Le decisioni del 2021

L’emergenza pandemica è al centro di 22 decisioni del 2021, ma le 263 pronunce dell’anno attraversano molteplici ambiti: lavoro, ambiente, sanità, finanza locale, imposte e tasse, famiglia, minori, reati ed esecuzione penale. Numerose le pronunce di cui viene data tempestiva informazione anche con comunicati stampa. Qui la sintesi di alcune di esse..

La Corte 2021 presieduta da Giancarlo Coraggio
La Corte 2021 presieduta da Giancarlo Coraggio
Ambiente

Le Regioni non possono pianificare lo sviluppo del proprio territorio con scelte di carattere urbanistico – dice la Corte con la sentenza n. 164 – che non siano rispettose dei vincoli posti dallo Stato per tutelare beni di valore paesaggistico. Inoltre, lo Stato può adottare la dichiarazione di interesse paesaggistico di un bene anche quando la Regione sia contraria. La Corte spiega che la tutela di questi beni risponde a una “logica incrementale” che consente alle Regioni di allargarne l’ambito ma non di ridurlo, neppure con i piani paesaggistici di competenza regionale, da redigere d’intesa con lo Stato. Ed è sempre a tutela dell’ambiente e dell’ecosistema che, con la sentenza n. 201, la Corte dichiara incostituzionale una norma della legge regionale veneta 23/2020 che aveva consentito ai proprietari o ai gestori di opere di sbarramento idrico di regolarizzarle se non denunciate o realizzate in difformità dai progetti approvati. Ciò in quanto la regolarizzazione sotto il profilo paesaggistico rientra, appunto, nella tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, e come tale è riservata alla competenza dello Stato, che l’ha consentita soltanto in ipotesi tassative previste dal Codice dei beni culturali.

Con la sentenza n. 189 la Corte interviene sulla gestione dei rifiuti – materia che rientra nella tutela dell’ambiente – affermando che, nell’attuale assetto costituzionale delle competenze, le Regioni (nella fattispecie, il Lazio) non possono delegare ai Comuni le funzioni amministrative ad esse attribuite dallo Stato in base a una scelta allocativa compiuta con il Codice dell’ambiente. Infine, la sentenza 46 riconosce la ragionevolezza della legge di Bilancio 2018 là dove prescrive la revisione delle vecchie convenzioni – liberamente pattuite prima del 3 ottobre 2010 tra gli operatori del settore dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, quali l’eolico, e gli enti locali – per adeguarle alle linee guida ministeriali del 10 settembre 2010, e al contempo prevede il mantenimento della piena efficacia di questi accordi fino all’entrata in vigore della legge stessa (1° gennaio 2019).


Covid

Nel 2021 la Corte pronuncia 22 decisioni (14 sentenze e 8 ordinanze) sulle norme per gestire l’emergenza pandemica da Covid-19.
Con l’ordinanza n. 4 del 14 gennaio, viene esercitato, per la prima volta nella storia della giustizia costituzionale, il potere di sospendere provvisoriamente, in via cautelare, gli effetti di una legge, nella fattispecie della Valle d’Aosta, impugnata dal Governo. La Corte ritiene (sia pure a un primo esame) che la Valle d’Aosta abbia invaso la competenza esclusiva dello Stato in materia di profilassi internazionale (articolo 117, secondo comma, della Costituzione) introducendo nel proprio territorio misure di contenimento del contagio meno rigorose di quelle statali e che l’applicazione della legge regionale possa comportare “il rischio di un irreparabile pregiudizio dell’interesse pubblico” a una gestione unitaria dell’epidemia a livello nazionale nonché “il rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per la salute delle persone”. L’ordinanza è seguita dalla sentenza n. 37 con cui la Corte, decidendo la stessa questione nel merito, accoglie definitivamente il ricorso del Governo e afferma che il legislatore regionale, anche se dotato di autonomia speciale, non può invadere con una propria disciplina la materia relativa alla gestione della pandemia, diffusa a livello globale e perciò affidata interamente alla competenza esclusiva dello Stato a titolo di profilassi internazionale.

