Sentenza 103/1989 (ECLI:IT:COST:1989:103)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: SAJA - Redattore:
Udienza Pubblica del 13/12/1988;    Decisione  del 22/02/1989
Deposito del 09/03/1989;   Pubblicazione in G. U. 15/03/1989  n. 11
Norme impugnate:
Massime:  12996 
Massime:  12996 
Atti decisi:

Massima n. 12996
Titolo
SENT. 103/89. LAVORO (RAPPORTO) - CATEGORIE E QUALIFICHE - DIRITTO DEI LAVORATORI ALLA PARITA' DI INQUADRAMENTO A PARITA' DI MANSIONI - SUSSISTENZA DI SPECIFICHE LIMITAZIONI DELL'AUTONOMIA DEL DATORE DI LAVORO INTESE A REALIZZARE TALE PARITA' - CONFORMITA' DELLE STESSEAI PRINCIPI IN TEMA DI LIMITI DELLA LIBERTA' DI INIZIATIVA ECONOMICA - INFONDATEZZA DI QUESTIONE DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DI NORME DEL CODICE CIVILE IN TEMA DI INQUADRAMENTO. - COD.CIV., ARTT. 2086, 2087, 2095, 2099, 2103. - COST., ART. 41.

Testo
In materia di determinazione della categoria e della qualifica di inquadramento spettante al dipendente, in relaziona alle mansioni effettivamente svolte, l'autonomia del datore di lavoro, cui spetta l'organizzazione della azienda, e' circondata, per la tutela della dignita' umana dei lavoratori, da tutta una pregnante serie di limiti (nascenti da specifiche norme di legge, anche di rango costituzionale: artt. 3, 35 e 37 Cost.; 15 e 16 della legge n. 300/'70; 2095 e 2013 cod.civ.; legge n. 848/'55, di esecuzione della Dichiarazione dei diritti dell'uomo; legge n. 657/'66 di ratifica della Convenzione Generale dell'O.I.L. del 22 giugno 1962; legge n. 881/'77 di ratifica del Patto Internazionale di New York 19 dicembre 1966; nonche' da clausole di contratti collettivi di livello sia nazionale che aziendale) che assicurano un'effettiva realizzazione del principio di parita' di trattamento, la cui concreta osservanza e', poi, suscettibile di controllo da parte del giudice, abilitato a rimuovere eventuali violazioni ed a garantire cos piena tutela al diritto dei lavoratori alla correttezza del loro inquadramento: e' pertanto infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2099 e 2103, cod. civ., in relazione all'art. 41 Cost., denunciati in quanto consentirebbero all'imprenditore di attribuire ai dipendenti, a parita' di mansioni, diversi livelli o categorie generali di inquadramento retributivo.
Parametri costituzionali
Costituzione  art. 41

Riferimenti normativi
codice civile  n. 0  art. 2086  co. 0
codice civile  n. 0  art. 2087  co. 0
codice civile  n. 0  art. 2095  co. 0
codice civile  n. 0  art. 2099  co. 0
codice civile  n. 0  art. 2103  co. 0


Pronuncia

N. 103

SENTENZA 22 FEBBRAIO-9 MARZO 1989


LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2099, 2103 del codice civile, promosso con ordinanza emessa il 18 novembre 1986 dal Pretore di Napoli nel procedimento civile vertente tra Martucci Aniello ed altri e la S.p.a. Alfa Romeo Auto, iscritta al n. 370 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale dell'anno 1988.

Visto l'atto di costituzione della S.p.a. Credito Italiano (già Alfa Romeo Auto) nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 13 dicembre 1988 il Giudice relatore Francesco Greco;

Uditi gli avv.ti Arturo Maresca e Carlo Miletto per la S.p.a. Credito Italiano e l'Avvocato dello Stato Giorgio Zagari per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto

1. - In un giudizio civile promosso da taluni dipendenti dell'Alfa Romeo, per ottenere l'inquadramento della quarta (in luogo che nella terza) categoria retributiva (di cui al C.C.N.L. 16 luglio 1979 dei metalmeccanici), l'adito Pretore di Napoli, rilevato che i ricorrenti non risultavano adibiti ad attività proprie della categoria rivendicata e pur tuttavia, nell'ambito di un gruppo integrato non omogeneo (Gino), svolgevano gli stessi compiti assegnati ad altri lavoratori inquadrati nella predetta categoria quarta, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, onde ha sollevato, con ordinanza del 18 novembre 1986 (pervenuta alla Corte il 5 luglio 1988), in riferimento all'art. 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2096 e 2103 del codice civile "nella parte in cui consentono all'imprenditore di attribuire ai dipendenti, a parità di mansioni e nello stesso reparto, diversi livelli o categorie generali di inquadramento retributivo".

