Ritenuto in fatto:
1. - Nel corso di un giudizio davanti al Consiglio di Stato su
ricorso della dottoressa Rosa Oliva contro il Ministero dell'interno,
fu sollevata questione di legittimità costituzionale della norma
contenuta nell'art. 4 del R.D. 4 gennaio 1920, n. 39, nonché dell'art.
7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, sul quale quella norma si fonda.
L'illegittimità di questi articoli sarebbe derivata dal contrasto in
cui essi si trovano con l'art. 3, primo comma e l'art. 51, primo comma,
della Costituzione, dato che la potestà che l'art. 51 conferisce al
legislatore di determinare i requisiti per l'ammissione agli uffici
pubblici non si riferirebbe al requisito del sesso. La violazione
dell'art. 51 si sarebbe avuta anche nel caso in cui si potesse
interpretare la norma contenuta in quest'articolo come quella che
consente di considerare il sesso come ragione di differente capacità,
stante che una limitazione siffatta non potrebbe essere contenuta in
una norma priva di efficacia formale di legge come quella di un
regolamento.
Il Consiglio di Stato ha precisato la questione di
costituzionalità, limitandola alla norma dell'art. 7 della legge 17
luglio 1919, n. 1176, e più esattamente alla parte che esclude le
donne dagli impieghi pubblici "che implicano... l'esercizio di diritti
e di potestà politiche... secondo la specificazione che sarà fatta
con apposito regolamento", ritenendo che non è certo risponda alla
volontà della Costituzione "l'aver affidato al potere normativo del
Governo, e per di più con ampia discrezionalità, la determinazione
degli impieghi pubblici non accessibili ai cittadini di sesso
femminile". Così specificata, il Consiglio di Stato ha ritenuto la
questione non manifestamente infondata e tale che il giudizio non
potesse essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione e in
conseguenza, con ordinanza emessa il 12 giugno 1959, ha sospeso il
procedimento e trasmesso gli atti a questa Corte.
L'ordinanza notificata alle parti in causa, al Presidente del
Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento, è stata pubblicata per disposizione del Presidente della
Corte sulla Gazzetta Ufficiale del 19 dicembre 1959, n. 307.
2. - Nel giudizio si è costituita la dottoressa Rosa Oliva,
rappresentata e difesa dall'avv. Costantino Mortati, depositando le
sue deduzioni l'8 gennaio 1960. La tesi della difesa della dottoressa
Oliva è la seguente. La norma contenuta nell'art. 51, primo comma,
della Costituzione, pone una "riserva assoluta" di legge. Lo si
dovrebbe dedurre già dalla stessa dizione letterale - "secondo i
requisiti stabiliti dalla legge" -, che non potrebbe avere alcun altro
significato se non dell'attribuzione al legislatore del potere - dovere
di disporre esso soltanto "in ordine ai requisiti stessi". Ma se ne
avrebbe la riprova considerando la formulazione diversa dell'art. 97
della Costituzione che impone di provvedere all'organizzazione dei
pubblici uffici "secondo disposizioni di legge", con che risulterebbe
chiara la volontà del legislatore di differenziare la forma necessaria
per la disciplina dei requisiti di ammissione ai pubblici uffici da
quella richiesta per l'organizzazione degli uffici.
Da ciò discenderebbe il divieto per il legislatore di rimettere ad
una qualsiasi fonte secondaria anche soltanto parte della disciplina
della materia e l'illegittimità dell'art. 7 della legge 17 luglio
1919, n. 1176, che ha rinviato ad apposito regolamento, con una formula
generica che non potrebbe valere neppure quale determinazione dei
criteri direttivi richiesta per la "riserva relativa" di legge, la
specificazione degli impieghi i quali implichino l'esercizio di diritti
e potestà politiche.
Né potrebbe opporsi a questa conclusione che la Costituzione
sopravvenuta non può determinare vizi formali di norme anteriori, dato
che l'eccezione sollevata tende al rispetto non già di una norma di
procedimento ma di una sostanziale quale è quella che vuole tutelare i
diritti fondamentali del cittadino condizionandone ogni limite
all'intervento diretto ed esclusivo del legislatore.