A giugno, con la sentenza n. 128, la Corte si pronuncia poi sulla sospensione delle procedure esecutive relative all’abitazione principale del debitore. Sin dall’inizio della pandemia, lo Stato ha imposto ai creditori di non procedere esecutivamente sulle prime abitazioni dei debitori ma la seconda proroga di questa sospensione (dal 1° gennaio al 30 giugno 2021) viene dichiarata incostituzionale. La Corte – pur confermando che il diritto all’abitazione ha natura di “diritto sociale” – ritiene che la progressiva ripresa delle attività ordinarie non possa più giustificare il sacrificio richiesto ai creditori.
Sulle stesse basi, nel mese di novembre, la sentenza n. 213 conferma la legittimità del blocco degli sfratti per morosità, stabilito dallo Stato durante l’emergenza pandemica ma al tempo stesso esclude che il Governo possa disporre ulteriori proroghe oltre il 31 dicembre 2021 poiché “la compressione del diritto di proprietà ha raggiunto il limite massimo di tollerabilità, pur considerando la sua funzione sociale”. Qualora vi fosse un rigurgito dell’emergenza pandemica, il Legislatore potrà adottare misure diverse dalla sospensione dell’esecuzione degli sfratti, idonee a bilanciare in modo adeguato gli interessi in gioco.

Il Collegio riunito in Camera di consiglio
Il Collegio riunito in Camera di consiglio

La pandemia incide anche sul processo penale e ne condiziona l’andamento. Nel periodo in cui i Tribunali italiani non possono celebrare le udienze, il Governo dispone anche la sospensione della prescrizione. Ma – se sul finire del 2020 la Corte aveva giudicato conforme al principio di legalità (sentenza n. 278) la sospensione dei termini dal 9 marzo all’11 maggio 2020 proprio perché legata al generale blocco dei processi imposto da una specifica disposizione di legge – nel 2021, con la sentenza n. 140 viene esclusa, sulla base del medesimo principio, la costituzionalità della sospensione della prescrizione legata ai rinvii delle udienze disposti, di volta in volta, dai capi degli uffici giudiziari nell’ambito di misure organizzative per contrastare l’emergenza Covid-19.
Solo a ottobre del 2021, infine, la Corte ha modo di esprimersi sulla legittimità costituzionale dei Decreti legge n. 6 e n. 19 del 2020 che attribuiscono al Presidente del Consiglio dei ministri la possibilità di gestire la pandemia con lo strumento del Dpcm: di fronte alle censure di un giudice di pace, secondo cui quei decreti avrebbero conferito al Presidente del Consiglio la funzione legislativa o poteri straordinari in contrasto con gli articoli 76, 77 e 78 della Costituzione, la Corte replica, con la sentenza 198, che il Dl 19 si è limitato ad attribuire solo il compito di dare esecuzione alla norma primaria, mediante atti amministrativi sufficientemente tipizzati. Di qui l’infondatezza delle relative censure. Quanto al Dl 6, poiché non è applicabile al caso concreto, le questioni vengono dichiarate inammissibili e la Corte, quindi, non entra nel merito.
A fine anno è una legge della regione Lombardia ad essere dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 245, perché ha prorogato i termini dei titoli abilitativi edilizi e paesaggistici in modo difforme da quanto previsto dallo Stato.
Infine, con le ordinanze 255 e 256, la Corte dichiara inammissibili due conflitti di attribuzioni tra poteri sul Green pass per accedere in Parlamento, sollevati, rispettivamente, da otto deputati e da un senatore. La Corte esclude che dai ricorsi emerga una manifesta lesione delle attribuzioni proprie dei parlamentari e ribadisce che spetta all’autonomia delle due Camere l’interpretazione e l’applicazione dei rispettivi regolamenti. Inammissibile anche un altro conflitto (ordinanza 254) riguardante il Green pass nelle Scuole e nelle Università.