E ciò in contrasto con il principio di rispetto della "dignità umana" del lavoratore. Nel quale, appunto, si rifletterebbe - secondo il giudice a quo - l'esigenza della "uguale retribuzione per uguale lavoro", "alla stregua dei valori etici e politici vigenti nella società, desumibili anche dalle scelte normative interne ed internazionali, assunte ai vertici dello Stato".

2. - Nel giudizio innanzi alla Corte, si è costituito il Credito Italiano (nella sua qualità di successore per incorporazione dell'Alfa Romeo S.p.a.) eccependo l'inammissibilità della questione per carenza di motivazione in ordine alla sua rilevanza nel giudizio a quo (atteso che il Pretore avrebbe omesso di valutare la pur decisiva circostanza che "gli altri dipendenti, di quarta categoria, avevano ottenuto il correlativo inquadramento prima di essere adibiti allo stesso reparto in cui operavano i ricorrenti"). E, in subordine, ha contestato il fondamento dell'impugnativa.

Analoga conclusione di infondatezza della questione ha rassegnato anche l'Avvocatura per l'intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri, all'uopo osservando:

che "l'eventuale ed ipotetica situazione svantaggiosa del lavoratore dipende esclusivamente dall'autonomia dell'imprenditore e dall'incontro delle volontà contrattuali e non invece dal complesso delle disposizioni denunziate, che, dal canto loro, consentono e non vietano (sono cioè di natura ampliativa e non restrittiva della sfera giuridica dei destinatari) un diverso trattamento a parità di mansioni";

che, comunque, non potrebbe farsi discendere dall'art. 41 della Costituzione il preteso divieto all'attribuzione, non in funzione discriminatoria, di diversi livelli di inquadramento retributivo a parità di mansioni, "atteso che la tutela della dignità del lavoratore non postula l'imposizione di una parità di trattamento stipendiale".


Considerato in diritto

1. - Il Pretore di Napoli dubita della legittimità costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2099, 2103 del codice civile nella parte in cui consentono all'imprenditore di attribuire ai dipendenti, a parità di mansioni, diversi livelli o categorie generali di inquadramento retributivo, in quanto risulterebbe violato l'art. 41 della Costituzione perché sarebbe compresso il diritto dei lavoratori al rispetto della loro dignità umana, in ispregio dei limiti che il richiamato precetto costituzionale impone alla libertà di iniziativa economica.

2. - La questione non è fondata.

In base all'art. 2095 del codice civile, nel testo sostituito dall'art. 1 della legge 13 maggio 1985, n. 190, i lavoratori subordinati si classificano in quattro categorie: dirigenti, quadri, impiegati ed operai.

Le leggi speciali e i contratti collettivi (ora anche i contratti aziendali) determinano i requisiti di appartenenza alle dette categorie in relazione a ciascun ramo della produzione e alla particolare struttura dell'impresa.

Ma la contrattazione collettiva, stabilendo i detti requisiti, ha creato, a volte, altre categorie (c.d. contrattuali) che si pongono accanto a quelle legali.

Essa e, dopo lo Statuto dei lavoratori, la contrattazione aziendale, consentono di tenere conto delle situazioni aziendali, alcune volte complesse, e delle situazioni e delle condizioni dei lavoratori (età, anzianità di lavoro ecc...). Sono poste anche delle tecniche di classificazione, quali le declaratorie generali, le definizioni generali delle posizioni dei lavoratori, i profili professionali ecc.... All'interno delle categorie, comunque, si dà rilievo precipuo, specie ai fini retributivi, alle mansioni svolte di fatto dal lavoratore, in base alle quali si determinano le qualifiche professionali ed ora i livelli retributivi.

Ormai, però, si tende a superare la rigida distinzione in categorie, ad avvicinare, per esempio, gli operai agli impiegati e ai quadri che hanno una posizione intermedia.

Per quanto riguarda le mansioni, l'art. 2103 del codice civile, sostituito dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori), prevede l'obbligo del datore di lavoro di destinare il lavoratore alle mansioni per cui lo ha assunto o a mansioni equivalenti, senza, però, diminuzione di retribuzione, o alla categoria superiore successivamente acquisita. Sicché può affermarsi che nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti livelli retributivi, l'autonomia del datore di lavoro, cui spetta l'organizzazione dell'azienda, è fortemente limitata dal potere collettivo, ossia dai contratti collettivi e dai contratti aziendali.

Tali contratti, quali estrinsecazioni del potere delle associazioni sindacali, sono frutto e risultato di trattative e patteggiamenti e costituiscono una regolamentazione che, in una determinata situazione di mercato, è il punto di incontro, di contemperamento e di coordinamento dei confliggenti interessi dei lavoratori e degli imprenditori.

