Ritenuto in fatto:
1. - Con ordinanza emessa il 18 aprile 1975 nel corso di un
procedimento penale a carico di Pantaleone Michele e Einaudi Giulio, il
tribunale di Torino sollevava conflitto di attribuzione ai sensi
dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nei confronti del potere
legislativo, assumendo che la Commissione parlamentare di inchiesta sul
fenomeno della mafia in Sicilia, istituita con legge 20 dicembre 1962,
n. 1720 - dopo aver aderito solo in minima parte alle richieste,
avanzate con precedenti ordinanze dallo stesso tribunale, di copie di
documenti ritenuti necessari ai fini della indagine - ad una successiva
richiesta, disposta con ordinanza 31 gennaio 1975, della predetta
documentazione, ritenuta ormai non più segreta a seguito della
pubblicazione della "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del
fenomeno mafioso al termine della V Legislatura", aveva ribadito il
proprio rifiuto con una lettera in data 21 febbraio 1975.
2. - I fatti da cui ha tratto origine il procedimento penale
risalgono al 1969 quando l'editore Giulio Einaudi pubblicava il libro
di Michele Pantaleone "Antimafia occasione mancata" nel quale l'attore
attribuisce a Bernardo Canzoneri, Gaspare Cusenza, Giovanni Gioia e
Orazio Ruisi la commissione di vari reati.
A seguito delle querele sporte dalle persone sopra menzionate,
nell'aprile e nel maggio 1969 il Procuratore della Repubblica di Torino
citava a giudizio direttissimo il Pantaleone e l'Einaudi per rispondere
dei reati di cui agli artt. 81, 110-595 del codice penale e 13 della
legge 8 febbraio 1948, n. 47.
Nel corso del dibattimento ed in particolare nelle diverse udienze
tenutesi nel 1973, la difesa degli imputati, cui si è generalmente
associato il pubblico ministero, chiedeva l'acquisizione agli atti di
documenti in possesso della Commissione antimafia ed il tribunale
provvedeva emettendo le relative ordinanze.
Seguivano le risposte in gran parte negative della Commissione, cui
peraltro il tribunale continuò a chiedere oltre la documentazione non
ricevuta, anche altri atti che lo svolgimento del processo faceva, via
via, apparire rilevanti ai fini dell'accertamento della verità.
Perdurando il diniego della Commissione, espresso definitivamente
con la citata lettera del 21 febbraio 1975, alla udienza del 18 aprile
1975 la difesa degli imputati sollecitava il tribunale a sollevare
conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Il
pubblico ministero si associava alla richiesta e, in conformità, il
tribunale emetteva la nota ordinanza del 18 aprile 1975.
3. - Con altra ordinanza, emessa il 16 aprile 1975 nel corso di un
procedimento penale a carico di Villani Silvano, il tribunale di Milano
sollevava analogo conflitto nei confronti della Commissione antimafia,
denunciando la violazione degli artt. 24, 101 e seguenti della
Costituzione.
Il Villani aveva pubblicato sul Corriere della Sera del 4 settembre
1971 un articolo intitolato "La voce della mafia al telefono", nel
quale affermava essere Italo Jalongo un pregiudicato per truffa, un
mafioso e come tale aver fatto diversi favori a personaggi importanti.
Lo Jalongo sporse querela per diffamazione a mezzo stampa concedendo la
più ampia facoltà di prova. Il 2 aprile 1973 il Villani veniva citato
a giudizio direttissimo dal Procuratore della Repubblica di Milano
sotto l'imputazione del reato di cui agli articoli 595-81 del codice
penale e 13 della legge n. 47 del 1948, per le affermazioni contenute
nell'articolo suddetto.
Dall'8 maggio 1973 si sono susseguite le udienze dibattimentali
spesso rinviate a causa della pendenza delle trattative per la
remissione della querela. All'udienza del 22 aprile 1974, avendo la
difesa del Villani chiesto che venissero acquisiti atti in possesso
della Commissione antimafia ed essendosi associato alla richiesta il
pubblico ministero, il tribunale in pari data emetteva la relativa
ordinanza. Pervenuta la comunicazione in data 6 dicembre 1974, con la
quale la Commissione antimafia rifiutava gli atti richiesti, il
tribunale, in data 12 febbraio 1974, emetteva nuova ordinanza di
richiesta degli atti in questione, replicando nelle premesse alle
argomentazioni della Commissione, e affermando, tra l'altro, che la
prova liberatoria spetta all'imputato o per richiesta del querelante o
a norma dell'art. 51 del codice penale in relazione agli artt. 21 e 24
della Costituzione.
Con successiva nota del 26 marzo 1975 la Commissione in risposta
all'ordinanza 12 febbraio, ribadiva il rifiuto di esibire i documenti,
insistendo sul corretto significato da attribuire alla "pubblicazione"
disposta al termine della V legislatura.
