Ritenuto in fatto
1. - Il pretore di Reggio Emilia, sezione distaccata di Guastalla,
con ordinanza del 15 maggio 1995, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell'art. 41, primo comma, del decreto
legislativo 15 agosto 1991, n. 277 (Attuazione delle direttive n.
80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n.
88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi
derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici
durante il lavoro, a norma dell'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n.
212), deducendo che il precetto penale ivi contenuto sarebbe privo
dei requisiti della determinatezza, in quanto imporrebbe al datore di
lavoro "la riduzione al minimo, in relazione alle conoscenze
acquisite in base al progresso tecnico, dei rischi derivanti dalla
esposizione al rumore mediante l'adozione di non meglio specificate
misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamente
attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte", e
contrasterebbe, quindi, con gli artt. 25 e 70 della Costituzione.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice
a quo rileva, in primo luogo, che la dispo-sizione censurata appare
ispirata al cosiddetto principio della massima sicurezza, già
sancito dall'art. 24 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali
per l'igiene del lavoro), il quale stabiliva che "nelle lavorazioni
che producono scuotimenti, vibrazioni o rumori dannosi ai lavoratori
devono adottarsi i provvedimenti consigliati dalla tecnica per
diminuirne l'intensità".
A differenza di questa disposizione - prosegue il rimettente -
l'art. 41, primo comma, del d.lgs. n. 277 del 1991 impone al datore
di lavoro l'obbligo di ridurre al minimo i rischi derivanti
dall'esposizione dei lavoratori al rumore, con riferimento, oltre che
alle prescrizioni e acquisizioni tecniche, anche ad altre generiche
misure "organizzative e procedurali", con la conseguenza che, perfino
nelle ipotesi in cui si sia al di sotto dei limiti di rumorosità
stabiliti dal medesimo decreto, questo solo dato potrebbe non bastare
ad esimere da colpa l'imprenditore.
Risulterebbe quindi evidente, ad avviso del giudice a quo, come
l'art. 41, primo comma, sia in contrasto con il principio di
determinatezza della legge penale, il quale trova la sua ratio
nell'esigenza di garantire la sicurezza del cittadino, nei confronti
del potere punitivo statuale.
Nell'osservanza della disposizione di cui all'art. 41, primo comma,
il cittadino si troverebbe, infatti, nell'impossibilità di
rintracciare una precisa regola di condotta da seguire. Né il
giudice potrebbe identificare un limite di tollerabilità del rumore,
in quanto violerebbe, così facendo, l'art. 70 della Costituzione,
attribuendosi i poteri propri del legislatore.
Il giudice rimettente non ignora che questa Corte ha, a suo tempo,
ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 24 del d.P.R. n. 303 del 1956 (sentenza n. 475 del 1988).
Tuttavia, se può ritenersi, come affermato nella sentenza citata,
che attraverso il riferimento contenuto in quella norma ai
provvedimenti consigliati dalla tecnica, "l'imprenditore è
perfettamente consapevole del comportamento che la legge esige" e che
non si può parlare di genericità "quando il legislatore fa
riferimento ai suggerimenti che la scienza specialistica può dare in
un determinato momento storico", a suo avviso, tali rilievi non
potrebbero essere de plano estesi all'art. 41, primo comma, del
d.lgs. n. 277 del 1991. In quest'ultima disposizione, infatti, come
si è visto, si fa riferimento a misure "organizzative e
procedurali", che sarebbe arduo per l'imprenditore individuare ed
attuare, e, senza alcuna specificazione in proposito, si impone la
"riduzione al minimo" del rischio, con la conseguenza che la
determinazione di tale minimo sarebbe lasciata all'arbitrio del
giudice.
Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che
nel giudizio sottoposto al suo esame è contestata, tra l'altro,
proprio la violazione dell'art. 41 del d.lgs. n. 277 del 1991,
sanzionata dall'art. 50 dello stesso decreto.
