Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento civile vertente tra Coppola
Maria e s.a.s. Fiera ed altri, il Tribunale di Napoli, con ordinanza
del 18 luglio 1990, ha sollevato d'ufficio, in riferimento agli artt.
3 e 37, comma primo, Cost., una questione di legittimità
costituzionale dell'art. 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204,
interpretato nel senso che "il licenziamento intimato alla
lavoratrice madre durante il periodo di interdizione sia inefficace
sino al compimento del primo anno di età del bambino e non già
nullo".
Il giudice a quo, premesso che l'interpretazione della disposizione
impugnata sottoposta al vaglio di costituzionalità sarebbe
assolutamente prevalente nella giurisprudenza della Corte di
cassazione, osserva che tale interpretazione non garantirebbe in
maniera adeguata il diritto della donna ad essere madre senza che ne
sia pregiudicata la sua posizione lavorativa, protetto dal combinato
disposto degli artt. 3 e 37, primo comma, Cost.
Infatti, per un verso, soltanto la dichiarazione di nullità di
tale licenziamento sarebbe idonea a privarlo di qualsiasi rilievo
giuridico, sottraendo effettivamente al datore di lavoro -
limitatamente al periodo di interdizione - l'esercizio di poteri
connessi oggettivamente con la maternità della lavoratrice, di
poteri, cioè che non possano fondarsi sulle ipotesi previste dalle
lettere a), b) e c) del terzo comma dell'articolo impugnato.
Per altro verso, la necessaria tranquillità nella cura propria e
del bambino che con la garanzia del posto di lavoro si è inteso
assicurare alla lavoratrice, in attuazione dell'art. 37 Cost.,
sarebbe innegabilmente compromessa dalla preoccupazione di rimanere
soggetta ad un licenziamento soltanto differito nel tempo fino al
compimento di un anno di età del bambino.
Ulteriore argomento a favore della necessaria nullità si dovrebbe
poi trarre dal fatto che a tale conseguenza è assoggettato il
licenziamento per causa di matrimonio, il cui divieto sarebbe diretto
a perseguire scopi analoghi a quelli del divieto ora oggetto di
esame.
Infine, dovrebbe tenersi in considerazione che, nei casi
verificatisi anteriormente alla legge n. 108 del 1990 e ricadenti al
di fuori delle "aree protette" dal regime di stabilità, la garanzia
del posto di lavoro, e dunque dei fini posti dall'art. 37 Cost.,
potrebbe essere assicurata alla lavoratrice unicamente dagli
strumenti apprestati dall'art. 2 impugnato.
2. - Nel giudizio davanti a questa Corte le parti private non si
sono costituite né è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Considerato in diritto
1. - L'art. 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sulla "Tutela
delle lavoratrici madri", stabilisce che le lavoratrici che si
trovino in stato di gravidanza o puerperio non possono essere
licenziate dall'inizio del periodo di gestazione fino al termine del
periodo di interdizione del lavoro previsto dall'art. 4 della
medesima legge, nonché fino al compimento di un anno di età del
bambino. Il divieto di licenziamento - che opera in connessione con
lo stato oggettivo di gravidanza e puerperio - non si applica nei
casi di colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa per la
risoluzione del rapporto, di cessazione dell'attività dell'azienda
cui essa è addetta, di ultimazione della prestazione per la quale la
lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto per
scadenza del termine.
Il Tribunale di Napoli dubita che la predetta norma - interpretata
nel senso che il licenziamento intimato alla lavoratrice durante il
periodo di vigenza del divieto sia temporaneamente inefficace sino al
compimento di un anno di età del bambino anziché affetto da
invalidità assoluta - contrasti con gli artt. 3 e 37, primo comma,
della Costituzione. La norma, invero, non privando tale licenziamento
dei suoi effetti giuridici ma disponendo una mera sospensione
temporanea di questi ultimi, non offrirebbe alla lavoratrice una
protezione adeguata: se la lavoratrice madre, colpita dal
licenziamento, pur illegittimo, dovesse prendere atto, non già della
nullità di esso, ma del mero differimento del suo effetto
risolutorio, ne risulterebbe compromessa quella condizione di
tranquillità che è invece necessaria affinché la madre possa
provvedere alla cura propria e a quella del figlio, con ogni
prevedibile conseguenza negativa sullo svolgimento fisiologico della
gestazione e dell'allattamento.
Inoltre, in conseguenza della mancanza di quella protezione, la
maternità si tradurrebbe in un pregiudizio per la posizione
lavorativa della donna e quindi in un inammissibile ostacolo alla
realizzazione della sua piena eguaglianza nel mondo del lavoro.
2. - La questione è fondata.