Elettorato e partiti politici

Manca, allo stato, un rito processuale che, in relazione alle elezioni politiche nazionali, consenta la tempestiva tutela in giudizio del diritto di elettorato passivo. Di quest’assenza la Corte prende atto con la sentenza n. 48 in cui ritiene comunque sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, quale “giudice naturale” dei diritti, nelle controversie sulla “violazione del diritto di elettorato passivo nella fase antecedente alle elezioni, quando non si ragiona né di componenti eletti di un’assemblea parlamentare né dei loro titoli di ammissione”. E ciò soprattutto per evitare che nell’ordinamento giuridico vi sia un ambito immune dal controllo di costituzionalità. In attesa dell’intervento del Legislatore, dunque, l’azione di accertamento davanti al giudice ordinario è l’unico rimedio per verificare la pienezza del diritto di elettorato passivo, e la sua conformità a Costituzione. Con la sentenza n. 35 vengono invece respinte le censure alla cosiddetta legge Severino sulla sospensione automatica dalla carica di chi sia stato condannato in via non definitiva per reati di particolare gravità o contro la pubblica amministrazione. La legge, secondo la sentenza, mira a garantire l’integrità del processo democratico nonché la trasparenza e la tutela dell’immagine dell’amministrazione. Con la sentenza n. 207 la Corte chiarisce che, in virtù dell’articolo 67 della Costituzione, gli accordi tra gruppi parlamentari e parlamentari non vincolano questi ultimi, i quali sono liberi di sottrarsi alle indicazioni del loro partito. Infine, la sentenza 240 rivolge al Legislatore l’invito a garantire il diritto di voto dei cittadini nell’elezione del sindaco delle Città metropolitane. “L’attuale disciplina – spiega infatti la Corte – è in contrasto con il principio di uguaglianza del voto e pregiudica la responsabilità politica del vertice dell’ente nei confronti degli elettori”. Spetta dunque al Legislatore, e non alla Corte costituzionale, introdurre norme che assicurino ai cittadini la possibilità di eleggere, in via diretta o indiretta, i sindaci delle Città metropolitane.


Esecuzione penale

L’ergastolo ostativo arriva all’esame della Corte. Ancora una volta, come nella sentenza n. 253/2019 sulla concessione dei permessi premio, la Consulta sottolinea il “valore positivo” della collaborazione con la giustizia riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, per cui non è irragionevole presumere che l’ergastolano non collaborante continui a mantenere legami con l’organizzazione criminale di appartenenza. Tuttavia, il carattere assoluto di questa presunzione la rende incompatibile con la Costituzione poiché la collaborazione con la giustizia diventa, si legge nell’ordinanza n. 97 del 2021, l’unica strada per accedere al procedimento che potrebbe portare l’ergastolano alla liberazione condizionale. La Consulta, però, stabilisce che spetta al Parlamento, in prima battuta, modificare questo aspetto della disciplina sull’ergastolo ostativo. E – con lo stesso schema seguito in occasione delle questioni sul suicidio assistito e sulla diffamazione a mezzo stampa – rinvia il suo giudizio di un anno (al 10 maggio 2022) così da garantire al Legislatore il tempo necessario per affrontare la materia. Un intervento meramente “demolitorio” della Corte potrebbe infatti creare disarmonie nel complessivo equilibrio della disciplina vigente, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, laddove appartiene alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale.
Un’altra preclusione assoluta posta dall’ordinamento penitenziario cade con la sentenza n. 56, stavolta nei confronti degli ultrasettantenni recidivi condannati al carcere: costoro potranno essere ammessi alla detenzione domiciliare se la magistratura di sorveglianza valuterà, caso per caso, che ne siano meritevoli, tenuto conto anche della loro eventuale residua pericolosità sociale.

Con la sentenza 137, la Corte dichiara illegittime le norme sulla revoca delle prestazioni assistenziali, fondate sullo stato di bisogno, ai condannati definitivi per mafia e terrorismo, i quali stiano scontando la pena in modalità alternativa alla detenzione. È infatti irragionevole che una persona, da un lato sia considerata meritevole di scontare la pena fuori dal carcere e, dall’altro lato, sia privata dei mezzi per vivere, quando questi mezzi si possono ottenere solo dalle prestazioni assistenziali. “Sebbene queste persone abbiano gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile – si legge nella sentenza – attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere”.
Si occupa, invece degli internati nelle case-lavoro la sentenza n. 197. Si tratta delle persone considerate socialmente pericolose e in quanto tali soggette, dopo aver espiato la pena in carcere, alla misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione a una casa-lavoro. Costoro possono anche essere sottoposti alle speciali restrizioni del 41 bis dell’ordinamento penitenziario ma, avverte la Corte, questo trattamento dovrà adattarsi alla condizione dell’internato e consentirgli di svolgere effettivamente un’attività lavorativa.