Ma per tutte le parti, anche quelle sociali, vige il dovere di rispettare i precetti costituzionali. Essi assicurano, in via generale, la tutela del lavoro (art. 35 della Costituzione); l'elevazione morale e professionale dei lavoratori; la proporzionalità tra retribuzione e quantità e qualità di lavoro e la sufficienza, in ogni caso, di essa perché sia assicurata al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa; e, in via più specifica, la pari dignità sociale anche dei lavoratori; pongono il divieto di effettuare discriminazioni per ragioni di sesso, di razza, di lingua e di religione (art. 3 della Costituzione), anche se sono tollerabili e possibili disparità e differenziazioni di trattamento, sempre che siano giustificate e comunque ragionevoli.

Alla donna lavoratrice si devono assicurare gli stessi diritti dei lavoratori e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni; i minori, a parità di lavoro, hanno diritto alla parità di retribuzione (art. 37 della Costituzione).

I principi costituzionali di tutela della dignità sociale e di divieto di discriminazioni nel campo del lavoro sono stati testualmente trasfusi nello Statuto dei lavoratori.

Gli artt. 15 e 16 sanciscono espressamente il divieto di atti discriminatori, ivi compresi i trattamenti di maggior favore, nell'impiego del lavoratore, nell'organizzazione del lavoro e nella gestione del rapporto da parte del datore di lavoro e, specificamente, nell'assegnazione di qualifiche e mansioni.

Il datore di lavoro deve astenersi dal compiere atti che possano produrre danni e svantaggi ai lavoratori, cioè lesioni di interessi economici, professionali e sociali; in particolare, dell'interesse allo sviluppo professionale (riferito sia alla carriera che alla valorizzazione delle relative capacità).

La vasta serie di interessi dei quali è portatore il lavoratore è protetta anche per la sfera esterna all'azienda: sono protetti non solo gli interessi di natura economico-professionale ma altresì quelli personali e sociali.

La dignità sociale del lavoratore è tutelata contro discriminazioni che riguardano non solo l'area dei diritti di libertà e l'attività sindacale finalizzata all'obiettivo strumentale dell'autotutela degli interessi collettivi, ma anche l'area dei diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della personalità morale e civile del lavoratore. La dignità è intesa sia in senso assoluto che relativo, cioè per quanto riguarda la posizione sociale e professionale occupata dal cittadino nella qualità di prestatore di lavoro dipendente.

Risulta notevolmente limitato lo ius variandi del datore di lavoro, mentre, proprio in virtù del precetto costituzionale di cui all'art. 41 della Costituzione, il potere di iniziativa dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento ed in ispecie non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana.

Le norme richiamate sono, peraltro, anche attuazione dei principi contenuti in vari atti e convenzioni internazionali. E cioè della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, secondo cui ogni individuo, senza discriminazioni, ha diritto a uguale retribuzione per uguale lavoro; della Convenzione Generale dell'Organizzazione internazionale del lavoro del 6/22 giugno 1962, ratificata con legge 13 luglio 1966, n. 657 (art. 14) secondo cui uno degli scopi della politica sociale degli Stati stipulanti o aderenti deve essere quella di sopprimere ogni discriminazione basata sulla razza, il colore, il sesso, la fede, l'appartenenza ad un gruppo tradizionale o alla iscrizione sindacale: e ciò con specifico riguardo, tra l'altro, alla materia dei tassi di salario, i quali dovranno essere stabiliti in conformità del principio "a lavoro uguale salario uguale" in uno stesso processo produttivo ed in una stessa impresa; e, all'identificazione di tale scopo, si aggiunge l'impegno ad adottare ogni misura pratica per ridurre tutte le differenze retributive nascenti da discriminazioni del tipo suddetto ed a migliorare il trattamento economico dei lavoratori meno retribuiti.

Principi analoghi sono contenuti nel Patto internazionale relativo ai diritti economici sociali e culturali, adottato a New York il 16 e 19 dicembre 1966, ratificato dall'Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, secondo cui al lavoratore deve essere assicurato un salario equo ed una remunerazione eguale per lavoro di valore eguale, senza alcuna distinzione.

È demandato al giudice l'accertamento e il controllo dell'inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli retributivi in base alle mansioni effettivamente svolte, con osservanza della regolamentazione apprestata sia dalla legge, sia dalla contrattazione collettiva ed aziendale, e con il rispetto dei richiamati precetti costituzionali e dei principi posti in via generale dall'ordinamento giuridico vigente, ispirato, come si è detto, anche ai principi contenuti nelle convenzioni e negli atti internazionali regolarmente ratificati. Il giudice deve provvedere alle necessarie verifiche ed ha il potere di correggere eventuali errori, più o meno volontari, perché il lavoratore riceva l'inquadramento che gli spetta nella categoria o nel livello cui ha diritto.


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2099, 2103 del codice civile, in riferimento all'art. 41 della Costituzione, sollevata dal Pretore di Napoli con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 1989.

Il Presidente: SAJA

Il redattore: GRECO

Il cancelliere: MINELLI

Depositata in cancelleria il 9 marzo 1989.

Il direttore della cancelleria: MINELLI