2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, eccependo in primo luogo la inammissibilità della questione,
in quanto la stessa riproporrebbe, in relazione alla nuova disciplina
recata dal d.lgs. n. 277 del 1991, un dubbio di legittimità
costituzionale già prospettato in relazione all'art. 24 del
previgente decreto legislativo 19 marzo 1956, n. 303, e deciso da
questa Corte nel senso della infondatezza.
La questione sarebbe, comunque, infondata in quanto gli elementi
normativi della fattispecie in esame apparirebbero particolarmente
circoscritti e specificati, da un lato con il riferimento alle regole
della tecnica e dell'esperienza e dall'altro con la stessa disciplina
recata dal d.lgs. n. 277 del 1991 agli artt. 4, 5, 8 e 9, che, sulla
scorta di indirizzi cogenti degli organismi comunitari,
indicherebbero quali accorgimenti l'imprenditore è tenuto ad
adottare fino al limite, non tanto e non solo di rendere tollerabile
il rumore, quanto di ridurre al minimo, in relazione alle conoscenze
acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti
dall'esposizione ad esso.
Considerato in diritto
1. - Viene all'esame della Corte la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 41, primo comma, del d.lgs. 15 agosto 1991,
n. 277, che impone al datore di lavoro di ridurre "al minimo, in
relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i
rischi derivanti da esposizione al rumore mediante misure tecniche,
organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando
gli interventi alla fonte".
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione impugnata violerebbe
gli artt. 25 e 70 Cost., per contrasto con i principii di riserva di
legge in materia penale e di tassatività e determinatezza della
fattispecie penale, in quanto porrebbe a carico del datore di lavoro
un obbligo del tutto generico e indeterminato, che fa riferimento
oltre che alle prescrizioni ed acquisizioni tecniche, anche ad altre
non meglio specificate misure "organizzative e procedurali", senza
contestualmente fissare un valore limite di tollerabilità del
rumore.
2. - La questione è infondata nei sensi di cui appresso si dirà.
Ai fini dell'inquadramento della fattispecie, oggetto del presente
giudizio, giova ricordare che la disposizione impugnata è inserita
in un più ampio contesto normativo, formato dalla complessa
disciplina sulla protezione dei lavoratori contro i rischi di
esposizione al rumore, dettata dal citato decreto legislativo in
attuazione della direttiva n. 86/188 CEE del 12 maggio 1986.
Sulla premessa che l'esposizione al rumore costituisce per il
lavoratore un grave fattore di rischio, con tale decreto legislativo
il datore di lavoro è chiamato all'adempimento di obblighi che non
sono enunciati genericamente, ma sono descritti in maniera assai
puntuale e dettagliata e sanzionati penalmente (art. 50).
In primo luogo è imposto al datore di lavoro il dovere di
procedere alla periodica valutazione del rumore nei luoghi di lavoro,
attraverso personale competente, con strumentazione adeguata,
consultando anche i lavoratori o i loro rappresentanti (art. 40). Per
i luoghi dove l'esposizione quotidiana al rumore supera determinati
valori (90 dBA per l'esposizione quotidiana personale e 140 dB per la
pressione acustica istantanea non ponderata), sono prescritte
segnaletiche appropriate e, ove possibili, perimetrazioni e
limitazioni di accesso (art. 41, commi secondo e terzo).
Un obbligo generale di informare il lavoratore sui rischi derivanti
all'udito è imposto, invece, solo se l'esposizione personale al
rumore sia superiore a 80 dBA, e l'informazione deve riguardare le
misure adottate, le misure di protezione alle quali i lavoratori
devono conformarsi, la funzione dei mezzi protettivi individuali, le
loro modalità d'uso e le circostanze nelle quali ne è richiesto
l'impiego, nonché il significato dei controlli sanitari previsti e
della preventiva e periodica valutazione del rumore (art. 42, primo
comma).
