Fiducia nel dialogo,
non solo tra le Corti
Intervista al Presidente Giuliano Amato
Il 2021 è il secondo anno dell’emergenza pandemica ma il primo in cui la Corte, dopo le poche decisioni di fine 2020, è chiamata a pronunciarsi sulla normativa dell’emergenza: qual è il filo che attraversa le vostre risposte? E qual è stato – se c’è stato – il momento più difficile?
Il momento più difficile è stato quello in cui noi stessi abbiamo dovuto organizzarci in funzione dell’emergenza perché non sapevamo se saremmo riusciti a continuare la nostra attività, in quale modo e a quale prezzo per chi si rivolge a noi. E lo abbiamo superato anche perché, come ha rilevato il mio predecessore Giancarlo Coraggio, a differenza dei giudici comuni sovraccaricati di processi nei Palazzi di giustizia, noi avevamo, e abbiamo, un ambiente in cui le cautele contro il contagio si possono adottare senza gravi conseguenze. Quindi, organizzarci in parte in presenza, in parte da remoto, fare udienze che comunque coinvolgono un numero limitato di avvocati è stato, lo devo dire, più facile che per altri. Anche noi, peraltro, abbiamo pagato qualche prezzo, perché il Covid non è rimasto fuori dal Palazzo, è entrato dentro; ma lo abbiamo isolato e abbiamo continuato a lavorare. Per quanto riguarda invece la normativa sull’emergenza, i casi sottoposti al nostro giudizio ci hanno consentito di stabilire che l’uso dei Dpcm non comportava deleghe legislative inammissibili intestate al Presidente del Consiglio, ma solo in parte ci hanno fatto entrare nel merito dei contenuti di quei Dpcm. Ci siamo entrati a proposito dello slittamento dei termini dei processi o della sospensione delle procedure esecutive e degli sfratti, e qui abbiamo usato la bussola naturale della Corte, quella della ragionevolezza e della proporzionalità.
Per la prima volta nella sua storia, la Corte ha sospeso in via cautelare l’efficacia di una legge (la legge della Valle d’Aosta che attenuava le misure di contenimento del virus stabilite dal Governo). Forse in quel momento si è percepita la gravità della situazione. È stata questa consapevolezza a spingervi in quella direzione?
Di sicuro, la gravità della situazione ha inciso e ha reso ineludibile che le regole fondamentali per fronteggiare la pandemia dovessero essere uniformi per l’intero Paese. Era sconcertante che, a parità di condizioni, le Regioni si regolassero in modo diverso. Una Regione può essere in zona rossa e un’altra in zona gialla ma i criteri per definire le zone e quelli che si applicano nelle zone rosse e nelle zone gialle devono essere gli stessi, altrimenti i cittadini non capiscono più nulla. In quella decisione mettemmo in chiaro ciò che fino a quel momento non era stato chiaro per nulla, e cioè che, per combattere la pandemia, la competenza in gioco non era quella ripartita tra lo Stato e le Regioni sulla salute, ma era, ed è, la profilassi internazionale. Una competenza esclusiva dello Stato.
Questa stretta sull’autonomia regionale esprime un più generale ritorno al centralismo o riguarda solo le esigenze della pandemia?
Riguarda solo le esigenze della pandemia proprio per quanto ora ho appena detto. Numerose decisioni della Corte testimoniano anzi l’attenzione con cui abbiamo salvaguardato l’autonomia regionale davanti a ricorsi dello Stato che a volte pretendeva di far valere le proprie competenze al di là dei limiti costituzionali. L’autonomia regionale è un tratto irrinunciabile del nostro sistema di governo.
Un altro tema, nell’anno appena trascorso, si è imposto con forza nelle vostre decisioni: quello dei figli, di una tutela efficace del loro diritto ai legami familiari e affettivi con chi li ha cresciuti e curati e che, anche se non è il genitore biologico, ha una responsabilità genitoriale. La cura (intesa come accudimento) è un diritto fondamentale?
Nella nostra giurisprudenza, e non solo nella nostra, è cresciuta la consapevolezza che troppe volte quello che, con freddezza tecnica, si chiama “l’interesse del minore” viene dopo interessi molto meno importanti di tutto ciò che riguarda la vita dei bambini. Certo la cura, ma anche il loro sviluppo mentale, la loro serenità psicologica, il poter contare sull’affetto di chi li ama. C’è arrivato da tempo il Legislatore, quando ha scritto che i figli hanno diritto, tutti, allo stesso trattamento e ha abolito la distinzione tra figli legittimi e naturali. Ma la varietà dei rapporti affettivi tra gli esseri umani, le famiglie e le unioni civili, ci hanno messo davanti a situazioni nuove che hanno spinto i giudici ordinari a sottoporci casi concreti in cui le tutele dei bambini erano inadeguate o irragionevolmente differenziate. Noi a volte siamo riusciti a risolvere il problema, altre volte abbiamo dovuto segnalare al Parlamento che toccava in primo luogo alla legge rivedere i propri ritardi.
Segnalazioni talvolta pressanti ma le Camere tardano a rispondere…
Il Parlamento è giustificato proprio dalla delicatezza del tema che, non possiamo negarlo, è intriso di principi e di valori sui quali, legittimamente, le opinioni sono, anche profondamente, diverse. Particolarmente problematica è la nascita con “maternità surrogata”, realizzata in paesi diversi del mondo, su cui si è espressa la nostra Corte, ritenendola contraria alla dignità della donna e quindi escludendo che il “genitore intenzionale” di un bambino nato così possa essere accettato come il suo genitore a tutti gli effetti. Dove la legge attuale lo consente, valga allora l’adozione, abbiamo detto. Ma dove non lo consente? Ecco, qui il tema passa necessariamente al Parlamento.
Molte vostre decisioni – sui figli delle coppie omosessuali, sulla diffamazione a mezzo stampa punita con il carcere, sull’ergastolo ostativo, per citarne solo alcune – nascono da un dialogo con le Corti europee e portano a un dialogo con il Parlamento. Come ha funzionato, nel 2021, questo dialogo? Con il Parlamento, in particolare, ci sono stati casi virtuosi in cui le sollecitazioni hanno trovato risposta (per esempio sull’aggio nella riscossione delle imposte) ma colpisce l’ultimo dato sui “moniti” della Corte, saliti in due anni da 20 a 29. Che cosa ci dice questa tendenza?
L’aumento dei nostri moniti è legato proprio alla crescente complessità delle situazioni che ci vengono sottoposte. Le disfunzioni legate alla legislazione esistente ovvero il cambiamento sociale rispetto alla legislazione esistente portano i giudici a leggere in questa tratti contrari ai principi o ai diritti garantiti dalla Costituzione. E i giudici rimettono a noi la questione. È evidente che quando la decisione della Corte non può, da sola, risolvere il problema, i casi che arrivano davanti a noi diventano segnali destinati ad essere raccolti dal Parlamento. Questo spiega il maggior numero dei moniti e spiega quanto sia fisiologico un rapporto collaborativo tra noi e il Parlamento. Un rapporto che, è vero, proprio quest’anno ha cominciato a dare frutti e che speriamo possa svilupparsi sempre meglio in futuro. Diciamo la verità, riducendo anche le responsabilità che noi ci troviamo costretti ad assumere.
Lo schema di accertare l’incostituzionalità senza dichiararla ma dando al Parlamento un termine per intervenire – seguito nelle decisioni su suicidio assistito, ergastolo ostativo, carcere ai giornalisti – come va letto? Sempre in chiave di collaborazione?
In più casi abbiamo trovato il modo di creare un intertempo che consenta al Parlamento di intervenire prima della nostra decisione finale. Lo abbiamo fatto per rispetto dello stesso Parlamento e anche di coloro che ci hanno posto il problema, nella convinzione che la soluzione possibile per noi, in quei casi, può essere solo parziale, priva del respiro che soltanto la riforma parlamentare può avere.
La pandemia ha dato un impulso decisivo alla modernizzazione della Consulta che, nel 2021, ha visto nascere il processo telematico. Come vive questo passaggio storico e che cosa ritiene ancora utile per migliorare il giudizio costituzionale?
Dal punto di vista tecnologico, non so quanto oltre possiamo andare. Quel che mi piacerebbe vedere nel giudizio costituzionale, invece, è un vero dialogo durante le udienze, che troppo spesso sono un susseguirsi di monologhi, del relatore e degli avvocati delle diverse parti, anziché essere, come accade in altre Corti, un confronto vivo, fatto anche di domande e di risposte. C’è, ogni tanto, qualche cenno, ma se penso alla Corte suprema americana o anche alle nostre Corti europee, mi sento molto più indietro.
A proposito di tecnologie, la Corte è l’unica istituzione che usa nella sua attività, ormai da tre anni, anche i podcast, uno degli strumenti più avanzati della comunicazione. Fin dalla nascita, la Corte è stata attenta alla comunicazione ma misurarsi con questo strumento significa accettare le sfide della contemporaneità, declinare il “dovere di comunicare” con tutti gli strumenti a disposizione. Un bilancio di questa sfida.
È un bilancio ancora provvisorio, perché abbiamo cominciato da poco, ma nell’insieme più che positivo. Avvertivamo da tempo di essere circondati da un muro invisibile di mancanza di conoscenza su chi siamo e su che cosa facciamo. E da tempo avvertivamo il contrasto tra questa condizione e l’importanza, per la vita di tantissime persone, delle decisioni che la Corte ha adottato negli anni. Rompere questo muro, scendere dal tempio delle armonie celesti diventava urgente. Lo abbiamo fatto, perciò, in più modi. Tra questi, anche quelli attraverso i quali passa la comunicazione, soprattutto tra i più giovani. I quali, spesso, anziché leggere, ascoltano. Quindi il podcast non sostituisce la lettura ma la affianca. Certo, così facendo si pagano anche dei prezzi. Si è esposti a critiche (a volte anche a fraintendimenti), che prima erano chiuse nella cerchia ristretta degli autori e dei lettori delle riviste giuridiche. Ma questo fa parte del gioco e ben venga anch’esso.
Dopo aver incontrato studenti, detenuti, cittadini, nel 2021 la Corte ha incontrato, virtualmente a causa del Covid, esponenti della cultura, un mondo che ha particolarmente sofferto la pandemia. Che cosa ha “preso” la Corte da questi interlocutori esterni? E i diversi punti di vista (giovani, detenuti, intellettuali, cittadini) vi sono apparsi molto diversi tra loro o c’è un filo che li attraversa, una richiesta, un’esigenza comune?
Ciò che abbiamo preso è di sicuro la percezione che questi diversi interlocutori avevano di noi, che era poi la prima cosa che forse ci interessava. E queste percezioni erano spesso diverse. In alcuni casi, di irrilevanza: per quanto riguardava le loro vite, potevamo anche non esistere. In altri casi, penso ai detenuti, di un eccesso di rilevanza: le persone recluse, più di altre, hanno mille problemi che ritengono debbano essere risolti da un giudice e molti di loro pensavano che quel giudice potesse essere, per tutti o quasi, la Corte. Però c’era un tratto comune, e questo ci ha colpito: quel vecchio documento che tutti conoscono e al quale davvero sono affezionati, che è la Costituzione, viene visto come la fonte della possibile soluzione di ciò che li riguarda. Un’aspettativa forte, forse anche troppo. Perché, com’è stato scritto saggiamente, non è vero che tutto ciò che non mi piace è per ciò stesso incostituzionale. E tuttavia, è comunque bello che i cittadini cerchino nella Costituzione la soluzione di ciò che li angustia.
La Costituzione è un esempio di comunicazione chiara, semplice, accessibile. Da parole come dignità, solidarietà, uguaglianza, libertà, giustizia è partita la ricostruzione dell’Italia ma solo riconoscendoci in quelle parole costruttrici e riparatrici possiamo proiettarci in un futuro di pace e di crescita. In uno dei podcast della Corte lei incontra il poeta Franco Marcoaldi che contrappone la lingua della Costituzione all’antilingua del dibattito pubblico e ci ricorda, citando Calvino, che la decadenza della lingua e la decadenza della civiltà marciano di pari passo. Oggi a che punto siamo?
Se, come ho appena constatato, la Costituzione è così presente in tutti noi, è anche perché è un esempio, appunto, di comunicazione chiara, semplice e accessibile. Di “buona lingua”, come dice Marcoaldi. La stragrande maggioranza delle parole che la Costituzione usa, lo aveva notato Tullio De Mauro, sono parole di uso comune, che tutti capiscono, nel contesto di frasi brevi e semplici. Figlie, infine, di un clima, quello dell’immediato dopoguerra e dell’iniziale ricostruzione, in cui la solidarietà, l’uguaglianza, la dignità, la fiducia nel dialogo erano parte di una rinnovata vita quotidiana, non più segnata dagli orrori di una guerra e di persecuzioni che avevano negato solidarietà, uguaglianza e valore della comprensione reciproca. Di qui l’idea – centrale per la Costituzione e centrale per la civiltà che la nostra Costituzione, insieme ad altre, ha contribuito a costruire in Europa sulla base della forza del diritto – della fiducia nella soluzione che si trova non con la forza ma nel confronto delle ragioni, degli argomenti, dei valori. È una civiltà che oggi torna ad essere messa in discussione. Il fatto stesso che un Paese, distante da Trieste poco più di quanto Trieste lo sia dalla Sicilia, sia martoriato da una guerra dimostra che quella civiltà ha bisogno di essere riaffermata, vivificata e difesa.
Avete deciso di riaffermare tutto questo con un concerto del Maestro Nicola Piovani dal titolo Il sangue e la parola, che si terrà a luglio nella piazza del Quirinale, la piazza che urbanisticamente è simbolo del dialogo delle Istituzioni con i cittadini. Perché questa scelta?
Davanti a una guerra, lo so, non è un concerto che può bastare a fare ciò che dicevo. Però, intanto, è cruciale il tema che quel concerto affronterà, perché si tratterà non solo di musica ma di una cantata su un testo che collega la nostra Costituzione a quella che per gli ateniesi fu la nascita del diritto, 2500 anni fa. Come ci ha ricordato anche la professoressa Eva Cantarella nell’incontro in podcast con il giudice Nicolò Zanon, quella rivoluzione culturale fu così difficile da far accettare agli ateniesi da indurre Eschilo nel 458 a.C., a celebrare nelle Eumenidi la nascita del primo Tribunale: l’Areopago. Di fronte a quel Tribunale, Atena pronuncia parole in difesa di Oreste, reo di matricidio poi assolto. Le sorti di Oreste vengono decise non dalle ragioni della vendetta ma dalle ragioni della giustizia, dalla forza degli argomenti pronunciati contro di lui e di quelli a sua difesa. Nasceva allora il nuovo, civile, ordine del mondo, non più affidato alla violenza. Questo sarà il significato di quel concerto e ancor più questo significato sarà percepibile in un luogo come la piazza del Quirinale, dove si affiancano le due Istituzioni che, secondo la nostra Costituzione, sono garanti dei suoi stessi principi.