3. - Nel giudizio si è costituito il Ministro dell'interno ed è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, entrambi
rappresentanti e difesi dall'Avvocatura dello Stato, depositando le
proprie deduzioni il 30 novembre 1959.
L'Avvocatura dello Stato, premesso che la sola questione di
costituzionalità è quella dell'art. 7 della legge 17 luglio 1919, n.
1176, "sotto il profilo delle concrete modalità di attuazione od
esplicazione della riserva legislativa" dell'art. 51 della
Costituzione, sostiene che la questione sarebbe palesemente infondata
sotto un duplice profilo: preliminare e di merito.
In via preliminare, infatti, la proposta questione di legittimità
sarebbe infondata perché al momento dell'emanazione della legge del
1919 non esisteva riserva di legge, posta poi dall'art. 51 della
Costituzione. Non si potrebbe pertanto imputare alla legge la
trasgressione di una norma che "all'epoca non esisteva". E quando anche
la norma dell'art. 7, che conferisce una delega di poteri
all'esecutivo, fosse da ritenere attualmente illegittima, "il
regolamento emesso in base a tale delega sarebbe da considerare pur
sempre valido".
Più specificamente, sostiene l'Avvocatura che la riserva di legge
altro non sarebbe se non una norma di ripartizione di competenze tra i
due poteri (legislativo ed esecutivo) ai quali nel nostro ordinamento
è attribuita la produzione delle norme giuridiche, e, come tale,
sarebbe efficace per il nuovo ordinamento introdotto dalla
Costituzione, ma non potrebbe invalidare un atto posto legittimamente
in base a una diversa ripartizione di competenza esistente al momento
della produzione dell'atto stesso.
Comunque, la questione sarebbe infondata pure se si superasse
questo profilo preliminare, dato che il precetto costituzionale
dell'art. 51 sarebbe rispettato egualmente se il legislatore
considerasse e regolasse il sesso come un requisito, rimettendo al
potere esecutivo le modalità di applicazione. E questo sarebbe appunto
il caso della norma impugnata che avrebbe posto in via generale
categorie di impieghi inibiti alle donne, demandando al potere
esecutivo soltanto la specificazione di codeste categorie, tanto più
che questa specificazione sarebbe stata compiuta nel regolamento col
rispetto dei limiti espressamente segnati dalla legge.
4. - In una memoria depositata il 24 marzo di questo anno la difesa
della dottoressa Oliva, a illustrazione della sua tesi difensiva,
sostiene che l'esistenza di una riserva assoluta o di legge si ricava
in generale dal concorso di due elementi, quello della forma nel quale
essa viene espressa e l'altro della materia alla quale essa si
riferisce e che deve essere relativa ai valori fondamentali ai quali la
Costituzione si ispira, e, più precisamente, ai diritti che essa
proclama inviolabili. Orbene, nel caso in questione, che è quello
della norma contenuta nell'art. 51 della Costituzione, con - corrono
tutte e due questi elementi: quello formale - "requisiti stabiliti
dalla legge" -, e quello sostanziale, che è dato dalla natura del
diritto che il precetto costituzionale vuole regolato, il quale rientra
tra quelli da considerare fondamentali "perché con - feriscono la
caratteristica allo Stato democratico". Il riaffermato carattere di
riserva di legge che sarebbe del caso presente potrebbe consentire al
massimo l'intervento della fonte secondaria soltanto per la
specificazione di dettagli, che implichi l'esercizio di una
discrezionalità tecnica, non di una discrezionalità amministrativa, e
rende di conseguenza illegittima la norma dell'art. 7 della legge 1919,
n. 1176, che è ben lungi dal porre limiti concreti e insuperabili alla
normazione affidata all'Amministazione.
Quanto poi alla tesi dell'Avvocatura, secondo la quale la riserva
di legge non potrebbe essere fatta valere nei confronti delle norme
emanate prima dell'entrata in vigore della Costituzione, la difesa
della dottoressa Oliva obietta:
1) che tale riserva era già nella Costituzione albertina,
proclamata solennemente nell'art. 24, anche se era consentito al
legislatore di affidare al regolamento esecutivo di disporre anche
praeter legem;
2) che la riserva di legge non si risolve sempre in una semplice
norma di competenza, ma che assume valore di principio sostanziale e
deve sempre seguire la sorte delle norme sostanziali, tutte le volte in
cui, come nel caso, essa è imposta quale condizione per poter limitare
validamente la sfera dei diritti fondamentali riconosciuti ai cittadini
dalla Costituzione e dichiarati "inviolabili";
3) che ad ogni modo la Corte in due sentenze (n. 4 e n. 47 del
1957) avrebbe già ammesso il principio dell'efficacia della riserva di
legge nei confronti di norme emanate anteriormente alla Costituzione.
5. - In una memoria depositata anch'essa il 24 marzo di quest'anno
l'Avvocatura dello Stato riprende e svolge le sue tesi e quella,
preliminare, della non applicabilità del precetto dell'art. 51 alle
norme anteriori alla Costituzione e l'altra, di merito, della
costituzionalità della norma impugnata, si tratti di riserva di legge,
assoluta o relativa.
In particolare l'Avvocatura sostiene che anche quando la norma
dell'art. 51 avesse efficacia sulle norme anteriori alla Costituzione
non ne conseguirebbe la caducazione del regolamento, per il motivo che
nell'ordinamento precedente, nel caso di abrogazione della norma di
autorizzazione, veniva a cessare la potestà che la norma stessa
riconosceva al potere esecutivo, non già il regolamento emanato sul
fondamento di questa medesima potestà. La caducazione del regolamento
discenderebbe dalla illegittimità costituzionale della norma che l'ha
previsto, soltanto nel caso di illegittimità costituzionale
sostanziale conseguente all'entrata in vigore della Costituzione. Ma
non sarebbe il caso dell'art. 7 della legge 1919, dato che la
Costituzione, come del resto avrebbe già affermato questa Corte, con
la sentenza n. 56 del 1958, non avrebbe inibito al legislatore di
stabilire con riferimento al sesso esclusioni da impieghi e funzioni
pubbliche. Dal che l'Avvocatura trae la conseguenza che la questione di
legittimità dell'art. 7 si verrebbe sostanzialmente a ridurre alla
questione di legittimità del regolamento del 1920 e come tale sarebbe
manifestamente inammissibile. Infine, e, come asserisce, "per
compiutezza di difesa", l'Avvocatura dello Stato sostiene che
l'esclusione delle donne dalla carriera dell'Amministrazione
dell'interno sarebbe pienamente giustificata sia alla stregua delle
categorie fissate nell'art. 7 della legge del 1919, sia in base ad una
valutazione delle differenti attitudini delle persone dei due sessi
quale potrebbe essere compiuta dal legislatore anche oggi in base ai
principi fissati nella sentenza n. 56 di questa Corte.
6. - Nell'udienza del 6 aprile 1960 le parti hanno confermato le
loro tesi e insistito nelle conclusioni già prese.
Considerato in diritto:
1. - Nell'ordinanza la questione di costituzionalità sembra
prospettata principalmente, se non esclusivamente, sotto un profilo
particolare: quello, cioè, secondo il quale la norma contenuta
nell'art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, si porrebbe in
contrasto col precetto del primo comma dell'art. 51 della Costituzione,
per il fatto che attribuisce al regolamento la potestà di specificare
gli impieghi pubblici che implicano l'esercizio di diritti e di
potestà politiche, l'ammissione ai quali è preclusa alle donne. E
anche le parti hanno trattato prevalentemente questo punto e negli
scritti difensivi e nella discussione orale.
Senonché la Corte non può non osservare che la norma impugnata
dispone in primo luogo l'esclusione delle donne da tutti i pubblici
uffici che comportano l'esercizio di diritti e potestà politiche,
riservando alla legge di determinare i casi eccezionali di ammissione
delle donne a taluno di essi, e, viceversa, al regolamento di
specificare quali siano quelli ricompresi nella categoria generale: una
riserva che inerisce strettamente al precetto principale posto dalla
norma e che ha senso appunto in ragione di questo legame. La Corte deve
pertanto portare il suo esame sulla norma tutt'intera, così, del
resto, come l'ordinanza stessa l'ha enucleata dall'art. 7, non già
soltanto su una sua parte. Ora, non può essere dubbio che una norma
che consiste nello escludere le donne in via generale da una vasta
categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata
incostituzionale per l'irrimediabile contrasto in cui si pone con
l'art. 51, il quale proclama l'accesso agli uffici pubblici e alle
cariche elettive degli appartenenti all'uno e all'altro sesso in
condizioni di eguaglianza. Questo principio è stato già interpretato
dalla Corte nel senso che la diversità di sesso, in sé e per sé
considerata, non può essere mai ragione di discriminazione
legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli
appartenenti all'uno o all'altro sesso davanti alla legge. Una norma
che questo facesse violerebbe un principio fondamentale della
Costituzione, quello posto dall'art. 3, del quale la norma dell'art. 51
è non soltanto una specificazione, ma anche una conferma.
2. - Senonché, l'Avvocatura dello Stato ritiene che la Corte abbia
dato dell'art. 51 un'interpretazione che consentirebbe al legislatore
di stabilire esclusioni o ammissioni a pubblici uffici, muovendo
dall'appartenenza all'uno o all'altro sesso di coloro che aspirano ad
accedervi. Ma non è questa, così genericamente definita, la portata
della sentenza n. 56 del 26 settembre 1958. L'art. 51 o, più
esattamente, l'inciso "secondo i requisiti stabiliti dalla legge" non
sta punto a significare che il legislatore ordinario possa, senza
limiti alla sua discrezionalità, dettare norme attinenti al requisito
del sesso, ma vuol dire soltanto che il legislatore può assumere, in
casi determinati e senza infrangere il principio fondamentale
dell'eguaglianza, l'appartenenza all'uno o all'altro sesso come
requisito attitudinario, come condizione, cioè, che faccia presumere,
senza bisogno di ulteriori prove, l'idoneità degli appartenenti a un
sesso a ricoprire questo o quell'ufficio pubblico: un'idoneità che
manca agli appartenenti all'altro sesso o è in possesso di costoro in
misura minore, tale da far ritenere che, in conseguenza di codesta
mancanza, l'efficace e regolare svolgimento dell'attività pubblica ne
debba soffrire. Ora che questo non sia il caso della norma impugnata è
di tutta evidenza. In essa, infatti, il sesso femminile è assunto come
tale a fondamento di incapacità o di minore capacità, non già a
requisito di idoneità attitudinale, per una categoria amplissima di
pubblici uffici (e, ch'è più, di incerta definizione e, in
conseguenza, di vaghi confini), in via di regola, non già in via di
eccezione e con riferimento concreto a particolari situazioni,
ponendosi, anzi, in via d'eccezione e con rinvio alla legge, il caso di
ammissione delle donne a taluno degli uffici ricompresi nella categoria
generale di esclusione. La sua illegittimità costituzionale è
pertanto evidente al lume della giurisprudenza di questa Corte.
Con che, peraltro, si è anche detto come il legislatore possa
intervenire a regolare l'ammissione ai pubblici impieghi in ragione
dell'appartenenza all'uno o all'altro sesso, per dare all'intera
materia la necessaria disciplina richiesta dal sopravvenuto precetto
costituzionale.
3. - Stando così le cose, la questione intorno alla quale si sono
affaticate le parti, perde ogni rilievo nel presente giudizio. Poco
importa, infatti, ricercare la legittimità di una disposizione che
attribuisce al potere regolamentare la potestà di elencare gli uffici
che "implichino l'esercizio di diritti e di potestà politiche" e che
pertanto respingono da sé le donne, quando è in primo luogo
illegittima la norma, della quale quella disposizione è parte
inscindibile, che esclude le donne da quella categoria di uffici
pubblici e in ragione di siffatta esclusione. E poco importa, in
conseguenza, esaminare il quesito proposto dalla difesa della
dottoressa Oliva se e come una norma di procedimento o una norma
attributiva di competenze possa assumere il valore e l'efficacia di una
norma sostanziale e, in quanto tale, spiegare i suoi effetti anche in
confronto di norme anteriori all'entrata in vigore della Costituzione.
Né, infine, la Corte può pronunciarsi sull'altro quesito - proposto
dall'Avvocatura dello Stato -, che è della validità di un regolamento
emanato in base a una norma promulgata prima dell'entrata in vigore
della Costituzione e poi dichiarata illegittima, quesito che è di
competenza del giudice amministrativo.