Titolo
SENT. 71/96. PROCESSO PENALE - MISURE CAUTELARI PERSONALI (NELLA SPECIE: CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE) - APPELLO - EMISSIONE DEL DECRETO DI RINVIO A GIUDIZIO - IMPOSSIBILITA' DEL CONTROLLO, SIA FORMALE CHE SOSTANZIALE, SULLA PERSISTENZA DEL REQUISITO DELLA "GRAVITA' INDIZIARIA DI COLPEVOLEZZA" AI FINI DEL MANTENIMENTO DEL REGIME CAUTELARE - PRETESA IRRAGIONEVOLE DISPARITA' DI TRATTAMENTO TRA INDAGATI ED IMPUTATI, NONCHE' TRA IMPUTATI A SECONDA DELLA FASE PROCESSUALE IN CUI SI TROVINO - PRETESA COMPRESSIONE DEL DIRITTO DI DIFESA - PRETESA LESIONE DEL PRINCIPIO SECONDO CUI CONTRO I PROVVEDIMENTI SULLA LIBERTA' PERSONALE E' SEMPRE AMMESSO IL RICORSO IN CASSAZIONE PER VIOLAZIONE DI LEGGE - LIMITE IRRAGIONEVOLMENTE DISCRIMINATORIO E GRAVEMENTE LESIVO DEL DIRITTO DI DIFESA - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE.
Testo
Sono costituzionalmente illegittimi, per violazione degli artt. 3, comma primo, 24, comma secondo, e 111, comma secondo, Cost., gli artt. 309 e 310 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza nell'ipotesi in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio a norma dell'art. 429 dello stesso codice, in quanto - postoche' il rispetto del "principio di assorbimento" (che rappresenta il punto di equilibrio circa l'autonomia del provvedimento incidentale di liberta' rispetto a quello di merito) implica che, soltanto ove intervenga una decisione che in ogni caso contenga in se' una valutazione del merito di incisivita' tale da assorbire l'apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, puo' dirsi ragionevolmente precluso il riesame di tale punto da parte del giudice chiamato a pronunciarsi in sede di impugnazione proposta attraverso i provvedimenti 'de libertate' - il decreto che dispone il giudizio, comportando in presenza di prova insufficiente o contraddittoria, una deliberazione del merito orientata soltanto alla necessita' del dibattimento, non puo' ritenersi in alcun modo assorbente rispetto alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza a fondamento dell'adozione e del mantenimento delle misure cautelari personali e, quindi, preclusivo del relativo esame in sede di impugnazione 'de libertate', avente ad oggetto la tutela del bene primario della liberta' personale. - Cass. S.U. pen. nn. 36/1995; 38/1995. red.: S. Di Palma
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
co. 1
Costituzione
art. 24
co. 2
Costituzione
art. 111
co. 2
Riferimenti normativi
codice di procedura penale
n. 0
art. 309
co. 0
codice di procedura penale
n. 0
art. 310
co. 0
N. 71
SENTENZA 7-15 MARZO 1996
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI Giudice, prof. Enzo CHELI, dott.
Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI,
prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo
VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 309 e 310 del
codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 20
giugno 1995, l'11 maggio 1995 (n. 14 ordinanze) e il 25 maggio 1995
(n. 2 ordinanze) dal Tribunale di Catanzaro, iscritte ai nn. da 758
a 774 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell'anno
1995;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 7 febbraio 1996 il Giudice
relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. - Chiamato a pronunciarsi in sede di appello proposto avverso
una ordinanza adottata in materia di misure cautelari personali, il
Tribunale di Catanzaro ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'art. 310 cod. proc. pen., in relazione all'art.
429 del medesimo codice, nella parte in cui è precluso, dopo il
decreto di rinvio a giudizio, il controllo sulla persistenza del
requisito di "gravità indiziaria di colpevolezza" ai fini del
mantenimento del regime cautelare, in riferimento agli artt. 3, 24,
secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione.
Rileva il giudice a quo che la giurisprudenza ha in più occasioni
avuto modo di affermare che, in tema di provvedimenti riguardanti la
libertà personale dell'imputato, l'avvenuto rinvio a giudizio
preclude la proposizione e l'esame di ogni questione attinente alla
sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, fatta salva l'ipotesi
in cui si sia in presenza di fatti nuovi o sopravvenuti che, perciò
stesso, non vengono ad essere in contrasto con la intervenuta
decisione. Tale principio, osserva il rimettente, troverebbe la
propria forza "in due argomenti di non trascurabile rilievo": da un
lato, infatti, si fa leva sulle conseguenze che scaturiscono dalla
soppressione dell'inciso "evidente" che compariva nel testo dell'art.