Certamente, l'interpretazione che la giurisprudenza di
legittimità ha dato pressoché costantemente alla norma impugnata è
nel senso della inefficacia temporanea del licenziamento intimato
alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e puerperio
precisato nella norma stessa. Le Sezioni Unite della Corte di
cassazione hanno confermato tale orientamento con la sentenza n. 8535
del 21 agosto 1990, affermando che, nonostante l'esplicito divieto
stabilito dall'art. 2 della legge n. 1204, il licenziamento disposto
nel periodo suddetto deve ritenersi meramente inefficace,
analogamente a quanto ritenuto per il licenziamento intimato durante
la malattia del lavoratore e prima dell'esaurirsi del così detto
periodo di comporto. Ciò in ragione sia del carattere meramente
temporaneo del divieto, sia della mancanza di una espressa previsione
di nullità del recesso operato in violazione di esso (quale quella
invece contenuta nell'art. 1 della legge n. 7 del 1963), nonché in
considerazione del fatto che la conservazione del posto durante il
periodo di gravidanza e puerperio è sufficiente a realizzare i fini
di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti perseguiti dalla
legge n. 1204.
3. - La legge n. 1204 del 1971, sulla tutela delle lavoratrici
madri, con l'intento di dare più ampia e incisiva attuazione ai
richiamati precetti costituzionali ha migliorato notevolmente il
trattamento disposto dalla precedente legge n. 860 del 1950, e ciò
soprattutto prevedendo per la lavoratrice, un periodo di astensione
obbligatoria dal lavoro (artt. 4 e 5), nonché la possibilità di
fruire di periodi di assenza facoltativa (art. 7) e di riposi
giornalieri (art. 10). Orbene, presupposto essenziale e cardine di
questo sistema normativo, e di tutte le numerose altre disposizioni
protettive previste dalla legge, è il divieto di licenziamento
previsto - tranne per i casi tassativamente elencati - dall'art. 2,
come dimostra il fatto che tale divieto è penalmente sanzionato
dall'art. 31 della medesima legge. Ed infatti, in mancanza di tale
divieto, non soltanto il datore di lavoro potrebbe liberarsi,
licenziando la lavoratrice, degli oneri che la normativa di tutela
pone a suo carico, ma la lavoratrice stessa potrebbe essere indotta,
dal timore del licenziamento, a rinunziare ad avvalersi delle misure
di tutela per lei predisposte ed in particolare di quelle che la
legge rimette alla sua libertà di scelta (e, ancor prima, potrebbe
essere indotta a rinunziare alla stessa maternità).
È pur vero che, terminato il periodo previsto dall'art. 2 il
datore riacquista comunque il potere di recedere dal rapporto nei
casi e alle condizioni previste dalla legge; ma, una volta che il
rapporto di lavoro è rientrato nei binari della normalità, è ben
più difficile che si verifichi l'ipotesi - ed è quindi più
difficile che vi sia il fondato e condizionante timore - di un
licenziamento determinato dagli inconvenienti che le misure di
garanzia previste dalla legge n. 1204 hanno comportato per il datore
di lavoro in una fase del rapporto ormai pregressa.
4. - Un divieto che comporti un mero differimento dell'efficacia
del licenziamento anziché la nullità radicale di esso rappresenta
però una misura di tutela insufficiente rispetto alle direttive
dell'art. 37 della Costituzione anche sotto un altro profilo.
La protezione cui fa riferimento la norma costituzionale, infatti,
non si limita alla salute fisica della donna e del bambino, ma
investe tutto il complesso rapporto che, nel detto periodo, si svolge
tra madre e figlio; il quale rapporto - come ha affermato questa
Corte - deve essere protetto non solo per ciò che attiene ai bisogni
più propriamente biologici, ma anche in riferimento alle esigenze di
carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo
della personalità del bambino (sentenze nn. 1 del 1987 e 332 del
1988). Nel contempo, il principio posto dall'art. 37 - collegato al
principio di uguaglianza - impone alla legge di impedire che possano,
dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino,
derivare conseguenze negative e discriminatorie.