Finanza locale

Con la sentenza n. 220 la Corte, dopo un’accurata istruttoria, respinge le censure ai tagli del Fondo di solidarietà comunale perché non è stato dimostrato adeguatamente che avrebbero ostacolato lo svolgimento delle funzioni dei Comuni. Tuttavia, aggiunge che il perdurante ritardo dello Stato nella definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) rappresenta un impedimento non solo alla piena realizzazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali ma anche al pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti i diritti sociali.


Imposte e tasse

È stato un invito subito raccolto dal Legislatore quello contenuto nella sentenza n. 120 a riformare la disciplina vigente sull’“aggio”. Che, secondo la Corte, “rischia di far ricadere su alcuni contribuenti, in modo non proporzionato, i costi complessivi di un’attività ormai svolta quasi interamente dalla stessa Amministrazione finanziaria e non più da concessionari privati”. Oltre ad essere anacronistico, costituisce una delle cause di inefficienza del sistema, afferma la Corte. Nella sentenza si spiega che “l’eccessiva dimensione delle entrate pubbliche non riscosse, pari a circa mille miliardi di euro accumulati in 20 anni, rappresenta un’anomalia non riscontrabile nel panorama internazionale e incide sulla funzione della riscossione, originando il paradosso di addossare su una limitata platea di contribuenti, individuati in ragione della loro solvenza (seppure tardiva rispetto alla fase dell’accertamento dei tributi), il peso di una solidarietà né proporzionata né ragionevole perché determinata, in realtà, dall’ingente costo della sostanziale impotenza dello Stato a riscuotere i propri crediti”. La Corte definisce urgente la riforma perché la grave situazione di inefficienza della riscossione coattiva incide negativamente su una fase essenziale della dinamica del prelievo delle entrate pubbliche: non solo si riflette di fatto sulla ragionevolezza e proporzionalità dell’aggio, ma determina una forte compromissione, in particolare, del dovere tributario, che è preordinato al finanziamento del sistema dei diritti costituzionali.

Con la sentenza n. 39 la Corte torna (dopo la sentenza n. 158 del 2020) sulla disciplina dell’interpretazione degli atti per l’applicazione dell’imposta di registro. Non è contestabile – afferma la Corte – la legittimità di un intervento legislativo che attribuisce forza retroattiva a una genuina norma di sistema nemmeno quando sia determinato dall’intento di rimediare a un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza (anche di legittimità) ma divergente rispetto alla linea di politica del diritto giudicata più opportuna dal legislatore.


Lavoro

È irragionevole che, di fronte a un licenziamento economico per un fatto manifestamente insussistente, il giudice abbia la facoltà, e non il dovere, di reintegrare il lavoratore. La Corte lo afferma nella sentenza n. 59, con cui dichiara incostituzionale l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nel testo modificato dalla “riforma Fornero”. La sentenza definisce “disarmonico e lesivo del principio di uguaglianza” il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte dell’inconsistenza della giustificazione addotta e della presenza di un vizio ben più grave rispetto alla pura e semplice insussistenza del fatto.


Libertà d'impresa

La Corte censura le norme del Codice dei contratti pubblici e della relativa legge delega perché lesive della libertà d’impresa. Con la sentenza n. 218 definisce “irragionevole e sproporzionata”, rispetto al pur legittimo fine di garantire l’apertura al mercato e alla concorrenza, la previsione dell’obbligo, a carico dei titolari di concessioni affidate direttamente, di esternalizzare tutta l’attività oggetto della concessione, mediante appalto a terzi dell’80% dei contratti inerenti la concessione stessa e assegnazione del restante 20% a società in house o comunque controllate o collegate. La libertà d’impresa non può subire, nemmeno in ragione del doveroso obiettivo di piena realizzazione dei principi della concorrenza, interventi che ne determinino un radicale svuotamento, come avverrebbe, osserva la Corte, sacrificando completamente la facoltà dell’imprenditore di compiere le scelte organizzative tipiche della stessa attività imprenditoriale.


Minori e famiglie

La tutela del “migliore interesse” del figlio, del suo diritto alla cura e del legame affettivo con chi lo ha accudito stabilmente: è questo il filo rosso che attraversa diverse decisioni del 2021, in alcune delle quali – quelle riguardanti coppie omosessuali – viene chiesto al Legislatore di intervenire con urgenza per colmare l’attuale carenza di tutela, che può incidere negativamente sull’identità del minore e sul rispetto della sua dignità.
Il tema, anche con riferimento alle responsabilità genitoriali, è affrontato, in particolare, nelle sentenze 32 e 33 : la prima riguarda due bambine nate da fecondazione assistita praticata all’estero da una coppia di donne il cui rapporto era divenuto conflittuale dopo cinque anni, per cui la madre biologica si era opposta all’adozione delle bimbe da parte della “madre intenzionale”; la seconda si riferisce a un bambino nato in Canada con maternità surrogata, voluta da due uomini sposati in quel paese e legati in Italia da unione civile, che dopo sei anni avevano chiesto il riconoscimento come genitori.
In quest’ultimo caso (sentenza n. 33), la Corte ribadisce anzitutto che il divieto penale di maternità surrogata è a tutela della dignità della donna e mira anche a evitare i rischi di sfruttamento di chi è particolarmente vulnerabile perché vive in situazioni sociali ed economiche disagiate. Poi si focalizza sui “migliori interessi” del bambino, a cominciare dal “riconoscimento anche giuridico dei legami che nella realtà fattuale già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata”. La sentenza sottolinea che questi legami sono “parte integrante della stessa identità del bambino” che vive in una determinata comunità di affetti, non importa se strutturata attorno a una coppia omosessuale “poiché l’orientamento sessuale – spiega la decisione – non incide, di per sé, sull’idoneità ad assumere la responsabilità genitoriale”. La Corte conclude chiedendo al Legislatore di intervenire in prima battuta, tenuto conto anche della legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata. Spetta al Legislatore ricercare una soluzione adeguata alla peculiarità della situazione e idonea a garantire gli interessi del minore, che non trovano adeguata tutela nella normativa vigente sulla cosiddetta “adozione in casi particolari” o “non legittimante”.

È lo stesso approdo della sentenza n. 32, nella quale il monito al Legislatore è particolarmente pressante, persino ultimativo, a causa del “grave vuoto di tutela dell’interesse del minore” registrato nella vicenda che ha dato luogo al giudizio di costituzionalità. La Corte scrive che il Legislatore deve individuare “il ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana”, per fornire, in maniera organica, adeguata tutela ai diritti del minore “alla cura, all’educazione, all’istruzione, al mantenimento, alla successione e, più in generale, alla continuità e al conforto di abitudini condivise”, evitando disarmonie del sistema.
La cura, insomma, è un interesse da proteggere senza esitazioni e ritardi, in coerenza sia con la giurisprudenza delle due Corti europee sia con quella della stessa Consulta, che, peraltro, ha sempre valorizzato la genitorialità sociale, se non coincidente con quella biologica, “perché il dato genetico non è requisito imprescindibile della famiglia”.

Nel solco della tutela dell’interesse del minore si pone anche la sentenza n. 133 che affronta il tema della contestazione del riconoscimento del figlio quando il padre scopre di non essere il genitore biologico. Nei casi diversi dall’impotenza, è irragionevole, dice la Corte, che il termine di un anno decorra dal momento dell’annotazione dell’atto invece che dal giorno della scoperta: in tal modo, infatti, si preclude all’autore del riconoscimento l’accesso a un giudizio nel quale “l’interesse alla verità biologica viene, comunque, sempre bilanciato in concreto dal giudice con l’interesse del figlio”. Interesse che prevale comunque dopo cinque anni dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita perché, spiega la Corte, il decorso di un tempo così lungo radica il legame familiare e sancisce la prevalenza dell’interesse alla stabilità dello stato di figlio.
Ma in tema di famiglia, e di uguaglianza dei genitori, il 2021 registra un’altra decisione storica: con l’ordinanza n. 18, la Corte censura la disciplina vigente sul cognome dei figli e si riserva di valutare se l’accordo dei genitori sia sufficiente a garantire la parità fra di loro, visto che attualmente, in mancanza di accordo, prevale comunque il cognome del padre, per i figli nati fuori e dentro il matrimonio. Nell’ordinanza si ricorda che il patronimico non rispetta il valore fondamentale dell’uguaglianza, tanto che su questo punto la Corte ha più volte sollecitato il Legislatore a intervenire, considerato il ventaglio di soluzioni possibili. Ma è proprio a causa del perdurante silenzio del Legislatore che ora la Corte ritiene necessario auto-sollevare dinanzi a sé la questione di legittimità costituzionale sull’articolo 262, primo comma, del codice civile “nella parte in cui, in mancanza di accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori”.


Pubblica amministrazione

La sentenza n. 180 respinge le censure al Decreto legislativo 297/1994 che non consente di valutare, ai fini della ricostruzione di carriera e della mobilità, l’insegnamento prestato presso le scuole paritarie prima dell’immissione nei ruoli della scuola statale. La Corte spiega che la legge 62/2000 ha voluto garantire agli alunni delle scuole paritarie i medesimi standard qualitativi di quelle statali sia quanto all’offerta didattica sia quanto al valore dei titoli di studio. Peraltro, questo non ha portato alla completa equiparazione del rapporto di lavoro dei docenti di queste scuole a quello dei docenti della scuola statale in regime di pubblico impiego privatizzato: la mancanza in esse di selezioni concorsuali non consente infatti di tener conto dei principi che, in base all’articolo 97 della Costituzione, devono informare l’attività delle amministrazioni pubbliche.

Riguarda invece i giudici ausiliari presso le Corti d’appello la sentenza n. 41 che ha dichiarato incostituzionali le norme del Decreto legge 69/2013 sulla loro stabile utilizzazione, come magistrati onorari, presso organi collegiali. L’articolo 106 della Costituzione consente infatti la nomina di magistrati onorari “per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli” e permette solo eccezionalmente e temporaneamente che, in via di supplenza, i giudici onorari possano svolgere funzioni collegiali di primo grado. Quindi, nei Tribunali ma non nelle Corti (d’appello o di cassazione). Tuttavia, la Corte lascia al Legislatore un sufficiente lasso di tempo (fino al 31 ottobre 2025) per assicurare “la necessaria gradualità nella completa attuazione della norma costituzionale”. Ciò per evitare l’annullamento delle decisioni prese con la partecipazione dei giudici ausiliari e per non privare immediatamente le Corti dell’apporto di questi giudici nella riduzione dell’arretrato civile.
La Corte, con la sentenza n. 45, decidendo sulla decadenza dal diritto dell’indennità di disoccupazione agricola, ha stabilito che è legittima la norma che considera idonea, come forma di pubblicità, la pubblicazione telematica degli atti amministrativi, ma che questa deve, comunque, essere fatta dalla pubblica amministrazione con particolare attenzione, allorché i provvedimenti trasmessi per via telematica incidano su situazioni giuridiche di rilievo costituzionale.

Rapporti con le corti europee

Il “diritto fondamentale al silenzio” vale anche rispetto ai poteri di indagine della Banca d’Italia e della Consob, quando dalle risposte alle domande possa emergere la propria responsabilità. Lo afferma la Corte con la sentenza n. 84 dopo aver investito della questione (con l’ordinanza 119 del 2019) la Corte di Giustizia Ue. Che il 2 febbraio 2021 risponde chiarendo che il diritto al silenzio è parte integrante dei principi dell’equo processo, come riconosciuti dalla stessa Carta dei diritti fondamenti Ue, e che questo diritto opera anche nei procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare nell’applicazione di sanzioni con carattere punitivo, come quelle previste nell’ordinamento italiano per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate. Con le ordinanze 216 e 217 la Corte costituzionale ha poi proposto due distinti rinvii pregiudiziali alla Corte Ue sul mandato di arresto europeo spiegando che spetta ai giudici di Lussemburgo, in primo luogo, stabilire in quali casi – oltre quelli previsti dalla legge nazionale e dalla decisione quadro 2002/584/GAI – l’autorità giudiziaria possa rifiutarsi di dare esecuzione a un mandato d’arresto europeo.


Rapporti con le corti europee

Decorsi inutilmente i 12 mesi che, con l’ordinanza n. 132 del 2020, erano stati lasciati al Legislatore per approvare una riforma della diffamazione commessa con il mezzo della stampa, a giugno 2021 la Corte torna sulla questione del “carcere ai giornalisti” e, con la sentenza n. 150, dichiara incostituzionale la legge sulla stampa (n. 47/1948) che fa scattare obbligatoriamente, in caso di condanna, la reclusione da 1 a 6 anni, insieme al pagamento di una multa. Non viene accolta, invece, la questione sull’articolo 595, terzo comma, del Codice penale, che, per ordinarie ipotesi di diffamazione a mezzo stampa o con altra forma di pubblicità, prevede la reclusione da 6 mesi a 3 anni o, in alternativa, il pagamento di una multa.

Le norme dichiarate incostituzionali contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta sia dalla Costituzione sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La minaccia del carcere può dissuadere, infatti, i giornalisti dall’esercitare la loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri. Non è invece di per sé incostituzionale che il giudice applichi la pena del carcere a chi, ad esempio, si sia reso responsabile di “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi”. Gli autori di queste condotte – siano o no giornalisti professionisti – non svolgono la funzione di “cane da guardia della democrazia” ma, anzi, rappresentano “un pericolo per la democrazia”, anche per i possibili effetti distorsivi di tali condotte sulle libere competizioni elettorali.

Con la sentenza n. 143 cade il divieto di considerare prevalente, rispetto all’aggravante della recidiva reiterata, l’attenuante del “fatto di lieve entità”. Pertanto, anche se recidivi reiterati, gli imputati del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione potranno beneficiare, se il fatto è “di lieve entità”, della riduzione fino a un terzo della pena. Cade anche, stavolta con la sentenza n. 178, l’automatismo della comunicazione interdittiva antimafia in caso di condanna confermata in appello per il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Questo delitto non è, di per sé, indice di appartenenza a un’organizzazione criminale, a differenza di quelli indicati nell’articolo 51 Cpp, per cui la misura è sproporzionata rispetto al contrasto all’attività mafiosa e tale da provocare danni elevati alla libertà di iniziativa economica. La sentenza n. 98 stabilisce invece che il divieto di applicazione analogica della legge penale a sfavore del reo costituisce un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo della legge.

Si occupa di armi, e della violazione degli obblighi degli “armaioli”, la sentenza n. 174 con cui la Corte considera legittimo l’inasprimento delle sanzioni precedentemente previste, in particolare per chi non tiene un registro delle operazioni giornaliere e non lo conserva per almeno 50 anni. Con la sentenza n. 185 cade, invece, la sanzione amministrativa fissa di 50mila euro a carico dei concessionari del gioco e dei titolari di sale giochi e scommesse per la violazione degli obblighi di avvertimento sui rischi di dipendenza dal gioco d’azzardo (ludopatia). Spetterà al Legislatore stabilire una nuova sanzione nel rispetto della Costituzione.

Infine, con la sentenza n. 157, la Corte dichiara incostituzionale che il cittadino di un Paese extra-Ue non abbia diritto al patrocinio a spese dello Stato soltanto perché è nell’impossibilità di produrre la certificazione dell’autorità consolare richiesta per i redditi prodotti all’estero.


Sanità

La sentenza n. 168 si occupa della sanità in Calabria e del suo ultradecennale commissariamento, avvenuto nel 2020. La Corte afferma che in situazioni particolarmente critiche, come appunto quella calabrese, lo Stato non può limitarsi a un “mero avvicendamento del vertice, senza considerare l’inefficienza dell’intera struttura sulla quale tale vertice è chiamato a operare in nome dello Stato”. È quindi incostituzionale non aver previsto che al prevalente fabbisogno della struttura di supporto del commissario ad acta debba provvedere “direttamente lo Stato” con personale esterno. Ed è incostituzionale anche aver imposto alla Regione di mettere a disposizione un contingente “minimo”, anziché “massimo”, di 25 unità di personale regionale.


STRANIERI

Con la sentenza n. 9 la Corte dichiara illegittimi i criteri della legge della regione Abruzzo per l’assegnazione degli alloggi, basati principalmente sulla residenza prolungata, che penalizzano in particolare gli stranieri regolarmente soggiornanti. Anche i benefici economici di contrasto alla povertà non si possono attribuire, dice la sentenza n. 7, in base a rigidi criteri di radicamento territoriale. È quindi illegittimo il requisito della residenza quinquennale previsto da una legge friulana per accedere a risorse destinate a soddisfare un bisogno basilare e immediato, genericamente correlato a una situazione di povertà.