All'udienza del 16 aprile la difesa del Villani chiedeva al
tribunale di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte
costituzionale nei confronti dell'antimafia. Il pubblico ministero, dal
canto suo, si associava alla richiesta "facendola propria", ed il
tribunale emetteva la nota ordinanza 16 aprile 1975.
4. - Con ordinanze nn. 228 e 229 dell'8 luglio 1975 la Corte
costituzionale, a norma dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953,
dichiarava l'ammissibilità dei ricorsi per conflitto di attribuzione
proposti rispettivamente dal tribunale di Torino e dal tribunale di
Milano, disponendo altresì che: a) la cancelleria della Corte desse
immediata comunicazione al ricorrente della ordinanza; b) che a cura di
ciascun ricorrente l'ordinanza e il ricorso venissero notificati alla
Commissione antimafia in persona del suo Presidente entro il termine di
trenta giorni dalla data di comunicazione di cui sopra.
A seguito della comunicazione e delle notificazioni prescritte, la
Commissione antimafia si è costituita nei due conflitti con deduzioni
dell'avv. Aldo Sandulli e dell'avv. Gian Domenico Pisapia depositate il
7 agosto 1975, cui hanno fatto seguito memorie aggiuntive depositate in
data 25 settembre 1975.
A loro volta i tribunali di Torino e di Milano provvedevano al
deposito dei ricorsi a norma dell'art. 26, terzo comma, delle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale
rispettivamente in data 20 agosto e 8 agosto 1975. Il tribunale di
Milano depositava altresì memoria e successivamente conferiva mandato
di rappresentarlo in udienza agli avvocati Giovanni Bovio e Alberto
Dall'Ora.
Nella pubblica udienza i difensori delle parti hanno ribadito le
rispettive tesi e conclusioni.
Considerato in diritto:
1. - I giudizi per conflitto di attribuzione, promossi con le due
ordinanze dei tribunali di Torino e di Milano nei confronti della
Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della "mafia", a
seguito del rifiuto da questa opposto di trasmettere ai tribunali
medesimi, che ne avevano fatto formale richiesta, determinati atti e
documenti in suo possesso, ritenuti dai giudici predetti necessari ai
fini dell'accertamento della verità nei rispettivi processi, involgono
sostanzialmente le stesse questioni e vanno perciò decisi con unica
sentenza.
2. - La difesa della Commissione eccepisce pregiudizialmente
l'inammissibilità dei conflitti, sia sotto il profilo soggettivo che
sotto il profilo oggettivo. Deduce, infatti, per un verso, che né i
tribunali ricorrenti né essa Commissione sarebbero legittimati -
rispettivamente - a sollevare i conflitti in oggetto ed a resistervi,
non essendo organi "competenti a dichiarare definitivamente la volontà
del potere cui appartengono", come prescritto dall'art. 37, primo
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e che mancherebbe altresì,
per altro verso, la materia di conflitto e difetterebbe nei tribunali
l'interesse a ricorrere, perché gli atti e documenti, cui si
riferivano le loro richieste e i dinieghi della Commissione, o non
sarebbero validamente utilizzabili come mezzi di prova nei processi in
corso in sede dibattimentale o avrebbero potuto e potrebbero essere
richiesti ai soggetti, pubbliche autorità e privati, che li avevano
autonomamente formati e da cui provenivano.
Gli argomenti addotti, peraltro, non sono tali da indurre la Corte
a mutare l'avviso già espresso in linea di prima delibazione nelle
ordinanze nn. 228 e 229 del corrente anno, alla motivazione delle
quali, con le ulteriori precisazioni che seguono, si fa quindi espresso
rinvio.
3. - Più particolarmente, sotto il profilo soggettivo,
riecheggiando una nota tesi dottrinale che, nell'interpretazione del
primo comma dell'art. 37, tende a distinguere gli organi che possono
entrare tra loro in conflitto da quelli legittimati al relativo
giudizio (i quali ultimi sarebbero unicamente gli organi supremi dei
poteri cui i primi appartengono), si assume che, nella specie, i
conflitti avrebbero dovuto essere proposti dalla Corte di cassazione,
anziché dai tribunali direttamente interessati, e nei confronti delle
Camere, anziché della Commissione d'inchiesta. Senonché, a
prescindere dalle difficoltà che all'accoglimento, in generale, di
siffatta tesi, derivano dallo stesso testo dell'art. 37, dove
parlandosi di "conflitto" si allude all'oggetto del giudizio, e non
viceversa al giudizio sul conflitto, e dove pertanto il riferimento
agli organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei
poteri va inteso come rivolto a designare gli organi confliggenti, e
non soltanto quelli legittimati ad processum, è significativo rilevare
che la difesa della Commissione esplicitamente ammette - da un lato -
che alle Commissioni d'inchiesta deve riconoscersi (ed è positivamente
riconosciuta) un'amplissima autonomia, tanto più quando, come nel caso
in oggetto, siano istituite con legge e senza prefissione di termini,
quindi destinati a durare oltre le singole legislature; ed altresi
ammette - d'altro lato - che attualmente l'ordinamento non predispone
(almeno, "espressamente") i congegni attraverso i quali l'organo
giudiziario "minore" potrebbe sollecitare l'intervento della Corte di
cassazione, la quale a sua volta (si aggiunge) non può essere
considerata giuridicamente come "superiore" rispetto agli altri, senza
dire delle perplessità (anch'esse accennate, ma non risolte, nelle
deduzioni di costituzione della Commissione) che la struttura
"composita" della stessa Corte di cassazione farebbe sorgere quando si
volesse più precisamente stabilire in quale delle sue articolazioni
(Primo Presidente, Sezioni Unite, ecc.) dovrebbe ritenersi concentrata
la competenza a proporre conflitto.