425 cod. proc. pen., dall'altro si rivaluta la disciplina del rinvio
a giudizio prevista dall'art. 374 del codice di rito abrogato,
rispetto alla quale "la giurisprudenza era consolidata
nell'escludere, una volta emanata la ordinanza di rinvio a giudizio,
qualsiasi discussione sul fondamento della accusa, sulla
qualificazione giuridica del fatto e sulla sufficienza degli indizi".
Osserva tuttavia il giudice a quo che la riforma del 1993, che ha
soppresso il requisito della "evidenza" prima sancito dall'art. 425
cod. proc. pen., non avrebbe delineato alcun parametro sui poteri
valutativi del giudice della udienza preliminare, sicché nessun dato
normativo comporterebbe la "asserita coincidenza del criterio della
gravità indiziaria anche ai fini del rinvio a giudizio", militando,
anzi, argomenti sistematici in senso opposto. Per un verso, infatti,
il criterio decisorio della udienza preliminare non può individuarsi
nella "probabile condanna dell'imputato", mentre, sotto altro
profilo, neppure può prospettarsi una assimilazione con il vecchio
proscioglimento istruttorio, caratterizzato dalla completezza della
istruzione e dalla presenza della formula del dubbio.
Prospettata, quindi, l'autonomia del procedimento cautelare e
rilevato come nulla esclude che, "nel rispetto della separazione dei
giudizi, l'imputato sia rinviato a giudizio in stato di libertà", il
rimettente ritiene nella specie vulnerati:
1) l'art. 111, secondo comma, della Costituzione, in quanto il
controllo di merito, preliminare a quello di legittimità, viene
precluso in virtù di una "probabile colpevolezza" insita nel
provvedimento di rinvio a giudizio;
2) l'art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento
connessa alla diversità di fase processuale, considerato che il
differente regime si collega ad una "decisione preliminare, a tasso
garantistico non ben definito", e che si pone come fatto occasionale
e sopravvenuto "rispetto ai giudizi cautelari pendenti";
3) l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto si
restringe la sfera delle censure proponibili avverso il provvedimento
cautelare impugnato.
2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente
infondata.
L'Avvocatura, dopo aver escluso qualsiasi rilevanza dei riferimenti
relativi all'art. 425 cod. proc. pen., osserva che se il giudice
dell'udienza preliminare ha pronunciato il decreto che dispone il
giudizio, ciò significa che l'accusa è sembrata sostenibile in
dibattimento, sicché la valutazione e la portata di tale pronuncia
è questione - conclude l'Avvocatura - che appartiene alla competenza
esclusiva del giudice che deve decidere sulla sussistenza dei
presupposti della misura cautelare.
3. - Con numerose altre ordinanze, tutte di identico contenuto, il
medesimo Tribunale di Catanzaro, adìto in sede di riesame, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 309 cod.
proc. pen., in relazione agli artt. 292, secondo comma, e 425 dello
stesso codice, nella parte in cui precludono, dopo il decreto di
rinvio a giudizio, il controllo sulla sussistenza del requisito di
"gravità indiziaria di colpevolezza" ai fini della legittimità
della ordinanza custodiale. Le considerazioni svolte a sostegno della
impugnazione sono nella sostanza analoghe a quelle relative alla
questione sub 1), anche se difettano gli argomenti ivi addotti per
contrastare l'orientamento giurisprudenziale su cui si radicano le
varie censure. Comuni sono anche le ragioni per le quali
risulterebbero violati gli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della
Costituzione, indicandosi, quale ulteriore profilo di illegittimità,
la violazione anche dell'art. 13, secondo comma, della Costituzione,
giacché, nell'ipotesi di specie, la motivazione del provvedimento
restrittivo della libertà "sarebbe ex lege superflua".
4. - Nello spiegare atto di intervento, l'Avvocatura generale dello
Stato ha contestato la fondatezza della questione. Osserva, infatti,
l'Avvocatura che non si profilerebbe alcun contrasto con l'art. 13
della Costituzione, giacché "non può dubitarsi che il rinvio a
giudizio rientri tra gli atti motivati" della autorità giudiziaria,
così come non violato deve ritenersi l'art. 111, secondo comma,
della Costituzione, in quanto "non può parlarsi di presunzione
assoluta di "probabile colpevolezza" indicata nel decretato rinvio a
giudizio".
