N. 21
SENTENZA 24 MARZO 1961
Deposito in cancelleria: 31 marzo 1961.
Pubblicazione in "Gazzetta Ufficiale" n. 83 del 1 aprile 1961.
Pres. CAPPI - Rel. JAEGER
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Avv. GIUSEPPE CAPPI, Presidente - Prof.
GASPARE AMBROSINI - Dott. MARIO COSATTI - Prof. FRANCESCO PANTALEO
GABRIELI - Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - Prof. ANTONINO PAPALDO -
Prof. NICOLA JAEGER - Prof. GIOVANNI CASSANDRO - Prof. BIAGIO
PETROCELLI - Dott. ANTONIO MANCA - Prof. ALDO SANDULLI - Prof.
GIUSEPPE BRANCA - Prof. MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI -
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della norma contenuta
nel secondo comma dell'art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all.
E, promosso con ordinanza emessa il 21 marzo 1960 dal Pretore di Pavia
nel procedimento civile vertente tra Stroppa Franco e l'Intendenza di
finanza di Pavia, iscritta al n. 47 del Registro ordinanze 1960 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 112 del 7 maggio 1960.
Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio
dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 15 marzo 1961 la relazione del
Giudice Nicola Jaeger;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per l'Amministrazione
finanziaria.
Ritenuto in fatto:
In un giudizio di opposizione ad ingiunzione tributaria proposto
davanti al Pretore di Pavia con ricorso 12 dicembre 1958 da Stroppa
Franco contro l'Intendenza di finanza di Pavia, l'Avvocatura
distrettuale dello Stato, costituita in rappresentanza
dell'Amministrazione delle finanze dello Stato, in persona del Ministro
in carica, propose due eccezioni processuali: la inammissibilità
della opposizione a termini dell'art. 6 della legge 20 marzo 1865,
allegato E, per mancato previo pagamento della imposta radio, di cui
all'ingiunzione, e l'incompetenza funzionale del Pretore adito.
Replicava l'opponente Stroppa alla prima eccezione, sollevando la
questione di illegittimità costituzionale della norma contenuta in
detto art. 6, e in genere dell'istituto del solve et repete, perché in
contrasto con le disposizioni degli artt. 3, 24 e 113 della
Costituzione.
Con ordinanza in data 21 marzo 1960 il Pretore riteneva che la
questione proposta non potesse considerarsi manifestamente infondata e
che essa fosse rilevante rispetto al giudizio pendente, in quanto
questo non avrebbe potuto essere definito indipendentemente dalla
risoluzione della questione di legittimità costituzionale; a tale
proposito, osservava che "la questione relativa alla osservanza del
precetto del solve et repete è pregiudiziale a quella di competenza
laddove la sua inosservanza determina una carenza, sia pur temporanea,
della giurisdizione del giudice ordinario".
Disponeva, pertanto, la sospensione del giudizio e la trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale per la decisione della questione
di legittimità costituzionale dell'art, 6 della legge 20 marzo 1865,
n. 2248, sulla abolizione del contenzioso amministrativo, in relazione
agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.
L'ordinanza era regolarmente comunicata e notificata a norma di
legge e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 112 del
7 maggio 1960.
Si costituiva l'Amministrazione delle finanze dello Stato, in
persona del Ministro delle finanze, e interveniva il Presidente del
Consiglio dei Ministri, entrambi rappresentati e difesi dall'Avvocatura
generale dello Stato.
Nelle deduzioni depositate il 21 aprile 1960, per il Presidente del
Consiglio dei Ministri, e il 25 maggio 1960, per l'Amministrazione
delle finanze, si fa richiamo ai precedenti di giurisprudenza,
ricordando due sentenze della Corte di cassazione, Sezioni unite, che
dichiararono la manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale proposta anche in relazione all'art. 113 della
Costituzione, e una terza, pure delle Sezioni unite, pervenuta alla
stessa conclusione in relazione all'art. 111 della Costituzione. Si
contesta, poi, che l'onere del pagamento dell'imposta possa concretare
un ostacolo economico alla parità dei cittadini, essendo questi, in
quanto contribuenti, soggetti in ogni caso al potere extraprocessuale
di riscossione della imposta da parte dell'Amministrazione, potere
basato sul principio generale e fondamentale della esecutorietà
dell'atto amministrativo.
In relazione anche agli altri articoli della Costituzione
richiamati nell'ordinanza, e pure esaminati dalla Corte di cassazione,
la difesa dello Stato ricorda che, secondo l'ultima sentenza delle
Sezioni unite, si deve ritenere che l'istituto del solve et repete dà
all'azione dei contribuenti il contenuto di azione in ripetizione del
tributo pagato, con l'accertamento della illegittimità della
imposizione, quando la illegittimita già non risulti prima facie, nel
qual caso l'accertamento può astrarre dal presupposto del pagamento
del tributo.
Conclude, quindi, perché la Corte costituzionale dichiari non
fondata la questione di illegittimità costituzionale proposta dal
Pretore di Pavia.
Nella memoria depositata in cancelleria il 2 marzo 1961 la difesa
dello Stato ha ribadito le sue tesi, con l'aggiunta di altri precedenti
di giurisprudenza e dottrina.
Alla discussione della causa in udienza pubblica è intervenuto
solo il rappresentante della Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha anche dichiarato di rinunciare alla eccezione pregiudiziale
formulata nelle difese scritte.
Considerato in diritto:
La questione che forma oggetto del presente giudizio ha dato luogo
da tempo a discussioni e decisioni nella dottrina e nella
giurisprudenza, che hanno prospettato diversi modi di qualificare
l'istituto del solve et repete. Compito della Corte costituzionale non
è quello di inquadrarlo nell'una o nell'altra categoria dogmatica, ma
solo di risolvere la questione se esso sia da ritenere legittimo
costituzionalmente rispetto alle norme contenute negli artt. 3, 24 e
113 della Costituzione, richiamati nell'ordinanza del Pretore di Pavia.
Sembra opportuno, anzitutto, rilevare che ogni richiamo al
principio della normale esecutorietà degli atti amministrativi non
reca alcun contributo alla soluzione della questione nel senso
sostenuto dalla Amministrazione finanziaria, perché quel principio non
verrebbe in alcun modo intaccato o eluso dal venir meno dell'istituto
del solve et repete, ben potendo anche in tal caso l'Amministrazione
stessa procedere in via esecutiva contro il contribuente moroso,
nonostante qualsiasi sua opposizione, posto che il giudice ordinario
non è mai autorizzato a sospendere l'esecuzione di provvedimenti
dell'Autorità amministrativa. Si può dire, piuttosto, che proprio
l'esistenza di tale istituto indebolisce, in certo senso, l'efficacia
di quel principio, razionalmente e praticamente.
Il solve et repete è indubbiamente una misura particolarmente
energica ed efficace al fine dell'attuazione del pubblico interesse
alla percezione dei tributi e, appunto per questo, venne introdotto ed
è stato conservato tanto a lungo nella legislazione italiana,
nonostante vari progetti per l'abolizione, di iniziativa governativa e
parlamentare, e pur essendo stato esposto altrettanto a lungo a severe
critiche da parte della dottrina e ad interpretazioni correttive e
limitative per opera della giurisprudenza, la quale è giunta ad
escludere l'applicabilità dell'istituto stesso quando la pretesa
tributaria risulti prima facie assolutamente infondata.
Tutto ciò conferma che, anche indipendentemente dai principi
contenuti nella Costituzione, e già prima dell'approvazione di questa,
si era avuta una notevole evoluzione nella sensibilità di coloro, cui
spettavano la interpretazione e l'applicazione delle norme vigenti:
evoluzione provocata proprio dalla eccessività di quella misura, che
già appariva non consentanea ai principi informatori di un ordinamento
moderno in tema di rapporti fra il cittadino e lo Stato.
Sembra difficile supporre che il legislatore costituente abbia
ignorato un problema tanto dibattuto e, meno ancora, che non lo abbia
considerato risolto implicitamente attraverso la formulazione dei
principi generali, diretti in gran parte proprio a regolare i rapporti
fra i cittadini e lo Stato, contemperando le esigenze di questo con i
diritti di quelli, e - in ogni caso - ponendo le condizioni necessarie
perché questi diritti possano esser fatti valere ugualmente da tutti.
La imposizione dell'onere del pagamento del tributo, regolato quale
presupposto imprescindibile della esperibilità dell'azione giudiziaria
diretta a ottenere la tutela del diritto del contribuente mediante
l'accertamento giudiziale della illegittimità del tributo stesso, è
in contrasto, a giudizio della Corte, con tutti i principi contenuti
negli articoli della Costituzione enunciati nella ordinanza del
Pretore.
Essa è in contrasto con la norma contenuta nell'art. 3, perché è
evidente la differenza di trattamento che ne consegue fra il
contribuente, che sia in grado di pagare immediatamente l'intero
tributo, ed il contribuente, che non abbia mezzi sufficienti per fare
il pagamento, né possa procurarseli agevolmente ricorrendo al credito,
fra l'altro perché, anche in caso di vittoria in giudizio, non
otterrebbe il rimborso delle somme versate se non con ritardo. Al
primo è, dunque, consentito, proprio in conseguenza delle sue
condizioni economiche, di chiedere giustizia e di ottenerla, ove possa
provare di aver ragione; al secondo questa facoltà è resa difficile
e talvolta impossibile, non solo di fatto, ma anche in base al
diritto, in forza di un presupposto processuale stabilito dalla legge e
consistente nell'onere del versamento di una somma eventualmente assai
ingente.
Le stesse considerazioni valgono a giustificare anche il richiamo
alle norme contenute negli artt. 24, primo comma, e 113 della
Costituzione, nei quali l'uso delle parole tutti e sempre ha
chiaramente lo scopo di ribadire la uguaglianza di diritto e di fatto
di tutti i cittadini per quanto concerne la possibilità di richiedere
e di ottenere la tutela giurisdizionale, sia nei confronti di altri
privati, sia in quelli dello Stato e di enti pubblici minori.
La Corte è, pertanto, dell'avviso che l'istituto del solve et
repete sia in contrasto con le norme della Costituzione e che debba
essere dichiarata illegittima la disposizione che lo prevede.
È da osservare che nell'ordinanza del Pretore si propone
letteralmente la questione della illegittimità costituzionale
dell'intero art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, mentre
l'istituto del solve et repete è previsto solo nel secondo comma di
tale disposizione e gli altri commi riguardano oggetti del tutto
diversi. Poiché l'ordinanza tratta esclusivamente, anche quando
motiva sulla rilevanza della questione, di quell'istituto, la Corte
ritiene di dover interpretare l'ordinanza stessa nel senso che il
Pretore intendeva proporre la questione di legittimità del solo
secondo comma dell'articolo citato e che di conseguenza le altre norme,
pur contenute nello stesso articolo, non fanno parte dell'oggetto del
presente giudizio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale della norma contenuta
nel secondo comma dell'art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all.
E, in riferimento alle norme degli artt. 3, 24 e 113 della
Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 marzo 1961.
GIUSEPPE CAPPI - GASPARE AMBROSINI -
MARIO COSATTI - FRANCESCO PANTALEO
GABRIELI - GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO -
ANTONINO PAPALDO - NICOLA JAEGER -
GIOVANNI CASSANDRO - BIAGIO
PETROCELLI - ANTONIO MANCA - ALDO
SANDULLI - GIUSEPPE BRANCA - MICHELE
FRAGALI - COSTANTINO MORTATI -
GIUSEPPE CHIARELLI.