Ma tutte queste ammissioni, riserve e perplessità finiscono per
avvalorare indirettamente, anche sul terreno pratico, le conclusioni
cui la Corte ebbe a pervenire nelle ordinanze numeri 228 e 229,
evidenziando - da un lato - il carattere "diffuso" che tipicamente
contrassegna il potere giudiziario, ciascuna componente del quale è
idonea a porre in essere pronuncie sulle quali la Corte di cassazione
non sarebbe in grado di esercitare il proprio sindacato, se non nei
casi previsti dai codici di rito e (con la sola eccezione di cui
all'art. 41, primo comma, cod. proc. civ.) sempre dietro iniziativa di
chi sia parte in giudizio; nonché - d'altro lato - l'indipendenza di
cui godono, durante il corso del loro mandato, le Commissioni
parlamentari d'inchiesta, anche nei confronti delle Camere, le quali,
come non potrebbero procedere esse stesse, direttamente, ad inchieste
ex art. 82 Cost., così nemmeno sono autorizzate ad interferire nelle
deliberazioni adottate dalle Commissioni medesime per il più proficuo
svolgimento dei loro lavori.
È da soggiungere che l'art. 37 della legge n. 87, nel definire i
conflitti tra poteri la cui risoluzione spetta alla Corte
costituzionale, non muove dal criterio della definitività degli atti
che ne possono essere all'origine, ché anzi in tali conflitti (a
differenza che in quelli tra Stato e Regioni o tra Regioni) un atto
può addirittura mancare, essendo sufficiente a determinarli un mero
comportamento, anche omissivo; ma designa gli organi legittimati a
sollevarli ed a resistervi alla stregua della loro capacità ad
impegnare l'intero potere. Né, in tale ordine di idee, ha riferimento
agli organi che - in concreto - abbiano dichiarato definitivamente la
volontà del potere, quanto invece agli organi a ciò "competenti",
vale a dire che ne abbiano l'astratta possibilità.
Perde perciò consistenza il rilievo della difesa della
Commissione, secondo cui, a norma dell'art. 200 cod. proc. pen., le
ordinanze istruttorie dei tribunali ricorrenti, alle quali seguirono le
risposte negative della Commissione, sarebbero state (e sarebbero),
oltre che revocabili come ogni ordinanza, impugnabili unitamente alla
sentenza di merito.
4. - È anche da disattendere l'eccezione di inammissibilità sotto
il profilo oggettivo, per mancanza di materia di conflitto e carenza di
interesse, che, peraltro, nella parte in cui accenna a distinguere tra
le diverse specie di atti richiesti dai tribunali e rifiutati dalla
Commissione, finisce per involgere questioni inerenti al merito della
controversia, o comunque con questo strettamente connesse, sulle quali
occorrerà soffermarsi in prosieguo.
Ferma restando tale riserva, può e deve essere ribadito che
sussiste indubbiamente nei casi in esame materia di conflitto e
interesse a sollevarlo, assumendosi dai tribunali ricorrenti che dal
rifiuto illegittimamente opposto dalla Commissione risulterebbe
menomata la sfera di attribuzioni ad essi garantita dalla Costituzione,
per l'impedimento derivantene all'acquisizione delle prove ritenute
necessarie per l'accertamento della verità.
Né può contestarsi che ogni valutazione sulla utilità e sulla
valida utilizzabilità in giudizio dei mezzi di prova è di esclusiva
competenza dell'autorità giudiziaria procedente, sottraendosi pertanto
a qualsiasi sindacato che non sia quello esplicabile dal giudice
eventualmente adito in sede di gravame.