Quanto al dedotto contrasto con l'art. 3 della Costituzione,
l'Avvocatura ritiene "ragionevole attribuire al pubblico ministero la
discrezionalità nella scelta del momento procedimentale nel quale
azionare la pretesa cautelare", concludendo, dunque, per la
insussistenza del lamentato "aggiramento" dell'istituto del riesame.
Considerato in diritto
1. - Ancorché riferite a differenti previsioni normative, le
questioni che il giudice ha sollevato con le varie ordinanze appaiono
fra loro intimamente connesse, avuto riguardo alla identità del
petitum perseguito e degli argomenti addotti a sostegno delle
prospettate censure: i relativi giudizi vanno pertanto riuniti per
essere decisi con un'unica sentenza.
2. - Investito da numerose richieste di riesame e da un appello
proposto avverso una ordinanza pronunciata in materia di misure
cautelari personali, il Tribunale di Catanzaro ha sollevato, nelle
corrispondenti sedi incidentali, questione di legittimità
costituzionale degli artt. 309 e 310 del codice di procedura penale,
nella parte in cui precludono al giudice delle impugnazioni (riesame
ed appello) il controllo del requisito dei gravi indizi di
colpevolezza dopo l'emissione del decreto che dispone il giudizio.
Osserva, infatti, il giudice a quo che, a seguito della entrata in
vigore della legge 8 aprile 1993, n. 105, dalla quale è derivata la
soppressione della parola "evidente" che prima compariva nel testo
dell'art. 425 del codice di procedura penale, ha finito per prevalere
in giurisprudenza la tesi secondo la quale, in tema di provvedimenti
riguardanti la libertà personale dell'imputato, l'intervenuto
provvedimento che dispone il giudizio integra motivo di preclusione
in ordine alla proposizione e all'esame di ogni questione attinente
alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza; una preclusione,
denuncia il rimettente, che porrebbe le norme impugnate in contrasto
con più principii sanciti dalla Carta fondamentale. Violato sarebbe,
infatti, a parere del giudice a quo l'art. 111, secondo comma, della
Costituzione, in quanto la tutela assicurata in sede di legittimità
contro i provvedimenti sulla libertà personale, risulterebbe invece
esclusa nel preliminare controllo di merito a causa di una
presunzione di "probabile colpevolezza" insita nel decreto che
dispone il giudizio. Risulterebbe poi violato il principio di
uguaglianza, in quanto la indicata preclusione viene fatta dipendere
da un provvedimento che, come il decreto che dispone il giudizio, da
un lato "si pone come fatto occasionale e sopravvenuto, rispetto ai
giudizi cautelari pendenti", dall'altro si presenta come "decisione
preliminare a tasso garantistico non ben definito", essendo atto del
tutto privo di motivazione e insuscettibile di qualsiasi controllo di
merito. La normativa censurata si appaleserebbe inoltre in contrasto
con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, giacché, osserva
il giudice a quo restringendosi l'area delle censure proponibili
proprio sul "fondamento sostanziale di merito" del provvedimento
cautelare impugnato, viene ad essere "ingiustificatamente ed
aleatoriamente sacrificato il diritto di difesa in relazione al bene
primario della libertà". Limitatamente, infine, alla questione
concernente l'art. 309 del codice di procedura penale, il Tribunale
rimettente ritiene violato anche l'art. 13, secondo comma, della
Costituzione, in quanto nel caso di specie la motivazione del
provvedimento coercitivo "sarebbe ex lege superflua".
Il giudice a quo fonda dunque le proprie censure non su aspetti che
direttamente scaturiscono dall'analisi testuale delle disposizioni
coinvolte, ma su un postulato interpretativo elaborato dalla
giurisprudenza di legittimità, ove si è in più occasioni
individuata nella translatio iudicii disposta all'esito della udienza
preliminare una decisione di pregnanza delibativa tale da assorbire
qualsiasi profilo inerente al presupposto dei gravi indizi di
colpevolezza, al punto da precluderne la rivalutazione in sede di
impugnativa proposta avverso i provvedimenti de libertate. Un
orientamento, questo, che, già largamente prevalente, ha da ultimo
ricevuto l'avallo di due sentenze delle sezioni unite penali della
Corte di cassazione (v. sentenze nn. 36 e 38 del 25 ottobre 1995).