Entrambe queste esigenze impongono, per lo stato di gravidanza e
puerperio, di adottare misure legislative dirette non soltanto alla
conservazione dell'impiego, ma anche ad evitare che nel relativo
periodo di tempo intervengano, in relazione al rapporto di lavoro,
comportamenti che possano turbare ingiustificatamente la condizione
della donna ed alterare il suo equilibrio psico-fisico, con serie
ripercussioni sulla gestazione o, successivamente, sullo sviluppo del
bambino. Al fine di assicurare una effettiva tutela a tali interessi
invero la sola conservazione temporanea del rapporto, pur rimanendo
essenziale, non è tuttavia sufficiente. Non vi è dubbio, infatti,
che l'intimazione del licenziamento fuori dai casi espressamente
previsti, soprattutto nella particolare condizione in cui si trova la
donna nel periodo di gravidanza ed in quello di puerperio, è causa
di grave turbamento, anche se gli effetti del recesso non sono
immediati ma differiti. Questa sorta di licenziamento annunciato,
infatti, prospetta alla lavoratrice la certezza del venir meno, a
breve termine, di un reddito personale che può anche essere l'unico,
non solo per la stessa donna ma anche per il suo nucleo familiare, o
che può costituire comunque una quota essenziale del reddito
familiare complessivo; e ciò proprio in un momento in cui le
esigenze connesse alla nascita del figlio impongono nuovi oneri. E
comporta la necessità di reperire tempestivamente altre fonti di
reddito e di riorganizzare in conseguenza la propria esistenza e
quella della propria famiglia: il che non può non interferire in
modo pesantemente negativo sulle condizioni della donna e sul suo
rapporto con il figlio e quindi sulla salute e sulla formazione della
personalità di quest'ultimo. È inoltre appena il caso di
sottolineare quanto difficile si presenti - in una situazione ormai
cronicamente distante dal pieno impiego - una prospettiva di
occupazione per le donne con prole in tenera età, spesso colpite da
una sostanziale discriminazione.
Né la gravità di una simile turbativa può considerarsi rimossa
o anche significativamente attenuata dalle norme, pure di recente
introduzione, che delimitano o regolano in varia misura il potere di
recesso del datore di lavoro. In primo luogo, infatti, si tratta di
discipline che non hanno specifico riguardo alle esigenze di tutela
differenziata imposte dall'art. 37 - ma anche dall'art. 31 - con
riferimento alla condizione della donna e alla maternità. In secondo
luogo, per gran parte delle situazioni di prevalente impiego
femminile la tutela è soltanto obbligatoria e ridotta ad un compenso
risarcitorio assai limitato.
5. - Se queste sono le esigenze ed i principi di rango
costituzionale sottesi al divieto di licenziamento della lavoratrice
nel periodo di gravidanza e puerperio, ne deriva essere essenziale
che tale divieto sia assistito da quelle misure idonee ad impedire
che l'atto vietato sia ugualmente compiuto e sia ugualmente
conveniente per chi lo compie. Ciò dà ragione della sanzione penale
prevista dall'art. 31; ma ciò soprattutto richiede, sul piano
civile, che, se il licenziamento vietato viene ugualmente disposto,
l'ordinamento giuridico, di cui esso costituisce una violazione, non
lo recepisca in alcuna misura e cioè lo consideri totalmente
improduttivo di effetti, come del resto è disposto per l'ipotesi,
per certi aspetti analoga, del licenziamento per causa di matrimonio,
di cui alla legge 9 gennaio 1963, n. 7, che peraltro è anche
funzionalmente connessa alle concrete esigenze di tutela della
maternità, come mise in rilievo questa Corte con la sentenza n. 27
del 1969.
Né, d'altra parte, potrebbe opporsi che la nullità eccederebbe
gli scopi della tutela in quanto non sarebbe limitabile solo a tale
periodo, ed occorrerebbe, per procedere ad un successivo recesso, la
sussistenza di una nuova causa giustificatrice. Alle considerazioni
già svolte circa la individuazione degli scopi di tutela che vengono
qui in considerazione, deve essere aggiunto il rilievo che, terminato
il periodo protetto, il datore di lavoro riacquista l'integrità del
suo potere di recesso, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge e
delle regole da essa imposte. Il che certamente potrà richiedere se
tale è la normativa applicabile nella fattispecie concreta - la
sussistenza di una causa giustificatrice, ma nulla esige che la
stessa sia nuova, essendo invece necessario soltanto - come del resto
è logico - che essa sussista (ancora) al momento in cui il
licenziamento viene legittimamente intimato.
6. - Infine, resta da precisare che il rafforzamento della tutela
conseguente alla presente pronunzia è anche uno strumento necessario
per evitare che la maternità si traduca in concreto in un
impedimento alla realizzazione dell'effettiva parità di diritti
della donna lavoratrice. Ciò è in piena sintonia con lo stesso art.
37 Cost., che, letto in connessione con l'art. 3, secondo comma,
impone di accordare alla donna le misure speciali e più energiche di
protezione necessarie a rimuovere le gravi discriminazioni che in
fatto la colpiscono in relazione ai compiti connessi con la
maternità e la cura dei figli e della famiglia, dal cui assolvimento
peraltro trae vantaggio l'intera comunità.