5. - Nel merito, la controversia concerne determinati atti e
documenti dell'inchiesta antimafia, non inseriti negli Atti
parlamentari (Documento n. XXIII-2, Septies, della V Legislatura) come
allegati alla "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno
mafioso al termine della V Legislatura", ivi pubblicata, ma
specificatamente indicati nell'elenco, anch'esso allegato alla
relazione predetta (n. 62), denominato "Indice analitico della
documentazione esistente agli atti della Commissione". Ed il problema
di fondo che si dibatte in entrambi i giudizi è, dunque, più
precisamente, se la Commissione abbia l'obbligo giuridico di
trasmettere all'autorità giudiziaria tali atti e documenti, potendo
esimersene soltanto nei casi ed alle condizioni di cui all'art. 342
cod. proc. pen. (in relazione anche all'art. 352), ovvero se, in
considerazione delle finalità di pubblico interesse cui è
costituzionalmente preordinato il potere di inchiesta e delle
prerogative di cui godono le Assemblee legislative ed i loro organi,
nell'esercizio delle loro funzioni istituzionali (delle quali soltanto
è questione nella specie e tra le quali certamente rientra la funzione
ispettiva, esprimentesi tra l'altro attraverso le inchieste), sia da
riconoscere alla Commissione predetta la facoltà di stabilire se e
quali dei suoi atti e relativa documentazione debbano essere coperti da
segreto, opponibile anche agli organi giudiziari.
La posizione "di assoluta indipendenza" del Parlamento, come di
altri organi "ai vertici dello Stato", anche nei loro rapporti
reciproci (sent. n. 143 del 1968), è stata più volte riaffermata da
questa Corte (sent. n. 15 del 1969 e sent. numero 110 del 1970:
quest'ultima, con particolare riferimento alle deroghe alla
giurisdizione, ammissibili nei loro confronti pur se "sempre di stretta
interpretazione"), che non ha mancato, in occasione del conflitto
insorto tra la Commissione parlamentare inquirente per i giudizi di
accusa e il giudice istruttore del tribunale di Roma, di sottolineare
la necessità di contemperare "l'autonomia e l'indipendenza del potere
giudiziario da ogni altro potere" con "l'indipendenza del potere
politico rispetto ad ogni indebita ingerenza", anche da parte del
potere giudiziario (sent. n. 13 del 1975).
Più analiticamente, l'indipendenza delle Camere (riflettentesi
naturalmente sui loro organi) si articola, nella normativa direttamente
dettata dal testo costituzionale, nell'autonomia organizzativa e
normativa spettante a ciascuna di esse ("riserva di regolamento": art.
64, primo comma); nella loro esclusiva competenza alla convalida dei
propri membri (art. 66); nella non responsabilità dei medesimi "per i
voti dati e le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni"
(art. 68, primo comma: immunità, sotto questo aspetto, assoluta, che,
in omaggio al principio democratico rappresentativo, l'art. 122,
ultimo comma, estende anche ai membri dei Consigli regionali), oltre
che nella immunità, che può dirsi relativa, di cui al secondo comma
del detto art. 68 (non proseguibilità dell'azione penale e divieto di
arresto e perquisizione personale o domiciliare senza autorizzazione
dell'Assemblea, fuori dei casi di flagrante delitto che comporti
obbligatorietà di mandato di cattura).
Alle quali disposizioni, contenute nella Costituzione, si
aggiungono poi, svolgendone ed applicandone i principi, quelle dei
regolamenti parlamentari, tra cui sono specialmente da ricordare, ai
fini che qui interessano, l'art. 62 del Regolamento della Camera e il
corrispondente art. 69 del Regolamento del Senato, che attribuiscono ai
rispettivi Presidenti l'esercizio dei poteri di polizia e la
disposizione della forza pubblica nell'interno delle Assemblee: poiché
da queste disposizioni, per lunga tradizione, si suole trarre la regola
della cosi detta "immunità della sede" (valevole anche per gli altri
supremi organi dello Stato) in forza della quale nessuna estranea
autorità potrebbe far eseguire coattivamente propri provvedimenti
rivolti al Parlamento ed ai suoi organi. Di guisa che, ove gli organi
parlamentari non vi ottemperassero, sarebbe unicamente possibile
provocare l'intervento di questa Corte, in sede di conflitto di
attribuzione, cosi come precisamente è avvenuto nel caso in oggetto.
6. - Ma è soprattutto da rilevare che, fermo restando che il
principio fondamentale in materia è quello della pubblicità degli
atti parlamentari (art. 64, secondo comma, Cost.), è tuttavia rimesso
alla valutazione delle Camere (e rientra nella autonomia costituzionale
ad esse, come sopra accennato, garantita) di derogarvi in singoli casi,
deliberando di riunirsi in seduta segreta (nella quale ipotesi, gli
artt. 34, punto 3, Reg. Camera e 60, punto 4, Reg. Senato consentono
che possano altresi stabilire di non farne stendere processo verbale).