In tali pronunce detta Corte ha infatti avuto modo di ribadire che, a
seguito della modifica dell'art. 425 del codice di procedura penale,
operata dalla legge n. 105 del 1993 nel chiaro intento di ampliare la
valutazione del merito da parte del giudice dell'udienza preliminare,
risulta sicuramente confermato che il provvedimento di rinvio a
giudizio emesso a conclusione di quella udienza implica un
accertamento positivo della sussistenza di elementi tali da integrare
la possibilità dell'affermazione di responsabilità e, quindi, la
"qualificata probabilità di colpevolezza" richiesta perché si possa
parlare dei "gravi indizi" di cui all'art. 273 del codice di rito.
Da ciò la conclusione che anche il rinvio a giudizio disposto a
norma dell'art. 429 del codice di procedura penale entra a far parte
di quelle statuizioni adottate da organi giurisdizionali nell'ambito
del processo a fondamento delle quali è posta, in modo esplicito od
implicito, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e che, per
giurisprudenza ormai costante, precludono, in mancanza di fatti nuovi
sopravvenuti, la rivalutazione del requisito della gravità degli
indizi.
Tale essendo, quindi, il concreto atteggiarsi delle norme secondo
un ormai cristallizzatosi quadro interpretativo del sistema, e
poiché da tale assetto ermeneutico - che, pure, il giudice a quo
mostra di non condividere ma dal quale evidentemente non intende
discostarsi - non potrà prescindersi agli effetti del presente
giudizio in quanto divenuto parte integrante della disciplina
positiva, ne deriva che per risolvere il dubbio di costituzionalità
avanzato dal Tribunale rimettente occorrerà verificare se la
preclusione, di cui innanzi si è detto, si presenti o meno in
contrasto con i parametri che il medesimo giudice ha puntualmente
evocato a sostegno delle dedotte censure. Devesi anzitutto richiamare
l'assunto espresso nelle suddette sentenze delle sezioni unite,
secondo il quale la soluzione del quesito non può fondarsi su una
concezione rigorosa ed astratta della autonomia del provvedimento
incidentale di libertà rispetto a quello di merito, giacché ciò
condurrebbe alla paradossale conseguenza di ritenere possibile la
rivalutazione del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza in
qualsiasi momento del processo e, dunque, anche dopo l'eventuale
intervento di una sentenza di condanna, in aperta antinomia con la
coerenza stessa del sistema, che certo non tollera il concorso di due
pronunce giurisdizionali sul tema della "colpevolezza", l'una
incidentale e di tipo prognostico e l'altra fondata sul pieno merito
e come tale suscettibile di passaggio in giudicato.
Il punto di equilibrio deve dunque rinvenirsi nel rispetto del
principio di assorbimento, nel senso che soltanto ove intervenga una
decisione che in ogni caso contenga in sé una valutazione del merito
di tale incisività da assorbire l'apprezzamento dei gravi indizi di
colpevolezza, potrà dirsi ragionevolmente precluso il riesame di
tale punto da parte del giudice chiamato a pronunciarsi in sede di
impugnative proposte avverso i provvedimenti de libertate. Il tema
del presente giudizio di costituzionalità sta dunque tutto
nell'esaminare se il decreto che dispone il giudizio emesso all'esito
della udienza preliminare possa ritenersi o meno rispondente a un
simile postulato.
Può subito osservarsi, a tal proposito, che il decreto previsto
dall'art. 429 del codice di procedura penale, non a caso strutturato
dal legislatore come provvedimento di impulso processuale nel quale
è carente l'indicazione dei "motivi" che lo sostengono, equivale ad
un enunciato giurisdizionale che afferma, in positivo, la necessità
del dibattimento e, in negativo, l'inesistenza dei presupposti per
l'adozione della sentenza di non luogo a procedere, sicché è del
tutto ovvio che le modifiche subite dall'art. 425 del codice di
procedura penale, come d'altra parte evidenziato dalla giurisprudenza
di legittimità di cui innanzi si è detto, inevitabilmente si
riflettano sull'"area" di valutazione del merito che quel decreto è
oggi in grado di esprimere. Non v'è dubbio, quindi, che la
soppressione dell'aggettivo "evidente", che prima circoscriveva entro
angusti confini la regola di giudizio che presiedeva alla adozione
delle formule in fatto della sentenza di non luogo a procedere, abbia
sensibilmente aumentato la possibilità di adottare una siffatta
pronuncia e, per converso, incrementato in corrispondente misura
l'apprezzamento che, sempre in fatto, corrobora l'alternativa scelta
della translatio iudicii. Ma da tale pur significativo mutamento di
regime non è possibile trarre la conclusione che l'atto di rinvio a
giudizio si presenti come decisione fondata su una valutazione del
merito necessariamente sovrapponibile a quella che inerisce alla
verifica del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza che
legittima l'applicazione e il mantenimento delle misure cautelari
personali, con la conseguenza di non poter ritenere assorbita
quest'ultima delibazione nella prima e, dunque, coerentemente
precluso il relativo controllo nella incidentale sede del gravame
cautelare.