Nei casi di esposizione superiore a 85 dBA, oltre al dovere di
informazione, è imposto al datore di lavoro il dovere di provvedere
a che i lavoratori ricevano una adeguata formazione sull'uso dei
mezzi individuali di protezione dell'udito (art. 42, secondo comma),
che sono forniti dal datore di lavoro, e devono essere adeguati (art.
43). Sono inoltre previste, ma solo a partire da un livello di
esposizione superiore a 80 dBA, visite preventive e controlli
sanitari, la cui frequenza è stabilita dal medico competente e non
può comunque essere inferiore ad un determinato periodo (art. 44).
Ma la tecnica legislativa, caratterizzata da una serie di
prescrizioni puntuali e dettagliate, nelle quali i comportamenti che
il datore di lavoro deve osservare ai diversi livelli di rumore sono
minuziosamente descritti, è contraddetta e sopravanzata, nell'art.
41, primo comma, da una tecnica esattamente opposta: quella della
previsione generale e di principio, anch'essa penalmente sanzionata
nell'art. 50, caratterizzata più dalla predeterminazione dei fini
che il datore di lavoro deve raggiungere, che dalla individuazione
dei comportamenti che egli è tenuto ad osservare, e suscettibile
pertanto di ampliare la discrezionalità dell'interprete. "Il datore
di lavoro - dispone, infatti, al primo comma, come si è detto, il
citato art. 41 - riduce al minimo, in relazione alle conoscenza
acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti
dall'esposizione al rumore, mediante misure tecniche, organizzative e
procedurali concretamente attuabili, privilegiando gli interventi
alla fonte".
È questa disposizione, assai più della complessa disciplina di
dettaglio contenuta nel decreto, a fare luce sulla reale valutazione
del legislatore circa le potenzialità lesive delle lavorazioni
rumorose. Il rumore, anche ai livelli in cui non scatta alcuno
specifico obbligo di protezione, neppure individuale, costituisce per
il lavoratore un fattore di rischio, sicché la sua riduzione al
minimo è comunque doverosa.
Una simile valutazione, che il legislatore italiano, nell'attuare
la corrispondente direttiva comunitaria, ha inequivocamente compiuto,
non può essere contrastata da questa Corte. La cogenza dei valori
espressi dall'art. 41 della Costituzione - secondo il quale
l'iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare
danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana - è
certamente tale da giustificare una valutazione negativa, da parte
del legislatore, dei comportamenti dell'imprenditore che, per
imprudenza, negligenza o imperizia, non si adoperi, anche al di là
degli obblighi specificamente sanzionati, per ridurre l'esposizione
al rischio dei propri dipendenti.
Per questa ragione, l'eliminazione dell'art. 41, primo comma, del
d.lgs. n. 277 del 1991 dal nostro ordinamento, sollecitata dal
giudice a quo, comporterebbe anche l'eliminazione del generale dovere
di protezione che esso pone a carico del datore di lavoro e
segnerebbe così un arretramento, e non un avanzamento, sul piano
della concretizzazione dei principii costituzionali.
3. - È vero, tuttavia, che il diritto del lavoratore a ricevere
adeguata protezione non è il solo valore in gioco.
La sicurezza del lavoro costituisce certamente un limite
all'autonomia dell'imprenditore, ma quando sul fondamento di tale
limite si intende basare una fattispecie criminosa, viene in
considerazione l'indefettibile principio costituzionale di necessaria
determinatezza delle previsioni della legge penale.
Ed è nella considerazione di questo principio che il giudice a quo
rivolge all'art. 41, primo comma, del decreto legislativo, la sua
censura: nell'imporre l'adozione di misure tecniche, organizzative e
procedurali concretamente attuabili, la disposizione renderebbe
eccessivamente indeterminati i doveri dell'imprenditore.