A sua volta, l'art. 72 Cost., nel terzo comma, demanda ai regolamenti
parlamentari di determinare le forme di pubblicità dei lavori delle
Commissioni legislative: al che, codificando una prassi già formatasi
sotto il vigore dei precedenti regolamenti, provvede ora l'art. 65 del
Regolamento della Camera, disponendo che tale pubblicità sia
assicurata "mediante resoconti pubblicati nel Bollettino delle Giunte e
delle Commissioni parlamentari", a cura del Segretario Generale. E del
principio implicito in questa disposizione, espressamente dettata per
le Commissioni legislative, ha fatto applicazione, nel caso in oggetto,
la Commissione di inchiesta, cosi stabilendo nell'art. 1 del suo
Regolamento interno del 31 luglio 1969 e nell'art. 1 del successivo
Regolamento del 16 maggio 1973.
Sempre in tema di pubblicità, a parte per ora le disposizioni
regolamentari che prevedono il segreto delle Commissioni
"nell'interesse dello Stato" (art. 65, punto 3 , Reg. Camera, ed
analogamente, seppure con formulazione più generica, parlando di
"documenti, notizie o discussioni che interessano lo Stato", l'art 31,
punto 3, Reg. Senato), sulle quali dovrà tornarsi subito appresso,
mette conto rammentare in particolar modo quelle dettate per le
indagini conoscitive esperite dalle Commissioni, cui viene data
facoltà di decidere di non fare verbale né resoconto stenografico
delle sedute a dette indagini dedicate (art. 144, punto 4, Reg. Camera,
e art. 48, Reg. Senato): trattandosi evidentemente di un settore di
attività parlamentare molto vicino a quello delle inchieste.
7. - Dal complesso dei principi e delle disposizioni richiamate nei
precedenti nn. 5 e 6 si ricava, dunque, che le Commissioni parlamentari
d'inchiesta, le quali, sostituendo necessariamente a norma dell'art.
82, primo comma, Cost. il plenum delle Camere, a buon diritto possono
configurarsi come le stesse Camere nell'atto di procedere
all'inchiesta, sono libere di organizzare i propri lavori, anche
stabilendo - in tutto od in parte - il segreto delle attività da esse
direttamente svolte e della documentazione risultante dalle indagini
esperite: e ciò in funzione del conseguimento dei fini
istituzionalmente ad esse propri, specificamente indicati, nel caso in
oggetto, dall'art. 2 della legge 20 dicembre 1962, n. 1720, a termini
del quale "La Commissione, esaminate la genesi e le caratteristiche del
fenomeno della mafia, dovrà proporre le misure necessarie per
reprimerne le manifestazioni ed eliminarne le cause".
Non vale in contrario l'argomento che l'ordinanza del tribunale di
Milano vorrebbe trarre proprio dalle disposizioni dei regolamenti
parlamentari, ricordate alla fine del punto precedente, relative al
segreto "nell'interesse dello Stato", poiché tali disposizioni, che
letteralmente non tanto consentono, quanto impongono, la segretezza di
determinate sedute delle Commissioni, in realtà rimettono pur sempre
all'apprezzamento politico delle stesse (sicuramente non sindacabile
dall'Autorità giudiziaria) di verificare se e quando l'ipotesi
prevista concretamente ricorra; e perciò, nella sostanza, lungi
dall'intaccare i principi sopra enunciati, ne offrono indiretta
conferma. Senza dire che la circostanza che, per particolari casi, sia
prescritto un obbligo non basterebbe ad escludere, per ogni altro, una
facoltà, che appare invece, secondo il già detto, insita
nell'autonomia delle Camere e dei loro organi, e segnatamente delle
Commissioni di inchiesta da esse istituite; per le quali ultime la
segretezza, che può circondarne i lavori, è funzionalizzata al
conseguimento dei fini alle medesime assegnati.
Ora, com'è riconosciuto, può ben dirsi, unanimemente dalla
dottrina antica e recente, tali fini differiscono nettamente da quelli
che caratterizzano le istruttorie delle autorità giudiziarie. Compito
delle Commissioni parlamentari di inchiesta non è di "giudicare", ma
solo di raccogliere notizie e dati necessari per l'esercizio delle
funzioni delle Camere; esse non tendono a produrre, né le loro
relazioni conclusive producono, alcuna modificazione giuridica (com'è
invece proprio degli atti giurisdizionali), ma hanno semplicemente lo
scopo di mettere a disposizione delle Assemblee tutti gli elementi
utili affinché queste possano, con piena cognizione delle situazioni
di fatto, deliberare la propria linea di condotta, sia promuovendo
misure legislative, sia invitando il Governo a adottare, per quanto di
sua competenza, i provvedimenti del caso. L'attività di inchiesta
rientra, insomma, nella più lata nozione della funzione ispettiva
delle Camere; muove da cause politiche ed ha finalità del pari
politiche; né potrebbe rivolgersi ad accertare reati e connesse
responsabilità di ordine penale, ché se così per avventura facesse,
invaderebbe indebitamente la sfera di attribuzioni del potere
giurisdizionale. E, ove nel corso delle indagini vengano a conoscenza
di fatti che possano costituire reato, le Commissioni sono tenute a
farne rapporto all'autorità giudiziaria, cosi come, nel caso in
oggetto, la Commissione antimafia si è vincolata a fare con i propri
regolamenti interni sopra citati, del 1969 e del 1973, e, stando a
quanto affermato nella relazione, in pratica ha fatto.
