Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 25 ottobre 2023 (reg. ord. n. 161 del 2023), il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale «del combinato disposto» degli artt. 1, comma 13, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) e 1, comma 707, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», nella parte in cui «non prevede il diritto del pensionato alla neutralizzazione del periodo oggetto di riscatto del corso di studi universitari, allorché i 18 anni di contribuzione al 31.12.1995, con conseguente liquidazione del trattamento pensionistico con il sistema retributivo, siano stati raggiunti solo per effetto del suddetto riscatto e dall’applicazione del sistema retributivo in luogo del sistema misto, che avrebbe appunto operato in assenza del riscatto, derivi un depauperamento del trattamento pensionistico».
2.– Il rimettente è chiamato a decidere su una domanda di riliquidazione di un trattamento pensionistico, previa “neutralizzazione” della contribuzione da riscatto del periodo di studi universitari, accreditata a richiesta del ricorrente nel giudizio principale. Riferisce il rimettente, in particolare, che il riscatto venne operato nel 1996 allo scopo di incrementare l’anzianità contributiva anteriore alla data del 31 dicembre 1995, fino ai diciotto anni richiesti dall’art. 1, comma 13, della legge n. 335 del 1995 per il computo della futura pensione con il sistema interamente retributivo.
Sempre in punto di fatto, risulta che l’interessato ha svolto attività lavorativa anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 24, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, in legge 22 dicembre 2011, n. 214, che ha previsto – anche per quanti fossero in possesso del suddetto requisito di anzianità contributiva – l’applicazione del metodo di calcolo contributivo in riferimento alle quote di pensione relative all’anzianità maturata successivamente al 1° gennaio 2012.
Il lavoratore avrebbe infine presentato, in data 13 settembre 2019, domanda di pensionamento nell’ambito del sistema definito “pensione quota 100”, ai sensi dell’art. 14 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, che ha consentito, in via sperimentale per il triennio 2019-2021, il conseguimento del diritto alla pensione «al raggiungimento di un’età anagrafica di almeno 62 anni e di un’anzianità contributiva minima di 38 anni».
Evidenzia ancora il rimettente che il lavoratore, anche al netto delle 145 settimane di anzianità contributiva riscattate, alla data di presentazione della domanda di pensionamento già vantava 64 anni di età e un’anzianità contributiva pari a 38 anni e 51 settimane, sicché il periodo riscattato sarebbe stato ininfluente ai fini dell’accesso al trattamento anticipato.
Con il provvedimento impugnato nel giudizio principale, l’INPS liquidava la pensione – per un importo di euro 9.220,94 mensili – in base alle previsioni di cui all’art. 1, comma 707, della legge n. 190 del 2014, che ha aggiunto un ulteriore periodo all’art. 24, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, in forza del quale, in ogni caso, l’importo complessivo del trattamento pensionistico non può eccedere quello che sarebbe stato liquidato in applicazione delle regole di calcolo vigenti prima della data di entrata in vigore del medesimo d.l. n. 201 del 2011, come convertito.
Il ricorrente ha contestato tale liquidazione, dopo avere invano chiesto all’istituto previdenziale la neutralizzazione della contribuzione da riscatto, in modo da rendere applicabile l’art. 1, comma 12, della legge n. 335 del 1995, che, per i lavoratori privi di diciotto anni di anzianità contributiva alla data del 31 dicembre 1995, prevede l’adozione del sistema di calcolo misto, ossia in parte con il metodo retributivo e in parte con il metodo contributivo, rispettivamente per le anzianità acquisite anteriormente e successivamente alla data innanzi indicata.
La richiesta conseguiva alla constatazione che, se gli anni di laurea non fossero stati riscattati, il sistema misto di computo della pensione avrebbe restituito un risultato migliore in termini di trattamento complessivo (per la precisione, un importo mensile non inferiore a euro 11.427,94).
3.– In punto di rilevanza, il giudice a quo esclude la possibilità di applicare il «principio della neutralizzazione in via meramente interpretativa», alla luce di quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 224 del 2022, che avrebbe imposto interventi puntuali sulla normativa, in considerazione della specificità delle situazioni coinvolte. Solo l’accoglimento delle questioni sollevate, in altre parole, potrebbe consentire l’applicazione del sistema “misto” di calcolo del trattamento pensionistico, che, nel caso di specie, risulterebbe effettivamente più vantaggioso, con conseguente accoglimento della domanda spiegata dal ricorrente.
