Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 20 maggio 2024, iscritta al n. 139 del registro ordinanze 2024, il Tribunale per i minorenni di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 29-bis, comma 1, e 30, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, rispettivamente, non consentono alla persona non coniugata residente in Italia di presentare domanda per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale e al giudice di emettere il decreto di idoneità all’adozione internazionale nei confronti della persona non coniugata, di cui siano state positivamente riscontrate le attitudini genitoriali nel corso dell’istruttoria.
2.– Il rimettente riferisce che, in data 17 marzo 2022, la signora R. B., non coniugata, ha riassunto il procedimento introdotto con ricorso del 5 febbraio 2019, con il quale la medesima aveva presentato al Tribunale per i minorenni di Firenze dichiarazione di disponibilità a adottare un minore straniero e aveva chiesto l’emissione del decreto di idoneità a adottare.
Nel corso di tale giudizio, con ordinanza del 26 novembre 2020, il Tribunale per i minorenni di Firenze aveva sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’art. 29-bis della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui non prevede che la persona non coniugata residente in Italia possa presentare domanda per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale.
Il giudice a quo riporta che questa Corte, con la sentenza n. 252 del 2021, ha dichiarato inammissibile la questione.
Lo stesso Tribunale per i minorenni di Firenze, a seguito della riassunzione del giudizio, ha deciso di sottoporre a questa Corte nuove questioni di legittimità costituzionale sempre relative all’art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983, nonché al successivo art. 30, comma 1.
3.– In via preliminare, il rimettente precisa che, avendo questa Corte pronunciato una sentenza di inammissibilità, non si sarebbe formato un giudicato costituzionale e ricorrerebbero le condizioni che consentono allo stesso giudice, nel medesimo procedimento, di sollevare nuove questioni di legittimità costituzionale.
4.– Il giudice a quo ritiene, inoltre, sussistente la rilevanza, in quanto le norme censurate «costituiscono effettivo impedimento alla valutazione di idoneità adottiva delle persone non coniugate che dichiarano la propria disponibilità all’adozione di minori stranieri, come nel caso dell’odierna ricorrente». Precisa, a riguardo, che, «a seguito di apposita indagine psico-socio-familiare, sia sotto il profilo della consapevolezza del progetto adottivo che delle caratteristiche personologiche/psicologiche», la ricorrente risulta essere idonea a adottare.
5.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ravvisa un contrasto degli artt. 29-bis, comma 1, e 30, comma 1, della legge n. 184 del 1983 con l’art. 117 Cost., primo comma, in relazione all’art. 8 CEDU, da leggersi in maniera integrata e coordinata con l’art. 2 Cost.
Secondo il giudice a quo, le disposizioni censurate, nel negare alla persona non coniugata residente in Italia la possibilità di presentare la dichiarazione di disponibilità a adottare un minore straniero e nell’impedire al giudice di dichiarare la persona non coniugata idonea all’adozione, non realizzerebbero il fine della tutela dell’interesse del minore e violerebbero il diritto al rispetto della vita privata.
5.1.– Il Tribunale per i minorenni di Firenze afferma di dover «fondare la [propria] analisi sul “vero centro di gravità” dell’istituto dell’adozione, ossia sul minore e in particolar modo sulla valutazione dei suoi migliori interessi».
Richiamando quanto argomentato dalla sentenza di questa Corte n. 11 del 1981, il rimettente rileva come il «bisogno di famiglia avvertito con forza dal minore [richieda] per la sua crescita normale affetti individualizzati e continui, ambienti non precari, situazioni non conflittuali» e sostiene che la ricerca della migliore soluzione per il minore dovrebbe essere affidata all’accertamento in concreto effettuato dal giudice.
D’altro canto, il giudice a quo riferisce che questa Corte, con la sentenza n. 183 del 1994, avrebbe superato l’idea che l’adozione debba plasmarsi su una prospettiva di «imitatio naturae», sicché la preferenza per la bigenitorialità non risponderebbe a un «vincolo giuridico a tutela diretta del minore», ma sarebbe – secondo l’ordinanza – «il retaggio di una supposta logica naturalistica secondo una visione dogmatica della nozione di famiglia».
Nella prospettiva del rimettente, l’esigenza di individuare un contesto familiare che dia sufficienti garanzie di stabilità – «un foyer stable et harmonieux», secondo l’art. 8, paragrafo 2, della Convenzione europea sull’adozione dei minori, firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967, ratificata e resa esecutiva con legge 22 maggio 1974, n. 357 – non dovrebbe «necessariamente […] rinvenirsi nella struttura familiare composta da una coppia unita nel vincolo del matrimonio». Proprio la citata Convenzione renderebbe, infatti, possibile l’adozione da parte della persona singola.
Il rimettente osserva, inoltre, come i modelli familiari presentino oramai «caratteristiche di pluralismo sociale, culturale, identitario», il che sarebbe «un dato acquisito della vita sociale e comunitaria».
In particolare – riferisce sempre il giudice a quo – «[g]razie all’elasticità del modello costituzionale, che riconosce attraverso l’art. 2 Cost. le formazioni sociali all’interno delle quali si esplica la personalità dell’individuo, si [sarebbe] realizzata in tempi rapidi una profonda trasformazione della disciplina in materia di famiglia e lo stesso concetto di famiglia si [sarebbe] andato non soltanto allargando, ma approfondendo attraverso il riconoscimento di sostegni relazionali aperti». Cita, a riguardo, le sentenze n. 79 del 2022 e n. 183 del 2023 di questa Corte, che avrebbero dato atto – si legge nell’ordinanza – «del significato pregnante della rete famigliare che si costruisce nel tempo intorno a un minore».
La rispondenza al principio del foyer stable et harmonieux dipenderebbe, dunque, a giudizio del rimettente, dalla «valutazione in concreto dell’idoneità del contesto famigliare, anche quando monoparentale (e considerata anche la rete famigliare aperta di riferimento)».
5.2.– Di seguito, sul presupposto che l’esclusione della persona non coniugata dall’accesso all’adozione internazionale non sia idonea a realizzare il miglior interesse del minore, il giudice a quo lamenta la lesione del diritto alla vita privata, di cui all’art. 8 CEDU, la cui interpretazione ritiene che si debba integrare e completare con l’art. 2 Cost.
Il rimettente prospetta, dunque, un’ampia ricostruzione della giurisprudenza della Corte EDU concernente l’art. 8 CEDU.
Preliminarmente, esclude che la questione riguardi il diritto alla vita familiare che, in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, presupporrebbe «l’esistenza di una famiglia […] o quanto meno la potenziale relazione tra, ad esempio, un figlio nato fuori dal matrimonio e il padre naturale […] o il rapporto che deriva da un vero e proprio matrimonio, anche se la vita familiare non è ancora stata pienamente stabilita […] o il rapporto che deriva da un’adozione legale e genuina», sottolineando come «l’articolo 8 non garantisc[a], ex se, né il diritto di fondare una famiglia né il diritto di adottare (cfr. Fretté c. France, cit., § 32)».
Viceversa, ritiene implicato il diritto alla vita privata che costituirebbe, sulla scorta della giurisprudenza convenzionale, «un concetto ampio, che comprende, tra l’altro, il diritto all’autonomia personale e allo sviluppo personale (cfr. Pretty v. UK, § 61, e A, B e C c. Irlanda [GC], n. 25579/05, § 212»), nonché «il diritto di stabilire e sviluppare relazioni con altri esseri umani (cfr. Niemietz c. Germania, sentenza del 16 dicembre 1992, [...], § 29) [e] il diritto allo ‘sviluppo personale’ (cfr. Bensaid c. Regno Unito, n. 44599/98, § 47 […])». All’interno della nozione di vita privata – precisa sempre l’ordinanza – deve essere «senz’altro ricompreso il diritto di stabilire e sviluppare relazioni con altri esseri umani, come parte del diritto allo sviluppo personale e del principio di dignità umana, intesa sotto la prospettiva del diritto di autodeterminazione».
La ratio primaria della tutela di tale diritto, ai sensi dell’art. 8 CEDU, sarebbe quella di proteggere l’individuo da ingerenze, da parte delle autorità pubbliche, che non rispondano ai criteri indicati dal secondo paragrafo della medesima disposizione. Questo, in particolare, esclude le ingerenze che non siano conformi alla legge e che non siano necessarie in una società democratica, avendo riguardo a uno o più degli scopi legittimi ivi elencati.
In ordine alla necessità in una società democratica, il rimettente ricorda che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, tale nozione «implica che l’ingerenza corrisponda a un’esigenza sociale pressante e, in particolare, che sia proporzionata a uno degli scopi legittimi perseguiti dalle autorità».
Il Tribunale per i minorenni di Firenze ritiene, dunque, che la normativa ostativa all’accesso all’adozione internazionale per la persona non coniugata non risponda a uno scopo legittimo, né a un’esigenza sociale pressante, posto che anche il nucleo familiare «monoparentale (e considerata anche la rete famigliare aperta di riferimento) può servire lo scopo della rispondenza al principio del foyer stable et harmonieux».
Da ciò il giudice a quo inferisce che l’esclusione dall’accesso all’adozione internazionale per la persona non coniugata sia un mezzo inidoneo allo scopo di garantire al minore un ambiente stabile e accogliente, con conseguente violazione del principio di proporzionalità, di cui all’art. 8, paragrafo 2, CEDU.
6.– Con atto depositato il 26 luglio 2024, si è costituita in giudizio la ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni sollevate, in adesione alle argomentazioni svolte dall’ordinanza di rimessione, cui aggiunge ulteriori rilievi.
In ordine alla portata dell’art. 8, paragrafo 1, CEDU, la parte osserva che la vicenda in esame vedrebbe il coinvolgimento non solo del diritto al rispetto della vita privata, ma anche di quello «alla vita familiare (parimenti tutelato nell’art. 8, par. 1, CEDU)». Ritiene, infatti, che, per la giurisprudenza della Corte EDU, non si possa affatto escludere che «una vita familiare in progetto non rientri per niente nell’ambito dell’articolo 8». Richiama, in proposito, alcune sentenze della Corte EDU (sentenze 3 gennaio 2009, Todorova contro Italia, paragrafo 53; 22 giugno 2004, Pini e altri contro Romania, paragrafo 143; decisione 29 giugno 1999, Nylund contro Finlandia; sentenza 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales e Balkandali contro Regno Unito, paragrafo 62), dalle quali emergerebbe la possibilità di ricondurre all’art. 8 CEDU anche situazioni nelle quali il rapporto familiare non era ancora esistente, ma poteva svilupparsi se solo non fosse esistita la misura nazionale ostativa.
Sussisterebbe, dunque, anche sotto tale profilo una violazione dell’obbligo di non ingerenza sancito dall’art. 8 CEDU.
A riguardo, la difesa della parte richiama la sentenza 15 novembre 2016 della Corte EDU nel caso Dubská e Krejzová contro Repubblica Ceca, dalla quale desume che l’ingerenza rispetto ai diritti di cui all’art. 8 CEDU sarebbe necessaria in una società democratica solo se rispondente a una pressante esigenza sociale e proporzionata allo scopo legittimo perseguito, costituendo un mezzo necessario ad attuarlo. Precisa, inoltre, che tale valutazione spetterebbe in prima battuta alle autorità nazionali, ferma restando la valutazione finale da parte della Corte EDU. Da ultimo, aggiunge che, benché la Corte EDU riconosca agli Stati contraenti un margine di apprezzamento, tale paradigma si assottiglierebbe, ove siano implicati profili particolarmente rilevanti per l’esistenza e per l’identità di un individuo o per i suoi diritti fondamentali, e, viceversa, si amplierebbe «in assenza di un comune consenso tra gli Stati del Consiglio d’Europa». Nel caso in esame, ricorrerebbe la prima condizione positiva e difetterebbe la seconda condizione negativa, posto che «[n]el 2024 – anno in cui si ripropone la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 29 bis e dell’art. 30 l. n. 184 del 1983 – il consenso europeo sulla possibilità per le persone non coniugate di accedere all’adozione [sarebbe] unanime con la sola eccezione dell’Italia».
La parte rileva, dunque, che la preclusione dell’adozione internazionale alle persone singole non sarebbe necessaria in una società democratica, essendo ormai venuta meno, a livello normativo e giurisprudenziale, l’idea che solo la bigenitorialità possa garantire la crescita armoniosa del minore.
La disciplina italiana sull’adozione internazionale non supererebbe, inoltre, il test di proporzionalità, essendo caratterizzata da un eccesso di rigidità. Il singolo, infatti, sarebbe totalmente escluso dall’adozione piena, mentre la possibilità che l’adozione avvenga in favore di un solo genitore risulterebbe confinata a ipotesi del tutto eccezionali, che, oltretutto, dimostrerebbero la non totale preclusione dell’ordinamento rispetto all’idea di una genitorialità adottiva monoparentale.
La parte aggiunge che l’espatrio di minori di nazionalità italiana a scopo di adozione sarebbe, invece, consentito anche in favore di adottanti singoli residenti in Stati che ammettono tale forma di adozione. Secondo la parte, il «tenore letterale» dell’art. 40, secondo comma, della legge n. 184 del 1983 – in combinato disposto con l’art. 15 della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio 1993, ratificata e resa esecutiva con legge 31 dicembre 1998, n. 476 – «[sarebbe] chiaro: il generico riferimento agli stranieri implica l’irrilevanza del requisito del coniugio (come confermato dal richiamo ai cittadini stranieri residenti stabilmente in Paesi che hanno ratificato la Convenzione che abbiano adottato un minore stabilmente residente in Italia contenuto nell’art. 41 l. n. 184 del 1983), con la conseguenza che anche gli stranieri non coniugati stabilmente residenti all’estero [potrebbero] avvalersi delle procedure stabilite nella Convenzione dell’Aja, con specifico riferimento ai compiti e all’intervento delle Autorità centrali». Questo ulteriore indice normativo rafforzerebbe il contrasto con la ragionevolezza e con la proporzionalità del divieto assoluto che, viceversa, colpisce la persona singola, residente in Italia, cui è radicalmente inibita la possibilità di essere considerata idonea all’adozione internazionale di un minore.
7.– Con atto depositato il 30 luglio 2024, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate.
7.1.– In rito, la difesa dello Stato eccepisce l’erroneità o incompleta identificazione della norma censurata. Osserva, infatti, che l’ordinanza di rimessione censura gli artt. 29-bis, comma 1, e 30, comma 1, della legge n. 184 del 1983, mentre i requisiti soggettivi di accesso all’adozione sono stabiliti nel precedente art. 6 della medesima legge.
L’omesso riferimento diretto all’art. 6 integrerebbe, pertanto, un vizio di inammissibilità.
Aggiunge, di seguito, che, anche a voler superare simile ostacolo, in ragione dell’esplicito rinvio che l’art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983 opera all’art. 6, l’inammissibilità scaturirebbe comunque dalla circostanza che l’eventuale accoglimento delle questioni determinerebbe una inaccettabile discrasia sistematica: le persone singole potrebbero, infatti, accedere all’adozione internazionale, ma non a quella interna.
7.2.– Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che «[d]all’analisi della giurisprudenza della Corte EDU degli ultimi anni risulta che il diritto al rispetto della vita familiare presuppone l’esistenza, in fatto, di una famiglia e di legami affettivi già concretamente esistenti».
Ne desume che «la Convenzione EDU non garantisce un generico diritto a adottare e non può imporre agli Stati, attraverso l’art. 8, l’obbligo positivo di garantire agli individui l’accesso all’adozione di minore, sia nel caso in cui i richiedenti l’adozione siano coppie, coniugate o meno, sia nel caso in cui siano individui singoli».
L’assenza di copertura sotto l’art. 8 CEDU avrebbe come conseguenza «che neppure [possa] trovare ingresso nel presente giudizio l’esame delle censure concernenti l’asserita assenza di proporzionalità della misura e la sua supposta non “necessarietà in una società democratica”, dal momento che detti profili presuppongono la possibilità, qui esclusa, di ricondurre la tematica delle adozioni al perimetro applicativo dell’art. 8 CEDU».
Inoltre, secondo la difesa statale, il margine di apprezzamento degli Stati continuerebbe a sussistere in materia e «la sede istituzionale competente ad apprezzare la denunciata “distonia” tra il mutato contesto sociale e il tessuto normativo attualmente vigente» sarebbe quella delle scelte politiche, spettanti alle «forze abilitate ad esprimere – grazie al meccanismo rappresentativo e democratico – le reali istanze della collettività».
In ogni caso, a detta dell’Avvocatura generale dello Stato, la manifesta infondatezza sarebbe attestata avendo riguardo al miglior interesse del minore. Nel caso dell’adozione internazionale, il minore viene sradicato dal contesto familiare e sociale d’origine e, dunque, risulterebbe particolarmente vulnerabile, sicché il «suo best interest consiste[rebbe] nell’accoglienza in una famiglia, così come riconosciuta dall’articolo 29 della Costituzione, in cui l’adottando possa essere accolto e curato nel migliore dei modi nella relatività del sistema».
8.– Nella memoria integrativa depositata il 7 gennaio 2025, la parte ha anzitutto osservato che l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato riproduce quella già sollevata nel giudizio introdotto con l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 1 del 2021 e disattesa da questa Corte nella sentenza n. 252 del 2021.
Inoltre, rispetto all’eccezione secondo cui un eventuale accoglimento delle questioni «finirebbe per creare una “indebita e inopportuna divaricazione della disciplina dell’adozione internazionale rispetto alle disposizioni operanti per l’adozione nazionale», la difesa rileva come l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) attribuisca a questa Corte «il potere di provvedere, se la ritiene intollerabile, ad eliminare la prospettata “divaricazione”».
Nel merito, contesta la tesi secondo cui la vicenda in esame non avrebbe una copertura nell’art. 8 CEDU e ribadisce l’anomalia della legge italiana, che impedirebbe l’adozione di minori stranieri da parte di persone singole residenti in Italia, mentre consentirebbe l’espatrio dei minori italiani che possono essere adottati da persone singole residenti in altri Stati.
9.– Con memoria integrativa dell’8 gennaio 2025, il Presidente del Consiglio dei ministri rileva che l’impostazione dell’ordinanza di rimessione determinerebbe «una sostanziale inversione della gerarchia dei valori costituzionali, in forza della quale in buona sostanza le forme giuridiche di tutela del minore sembrano doversi modellare in funzione delle (pur lodevoli) istanze di genitorialità espresse dalle persone singole», aggiungendo che, in ogni caso, «l’idoneità dei singoli» a adottare sarebbe «riconosciuta in varie fattispecie normative nelle quali [sarebbe] funzionale alla maggior tutela del minore».
10.– All’udienza pubblica del 29 gennaio 2025, sono state udite la difesa della parte e l’Avvocatura generale dello Stato, che hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza iscritta al n. 139 del registro ordinanze 2024, il Tribunale per i minorenni di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 29-bis, comma 1, e 30, comma 1, della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui, rispettivamente, non consentono alla persona non coniugata residente in Italia di presentare domanda per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale e al giudice di emettere il decreto di idoneità all’adozione internazionale nei confronti della persona non coniugata, di cui siano state positivamente riscontrate le attitudini genitoriali nel corso dell’istruttoria.
Il rimettente riferisce che il giudizio a quo deriva dalla riassunzione di un pregresso procedimento nel corso del quale era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU. La questione era stata da questa Corte dichiarata inammissibile con la sentenza n. 252 del 2021.
2.– Il Tribunale per i minorenni di Firenze, dopo aver precisato che ricorrono le condizioni perché il medesimo giudice possa, nello stesso procedimento, sollevare nuove questioni di legittimità costituzionale e dopo aver motivato la loro rilevanza, argomenta la non manifesta infondatezza.
2.1.– Secondo il giudice a quo, le disposizioni censurate non sarebbero idonee a realizzare il fine della tutela dell’interesse del minore e violerebbero il diritto alla vita privata della persona non coniugata.
Ad avviso del rimettente, l’esigenza di individuare, nel miglior interesse del minore, un contesto familiare armonioso e stabile non dovrebbe «necessariamente […] rinvenirsi nella struttura familiare composta da una coppia unita nel vincolo del matrimonio».
Sostiene, infatti, che simile istanza possa essere altresì garantita da una valutazione effettuata in concreto circa l’idoneità del contesto familiare, anche se monoparentale, a tutelare il minore, avendo, al contempo, riguardo alla rete familiare di riferimento. Questo troverebbe corrispondenza nell’inquadramento del nucleo familiare monoparentale nel tessuto costituzionale di cui all’art. 2 Cost., che tutela le formazioni sociali all’interno delle quali si esplica la personalità dell’individuo.
2.2.– Sul presupposto che l’esclusione della persona non coniugata dall’accesso all’adozione internazionale non sia finalizzata al miglior interesse del minore, il giudice a quo assume la lesione del diritto al rispetto della vita privata, di cui all’art. 8 CEDU, la cui interpretazione ritiene che debba essere integrata e completata dall’art. 2 Cost.
Secondo il rimettente, la nozione di vita privata dovrebbe ricomprendere, in virtù di quanto si desume dalla giurisprudenza convenzionale, «il diritto di stabilire e sviluppare relazioni con altri esseri umani, come parte del diritto allo sviluppo personale e del principio di dignità umana, intesa sotto la prospettiva del diritto di autodeterminazione».
Simile diritto potrebbe tollerare interferenze solo se conformi alla legge e necessarie in una società democratica, il che implicherebbe che esse corrispondano a un’esigenza sociale pressante e, in particolare, che siano proporzionate a uno degli scopi legittimi perseguiti dalle autorità.
A detta del giudice a quo, l’esclusione della persona singola dall’accesso all’adozione internazionale sarebbe un mezzo inidoneo allo scopo di garantire al minore un ambiente stabile e armonioso, posto che anche il nucleo familiare monoparentale può assicurare un foyer stable et harmonieux.
3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha sollevato due eccezioni di inammissibilità.
In primo luogo, ha eccepito l’erronea o incompleta identificazione della norma censurata, avendo l’ordinanza omesso di riferirsi all’art. 6 della legge n. 184 del 1983, vale a dire la disposizione che contempla i requisiti di accesso all’adozione.
In secondo luogo, ha rilevato che, anche a voler superare tale ostacolo, le questioni risulterebbero, comunque, inammissibili, poiché il loro eventuale accoglimento determinerebbe l’inaccettabile discrasia sistematica di consentire l’accesso delle persone singole all’adozione internazionale, ma non a quella interna.
3.1.– La prima eccezione che riproduce quella in precedenza formulata, nel giudizio riguardante l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 1 del 2021, e che questa Corte, con la sentenza n. 252 del 2021, ha in quell’occasione già disatteso non è ora, per le medesime ragioni di allora, fondata.
L’art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983 opera un espresso rinvio all’art. 6 della medesima legge, il che svuota di significato l’eccezione.
Né la censura può reputarsi incompleta, sul presupposto che l’art. 6 della legge n. 184 del 1983 regoli l’accesso non solo all’adozione internazionale, ma anche a quella interna. Il rimettente, infatti, può (anzi, deve) censurare la sola norma che è chiamato ad applicare nell’ambito del giudizio principale, tanto più che l’adozione internazionale presenta tratti autonomi rispetto a quella interna con la quale condivide solo alcuni profili della disciplina.
3.2.– Parimenti non fondata è la seconda eccezione.
Il lamentato rischio che un’eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni determini discrasie sistematiche, nei termini di una irragionevole disparità di trattamento fra adozione internazionale e adozione interna, non configura un vizio di inammissibilità.
L’eccezione attiene piuttosto al merito e alla possibile valutazione, conseguente all’eventuale accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale delle norme concernenti l’adozione internazionale, circa la sussistenza dei presupposti per una dichiarazione di illegittimità consequenziale ex art. 27 della legge n. 87 del 1953, che investa direttamente l’art. 6 della legge n. 184 del 1983 e, dunque, anche l’adozione interna.
3.3.– Infine, non risulta ostativa all’ammissibilità la circostanza che il Tribunale per i minorenni di Firenze abbia già sollevato, nel medesimo procedimento e nello stesso grado di giudizio, questione di legittimità costituzionale dell’art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, dichiarata inammissibile da questa Corte con la sentenza n. 252 del 2021, stante la inadeguata motivazione circa la non manifesta infondatezza.
Nel solco di una giurisprudenza costante, deve, infatti, ritenersi che «il giudice a quo [sia] abilitato a sollevare una seconda volta la medesima questione nello stesso giudizio quando questa Corte abbia emesso una pronuncia a carattere non decisorio, fondata su motivi rimovibili dal rimettente, dato che, in tal caso, la riproposizione non collide con la […] previsione dell’art. 137, ultimo comma, Cost. Ciò, alla ovvia condizione che il giudice a quo abbia rimosso il vizio che aveva impedito l’esame di merito della questione (ex plurimis, sentenze n. 115 del 2019, n. 252 del 2012 e n. 189 del 2001; ordinanze n. 371 del 2004 e n. 399 del 2002)» (sentenza n. 247 del 2022; anche, più di recente, sentenza n. 7 del 2024).
Nel caso odierno, il giudice a quo, a parte aver indirizzato la propria censura su una disposizione ulteriore, l’art. 30, comma 1, della stessa legge n. 184 del 1983, ha evocato tra i parametri anche l’art. 2 Cost., così integrando il riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., e ha arricchito la motivazione incentrata sull’art. 8 CEDU attraverso richiami più puntuali alla giurisprudenza della Corte EDU, con un approfondimento delle ragioni di contrasto delle norme nazionali con la fonte convenzionale.
Le nuove questioni sono, dunque, ammissibili.
4.– In via preliminare, si rende necessario specificare l’oggetto del presente giudizio.
4.1.– Le disposizioni censurate sono gli artt. 29-bis, comma 1, e 30, comma 1, della legge n. 184 del 1983, che disciplinano l’avvio della procedura di adozione internazionale.
L’art. 29-bis, comma 1, prevede che «[l]e persone residenti in Italia, che si trovano nelle condizioni prescritte dall’articolo 6 e che intendono adottare un minore straniero residente all’estero, presentano dichiarazione di disponibilità al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza e chiedono che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione». In particolare, il citato art. 6 stabilisce, al comma 1, che «[l]’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto». I successivi commi dell’art. 6 procedono poi a specificare il presupposto concernente il rapporto stabile e a indicare ulteriori requisiti relativi, in particolare, all’età degli adottanti, nonché all’idoneità affettiva e alla capacità di educare, istruire e mantenere i minori. Sempre l’art. 6 consente, infine, agli adottanti di effettuare più adozioni, anche con atti successivi, e regola le misure che possono essere disposte a sostegno di chi adotti minori di età superiore a dodici anni o con handicap accertato ai sensi dell’art. 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).
La seconda disposizione censurata, ovvero l’art. 30, comma 1, della legge n. 184 del 1983, prevede che «[i]l tribunale per i minorenni, ricevuta la relazione di cui all’articolo 29-bis, comma 5, sente gli aspiranti all’adozione, anche a mezzo di un giudice delegato, dispone se necessario gli opportuni approfondimenti e pronuncia, entro i due mesi successivi, decreto motivato attestante la sussistenza ovvero l’insussistenza dei requisiti per adottare».
Ebbene, posto che le censure del rimettente mirano a rimuovere l’esclusione della persona singola dall’accesso al giudizio di idoneità a adottare finalizzato a conseguire il relativo decreto di idoneità che dà impulso alla procedura di adozione internazionale, deve ritenersi che il giudizio di legittimità costituzionale possa focalizzarsi sul solo art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983.
Ove, infatti, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di tale ultima disposizione, la persona singola venga inclusa fra coloro che hanno i requisiti per presentare la dichiarazione di disponibilità a adottare e per chiedere l’idoneità all’adozione, il tribunale non potrebbe, sulla base dell’art. 30, comma 1, della stessa legge, emettere un decreto di insussistenza dei requisiti, motivato con lo stato libero del richiedente.
4.2.– Di seguito, occorre, ulteriormente, precisare che le censure sollevate dal rimettente fanno riferimento talora alla persona non coniugata, talaltra alla persona singola.
Le questioni, pertanto, attengono alla condizione della persona che ha lo stato libero, in quanto non è vincolata da un matrimonio (art. 86, primo comma, prima parte, del codice civile).
Non rientra, invece, nel perimetro del presente giudizio la condizione della persona che non ha lo stato libero, in quanto è parte di un’unione civile (art. 86, primo comma, seconda parte, cod. civ.). Tale questione non è oggetto dell’odierno giudizio e, dunque, resta impregiudicata.
5.– Specificato l’oggetto del presente giudizio, nel merito, le censure sollevate in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, sono fondate.
6.– Le questioni rivolte all’art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983 coinvolgono due tipi di interessi: quello delle persone singole che aspirano a poter adottare e rispetto alle quali è prospettata la lesione degli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, e quello del minore che, come rileva anche l’ordinanza, rappresenta il fulcro dell’istituto dell’adozione.
Si rende, pertanto, necessario ricostruire, anzitutto, in una prospettiva diacronica, il rapporto fra la tutela dell’interesse del minore e i criteri normativi con cui il legislatore ha selezionato e seleziona nel presente gli aspiranti adottanti. Occorre, infatti, verificare se ed entro quali limiti il legislatore abbia riconosciuto in passato e tuttora riconosca l’idoneità della persona singola ad assicurare in astratto (salvo l’accertamento in concreto) un ambiente stabile e armonioso al minore.
6.1.– L’innesto di una finalità protettiva dei minori sull’adozione non si rinviene nelle più risalenti radici storiche dell’istituto (sentenza n. 5 del 2024), ma emerge all’indomani della prima guerra mondiale, allorché il regio decreto-legge 31 luglio 1919, n. 1357 (Che stabilisce norme per l’adozione degli orfani di guerra e dei nati fuori di matrimonio nel periodo della guerra), convertito, con modificazioni, nella legge 6 dicembre 1925, n. 2137, ha consentito l’adozione di minori di età inferiore ai diciotto anni, se rientranti nelle categorie indicate dal medesimo regio decreto-legge. Prima di quel momento, la disciplina dell’adozione, riflessa nel codice civile del 1865, era rimasta fedele, sul piano funzionale, alla matrice romanistica, restando nel solco di un istituto finalizzato unicamente a consentire, su una base prettamente consensuale, la trasmissione del cognome e del patrimonio a coloro che non avessero avuto figli o li avessero perduti. Essa era rivolta ai maggiori d’età e – in un contesto in cui questa si conseguiva al compimento del ventunesimo anno – ai minorenni solo se avessero compiuto diciotto anni (art. 206 cod. civ. 1865).
Dunque, l’adozione che nel 1919 veniva consentita anche a favore dei minorenni indicati dal regio decreto-legge era innestata sulla disciplina del codice civile del 1865, che riconosceva la qualità di adottanti sia ai coniugi (art. 204 cod. civ. 1865), sia alle persone singole, anche se coniugate, purché vi fosse il consenso dell’altro coniuge (artt. 202 e 208, secondo comma, cod. civ. 1865).
Di seguito, il codice civile del 1942 ha esteso a qualunque minore la possibilità di essere adottato (art. 291 cod. civ., nel suo testo originario, e artt. 301 e 303 cod. civ., poi abrogati dall’art. 67 della legge n. 184 del 1983), confermando l’accesso in qualità di adottanti non solo ai coniugi (art. 294, secondo comma, cod. civ.), ma anche alle persone singole, comprese quelle coniugate, con l’assenso dell’altro coniuge (art. 297 cod. civ.). Tale apertura si collocava nel quadro di una disciplina che preservava i legami dell’adottato con la famiglia d’origine e non faceva sorgere vincoli familiari con i parenti dell’adottante (art. 300 cod. civ.), ma che, comunque, assegnava a quest’ultimo la “patria potestà” (oggi, responsabilità genitoriale) sul minore, con i relativi obblighi di mantenere, educare e istruire l’adottato (art. 301 cod. civ.).
Mentre, dunque, l’adozione ordinaria di matrice codicistica aveva acquisito un volto plurifunzionale, abbracciando anche l’adozione dei minori, con la legge 5 giugno 1967, n. 431 (Modifiche al titolo VIII del libro I del Codice civile “Dell’adozione” ed inserimento del nuovo capo III con il titolo “Dell’adozione speciale”), emergeva una nuova figura di adozione speciale, specificatamente finalizzata alla tutela dei minori di otto anni dichiarati in stato di adottabilità, perché privi di assistenza materiale e morale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi (artt. 314/3 e 314/4 cod. civ., abrogati dall’art. 67 della legge n. 184 del 1983). Tale disciplina riservava la qualità di adottanti ai coniugi, sposati da almeno cinque anni (art. 314/2 cod. civ., abrogato dall’art. 67 della legge n. 184 del 1983) e prevedeva la rottura del vincolo giuridico con la famiglia d’origine e l’acquisizione dello stato di “figlio legittimo” da parte dell’adottato, a favore del quale si instauravano rapporti di parentela con i congiunti degli adottanti, esclusi i collaterali (art. 314/26 cod. civ., abrogato dall’art. 67 della legge n. 184 del 1983).
Nel periodo successivo all’entrata in vigore della citata legge n. 431 del 1967, l’adozione dei minori era, in sostanza, possibile sia attraverso il percorso dell’adozione ordinaria, accessibile anche alle persone singole, sia attraverso l’itinerario dell’adozione speciale, riservato alla coppia di coniugi, conviventi da almeno cinque anni, sicché il primo modello finiva, di fatto, per assorbire le ipotesi escluse dall’adozione speciale.
6.2.– Il quadro normativo muta profondamente con la legge n. 184 del 1983, che abroga l’adozione speciale, sostituendola con una disciplina generale di adozione piena destinata a tutti i minori d’età in stato di abbandono e riservando l’adozione codicistica alle persone maggiori di età (come emerge dalla nuova intitolazione del Capo II del Titolo VIII del Libro I del codice civile).
La riforma crea uno spartiacque fra l’adozione dei minori, cui è dedicata la legge di settore, e la disciplina codicistica, che diviene fonte di regolamentazione dell’adozione della persona maggiore d’età. Nondimeno, l’opera di reductio ad unum dell’adozione dei minori non viene portata a integrale compimento, poiché è preservato un ambito di adozioni in casi particolari (art. 44 della legge n. 184 del 1983), i cui effetti si plasmano in buona parte tramite rinvio all’adozione codicistica del maggiorenne (art. 55 della medesima legge). Questa Corte, con la sentenza n. 79 del 2022, ha peraltro dichiarato il citato art. 55 costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, cod. civ., prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante.
Principio ispiratore della nuova legge è l’interesse del minore che viene perseguito attraverso un duplice percorso: affermando il suo diritto a essere cresciuto e educato nell’ambito della famiglia d’origine e assicurandogli, ove ciò non sia possibile, un ambiente familiare stabile e armonioso («un foyer stable et harmonieux»), in linea con il principio affermato all’art. 8, paragrafo 2, dalla Convenzione di Strasburgo del 1967.
Sul primario interesse del minore si vengono poi a focalizzare anche i successivi interventi che modificano e integrano la disciplina del 1983: l’art. 3 della legge 31 dicembre 1998, n. 476 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio 1993. Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in tema di adozione di minori stranieri), che sostituisce il Capo I del Titolo III della legge n. 184 del 1983, incorporando i contenuti della Convenzione de L’Aja; la legge 28 marzo 2001, n. 149 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile), che innova vari aspetti della disciplina, regola compiutamente l’affidamento familiare (con il nuovo Titolo I-bis) e riproduce plasticamente la centralità del minore nella nuova intitolazione della legge, riferita al «Diritto del minore ad una famiglia»; il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), il cui art. 100 adegua la legge n. 184 del 1983 alla terminologia introdotta con la riforma della filiazione; la legge 19 ottobre 2015, n. 173 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare), che rafforza l’affidamento familiare; la legge 11 gennaio 2018, n. 4 (Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici), che, ai fini che qui interessano, regola l’ipotesi dell’affidamento familiare del minore orfano di uno dei genitori, la cui morte sia stata cagionata volontariamente dall’altro genitore (art. 4, comma 5-quinquies, della legge n. 184 del 1983).
Nel quadro di tale disciplina focalizzata sull’interesse del minore, l’art. 6, comma 1, della legge n. 184 del 1983 dispone che «[l]’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto».
Il legislatore, da un lato, sembra rispondere all’esigenza di assicurare al minore lo stato di figlio che, all’epoca, offriva le più ampie garanzie di tutela: quello che si qualificava come stato di “figlio legittimo” e che presupponeva il vincolo matrimoniale fra i genitori.
Da un altro lato, pur avendo ratificato la Convenzione di Strasburgo del 1967 ed essendosi ispirato ai suoi principi, non si è avvalso della facoltà concessa da tale Convenzione di consentire l’adozione anche alle persone singole, ma ha voluto garantire la bigenitorialità, associata alla stabilità della coppia, anche a costo di limitare la platea dei potenziali adottanti e, dunque, di ridurre le possibilità per i minori di essere adottati.
Inoltre, anche dopo la ratifica della Convenzione de L’Aja sull’adozione internazionale, che pure ricomprende fra i potenziali adottanti le persone singole (art. 2), il legislatore – nel traslare la sua disciplina all’interno della legge n. 184 del 1983 – ha continuato a escludere dall’accesso all’adozione tali soggetti. L’art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983 opera, infatti, – come già sopra evidenziato (supra, punto 4.1. del Considerato in diritto) – un testuale rinvio all’art. 6 della medesima legge.
6.3.– Alla luce della richiamata evoluzione, che ha visto gradualmente abbandonare, rispetto all’adozione del minore, la figura dell’adottante persona singola, occorre a questo punto verificare se, nell’attuale normazione, persistano, nondimeno, indici che attestano, da parte del legislatore, il riconoscimento dell’astratta idoneità della persona singola a garantire un ambiente stabile e armonioso al minore.
Ebbene, la stessa legge n. 184 del 1983 ha, invero, accreditato – sia pure in limitate ipotesi – l’attitudine della persona singola a garantire in astratto un ambiente stabile e armonioso al minore.
In particolare, presuppongono tale idoneità i commi 4 e 5 dell’art. 25 della legge n. 184 del 1983, riferiti a situazioni che, per l’adottante e per i potenziali riverberi sull’adottato, sono tutt’altro che prive di criticità sul piano esistenziale.
Il comma 4 consente l’adozione piena se «uno dei coniugi muore o diviene incapace durante l’affidamento preadottivo». In tal caso, l’adozione – sebbene disposta «nei confronti di entrambi [i coniugi], con effetto, per il coniuge deceduto, dalla data della morte» – nella sostanza, implica l’inserimento del minore in un nucleo monoparentale.
Il comma 5 prevede, inoltre, che l’adozione piena possa essere direttamente disposta nei confronti di uno solo dei due aspiranti genitori, che ne faccia richiesta, se «nel corso dell’affidamento preadottivo interviene separazione tra i coniugi affidatari».
Rivolgendo, poi, lo sguardo all’adozione in casi particolari, regolata dall’art. 44 della legge n. 184 del 1983, emerge come il legislatore riconosca l’astratta idoneità della persona singola a garantire un ambiente stabile e armonioso persino rispetto a minori che, di norma, richiedono un impegno particolarmente elevato.
L’art. 44, comma 3, della legge n. 184 del 1983 consente, infatti, l’adozione in casi particolari anche alla persona non coniugata nelle ipotesi indicate alle lettere a), c) e d) del comma 1. Nello specifico, le ultime due previsioni fanno riferimento a minori affetti da disabilità (art. 3, comma 1, della legge n. 104 del 1992), che siano anche orfani di padre e di madre, e a minori per i quali sia risultato impossibile l’affidamento preadottivo.
I gruppi di ipotesi sopra richiamati (l’art. 25, commi 4 e 5, e l’art. 44, comma 3, della legge n. 184 del 1983) rispondono, evidentemente, a precise rationes, ma queste, a ben vedere, non si rinvengono solo entro quei ristretti limiti.
Quanto all’esigenza di dare preminente rilievo alla continuità del rapporto affettivo con il minore, essa non sussiste solo nei casi di cui all’art. 25, commi 4 e 5, della legge n. 184 del 1983. Simile istanza può rinvenirsi anche quando, durante un prolungato periodo di affidamento familiare, il minore sia dichiarato adottabile. Ove gli affidatari ne chiedano l’adozione, il giudice, nel decidere su di essa, deve tenere conto dei legami affettivi significativi che si sono consolidati con gli affidatari e del rapporto stabile e duraturo fra questi e il minore (art. 4, comma 5-bis, della legge n. 184 del 1983). Eppure, solo se gli affidatari rispondono ai requisiti di cui all’art. 6 della legge n. 184 del 1983 possono chiedere l’adozione e far valere la menzionata esigenza, mentre ciò non è consentito alla persona singola che pure può essere affidataria del minore, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della medesima legge.
Parimenti, se nel secondo gruppo di casi, sopra richiamati, la ratio sottostante è quella di allontanare il pericolo che l’esclusione delle persone singole dal ruolo di possibili adottanti si tramuti in una barriera capace di ostacolare lo stesso diritto del minore a essere accolto in un ambiente stabile e armonioso, a ben vedere, tale esigenza è ravvisabile anche al di fuori delle limitate ipotesi prospettate dal legislatore.
La possibilità di incidere sull’effettività della tutela dei bambini abbandonati è, infatti, in generale, un rischio riconducibile anche alla restrizione della platea dei potenziali adottanti.
E che si tratti di un’eventualità non puramente teorica emerge, del resto, dalla progressiva riduzione delle domande di adozione che si è avuta a partire dall’inizio del nuovo millennio (sia il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, sezione statistica, sia la Presidenza del Consiglio dei ministri, Commissione per le adozioni internazionali, Autorità centrale per la Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993, documentano il passaggio, nel caso dell’adozione internazionale, da quasi settemila domande nel 2007 a una stima di circa cinquecento domande per il 2024).
7.– Evidenziato, dunque, come lo stesso legislatore, pur a fronte di una scelta di fondo che non include nel perimetro dei potenziali adottanti di minori le persone singole, abbia riconosciuto la loro idoneità ad assicurare un ambiente stabile e armonioso, si deve, a questo punto, verificare se la loro esclusione dall’accesso all’adozione internazionale vìoli il diritto al rispetto della vita privata, come previsto dall’art. 8 CEDU, in coordinamento con l’art. 2 Cost., anche in considerazione del principio di solidarietà ivi sancito.
7.1.– Va, a riguardo, precisato che la mancanza di un intervento della Corte di Strasburgo, che censuri l’esclusione delle persone singole dalla possibilità di essere dichiarate idonee all’adozione internazionale, non impedisce a questa Corte di valutare la violazione dell’art. 8 CEDU nel coordinamento con l’art. 2 Cost.
Lo si desume, anzitutto, dall’art. 117, primo comma, Cost., che – come la giurisprudenza costituzionale ha già avuto modo di rilevare (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007) – comporta l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare le norme della CEDU, ferma restando la «verifica di compatibilità con le norme della Costituzione» (sentenza n. 349 del 2007).
D’altro canto, la peculiarità della CEDU, rappresentata dalla istituzione di «un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali» (ancora, sentenza n. 349 del 2007) affidato alla Corte di Strasburgo, implica il rispetto delle interpretazioni offerte dalla Corte EDU, ma non vincola ad attendere un preciso pronunciamento rispetto a una specifica vicenda, per poter accertare la violazione delle norme convenzionali (sentenza n. 10 del 2024). Questo tanto più va ribadito a fronte di diritti convenzionali, come quello dell’art. 8 CEDU, la cui tutela – in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – presuppone, in capo agli Stati contraenti, obblighi non solo negativi, ma anche positivi (ex aliis, Corte EDU, sentenze 27 maggio 2021, Jessica Marchi contro Italia; 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia, paragrafo 159; 20 gennaio 2015, Gözüm contro Turchia, paragrafo 44; 4 ottobre 2012, Harroudj contro Francia; 16 dicembre 2010, A, B e C contro Irlanda; 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales e Balkandali contro Regno Unito).
Dunque, nell’osservanza delle coordinate ermeneutiche offerte dalla Corte EDU e nel raccordo con i principi costituzionali interni, spetta a questa Corte intervenire per garantire tutela ai diritti previsti dalla Convenzione.
Ciò in conformità, peraltro, al principio generale di sussidiarietà, di cui al preambolo della Convenzione come modificato a seguito dell’entrata in vigore del Protocollo XV, in virtù del quale spetta agli Stati contraenti il compito di garantire, all’interno dei rispettivi ordinamenti, i diritti e le libertà convenzionali, interpretandone la portata normativa in armonia con i propri principi costituzionali. Questa Corte, nel procedere a una interpretazione integrata delle garanzie convenzionali e delle corrispondenti tutele costituzionali, contribuisce, al contempo, alla definizione di standard comuni di protezione a livello europeo.
Infine, occorre precisare che l’intervento di questa Corte, in virtù del coordinamento fra l’art. 2 Cost. e l’art. 8 CEDU, è, in ogni caso, coerente con l’art. 53 CEDU, secondo cui «[n]essuna delle disposizioni della […] Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte contraente o in base a ogni altro accordo al quale essa partecipi». I Paesi contraenti possono, infatti, viceversa, rafforzare la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti nel loro ordinamento, in coordinamento con le disposizioni della Convenzione (Corte EDU, sentenze 17 gennaio 2017, A.H. e altri contro Russia; 22 gennaio 2008, E.B. contro Francia).
8.– Ciò chiarito, occorre inquadrare, nel raccordo fra l’art. 2 Cost. e l’art. 8 CEDU, l’interesse coinvolto e i presupposti che ne determinano la lesione.
8.1.– In termini generali, le scelte orientate alla costituzione di vincoli genitoriali sono ascrivibili all’ampio contenuto della libertà di autodeterminazione.
È quanto afferma questa Corte, là dove rileva che la scelta di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della generale libertà di autodeterminarsi, libertà riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concernente la sfera privata e familiare (sentenza n. 162 del 2014, ma già nella sentenza n. 332 del 2000, con riguardo alla procreazione naturale).
Analoghe considerazioni sono svolte in successive pronunce che collegano la scelta di diventare o di non diventare genitore con l’art. 2 Cost. (sentenza n. 161 del 2023), nonché con il concetto di “vita privata”, di cui all’art. 8 CEDU (sentenza n. 221 del 2019).
In senso corrispondente, la giurisprudenza della Corte EDU osserva che «la nozione di “vita privata” ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione è una nozione ampia, che non si presta a una definizione esaustiva. Essa comprende l’integrità fisica e psicologica di una persona (X e Y c. Paesi Bassi, 26 marzo 1985, § 22, […]) e, entro certi limiti, il diritto, per l’individuo, di instaurare e sviluppare rapporti con altri esseri umani (Niemietz c. Germania, 16 dicembre 1992, § 29, […]). Può a volte comprendere aspetti dell’identità fisica e sociale di una persona (Mikulić c. Croazia, n. 53176/99, § 53, […]). La nozione di vita privata include anche il diritto alla realizzazione personale o il diritto all’autodeterminazione (Pretty c. Regno Unito, n. 2346/02, § 61 […]), e il diritto al rispetto delle decisioni di diventare o meno genitore (Evans c. Regno Unito [GC], n. 6339/05, § 71, […], e A, B e C c. Irlanda [GC], n. 25579/05, § 212, […])» (Corte EDU, sentenza 27 maggio 2021, Jessica Marchi contro Italia, paragrafo 60; nello stesso senso, sentenze 17 aprile 2018, Lazoriva contro Ucraina, paragrafo 66; 16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania, paragrafo 66; 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, paragrafi 159, 161-165).
8.2.– Se, dunque, la scelta di divenire genitori rientra nell’ampia nozione di autodeterminazione, quest’ultima, tuttavia, può sottendere diversi interessi.
In particolare, ove la genitorialità sia accessibile o per natura o perché il soggetto già rientra nelle previsioni nazionali che consentono la procreazione medicalmente assistita o l’adozione, la libertà di autodeterminarsi nella scelta orientata alla genitorialità sottende una pretesa a non subire indebite compressioni di tale libertà da parte del legislatore. Questa Corte ha, in tal senso, dichiarato costituzionalmente illegittima una disciplina che includeva, tra i requisiti necessari per essere reclutati nel Corpo della Guardia di finanza, l’essere senza prole (sentenza n. 332 del 2000).
Fuori da tali ipotesi, viene, invece, in considerazione un interesse ad ampliare gli spazi dell’autodeterminazione orientata alla genitorialità attraverso il superamento dei limiti fissati dal legislatore, cui primariamente spetta il compito di dettare le condizioni di accesso a forme di genitorialità diverse dalla procreazione naturale.
In questo secondo caso, non si può, evidentemente, parlare di una pretesa o di un “diritto alla genitorialità”, che sono stati espressamente negati sia da questa Corte (sentenze n. 33 del 2021, n. 230 del 2020 e n. 221 del 2019) sia dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU, sentenze 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, paragrafo 141; 22 gennaio 2008, E.B. contro Francia, paragrafo 41; 28 giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo, paragrafo 121; 26 febbraio 2002, Fretté contro Francia, paragrafo 29).
I presupposti costitutivi di un vincolo genitoriale non solo, infatti, coinvolgono una pluralità di interessi, ma devono essere anche orientati alla realizzazione dell’interesse del potenziale figlio, cui è inscindibilmente correlato il vincolo genitoriale (sentenze n. 230 del 2020 e n. 221 del 2019). Dunque, l’autodeterminazione orientata alla genitorialità in tanto può far valere la propria vis espansiva, in quanto si opponga a scelte legislative che, avendo riguardo al complesso degli interessi implicati, risultino irragionevoli e non proporzionate rispetto all’obiettivo perseguito (sentenza n. 221 del 2019).
D’altro canto, la primaria considerazione dell’interesse del minore (o del concepito o del futuro nato) non comporta che la protezione costituzionale di tale interesse ricomprenda qualunque istanza il legislatore ritenga di riconoscergli.
Le singole esigenze riferite al potenziale figlio vanno, infatti, anch’esse ponderate, tenendo conto di eventuali altre istanze di quest’ultimo, nonché dell’interesse di chi aspira alla genitorialità.
In tale prospettiva, questa Corte ha reputato non decisivo l’interesse a che il figlio abbia lo stesso patrimonio genetico dei genitori e ha ritenuto, con riferimento a una coppia di aspiranti genitori, irragionevole e non proporzionato il divieto assoluto di fecondazione eterologa. In simile contesto, questa Corte ha, in particolare, sottolineato il rilievo, insieme al vaglio di ragionevolezza, del «test di proporzionalità […] che “richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi” (sentenza n. 1 del 2014)» (sentenza n. 162 del 2014).
Ebbene, non diverge dalla richiamata prospettiva quanto si evince dalla CEDU e dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Quest’ultima, da un lato, opera valutazioni diverse a seconda che lo specifico accesso alla genitorialità sia stato o meno già disciplinato dal singolo ordinamento (nel primo caso, opera, infatti, un attento vaglio su eventuali irragionevoli disparità di trattamento o su soluzioni ineffettive; Corte EDU, sentenze 17 gennaio 2023, Fedotova e altri contro Russia, paragrafi 152-153; 17 gennaio 2017, A.H. e altri contro Russia, paragrafo 381; 20 gennaio 2015, Gözüm contro Turchia, paragrafi 51-54; 22 gennaio 2008, E.B. contro Francia, paragrafi 44-49).
Da un altro lato, al fine di verificare se vi sia un’indebita compressione della vita privata, la CEDU e la Corte di Strasburgo introducono un metro di giudizio che trova ampia corrispondenza con quanto sopra richiamato.
L’art. 8, paragrafo 2, CEDU stabilisce, infatti, che «[n]on può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
In particolare, se l’ingerenza sia necessaria in una società democratica dipende dal suo corrispondere a un’esigenza sociale urgente, vale a dire dal suo essere proporzionata allo scopo legittimo perseguito, tenuto conto del giusto equilibrio che deve essere garantito tra gli interessi concorrenti rilevanti, anche in considerazione del margine di discrezionalità lasciato alle autorità nazionali («the notion of necessity implies that the interference corresponds to a pressing social need and, in particular, that it is proportionate to the legitimate aim pursued, regard being had to the fair balance which has to be struck between the relevant competing interests. In determining whether an interference was “necessary in a democratic society” the Court will take into account that a margin of appreciation is left to the national authorities»; così Corte EDU, sentenza 18 maggio 2021, Valdis Fjölnisdóttir e altri contro Islanda, paragrafo 68).
Simile valutazione deve essere effettuata alla luce delle condizioni del presente, essendo la Convenzione EDU uno strumento vivente («the Convention is a living instrument which must be interpreted in the light of present-day conditions and of the ideas prevailing in democratic States today»; così Corte EDU, sentenze 17 gennaio 2023, Fedotova e altri contro Russia, paragrafo 167; nello stesso senso, sentenze 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria, paragrafo 139; 22 gennaio 2008, E.B. contro Francia; 28 giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo; 26 febbraio 2002, Fretté contro Francia), sicché il margine di discrezionalità può variare nel tempo, oltre a risentire del grado di consenso fra gli Stati contraenti in ordine al riconoscimento di un diritto o di una facoltà (Corte EDU, sentenza 15 novembre 2016, Dubská e Krejzová contro Repubblica Ceca).
9.– Sulla base dei principi sopra richiamati, l’esclusione della persona singola dall’accesso all’adozione internazionale lede gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU.
9.1.– La disciplina censurata si riverbera sul diritto alla vita privata, inteso come libertà di autodeterminazione, che si declina, nel contesto in esame, quale interesse a poter realizzare la propria aspirazione alla genitorialità, rendendosi disponibile all’adozione di un minore straniero.
Questo specifico interesse si coniuga, dunque, anche con una finalità di solidarietà sociale, in quanto rivolge le aspirazioni alla genitorialità a bambini o a ragazzi che già esistono e necessitano di protezione.
Se scopo dell’adozione internazionale è quello di accogliere in Italia minori stranieri abbandonati, residenti all’estero, assicurando loro un ambiente stabile e armonioso, l’insuperabile divieto per le persone singole di accedere a tale adozione non risponde a una esigenza sociale pressante e configura – nell’attuale contesto giuridico-sociale – una interferenza non necessaria in una società democratica.
9.2.– Anzitutto, il divieto – nell’assetto giuridico presente – non è più funzionale all’esigenza di assicurare al minore le più ampie tutele giuridiche associate allo status filiationis. A seguito della riforma della filiazione introdotta nel 2012-2013 (legge 10 dicembre 2012, n. 219, recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali», e decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, recante «Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219»), si configura, infatti, un unico status filiationis (art. 315 cod. civ.), il che non rende più necessario correlare tale status alla coppia di genitori uniti in matrimonio per poter assicurare all’adottato la più ampia protezione giuridica (sentenza n. 79 del 2022).
9.3.– Inoltre, l’aprioristica esclusione delle persone singole dalla genitorialità adottiva non è un mezzo idoneo a garantire al minore un ambiente stabile e armonioso.
Come già sopra evidenziato (punto 6.3. del Considerato in diritto), lo stesso legislatore ha riconosciuto che la persona singola è, in astratto, idonea ad assicurare un ambiente stabile e armonioso al minore, finanche in contesti non privi di criticità o rispetto a minori che richiedono un particolare impegno.
Ma, soprattutto, questa stessa Corte, sin dall’ormai risalente sentenza n. 183 del 1994, ha riconosciuto l’astratta idoneità della persona singola a offrire un ambiente stabile e armonioso.
Chiamata a pronunciarsi in merito ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati, in riferimento agli artt. 3, 29 e 30 Cost., con riguardo all’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 1967 – che il rimettente aveva erroneamente reputato auto-applicativo –, questa Corte ha rilevato che i richiamati principi costituzionali «non vincolano l’adozione dei minori al criterio dell’imitatio naturae in guisa da non consentire l’adozione da parte di un singolo se non nei casi eccezionali in cui è oggi prevista dalla legge n. 184 del 1983». Quei principi costituzionali non impediscono – come sottolinea sempre la sentenza n. 183 del 1994 – di ravvisare nell’adozione da parte di persone singole una possibile «soluzione in concreto più conveniente all’interesse del minore», il che presuppone una loro idoneità in astratto a garantire al minore un ambiente stabile e armonioso.
Questo tanto più va ribadito, ove si consideri che anche il modello della famiglia monoparentale trova riconoscimento nella Costituzione.
Inoltre, nel contesto della disciplina dell’adozione, il miglior interesse del minore è direttamente preservato dalla verifica giudiziale concernente la concreta idoneità dell’adottante.
La giurisprudenza costituzionale ha da tempo valorizzato il rilievo che tale giudizio riveste al fine di perseguire la «soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore» (sentenza n. 11 del 1981). E sempre questa Corte non ha mancato di porre in evidenza l’importanza del sostegno che può essere offerto anche dalla rete familiare di riferimento (sentenze n. 183 del 2023 e n. 79 del 2022), della quale può tenere conto il giudice, in sede di vaglio sull’idoneità in concreto del richiedente a adottare (artt. 29-bis, comma 4, lettera c, e 30, comma 1, della legge n. 184 del 1983, ma, anche a seguito dell’ingresso del minore in Italia, artt. 34, comma 2, e 35, comma 4, della stessa legge).
9.4.– Se, dunque, deve ritenersi che la persona singola è idonea a garantire al minore un ambiente stabile e armonioso, d’altro canto, l’esigenza, sottesa alla scelta del legislatore, di assicurare all’adottato «la presenza, sotto il profilo affettivo ed educativo, di entrambe le figure dei genitori» (sentenza n. 198 del 1986) non viene perseguita con un mezzo idoneo e proporzionato.
Come si è già in passato rilevato (sentenza n. 183 del 1994), si tratta di una istanza che può giustificare «una indicazione di preferenza per l’adozione da parte di una coppia di coniugi», ma che non supporta la scelta di convertire tale modello di famiglia in una aprioristica esclusione delle persone singole dalla platea degli adottanti.
In particolare, nel caso dell’adozione internazionale, allo Stato di accoglienza spetta solo il compito di regolare l’idoneità o meno a adottare, dopodiché l’abbinamento con il minore di chi ha ottenuto il decreto di idoneità è di competenza dello Stato d’origine del minore stesso.
Pertanto, là dove la disciplina censurata crea nei confronti delle persone singole una barriera all’accesso all’adozione internazionale, essa determina un sacrificio dell’autodeterminazione orientata alla genitorialità, che – specie nell’attuale contesto giuridico-sociale (supra, punto 6.3. del Considerato in diritto) – rischia di riverberarsi negativamente sulla stessa effettività del diritto del minore a essere accolto in un ambiente familiare stabile e armonioso.
Come questa Corte ha già avuto modo di rilevare, i limiti frapposti all’autodeterminazione orientata alla genitorialità «non possono consistere in un divieto assoluto […] a meno che lo stesso non sia l’unico mezzo per tutelare altri interessi di rango costituzionale» (sentenza n. 162 del 2014).
Alla luce, dunque, del complesso degli interessi implicati e dello stesso scopo dell’istituto dell’adozione internazionale, la scelta operata dal legislatore con l’art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983 risulta non necessaria in una società democratica, in quanto non conforme al principio di proporzionalità, e determina la lesione della vita privata e dell’autodeterminazione orientata a una genitorialità ispirata al principio di solidarietà.
10.– Per le ragioni esposte, sono fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, dell’art. 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui, facendo rinvio all’art. 6, non include le persone singole residenti in Italia fra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità a adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione.
Rimane, dunque, ferma l’applicabilità alla persona singola delle restanti previsioni di cui all’art. 6 della legge n. 184 del 1983. In particolare, l’adottante persona singola deve rispondere agli altri requisiti, non incompatibili con il suo stato libero, che attengono all’età e al suo «essere affettivamente idone[o] e capac[e] di educare, istruire e mantenere i minori che intend[a] adottare» (comma 2 del citato art. 6).
Al minore adottato dalla persona singola sarà riconosciuto l’unico stato di figlio, di cui all’art. 315 cod. civ., al quale implicitamente rimanda l’art. 27 della legge n. 184 del 1983, a sua volta richiamato dall’art. 35, comma 1, della medesima legge.