Questa Corte, come ricorda il medesimo giudice a quo, ha già
affrontato la questione, in parte analoga, della legittimità
costituzionale dell'art. 24 del d.P.R. n. 303 del 1956, che regolava
in precedenza la materia, denunciato anch'esso per violazione del
principio di determinatezza della norma penale, perché prescriveva,
nelle lavorazioni che producono scuotimenti, vibrazioni o rumori
dannosi ai lavoratori, l'adozione di provvedimenti "consigliati dalla
tecnica per diminuirne l'intensità". E la questione fu risolta nel
senso di ritenere consentito al legislatore penale, poiché ciò non
comporta violazione del principio sancito dall'art. 25 della
Costituzione, far riferimento a nozioni che hanno la loro fonte in
altri settori dello scibile, restando, in questi casi, la fattispecie
penale sufficientemente determinata (sentenza n. 475 del 1988).
Ma l'art. 41, primo comma, del d.lgs. n. 277 del 1991 allarga
notevolmente lo spettro dei comportamenti rilevanti e li investe con
norma penale di scopo, che fa riferimento non più solo ai
provvedimenti suggeriti dalla tecnica - come l'art. 24 del d.P.R. n.
303 del 1956 - ma anche alle misure organizzative e procedurali
concretamente attuabili.
Non viene quindi in questione un profilo particolare della
attività di impresa, ma quasi la sua totalità. Ciò che è
normalmente oggetto di discrezionalità dell'imprenditore, salvi i
limiti posti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, è qui
suscettibile di trasformarsi in attività penalmente vincolata, nel
suo insieme, al raggiungimento di un fine; con la conseguenza che,
per la pluralità dei mezzi il cui impiego viene teleologicamente
orientato dalla previsione di una pena e per le pressoché indefinite
possibilità di una loro combinazione, finisce con l'essere il
giudice penale - e di fatto spesso il suo perito - ad assumere quella
discrezionalità.
La sola via per rendere indenne l'art. 41, primo comma, del d.lgs.
n. 277 del 1991 dalla denunciata violazione dell'art. 25 della
Costituzione è, allora, quella di fornirne, in sede applicativa, una
lettura tale da restringere, in maniera considerevole, la
discrezionalità dell'interprete. Tutto ciò nella consapevolezza
che, attesa la scelta del legislatore di sanzionare penalmente il
generale dovere di protezione della sicurezza dei lavoratori, che
trova nell'art. 41 della Costituzione il suo fondamento, il principio
di determinatezza incide sulla fattispecie penale, di necessità, in
maniera peculiare.
Tale principio viene ad essere, invero, soddisfatto non già
attraverso la descrizione dettagliata dei comportamenti penalmente
vietati, ma con un restringimento della discrezionalità
dell'interprete, la quale, rispetto a norme che impongono la
realizzazione di risultati (minimizzazione del rischio di esposizione
al rumore o, se si preferisce, massimizzazione della sicurezza), è,
per la struttura di queste, bensì riducibile, ma non sopprimibile. E
il modo per restringere, nel caso in esame, la discrezionalità
dell'interprete è ritenere che, là dove parla di misure
"concretamente attuabili", il legislatore si riferisca alle misure
che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni,
corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e
ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente
acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione
dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza
propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive.
Ed è in questa direzione che dovrà, di volta in volta, essere
indirizzato l'accertamento del giudice: ci si dovrà chiedere non
tanto se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di
conoscenze nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standard
di produzione industriale, o specificamente prescritta.
L'art. 41 della Costituzione e il pregnante dovere, che da esso è
desumibile, di protezione dei lavoratori, potrebbe, è vero,
pretendere dall'imprenditore assai di più e giustificare una
raffigurazione legislativa che assegni all'impresa il compito di
realizzare innovazioni finalizzate alla sicurezza, nella quale il
ruolo di impulso fosse assegnato al giudice civile ed alla pubblica
amministrazione. Ma la scelta di sanzionare penalmente, con una norma
generale e onnicomprensiva, tutte le fattispecie in cui
l'imprenditore si sottragga a questo ruolo, ha di necessità il suo
contrappeso costituzionale, che è dato dall'esigenza di restringere,
in una interpretazione costituzionalmente vincolata, le potenzialità
della disposizione, per non vanificare il canone di determinatezza
della fattispecie penale.