4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la disciplina dettata dalle due disposizioni censurate sarebbe lesiva degli artt. 3 e 38 Cost., nella parte in cui non prevede il diritto del pensionato alla neutralizzazione del periodo oggetto di riscatto, allorché il requisito dell’anzianità contributiva, pari a diciotto anni alla data del 31 dicembre 1995, sia stato raggiunto solo per effetto del suddetto riscatto e dalla conseguente applicazione del sistema retributivo in luogo del sistema misto derivi un depauperamento del trattamento pensionistico.
Il rimettente, in particolare, richiama il principio enunciato nella sentenza n. 224 del 2022 di questa Corte, secondo cui la contribuzione aggiuntiva al perfezionamento del requisito minimo contributivo, se vale a incrementare la prestazione pensionistica, non potrebbe però compromettere il livello già maturato, dovendo altrimenti essere esclusa dal computo della base pensionabile, indipendentemente dalla natura dei contributi coinvolti (siano essi obbligatori, volontari o figurativi).
Secondo il giudice a quo, se non fosse consentita la neutralizzazione della contribuzione da riscatto, quando essa risulti, come nel caso di specie, del tutto ininfluente ai fini della maturazione del diritto alla pensione e, al contempo, “nociva” ai fini del computo di quest’ultima, verrebbe tradita la funzione stessa del riscatto del corso di studi universitari, ravvisabile, a parere del rimettente, nel conseguimento, a fronte di «un consistente onere economico», anche dell’incremento del trattamento pensionistico.
In definitiva, sarebbe irragionevole che, per effetto del riscatto, si determinasse la diminuzione del quantum di trattamento pensionistico rispetto a quello che sarebbe spettato ove esso non fosse stato esercitato.
5.– Si è costituito il ricorrente nel giudizio principale, ricostruendo la propria “storia lavorativa” e le fasi amministrative che hanno preceduto l’instaurazione della controversia previdenziale.
Dopo aver precisato che il fine della domanda giudiziale proposta non è quello di ottenere la revoca del riscatto (né la restituzione delle somme per esso versate), ha affermato che il principio della “neutralizzazione”, riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte, non sarebbe «affatto limitato ad alcune particolari ipotesi (come quella della contribuzione volontaria versata dopo la maturazione del diritto a pensione)», ma, al contrario, si applicherebbe «ogniqualvolta alcuni periodi assicurativi non rilevanti ai fini dell’an del trattamento pensionistico abbiano l’effetto di compromettere il livello del trattamento pensionistico».
Diversamente opinando, oltre ai parametri evocati dal rimettente, si registrerebbe anche una violazione degli artt. 35 e 36 Cost., oltre che del principio del legittimo affidamento – ritenuto presidiato dall’art. 2 Cost. – maturato in ordine al quantum della pensione auspicato al momento della richiesta di riscatto del periodo degli studi universitari, operazione che il ricorrente si aspettava «fosse quanto meno non pregiudizievole» per il suo trattamento pensionistico, come invece accaduto per effetto dello ius superveniens costituito dall’art. 1, comma 707, della legge n. 190 del 2014.
Per la parte costituita, se è vero che il vantaggio connesso all’istituto del riscatto è caratterizzato da una certa aleatorietà, quest’ultima dovrebbe incidere esclusivamente sull’incertezza della controprestazione e sulla sua misura, ma non potrebbe «estendersi fino a consentire addirittura uno svantaggio per l’assicurato».
Per i medesimi motivi, la parte ha prospettato a questa Corte anche l’opportunità di scrutinare la legittimità costituzionale delle medesime disposizioni censurate dal giudice a quo, ma nella parte in cui non escludono «l’applicazione del doppio calcolo di cui all’art. 1, comma 707, L. n. 190/2014».
6.– Si è costituito anche l’INPS, il quale ha preliminarmente precisato, in fatto, che la pensione del ricorrente nel giudizio principale è stata liquidata interamente con il sistema retributivo, pure per la quota corrispondente all’anzianità maturata a decorrere dal 1° gennaio 2012, nel rispetto della clausola di salvaguardia introdotta dall’art. 1, comma 707, della legge n. 190 del 2014.
Ciò premesso, l’INPS ha, in primo luogo, eccepito l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 38 Cost., per essersi il rimettente limitato a evocare tale parametro senza addurre alcuna argomentazione a sostegno della censura.
In ogni caso, tutte le questioni sarebbero non fondate, dal momento che il principio della neutralizzazione potrebbe riguardare solo la contribuzione che, a qualsiasi titolo, sia stata accreditata in riferimento a retribuzioni percepite dopo la maturazione del diritto alla pensione e prese in considerazione dalla normativa di settore come base di computo del trattamento pensionistico, limitatamente ai casi in cui – contrariamente alla presunzione legislativa secondo cui nell’ultimo periodo di vita lavorativa normalmente si raggiungono livelli retributivi maggiori – tale contribuzione abbia determinato l’effetto di ridurre la misura del trattamento virtualmente già conseguito.
Nel caso di specie, invece, la contribuzione da riscatto non sarebbe stata acquisita dopo il perfezionamento del requisito di accesso a pensione, ma in un periodo evidentemente antecedente, sicché essa non potrebbe avere determinato alcuna riduzione della prestazione già virtualmente maturata.
Inoltre, per l’istituto previdenziale verrebbe in rilievo una contribuzione collocata all’esordio del periodo di assicurazione, in quanto tale irrilevante ai fini della determinazione della retribuzione pensionabile nell’ambito del sistema retributivo.
Ancora, l’ordinanza di rimessione non si sarebbe confrontata con la giurisprudenza di legittimità secondo la quale la finalità propria del riscatto sarebbe esclusivamente quella di incrementare l’anzianità contributiva, rimanendo solo ipotetico il conseguente aumento del trattamento pensionistico.
Infine, non sarebbe ipotizzabile neppure la prospettata (dalla parte privata) lesione dell’affidamento dell’assicurato, dal momento che il versamento degli oneri da riscatto sarebbe stato effettuato dal ricorrente proprio con la specifica finalità di raggiungere l’anzianità contributiva necessaria per l’applicazione del sistema di calcolo retributivo, ossia in vista di un obiettivo puntualmente raggiunto. Il lamentato pregiudizio pensionistico sarebbe dipeso, piuttosto, da un’errata valutazione dell’assicurato operata nel momento in cui ha scelto di avvalersi della misura sperimentale di accesso alla pensione anticipata, limitata al triennio 2019-2021 e disciplinata dall’art. 14 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in assenza della quale il ricorrente non avrebbe raggiunto il diritto alla pensione alla data in cui ha avuto accesso al trattamento, neppure avvalendosi della contribuzione da riscatto.
7.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
L’interveniente, ricostruiti la parabola argomentativa del rimettente e il contesto normativo di riferimento, ha chiesto di dichiarare inammissibili o non fondate tutte le questioni sollevate.
Per l’Avvocatura, la domanda avanzata nel giudizio a quo sarebbe «diretta unicamente a massimizzare il trattamento pensionistico» e, ove accolta, non soltanto intaccherebbe le scelte di politica economica operate dal legislatore per garantire il rispetto dei principi di stabilità e sostenibilità della finanza pubblica, ma consentirebbe – a suo parere inammissibilmente – di operare la «scelta del sistema pensionistico più conveniente, in un dato momento storico».
L’interveniente reputa non conferente il richiamo alla sentenza n. 224 del 2022 di questa Corte, dal momento che l’interessato, invocando la neutralizzazione dei contributi da riscatto del corso di studi universitari, mirerebbe non tanto a elidere gli effetti deteriori della contribuzione aggiuntiva (quella, cioè, eccedente la contribuzione necessaria all’accesso al trattamento pensionistico prescelto), quanto piuttosto a ottenere l’applicabilità di un diverso regime pensionistico (quello misto) in luogo di quello (interamente retributivo) originariamente prescelto, una volta che quest’ultimo sia divenuto meno conveniente per effetto della novella del 2014.
Ritiene l’interveniente, tuttavia, che solo il legislatore potrebbe disporre, nell’ambito della sua discrezionalità e nei limiti della ragionevolezza (che nella specie, sarebbe stata rispettata), il regime pensionistico applicabile alle diverse fattispecie.
8.– Con memorie depositate in vista dell’udienza, la parte privata e l’INPS hanno ulteriormente illustrato gli argomenti addotti nei rispettivi atti di costituzione.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., «del combinato disposto» degli artt. 1, comma 13, della legge n. 335 del 1995 e 1, comma 707, della legge n. 190 del 2014, nella parte in cui essi non prevedono «il diritto del pensionato alla neutralizzazione del periodo oggetto di riscatto del corso di studi universitari, allorché i 18 anni di contribuzione al 31.12.1995, con conseguente liquidazione del trattamento pensionistico con il sistema retributivo, siano stati raggiunti solo per effetto del suddetto riscatto e dall’applicazione del sistema retributivo in luogo del sistema misto, che avrebbe appunto operato in assenza del riscatto, derivi un depauperamento del trattamento pensionistico».
2.– Nel giudizio principale è avanzata domanda volta a “neutralizzare” – ossia a considerare come non versate ai fini del computo del trattamento pensionistico – le somme corrisposte dal ricorrente per il riscatto del periodo di studi universitari, con conseguente riliquidazione della pensione percepita dal medesimo.
Quest’ultimo, nel 1996, ha operato il riscatto allo scopo di acquisire – alla data del 31 dicembre 1995 – diciotto anni di anzianità contributiva, così garantendosi, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 13, della legge n. 335 del 1995, il computo del proprio trattamento pensionistico con il metodo retributivo.
La domanda di pensione risulta presentata in data 13 settembre 2019, grazie alla previsione dell’art. 14 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che ha consentito, per il solo triennio 2019-2021, di anticipare il pensionamento «al raggiungimento di un’età anagrafica di almeno 62 anni e di un’anzianità contributiva minima di 38 anni» (cosiddetta “pensione quota 100”).
Nell’accogliere la domanda, l’INPS, in forza della modifica che l’art. 1, comma 707, della legge n. 190 del 2014 ha apportato all’art. 24, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, ha liquidato la pensione anticipata (per un importo di euro 9.220,94 mensili) con il sistema interamente retributivo, escludendo quindi il computo contributivo anche per il periodo successivo al 1° gennaio 2012.
Il ricorrente nel giudizio principale evidenzia che, se non avesse operato il riscatto e, di conseguenza, avesse trovato applicazione il sistema “misto” di calcolo della pensione previsto dall’art. 1, comma 12, della legge n. 335 del 1995 – retributivo per l’anzianità (a quel punto, inferiore ai diciotto anni) maturata fino al 31 dicembre 1995, e contributivo per quella successiva –, l’importo finale del rateo sarebbe stato migliore (per la precisione, non inferiore alla somma di euro 11.427,94).
Di qui, la pretesa a ottenere la riliquidazione del trattamento pensionistico, previa neutralizzazione del periodo assicurativo oggetto di riscatto, ininfluente ai fini dell’accesso alla “pensione quota 100” e rivelatosi “nocivo” ai fini del calcolo dell’importo spettante.
3.– In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il Tribunale di Roma scarta la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata, ritenendo che solo l’accoglimento delle questioni sollevate, per effetto della neutralizzazione della contribuzione da riscatto, potrebbe consentire l’applicazione, ai fini del ricalcolo del trattamento, del sistema “misto” previsto dall’art. 1, comma 12, della legge n. 335 del 1995.
4.– Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, essendo incontestato tra le parti in causa che proprio (e solo) la contribuzione versata per il riscatto abbia comportato per il ricorrente un depauperamento del trattamento pensionistico rispetto a quello che sarebbe stato altrimenti calcolato con il sistema misto ex lege n. 335 del 1995, il rimettente invoca l’applicazione del principio di neutralizzazione. Si tratterebbe, infatti, di una contribuzione aggiuntiva al perfezionamento del requisito minimo contributivo, che potrebbe valere solo a incrementare la prestazione pensionistica e non a compromettere il livello già maturato, dovendo in tal caso essere esclusa dal computo della base pensionabile.
La neutralizzazione si imporrebbe anche al fine di non contraddire la funzione stessa del riscatto, consistente, a parere del rimettente, nell’incrementare il trattamento pensionistico, a fronte di «un consistente onere economico».
Sarebbe altrimenti irragionevole che, per effetto del riscatto «e finanche del pagamento di un onere economico», si determinasse una diminuzione del quantum di pensione altrimenti spettante.
5.– Prima di affrontare il merito delle censure, deve essere precisamente definito il thema decidendum.
5.1.– In primo luogo, occorre evidenziare che il rimettente censura – oltre all’art. 1, comma 13, della legge n. 335 del 1995 – anche l’art. 1, comma 707, della legge n. 190 del 2014, che ha aggiunto un ultimo periodo all’art. 24, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito.
Vi è da ritenere, tuttavia, che il reale oggetto delle doglianze abbia a che fare proprio con l’ultimo periodo dell’appena citato art. 24, comma 2, tanto più che il giudice a quo non auspica una pronuncia ablativa dell’art. 1, comma 707, quanto piuttosto una pronuncia “additiva” rispetto alla previsione di legge introdotta dalla disposizione censurata.
Al di là della portata letterale del petitum formulato dal rimettente (sentenza n. 18 del 2023), la seconda disposizione oggetto del giudizio di legittimità costituzionale va, quindi, individuata nell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito.
5.2.– Ancora, nel costituirsi in giudizio, la parte privata ha prospettato anche la violazione degli artt. 35 e 36 Cost., oltre che del principio del legittimo affidamento – ritenuto presidiato dall’art. 2 Cost. – circa il quantum della pensione auspicato al momento della richiesta di riscatto degli anni di laurea.
Inoltre, ha sollecitato questa Corte a scrutinare la legittimità costituzionale delle medesime disposizioni censurate dal rimettente, ma anche nella parte in cui non escludono «l’applicazione del doppio calcolo di cui all’art. 1, comma 707, L. n. 190/2014» e, dunque, nella parte in cui impongono la scelta del trattamento di minor favore tra le due prestazioni scaturenti dall’applicazione delle regole vigenti, rispettivamente, prima e dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 201 del 2011, come convertito.
Si tratta di questioni o profili diversi da quelli prospettati dal giudice a quo e che, dunque, non devono essere vagliati da questa Corte, giacché nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale non possono essere presi in esame questioni o profili di costituzionalità dedotti solo dalle parti e diretti quindi ad ampliare o modificare il contenuto dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 50 del 2024, n. 215, n. 184 e n. 161 del 2023).
6.– Sempre in via preliminare, l’INPS ha eccepito l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 38 Cost., per inadeguata motivazione sulla non manifesta infondatezza.
L’eccezione deve essere accolta.
Il rimettente non ha illustrato i motivi per i quali la normativa sospettata d’illegittimità costituzionale sarebbe lesiva del principio di adeguatezza delle prestazioni previdenziali, anche perché ha omesso di confrontarsi con la giurisprudenza costituzionale secondo cui la garanzia dell’art. 38 Cost. è connessa all’art. 36 Cost., e dunque alla proporzionalità, alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, «ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale» (sentenze n. 263 e n. 234 del 2020 e n. 173 del 2016). Il sistema della previdenza obbligatoria, infatti, è ispirato a un criterio solidaristico (sentenza n. 167 del 2020), in forza del quale tra pensioni e retribuzioni e tra pensioni e ammontare della contribuzione versata non è delineato un rapporto di perfetta corrispondenza, bensì una tendenziale correlazione, in grado di salvaguardare l’idoneità del trattamento previdenziale al soddisfacimento delle esigenze di vita (sentenza n. 104 del 2018).
L’ordinanza di rimessione è del tutto carente nella ponderazione (necessaria) di tali profili e questo ridonda in un vizio di inadeguata motivazione in punto di non manifesta infondatezza, mancando una sufficiente illustrazione delle ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe la violazione del parametro costituzionale evocato (tra le ultime, sentenza n. 3 del 2024).
7.– Per la comprensione dei termini della residua questione oggetto di scrutinio è opportuno un sintetico inquadramento del contesto normativo di riferimento.
7.1.– Innanzitutto, va fatto cenno alla distinzione tra i due principali meccanismi – retributivo e contributivo – di computo dei trattamenti pensionistici.
Nell’ambito del primo, divenuto ormai residuale (per quanto si dirà appresso), la base di calcolo è costituita dalla media delle retribuzioni percepite in un periodo di riferimento predeterminato dalla legge (cosiddetta retribuzione pensionabile), generalmente collocato in una fase – più o meno ampia, a seconda della disciplina di riferimento – anteriore alla data del pensionamento. Per ciascun anno di anzianità contributiva (per la cui determinazione si tiene conto non soltanto dei periodi di contribuzione obbligatoria, ma anche di quelli di contribuzione figurativa, volontaria e da riscatto), e fino a un massimo di quaranta anni, si attribuisce la cosiddetta aliquota di rendimento che, nell’assicurazione generale obbligatoria (AGO), è pari al due per cento della retribuzione pensionabile. Tale sistema, almeno alle origini, mirava a conservare, in linea tendenziale, il tenore di vita acquisito nella fase finale del periodo lavorativo.
Il sistema contributivo, invece, è ispirato a una logica di piena corrispettività tra contribuzione versata e prestazione pensionistica: quest’ultima viene determinata in base alla totalità della contribuzione corrisposta nel corso della vita lavorativa, rivalutata periodicamente (il cosiddetto montante contributivo individuale), e in rapporto alla speranza di vita media residua (calcolata sulla base di criteri statistico-attuariali via via aggiornati nel tempo), mediante l’applicazione di un coefficiente di trasformazione che tiene conto dell’età del singolo pensionando.
7.2.– Ciò premesso, assume rilievo centrale l’impianto disegnato dalla legge n. 335 del 1995, nella parte in cui ha fissato i sistemi di computo del trattamento pensionistico, introducendo distinzioni tra i lavoratori sulla base dell’anzianità contributiva dai medesimi maturata al 31 dicembre 1995.
In via di sintesi, per quanti, a tale data, siano in possesso di anzianità contributiva inferiore a diciotto anni, l’art. 1, comma 12, ha previsto l’applicazione del sistema cosiddetto misto, che si articola in due quote di pensione: una corrispondente all’anzianità acquisita anteriormente al 31 dicembre 1995 e calcolata secondo il sistema retributivo; l’altra corrispondente all’anzianità successiva e conteggiata secondo il sistema contributivo.
Invece, per i lavoratori che, alla medesima data, possano vantare anzianità contributiva pari o superiore a diciotto anni, l’art. 1, comma 13, ha previsto che la pensione sia interamente liquidata in base al sistema retributivo.
Interamente soggetto al solo sistema contributivo, infine, è il calcolo della pensione per i lavoratori che si siano iscritti a una gestione pensionistica solo successivamente al 31 dicembre 1995.
7.3.– Sull’appena descritto assetto normativo è venuto a incidere il d.l. n. 201 del 2011, come convertito, il cui art. 24, al comma 2, ha in sostanza abolito il sistema interamente retributivo, prevedendo, a far tempo dal 1° gennaio 2012, l’estensione pro-rata del sistema di calcolo contributivo anche ai lavoratori che la riforma del 1995 aveva lasciato interamente nel sistema pensionistico retributivo.
Il citato art. 24, comma 2, è stato in seguito modificato dall’art. 1, comma 707, della legge n. 190 del 2014, che vi ha aggiunto un ultimo periodo, contenente una “clausola di salvaguardia” dei saldi di finanza pubblica.
Tale ulteriore disposizione, infatti, nell’affermare che l’importo complessivo del trattamento pensionistico non può eccedere quello che sarebbe stato liquidato con l’applicazione delle regole di calcolo in essere prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, impone all’istituto previdenziale di effettuare un “doppio calcolo”: uno, con le regole vigenti prima del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e uno con quelle introdotte da quest’ultimo. All’esito di tale verifica, si procederà ad applicare la nuova disciplina solo se, in tal modo, il risultato sia pari o inferiore a quello ottenuto in base alle regole previgenti.
7.4.– Per completare le essenziali coordinate normative di riferimento, qualche parola va spesa, infine, circa la possibilità di versare contributi previdenziali anche con riguardo a periodi rispetto ai quali non sarebbe configurabile alcun obbligo contributivo.
Si tratta della categoria di contribuzione definita “da riscatto” e consistente nel versamento di somme da parte del soggetto interessato, per importi determinati in base alle norme che disciplinano la liquidazione della pensione con il sistema retributivo o con quello contributivo, a seconda della collocazione temporale dei periodi oggetto di riscatto.
Il versamento di tali somme costituisce una facoltà dell’interessato che, con specifico riferimento al riscatto del corso di laurea, è stata inizialmente prevista dall’art. 2-novies del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30 (Norme per il miglioramento di alcuni trattamenti previdenziali e assistenziali), convertito, con modificazioni, in legge 16 aprile 1974, n. 114, e poi rimodellata dall’art. 2 del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 184 (Attuazione della delega conferita dall’articolo 1, comma 39, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di ricongiunzione, di riscatto e di prosecuzione volontaria ai fini pensionistici), che ha anche individuato i corsi di studio interessati.
8.– Così tratteggiato il quadro normativo entro il quale l’ordinanza di rimessione si colloca, si può ora entrare nel merito della questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., con la quale il rimettente invoca un intervento di questa Corte che consenta di applicare il principio di neutralizzazione anche ai contributi da riscatto degli anni di laurea versati dal ricorrente nel giudizio principale e rivelatisi, in base a una valutazione ex post, “nocivi”.
L’approccio del giudice a quo risulta metodologicamente corretto, nella parte in cui ha sollecitato una pronuncia additiva, senza provvedere a un’applicazione diretta del principio di neutralizzazione. Questa Corte, infatti, ha ripetutamente riservato a se stessa (da ultimo, sentenza n. 224 del 2022) la valutazione delle fattispecie di volta in volta scrutinate, per la rilevata necessità di modulare la portata della neutralizzazione sulla specificità delle situazioni coinvolte.
9.– La questione sollevata, tuttavia, si rivela non fondata.
9.1.– Nella giurisprudenza di questa Corte, il principio di neutralizzazione è stato applicato, nell’ambito del sistema di computo retributivo del trattamento pensionistico, alla contribuzione accreditata successivamente alla maturazione del diritto alla pensione e sempre con riferimento alla sola retribuzione pensionabile, normalmente percepita nell’ultimo arco temporale – più o meno ampio – antecedente alla data del pensionamento.
L’esclusione dal computo della base pensionabile di tali contributi assolve alla funzione di evitare che – ove in tale ultimo periodo lavorativo si siano registrate retribuzioni inferiori rispetto a quelle precedenti e, comunque, non necessarie alla maturazione del diritto alla pensione – il risultato sia pregiudizievole per il pensionando (tra le tante, sul punto, sentenza n. 173 del 2018).
Si è detto, in particolare, che «[i]l legislatore ogniqualvolta individui la retribuzione pensionabile sulla base delle ultime retribuzioni, lo fa per favorire il lavoratore, presumendo che nell’ultimo periodo di vita lavorativa questi raggiunga livelli retributivi maggiori, sicché è irragionevole che, per effetto di un intervenuto decremento retributivo, quel meccanismo di calcolo porti a un risultato antitetico al suo fine, ossia alla riduzione della pensione potenzialmente già maturata (in particolare, sentenze n. 82 del 2017 e n. 264 del 1994). Infatti, “a maggior lavoro e a maggior apporto contributivo [non può] corrispond[ere] una riduzione della pensione” acquisita per effetto della precedente contribuzione (ancora sentenza n. 264 del 1994)» (sentenza n. 198 del 2023).
Di recente, la sentenza n. 82 del 2017 ha riassunto la ratio dell’istituto, che mira a censurare «l’irragionevolezza di un meccanismo di determinazione della retribuzione pensionabile, che, pur preordinato a “garantire al lavoratore una più favorevole base di calcolo per la liquidazione della pensione”, correlata all’ultimo scorcio della vita lavorativa, sia foriero di risultati antitetici», incidendo in senso riduttivo sulla pensione virtualmente già acquisita.
In generale, quindi, il principio è stato applicato rispetto alla contribuzione “aggiuntiva”, ossia successiva all’accredito dei contributi minimi necessari al conseguimento del diritto a pensione, a prescindere dalla natura dei contributi, siano essi obbligatori, volontari o figurativi: se tale contribuzione, infatti, può valere a incrementare la prestazione pensionistica, non può compromettere il livello già maturato (sentenza n. 433 del 1999).
9.2.– Nel caso all’odierno esame, la situazione appare sostanzialmente diversa.
La richiesta di neutralizzazione coinvolge contribuzione da riscatto che è stata versata in esordio dell’anzianità lavorativa e che, dunque, si colloca al di fuori del periodo di riferimento della retribuzione pensionabile in base al sistema di computo retributivo applicabile.
Quel che più conta, inoltre, è che il principio di neutralizzazione viene oggi invocato per ottenere il risultato del “passaggio” da un sistema di calcolo a un altro: nella specie, dal sistema retributivo, entro il quale è stato elaborato e costantemente applicato il principio (sentenza n. 198 del 2023), al sistema misto disciplinato dall’art. 1, comma 12, della legge n. 335 del 1995.
In sostanza, il rimettente chiede a questa Corte di applicare il principio di neutralizzazione ai contributi riscattati, ma non allo scopo – come nei precedenti giurisprudenziali innanzi citati – di eliminare gli effetti nocivi che il computo di essi, in tesi, abbia prodotto all’interno del sistema di calcolo retributivo, quanto, piuttosto, per transitare a un sistema di calcolo diverso, quello cosiddetto misto, che si sarebbe applicato ove il riscatto non fosse stato, a suo tempo, operato e che, secondo una valutazione compiuta ex post, risulta più conveniente per l’assicurato, contrariamente alle aspettative originarie.
Una tale richiesta si pone, però, al di fuori del perimetro applicativo del principio di neutralizzazione elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, che, come si è rammentato, opera esclusivamente all’interno del sistema retributivo. Solo rispetto a tale criterio di computo, del resto, ha senso temperare la rigidità del legislatore nell’individuare il periodo su cui determinare la retribuzione pensionabile con la regola della immodificabilità in peius della prestazione pensionistica già in precedenza virtualmente acquisita.
Il ricorrente nel giudizio a quo, a ben vedere, attraverso la neutralizzazione richiesta, non intende elidere gli effetti nocivi che la contribuzione da riscatto ha determinato nell’ambito del sistema retributivo, bensì “fuoriuscire” da quel sistema, rivelatosi (contrariamente alle aspettative) meno conveniente e al quale aveva avuto accesso esercitando, liberamente, la facoltà di riscattare un periodo non coperto da contribuzione obbligatoria.
Ciò si risolve in una sostanziale pretesa di scelta del sistema di computo del trattamento pensionistico in base a una valutazione ex post, ossia effettuata nel momento del pensionamento, che si pone in contrasto con il principio di certezza del diritto che deve pur sempre presidiare il sistema previdenziale, come già affermato da questa Corte nella sentenza n. 82 del 2017.
In quest’ultima decisione, del resto, si è aggiunto (riprendendo spunti già rinvenibili nella sentenza n. 388 del 1995) che il principio di neutralizzazione serve a evitare la compromissione della misura della prestazione potenzialmente maturata, «soprattutto quando sia più esigua per fattori indipendenti dalle scelte del lavoratore».
Nel caso di specie, invece, il risultato asseritamente meno favorevole rispetto a quello atteso nasce da un’opzione del lavoratore, che, riscattando gli anni di laurea, ha scelto liberamente il sistema retributivo in luogo di quello misto, in quanto il primo era considerato, all’epoca, generalmente più favorevole per il pensionato.
9.3.– Non va altresì sottaciuto, a sostegno della declaratoria di non fondatezza della questione sollevata, che non è condivisibile il presupposto interpretativo da cui muove il Tribunale rimettente, con riferimento alla funzione svolta dal riscatto degli anni di laurea.
Secondo il rimettente, infatti, tale riscatto sarebbe destinato a far confluire nella posizione assicurativa del riscattante contributi previdenziali aggiuntivi, in modo da incrementare l’anzianità contributiva utile a fini pensionistici, non solo ai fini dell’an del diritto alla pensione, ma anche ai fini del quantum del trattamento.
In realtà, come riconosce lo stesso ricorrente nel giudizio a quo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’effetto del riscatto è soltanto quello di incrementare l’anzianità contributiva (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 agosto 1999, n. 8750 e 11 novembre 2002, n. 15814), sicché l’opzione si atteggia come una sorta di negozio aleatorio che può non sortire i positivi effetti sperati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 16 maggio 1998, n. 4945).
Ancora più nettamente, la Corte di cassazione ha chiarito che l’argomento secondo cui il riscatto è un beneficio a favore del dipendente – sicché non potrebbe mai operare contra se – non è condivisibile, laddove si consideri che l’interesse che la legge intende tutelare accordando la suddetta facoltà è, appunto, solo quello all’incremento dell’anzianità contributiva e che tale interesse risulta soddisfatto dalla determinazione dell’amministrazione di ammettere il riscatto richiesto (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 28 settembre 2007, n. 20378), come appunto avvenuto nel caso di specie. Il ricorrente nel giudizio principale, in effetti, aveva operato il riscatto proprio per rimanere nell’ambito del sistema retributivo e, come aveva all’epoca auspicato, quel sistema gli è stato applicato al momento della liquidazione del trattamento.
D’altronde, questa stessa Corte (ordinanza n. 209 del 1991) ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di disposizioni che non ammettevano la possibilità di revocare il riscatto di periodi di servizio o di studio, rinunciando all’anzianità contributiva derivante dall’esercizio del relativo diritto, al fine di potersi giovare della facoltà di optare per il mantenimento in servizio sino al limite dei settanta anni di età, con ciò dimostrando che l’esercizio della facoltà di riscatto può anche non assecondare, per vicende successive, i concreti interessi del riscattante, senza che ciò assurga a vizio d’illegittimità costituzionale delle norme che quegli effetti prevedono.