Come sono diversi i fini, così differiscono o possono differire i
mezzi di cui si valgono le Commissioni parlamentari d'inchiesta,
rispetto a quelli tipici dell'autorità giudiziaria. Il secondo comma
dell'art. 82 Cost. attribuisce, bensì, alle prime a gli stessi
poteri", e prescrive a le stesse limitazioni", di quest'ultima, e ciò
per consentire loro di superare, occorrendo, anche coercitivamente, gli
ostacoli nei quali potrebbero scontrarsi nel loro operare. Ma le
Commissioni restano libere di prescegliere modi di azione diversi, più
duttili ed esenti da formalismi giuridici, facendo appello alla
spontanea collaborazione dei cittadini e di pubblici funzionari, al
contributo di studiosi, ricorrendo allo spoglio di giornali e riviste,
e via dicendo. Come esattamente fu notato da una antica dottrina, le
persone dalle Commissioni interrogate non depongono propriamente quali
"testimoni", ma forniscono informazioni; e lo stesso è a dirsi delle
relazioni varie che pubbliche autorità possono, su richiesta delle
Commissioni, ad esse presentare con riferimento a determinate
situazioni e circostanze ambientali, tra cui bene possono trovar posto
anche stati d'animo e convincimenti diffusi, registrati per quel che
sono, indipendentemente dalla loro fondatezza, da chi, per la sua
particolare esperienza o per l'ufficio ricoperto, sia meglio in grado
di averne diretta notizia.
Ma siffatti obiettivi e mezzi di azione, nella loro reciproca
connessione, postulano logicamente che le Commissioni d'inchiesta
abbiano il potere di opporre il segreto alle risultanze di volta in
volta acquisite nel corso della loro indagine, libere rimanendo di
derogarvi, quando non lo vietino altri principi, ogni qual volta non
possano derivarne conseguenze tali da impedire o intralciare gravemente
l'assolvimento del loro compito: specie per venire incontro a
richieste provenienti da autorità giudiziarie, in uno spirito di
doverosa collaborazione tra organi di poteri distinti e diversi, per
fini di giustizia. In questo senso, il segreto delle Commissioni di
inchiesta non corrisponde, a rigore, ai vari specifici tipi di segreto
previsti dalle norme dei codici di diritto e procedura penale, ma può
qualificarsi piuttosto, più genericamente, come un segreto funzionale,
del quale spetta alle Commissioni medesime determinare la necessità ed
i limiti. E non importa che, nella specie, la Commissione antimafia,
nel suo ricordato regolamento interno del 1973, abbia ritenuto di
affermare un "segreto istruttorio" e poi un "segreto di ufficio", ed a
quest'ultimo abbia fatto riferimento nelle lettere di risposta ai
tribunali ricorrenti, che stanno alle origini dei sollevati conflitti,
adoperando anche circonlocuzioni e perifrasi non sempre necessarie,
poiché quel che conta è la sostanza, e la sostanza è quella che
emerge dalle considerazioni fin qui svolte.
Comunque, che la Commissione antimafia potesse opporre un segreto
alle richieste delle autorità giudiziarie non viene contestato, se ben
si guarda, dallo stesso tribunale di Torino, che, in un primo momento,
nell'ordinanza 4 giugno 1973, dopo aver affermato in premessa che al
Parlamento "unicamente spetta, nell'esercizio della discrezionalità
politica, di stabilire e in quali limiti dare pubblicità agli atti"
dell'inchiesta, invitava l'organo parlamentare al riesame
"dell'opportunità di aderire alla richiesta" precedentemente avanzata,
con riferimento alla documentazione "non pubblicata, pur se di essa vi
è cenno nel testo delle relazioni". Mentre poi,
nell'ordinanza-ricorso del 18 aprile 1975, il tribunale medesimo
sollevava il conflitto, assumendo che con la intervenuta pubblicazione,
nel 1972, della "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno
mafioso, al termine della V Legislatura", sarebbe venuto meno il
segreto per determinazione della stessa Commissione, per avere questa
disposto di pubblicare tra gli allegati alla Relazione predetta
l'indice analitico cui si è sopra accennato al punto 5.