Nell'apportare, infatti, la già evidenziata modifica all'art. 425
cod. proc. pen., il legislatore, volutamente omettendo qualsiasi
richiamo contenutistico alla disciplina della sentenza di assoluzione
dettata dall'art. 530, ha evidentemente inteso mantenere nettamente
separate fra loro le due pronunce, non soltanto sul piano funzionale
e degli effetti che dalle stesse scaturiscono, ma anche - ed è ciò
che qui maggiormente rileva - sotto il profilo dei differenti
elementi strutturali che caratterizzano i corrispondenti "giudizi".
Mentre, infatti, nel quadro di una valutazione comparata degli artt.
425 e 530 cod. proc. pen. possono ritenersi fra loro assimilabili le
ipotesi di prova positiva dell'innocenza e quella speculare di totale
assenza di prova della colpevolezza, di talché la medesima
situazione di fatto è idonea a determinare, su di un piano di
sostanziale simmetria, la sentenza di assoluzione in dibattimento e
quella di non luogo a procedere nell'udienza preliminare, non
altrettanto è a dirsi in tutte le ipotesi in cui la prova risulti
invece insufficiente o contraddittoria. In tal caso, infatti, alla
sentenza di assoluzione imposta dall'art. 530, secondo comma, cod.
proc. pen., non corrisponde un omologo per la sentenza di non luogo a
procedere, ma una più articolata regola di giudizio che deve
necessariamente tener conto della diversa natura e funzione che
quella pronuncia è destinata a svolgere nel sistema. L'apprezzamento
del merito che il giudice è chiamato a compiere all'esito della
udienza preliminare non si sviluppa, infatti, secondo un canone, sia
pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla
ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o
meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento:
la sentenza di non luogo a procedere, dunque, era e resta, anche dopo
le modifiche subite dall'art. 425 cod. proc. pen., una sentenza di
tipo "processuale", destinata null'altro che a paralizzare la domanda
di giudizio formulata dal pubblico ministero. Da ciò consegue che,
ove la prova risulti insufficiente o contraddittoria, l'adozione
della sentenza di non luogo a procedere potrà dirsi imposta soltanto
nei casi in cui si appalesi la superfluità del giudizio, vale a dire
nelle sole ipotesi in cui è fondato prevedere che l'eventuale
istruzione dibattimentale non possa fornire utili apporti per
superare il quadro di insufficienza o contraddittorietà probatoria.
Ove ciò non accada, quindi, risulterà scontato il provvedimento di
rinvio a giudizio che, in una simile eventualità, lungi dal
rinvenire il proprio fondamento in una previsione di probabile
condanna, si radicherà null'altro che sulla ritenuta necessità di
consentire nella dialettica del dibattimento lo sviluppo di elementi
ancora non chiariti.
È evidente, allora, che in siffatte ipotesi il decreto che dispone
il giudizio non potrà ritenersi in alcun modo assorbente rispetto
alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza che sostengono
l'adozione e il mantenimento delle misure cautelari personali,
sicché precluderne l'esame nelle impugnazioni de libertate equivale
ad introdurre nel sistema un limite che si appalesa irragionevolmente
discriminatorio e al tempo stesso gravemente lesivo del diritto di
difesa, per di più proiettato nella specie verso la salvaguardia di
un bene di primario risalto quale è quello della libertà personale.
Gli artt. 309 e 310 cod. proc. pen., così come costantemente
interpretati, devono essere pertanto dichiarati costituzionalmente
illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione,
nella parte in cui non consentono di valutare la sussistenza dei
gravi indizi di colpevolezza nell'ipotesi in cui sia stato emesso il
decreto che dispone il giudizio a norma dell'art. 429 dello stesso
codice.
Restano conseguentemente assorbiti gli ulteriori profili di
illegittimità costituzionale denunciati dal giudice a quo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale degli
artt. 309 e 310 del codice di procedura penale, nella parte in cui
non prevedono la possibilità di valutare la sussistenza dei gravi
indizi di colpevolezza nell'ipotesi in cui sia stato emesso il
decreto che dispone il giudizio a norma dell'art. 429 dello stesso
codice.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 marzo 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Vassalli
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 15 marzo 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola