alle cause di ineleggibilità,
peraltro sempre rimovibili dall'interessato: e, perciò, si richiede
che il limite sia effettivamente indispensabile.
4. - Ora, la previsione della ineleggibilità, e della conseguente
nullità dell'elezione, è misura che comprime, in un aspetto
essenziale, le possibilità che l'ordinamento costituzionale offre al
cittadino di concorrere al processo democratico. Chi è sottoposto a
procedimento penale, pur godendo della presunzione di non
colpevolezza ai sensi dell'art. 27, secondo comma, della
Costituzione, è intanto escluso dalla tornata elettorale: un effetto
irreversibile che in questo caso può essere giustificato soltanto da
una sentenza di condanna irrevocabile. Questa, d'altronde, è
richiesta per la limitazione del diritto di voto, ai sensi dell'art.
48 della Costituzione; sotto questo specifico profilo l'art. 51,
primo comma, e l'art. 48, terzo comma, fanno sistema nel senso di
precisare e circoscrivere, per quanto concerne gli effetti di vicende
penali, il rinvio alla legge che l'art. 51 opera per i requisiti di
accesso alle cariche elettive.
La sancita ineleggibilità assume i caratteri di una sanzione
anticipata, mancando una sentenza di condanna irrevocabile e, nel
caso di semplice rinvio a giudizio, addirittura prima che il
contenuto dell'accusa sia sottoposto alla verifica dibattimentale; e
inoltre, ove si guardi al rapporto tra rappresentanti e
rappresentati, viene alterata - senza che ciò sia imposto dalla
tutela dei beni pubblici cui è preordinata la legge in esame -
quella "corretta e libera concorrenza elettorale" che questa Corte ha
considerato valore costituzionale essenziale, tanto da sindacare in
suo nome disposizioni con cui si statuiscono cause di ineleggibilità
irragionevoli e dagli effetti sproporzionati, come nel caso dell'art.
7, primo comma, lettera a), del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, che
approva il testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione alla
Camera dei deputati (cfr. in tal senso, da ultimo, la sentenza n.
344 del 1993).
Finalità di ordine cautelare - le uniche che possono farsi valere
in presenza di un procedimento penale non ancora conclusosi con una
sentenza definitiva di condanna - valgono a giustificare misure
interdittive provvisorie, che incidono sull'esercizio di funzioni
pubbliche da parte dei titolari di uffici, e anche dei titolari di
cariche elettive, ma non possono giustificare il divieto di
partecipare alle elezioni.
L'art. 15 della legge in esame è d'altronde inficiato da interna
contraddizione. Quelle stesse situazioni che - se presenti al momento
dell'elezione - determinano, ai sensi del comma 1, l'ineleggibilità
di coloro che vi si trovano, qualora invece sopravvengano dopo
l'elezione comportano la mera sospensione dell'eletto, e non la
decadenza (comma 4-bis), mentre questa consegue solo alla condanna
definitiva (comma 4-quinquies). Sono dunque evidenti l'incongruenza e
la sproporzione di una misura irreversibile come la non
candidabilità, in forza di quei presupposti ai quali la legge
attribuisce fisiologicamente - ove sopravvenuti - l'effetto meramente
sospensivo. La previsione della sospensione appare adeguata a
tutelare le pubbliche funzioni, mentre la non candidabilità risulta
sproporzionata rispetto ai valori salvaguardati dalla legge n. 16,
con particolare riguardo al buon andamento e alla libera
autodeterminazione degli organi elettivi locali (sentenze nn. 118 del
1994 e 407 del 1992), sì che è illegittima anche alla luce del
principio di ragionevolezza.
Solo una sentenza irrevocabile, nella specie, può giustificare
l'esclusione dei cittadini che intendono concorrere alle cariche
elettive; né vale obiettare che si tratta di elezioni
amministrative, e non di quelle politiche generali, perché pure in
questo caso è in gioco il principio democratico, assistito dal
riconoscimento costituzionale delle autonomie locali.
È assorbita la questione sollevata in riferimento all'art. 27,
secondo comma, della Costituzione.
5. - Le ragioni che inducono questa Corte a ritenere
incostituzionale la norma sulla non candidabilità prevista dall'art.
15, comma 1, lettera e), nell'ipotesi di rinvio a giudizio, valgono
allo stesso titolo con riguardo alle altre fattispecie che la legge
collega a sentenze di condanna non ancora passate in giudicato o a
provvedimenti giurisdizionali non definitivi che comportano
l'applicazione di misure di prevenzione. Ciò sulla base del
fondamento costituzionale del diritto di elettorato passivo, quale
aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini alla vita
democratica, vulnerato in egual misura dalle varie ipotesi di non
candidabilità, di cui all'art. 15: di modo che la declaratoria di
illegittimità costituzionale della lettera e) deve essere estesa, in
applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, alle
altre fattispecie di non candidabilità, di cui all'art. 15, comma 1,
lettere a), b), c), d), f), che hanno come presupposto una sentenza
non ancora passata in giudicato ovvero un provvedimento applicativo
di una misura di prevenzione non definitiva. Così assicurandosi,
per il profilo considerato, razionalità e, insieme, coerenza interna
e certezza alla disciplina elettorale.
Va precisato altresì che i principi sin qui affermati da questa
Corte valgono anche per la disposizione di cui alla citata lettera
f), che fa discendere la non candidabilità dall'applicazione di una
misura di prevenzione pure quando il relativo provvedimento non abbia
carattere definitivo. È sintomatico che l'art. 2, comma 1, lettera
b), del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, modificato da ultimo dalla
legge 16 gennaio 1992, n. 15 - significativamente coeva alla n. 16,
oggetto del presente giudizio - fa venir meno il diritto di
elettorato attivo per coloro che sono sottoposti, in forza di
provvedimenti definitivi, alle misure di prevenzione di cui all'art.
3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come modificato dall'art. 4
della legge 3 agosto 1988, n. 327. Il citato art. 15, comma 1, lett.
f), estende invece la non candidabilità a coloro nei cui confronti
il tribunale ha applicato, "anche se con provvedimento non
definitivo", una misura di prevenzione.
La declaratoria di illegittimità costituzionale non tocca la
disposizione dell'art. 15, comma 4-bis, che sancisce la sospensione
di diritto degli eletti per i quali sopraggiunga una delle situazioni
di cui al medesimo art. 15, comma 1. Disposizione, questa, che -
letta nel sistema - dovrà considerarsi applicabile anche al caso in
cui tali situazioni sussistano già al momento dell'elezione, sì che
una contraria interpretazione risulterebbe gravemente irragionevole e
fonte di ingiustificata disparità di trattamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1,
lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per
la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi
forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato
dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di
elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte
in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali,
provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro per i quali, in
relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a), è stato
disposto il giudizio, ovvero per coloro che sono stati presentati o
citati a comparire in udienza per il giudizio;
Dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, l'illegittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1,
lettere a), b), c), d), nella parte in cui prevede la non
candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e
circoscrizionali, di coloro i quali siano stati condannati, per i
delitti indicati, con sentenza non ancora passata in giudicato;
Dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del
1953, l'illegittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1,
lettera f), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle
elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di
coloro nei cui confronti il tribunale ha applicato una misura di
prevenzione quando il relativo provvedimento non abbia carattere
definitivo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Guizzi
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 6 maggio 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola