Ritenuto in fatto:
1. - Il tribunale di Viterbo, nel procedimento penale a carico di
Virginio Bertinelli e altri, con ordinanza 1 aprile 1969 ha rimesso a
questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 553
del codice penale e dell'articolo 112 del t.u. delle leggi di p.s.
(approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773), con riferimento agli
artt. 21, primo comma, e 32 della Costituzione.
Nell'ordinanza si premette che la precedente sentenza 19 febbraio
1965, n. 9, di questa Corte, che ebbe per oggetto lo stesso art. 553
c.p., non preclude la riproponibilità della questione, sotto altri
profili e con nuovi argomenti. Sotto il riflesso della violazione
dell'art. 21 della Costituzione, l'ordinanza osserva quindi che la
norma impugnata, ispirata a suo tempo dalla politica che si riassumeva
nel motto "il numero è potenza", non trova giustificazione nella
difesa del buon costume, che, per quanto riguarda la propaganda
anticoncezionale, è tutelato da altre norme del codice penale.
D'altronde la nozione di buon costume si evolve coi tempi e i mutamenti
nel modo di considerare il problema non consentono oggi di considerare
illecita quella propaganda.
Viene inoltre dedotta la violazione dell'art. 32 della
Costituzione, in considerazione dei danni alla salute che procura la
frequenza degli aborti e la superprolificità, dovuta all'ignoranza dei
mezzi anticoncezionali.
2. - La questione di legittimità costituzionale dell'articolo 553
c.p. è stata proposta anche, d'ufficio', dal pretore di Roma, in un
procedimento a carico di Luigi De Marchi, con ordinanza 5 maggio 1970.
Anche questa denuncia la violazione degli artt. 21 e 32 della
Costituzione, richiamando e illustrando i motivi già addotti
nell'ordinanza del tribunale di Viterbo. L'ordinanza deduce inoltre la
violazione dell'art. 18 della Costituzione sulla libertà di
associazione, in quanto, in base all'attuale sistema, i singoli che
concorressero nella organizzazione e nell'attività di una associazione
per il birth control incorrerebbero nella sanzione di cui all'articolo
553 c.p.; e la violazione dell'art. 31, secondo cui la Repubblica
tutela la maternità e l'infanzia, in quanto le gravidanze troppo
ravvicinate creano uno stato gravissimo alla salute della madre e della
prole.
3. - Nel giudizio promosso dal pretore di Roma è intervenuto il
Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, e si è costituito il dott. De Marchi, a mezzo
dell'avv. Giorgio Moscon.
L'Avvocatura dello Stato, premesso che la Corte, con la sentenza n.
9 del 1965, pervenne a una interpretazione adeguatrice dell'art. 553
c.p., afferma che la norma, così come interpretata dalla Corte, tutela
interessi ai quali è tuttora particolarmente sensibile una non piccola
parte della comunità.
Sostiene quindi l'infondatezza delle proposte censure.
La difesa della parte privata, premesse, nella memoria, ampie
considerazioni sugli aspetti sociali ed etici della questione, sostiene
nel merito che da quando fu emanata la sentenza n. 9 del 1965 sono
sopravvenuti nuovi ed essenziali sviluppi, che rendono insostenibile il
mantenimento dell'articolo 553 c.p. in nome del buon costume, tutelato
da altre norme del codice penale; vengono inoltre citati casi in cui la
magistratura di merito ha espressamente ripudiato l'interpretazione
data dalla Corte all'art. 553 codice penale. La memoria si diffonde,
infine, sull'utilità, per la tutela della salute, della propaganda e
dell'assistenza anticoncezionale.
Nella discussione orale le difese delle parti hanno ribadito i
rispettivi argomenti.
Considerato in diritto:
1. - Le cause possono essere decise con unica sentenza, avendo il
medesimo oggetto.
2. - La questione di legittimità costituzionale dell'articolo 553
del codice penale (incitamento a pratiche contro la procreazione) e
dell'art. 112 t.u. delle leggi di p.s., già proposta con riferimento
all'art. 21 primo comma, della Costituzione, era stata esaminata e
decisa da questa Corte con sentenza n. 9 del 1965. In tale sentenza fu
riconosciuto che l'art. 553 c.p. non vieta la propaganda che
genericamente miri a convincere dell'utilità e necessità, in un
determinato momento storico, di limitare le nascite, o che propugni una
politica di controllo dell'aumento della popolazione; tuttavia si
ritenne che la norma non contrastasse con l'art. 21 della Costituzione,
in quanto diretta a tutelare il buon costume. Su la base di tale
interpretazione, la questione fu dichiarata infondata "nei sensi e nei
limiti di cui in motivazione".
Successivamente alla ricordata sentenza, la norma ha avuto scarsa
applicazione, ma vi sono stati casi in cui nella pratica giudiziaria è
stata disattesa l'interpretazione della Corte, e la norma è stata
ritenuta applicabile nel suo senso letterale, indipendentemente dalla
connessione, in essa ravvisata dalla Corte, con la difesa del buon
costume.
Le ordinanze del tribunale di Viterbo e del pretore di Roma hanno
ora riproposto la questione, con nuovi argomenti rispetto all'art. 21,
ed inoltre con riferimento all'articolo 32 (ordinanze del tribunale di
Viterbo e del pretore di Roma) e agli artt. 18 e 31 (ordinanza del
pretore di Roma) della Costituzione.
Si rende quindi necessario il riesame di essa.
3. - Va riconosciuto che la norma di cui all'art. 553 c.p.
corrispondeva alla politica demografica del tempo, diretta
all'incremento della popolazione, considerato come fattore di potenza,
e alle concezioni a cui quella politica si ispirava. Ciò è
documentato, a parte la collocazione dell'articolo nel titolo relativo
ai "delitti contro la integrità e la sanità della stirpe", dalla
Relazione del Guardasigilli al Progetto di codice penale.
Del resto, che, sopravvenuto il nuovo ordinamento costituzionale,
la norma dell'art. 553 c.p. non trovasse più giustificazione in quelle
concezioni fu riconosciuto nella sentenza n. 9 del 1965, la quale, come
si è visto, ritenne consentita la propaganda genericamente diretta
alla limitazione del numero delle nascite e alla promozione di una
politica di controllo dell'aumento della popolazione, e fece salva la
legittimità costituzionale della norma solo sotto il riflesso della
difesa del buon costume.
Ma il riesame della questione, anche alla luce delle ragioni e
degli elementi emersi nella nuova prospettazione di essa, induce la
Corte a ritenere che la norma non può essere mantenuta in vita, senza
contrasto con la Costituzione.
Infatti, la disposizione dell'art. 553 c.p., appunto perché
collegata, nella sua ragione originaria, alla ricordata politica di
espansione demografica e alle concezioni su cui questa si basava,
vietava la pubblica trattazione di argomenti riguardanti la
procreazione soltanto se svolta nel senso di favorire, mediante
l'incitamento o la propaganda di pratiche contro la procreazione, la
riduzione delle nascite. Le esigenze del buon costume erano tutelate,
come sono tuttora, da altre disposizioni del codice penale, in
qualunque senso e a qualunque fine si svolga la predetta attività.
D'altra parte, il problema della limitazione delle nascite ha
assunto, nel momento storico attuale, una importanza e un rilievo
sociale tale, ed investe un raggio di interesse così ampio, da non
potersi ritenere che, secondo la coscienza comune e tenuto anche conto
del progressivo allargarsi della educazione sanitaria, sia oggi da
ravvisare un'offesa al buon costume nella pubblica trattazione dei vari
aspetti di quel problema, nella diffusione delle conoscenze relative,
nella propaganda svolta a favore delle pratiche anticoncettive.
Di ciò si ha conferma nella già ricordata scarsissima
applicazione dell'art. 553 c.p.; nelle ripetute proposte di legge per
la sua abrogazione; nel diffuso convincimento dell'esigenza di una
informata coscienza sociale in materia, rilevabile dalla letteratura,
dai dibattiti e da note dichiarazioni internazionali sull'argomento.
Si deve pertanto riconoscere che, venuta meno la ragione
dell'autonoma configurazione del reato di cui all'art. 553 c.p., il
limite da esso posto alla libera manifestazione del pensiero si trova
in contrasto con l'art. 21, primo comma, della Costituzione.
Con la conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale,
la propaganda di pratiche anticoncettive e l'incitamento ad esse
restano subordinate all'osservanza delle norme penali riguardanti gli
atti, le pubblicazioni e gli spettacoli osceni (artt. 527, 528, 529
c.p.); gli atti e il commercio di scritti, disegni e oggetti contrari
alla pubblica decenza (articoli 725, 726 c.p.); nonché all'osservanza
delle norme riguardanti l'istigazione a delinquere e l'apologia di
reato (art. 414 c.p.): in particolare, l'istigazione all'aborto (art.
548 c.p.).
È da considerare che il rilevante numero degli aborti è portato,
dalla difesa della parte privata nel presente giudizio e da gran parte
della letteratura sull'argomento, come una delle ragioni a favore della
diffusione della conoscenza delle pratiche antifecondative. Sarebbe
palesemente contraddittorio che la consentita propaganda
antiprocreativa comprendesse l'incitamento a pratiche che possano
essere, oltre che contrastanti col diritto alla vita, produttive di
quei danni alla salute che con quella propaganda si vuol concorrere ad
evitare.
A questo proposito la Corte ritiene necessario rilevare che la
tutela della salute e della maternità, garantite dalla Costituzione
(artt. 31 e 32), richiede che, riconosciuta la liceità della
propaganda anticoncezionale, questa formi oggetto di una appropriata
disciplina, diretta a impedire l'incitamento all'uso di mezzi
riconosciuti dannosi, direttamente o nei loro effetti secondari, per la
salute. In questo senso, il tempestivo intervento del legislatore, già
autorevolmente auspicato nel Parere del Consiglio superiore di sanità
(Assemblea generale) del 21 aprile 1967, dovrà assicurare
l'attuazione, in questa materia, delle ricordate norme costituzionali
protettive della salute e della maternità.
L'accoglimento del motivo di illegittimità costituzionale della
norma impugnata, per contrasto con l'art. 21, primo comma, della
Costituzione, assorbe le altre censure dedotte nel presente giudizio.
4. - Le ragioni innanzi esposte valgono anche per riconoscere
l'illegittimità costituzionale dell'impugnato art. 112 del t.u. delle
leggi di p.s., limitatamente alla parte in cui vieta la produzione,
l'acquisto, la detenzione, l'importazione, l'esportazione e la
circolazione di scritti, disegni ed immagini che divulgano i mezzi
diretti a impedire la procreazione o ne illustrano l'impiegò.
Esse si estendono inoltre all'art. 114, primo comma, del medesimo
t.u., nella parte in cui vieta l'inserzione, in giornali o periodici,
di avvisi o corrispondenze che si riferiscano ai predetti mezzi;
nonché all'art. 2 del decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 561,
nella parte in cui stabilisce che si può far luogo al sequestro di
giornali o altre pubblicazioni o stampati che divulgano i mezzi
medesimi, ne illustrano l'impiego o contengono inserzioni o
corrispondenze ad essi relative.
Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va
pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale anche di queste
ultime norme.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale:
dell'art. 553 del codice penale;
dell'art. 112, primo comma, del testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza (approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773), limitatamente
alle parole: "a impedire la procreazione";
dichiara inoltre, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, l'illegittimità costituzionale:
dell'art. 114, primo comma, del medesimo testo unico, limitatamente
alle parole: "a impedire la procreazione";
dell'art. 2, primo comma, del decreto legislativo 31 maggio 1946,
n. 561 (norme sul sequestro dei giornali e delle altre pubblicazioni),
limitatamente alle parole: "a impedire la procreazione".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 marzo 1971.
GIUSEPPE BRANCA - MICHELE FRAGALI -
COSTANTINO MORTATI - GIUSEPPE
CHIARELLI - GIOVANNI BATTISTA
BENEDETTI - FRANCESCO PAOLO BONIFACIO
- LUIGI OGGIONI - ANGELO DE MARCO -
ERCOLE ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA -
VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - VEZIO
CRISAFULLI - NICOLA REALE - PAOLO
ROSSI.