Ma si tratta di un equivoco, nel quale d'altronde cade anche la
difesa del tribunale di Milano, insistendo, sia pure in linea
subordinata, su analoga tesi. Altro è, infatti, pubblicare una serie
di documenti, quali appunto quelli di cui agli allegati da 1 a 61 uniti
alla relazione presentata al termine della V Legislatura, altro
pubblicare un indice di documenti tuttora detenuti dalla Commissione;
altra cosa è esteriorizzare il contenuto di certi atti, altro
limitarsi a renderne nota l'esistenza.
E poiché, come a suo luogo non si è mancato di rilevare, il
contrasto tra Commissione e tribunali ricorrenti verte esclusivamente
intorno a documenti inclusi nell'indice, rimangono ferme le conclusioni
fin qui raggiunte, nel senso che la Commissione d'inchiesta disponeva e
dispone, in funzione delle proprie finalità, del regime di pubblicità
o di segretezza dei documenti in questione.
8. - Tali conclusioni, peraltro, come dovrebbe risultare implicito
nel già detto, valgono limitatamente alla documentazione relativa ad
accertamenti svolti o direttamente disposti dalla Commissione, oltre
che alle discussioni che hanno avuto luogo nel corso delle sue sedute e
alle valutazioni ed apprezzamenti in quella sede espressi, ma non
divulgati attraverso le relazioni pubblicate, e sono logicamente
estensibili ad esposti ed anonimi ad essa rivolti.
Le considerazioni che precedono quanto ai particolari metodi di
indagine cui una Commissione d'inchiesta può ricorrere, alla natura
confidenziale o comunque riservata che possono avere le informazioni ad
essa fornite o da essa raccolte, delle quali non sempre la Commissione
è in grado di accertare con sufficiente sicurezza la piena conformità
al vero, giustificano, infatti, la eventuale segretezza dei risultati
in tali forme acquisiti, e di questi soltanto, anche per non esporre
quanti forniscono informazioni al rischio di conseguenze dannose. Ed è
ovvio che anche la sola prospettiva di consimili rischi costituirebbe
una remora non indifferente per gli interessati, minacciando di
compromettere il conseguimento, non soltanto delle finalità della
singola inchiesta, ma altresì, in prospettiva, di ogni possibile
inchiesta futura, vanificando in definitiva il potere che l'art. 82
Cost. conferisce alle Camere.
9. - Entro l'ambito testé precisato, il limite che dal segreto
funzionale delle Commissioni d'inchiesta (cui esse soltanto hanno
facoltà di derogare) può derivare all'esercizio della funzione
giurisdizionale al diritto di difesa delle parti, essenzialmente
connaturato al suo vario esplicarsi, non può essere giudicato
illegittimo.
A criteri analoghi si è ispirata la sentenza n. 13 del 1975, sopra
citata, in tema di rapporti tra giurisdizione penale e potere politico;
mentre, per quel che più particolarmente concerne il diritto di difesa
garantito nell'art. 24 Cost., la Corte nella sua giurisprudenza,
costantemente affermandone il carattere di diritto fondamentale, ha
più volte avuto occasione di rilevare come non sia da escludere che
esso abbia ad incontrare determinati limiti, necessari a contemperarne
la tutela con quella pure spettante ad altri interessi
costituzionalmente rilevanti; purché in ogni caso detti limiti "non
siano di entità tale da comprometterne seriamente l'esercizio" (sent.
n. 175 del 1970), o peggio da ridurlo ad un nome vano.
Il che non si verifica quando una Commissione d'inchiesta si
attenga al criterio, nella specie adottato, come risulta dal resoconto
della seduta del 16 novembre 1972, di indicare alle autorità che ad
essa richiedono documenti coperti dal suo segreto "le fonti delle
notizie raccolte... in modo che le predette autorità siano poste in
grado di svolgere in materia propri autonomi accertamenti".
Può aggiungersi, con specifico riguardo alla presente
controversia, che non soltanto l'ampiezza delle relazioni già
pubblicate e l'abbondanza della documentazione allegata, ma la stessa
formulazione dell'indice, che costituisce, come accennato, un vero e
proprio sommario, sono suscettibili di offrire ai tribunali ricorrenti
una traccia tutt'altro che esigua per procedere essi stessi, ove lo
ritengano, agli incombenti istruttori del caso, nei modi e nelle forme
previste dal codice di rito.
10. - D'altro canto, non tutti i documenti nella specie richiesti
dai tribunali ricorrenti e rifiutati dalla Commissione si riferiscono
ad atti da questa formati o direttamente disposti ai propri fini e
secondo i propri metodi di lavoro. Sono, infatti, tra essi ricompresi
anche atti precostituiti da altre autorità o da enti pubblici,
nell'esplicazione dei loro compiti istituzionali; come pure documenti
privati e scritti anonimi.
Di questi ultimi, consistenti in un esposto rivolto alla
Commissione da Michele Pantaleone nonché in lettere anonime aventi
riguardo al medesimo, del pari indirizzate alla Commissione (doc. di
cui al n. 846 dell'indice allegato alla relazione pubblicata nel 1972,
nn. 2 e 3), si è già detto sopra, al punto 8 della motivazione, che
debbono essere assimilati a quelli formati o disposti dalla
Commissione, perché nessuna differenza sostanziale sussiste tra
deposizioni o confidenze da questa raccolte ed esposti o lettere, anche
se anonime, ad essa direttamente pervenuti. Non vi è, pertanto,
obbligo di trasmetterli ai giudici richiedenti.
Tra gli altri atti che la Commissione semplicemente detiene, una
considerazione a parte meritano quelli indicati ai nn. 787 e 788
dell'indice più volte citato, e precisamente i verbali di trascrizione
delle intercettazioni telefoniche, nonché le trascrizioni dei relativi
nastri magnetici, riferentisi all'apparecchio di Italo Jalongo,
trasmessi dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Roma e
dalla Questura di Roma.
Questi documenti, inerendo ad un procedimento penale in corso di
istruttoria, erano e sono già a disposizione del potere giudiziario,
complessivamente considerato, entro l'ambito del quale non mancano gli
strumenti suscettibili di consentirne ai giudici che vi abbiano
interesse l'acquisizione, né gli strumenti per dirimere eventuali
contrasti tra l'una e l'altra autorità giudiziaria (art. 51 cod. proc.
pen.). E non può ritenersi illegittimamente menomata la sfera di
attribuzioni del potere giudiziario, per il fatto che la Commissione
parlamentare, organo di un diverso potere, abbia rifiutato di
consegnarli al tribunale di Milano, invitandolo per l'appunto a
procurarseli presso l'altra autorità giudiziaria investita del
processo cui originariamente pertengono.
Per tutto il resto, e sempre nell'ambito della specie di atti e
documenti di cui ora si discorre, in ordine ai quali la Commissione non
può invocare il proprio segreto funzionale (e non lo ha, in effetti,
invocato), si tratta di accertare se e per quali tra essi i soggetti da
cui originariamente provengono fossero' alla stregua di specifiche
norme di legge (della cui legittimità costituzionale non sorge
questione nei presenti conflitti) tenuti ad un segreto opponibile anche
all'autorità giudiziaria penale.
Ma l'ipotesi non ricorre nella specie. Ed infatti:
1) il prospetto dei voti preferenziali delle elezioni regionali
1963 nella Provincia di Palermo, trasmesso da quella Prefettura (doc.
di cui al n. 69 dell'indice, richiesto dal tribunale di Torino) non
può considerarsi comunque segreto e la Commissione pertanto ha
l'obbligo di trasmetterlo al tribunale predetto;
2) considerazioni analoghe e identiche conclusioni valgono per gli
atti della Commissione d'inchiesta del Consiglio della Regione Lazio
sul caso Rimi ed i relativi resoconti stenografici (doc. di cui ai nn.
736 e 784 dell'indice, richiesti dal tribunale di Milano);
3) appartengono alla categoria di atti coperti da segreto d'ufficio
o professionale, non opponibile peraltro all'autorità giudiziaria in
sede penale:
- le copie delle deliberazioni della Cassa di Risparmio "Vittorio
Emanuele" di Palermo, relative ai rapporti tra la Cassa medesima ed il
Vassallo, e gli estratti conti delle varie operazioni (doc. di cui al
n. 8, nn. 1 e 2, richiesti dal tribunale di Torino);
- la "documentazione varia" della Questura di Palermo, relativa
alla proposta di assegnazione a soggiorno obbligato di Francesco
Vassallo (doc. di cui al n. 627, richiesto dal tribunale di Torino);
- il fascicolo personale intestato al medesimo presso il Comando
della Guardia di finanza di Palermo, riferentesi alle infrazioni
valutarie accertate nei suoi confronti e comprendente altresì note
informative, documentazione e corrispondenza varia (doc. di cui al n.
12, richiesto dal tribunale di Torino);
- l'altro fascicolo personale, intestato ad Italo Jalongo e
trasmesso dalla Questura di Roma (doc. di cui al n. 790, richiesto dal
tribunale di Milano).
In ordine ai quali tutti va pertanto affermato l'obbligo della
Commissione parlamentare di trasmetterli ai tribunali richiedenti,
restando pur sempre esclusi, in conformità dei principi sopra
affermati ai punti 7 e 8 della motivazione, eventuali atti inseriti nei
documenti ora elencati, ma formati dietro specifica richiesta della
Commissione medesima e ad essa rivolti.