Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un giudizio civile promosso da un motociclista
nei confronti del comune di Genova per il risarcimento del danno
derivato dalla caduta dal motoveicolo causata dalla presenza, non
segnalata, ma "in astratto percettibile in anticipo", di terriccio e
pietrisco sulla strada comunale, il giudice di pace di Genova, con
ordinanza emessa l'8 novembre 1997, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 24, 97 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale:
a) dell'articolo 2043 cod. civ., in quanto prevede che l'inerzia
colposa della pubblica amministrazione, atta a creare o a non
rimuovere situazioni di pericolo, sia causa di responsabilità della
stessa, solo in presenza di una situazione di pericolo insidioso; b)
dell'art. 2051 cod. civ., in quanto non applicabile anche alla
pubblica amministrazione per i beni demaniali soggetti ad uso
ordinario, generale e diretto da parte dei cittadini; c) dell'art.
1227, primo comma, cod. civ., in quanto esclude, in presenza di una
insidia un accertamento del concorso di colpa del danneggiato e del
responsabile.
Il giudice rimettente, in tema di danni conseguiti alla difettosa
manutenzione delle strade, lamenta la disparità di trattamento tra i
privati proprietari di strade, assoggettati alla disciplina di cui
all'art. 2051 cod. civ., e la pubblica amministrazione, esonerata -
secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità definito
come consolidato - da tale tipo di responsabilità per
l'impossibilità di esercitare un adeguato controllo custodiale su
beni demaniali di notevole estensione territoriale e soggetti ad uso
generale e diretto da parte dei cittadini.
Il giudice a quo si duole anche della consolidata interpretazione
della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la responsabilità
conseguirebbe, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., non già ad un
concreto comportamento della pubblica amministrazione, ma alla
derivazione del danno da un'insidia stradale (caratterizzata dalla
non visibilità e dall'imprevedibilità od inevitabilità del
pericolo), restando escluso il concorso colposo del danneggiato (in
caso di sussistenza dell'insidia) o della pubblica amministrazione
(in caso di insussistenza), ai sensi dell'art. 1227, primo comma,
cod. civ.
Secondo il giudice a quo siffatto uso della nozione di insidia
finisce per escludere ingiustificatamente sia la responsabilità
della pubblica amministrazione per fatti colposi diversi, sia la
rilevanza di un concorso colposo ex art. 1227, primo comma, cod.
civ., favorendo, in contrasto con i principi di eguaglianza di cui
all'art. 3 della Costituzione e di buon andamento di cui all'art. 97
della Costituzione, la colpevole inerzia dell'ente pubblico
nell'assolvimento dei doveri di diligente vigilanza e tempestiva
manutenzione delle strade.
A tal proposito il giudice rimettente, dopo aver osservato che "la
giurisprudenza indicata (...) non richiede alla pubblica
amministrazione neppure la dimostrazione che il pericolo sia stato
originato da circostanze o con modalità tali che non ne abbiano
consentito una tempestiva eliminazione o segnalazione", denuncia
l'"assurdità" di far dipendere la ricorrenza dell'insidia da
situazioni contingenti, oggettive (ad esempio in rapporto alla
visibilità del pericolo a seconda del traffico) o soggettive (a
seconda delle condizioni psicofisiche del danneggiato).
Tale complessivo orientamento interpretativo, secondo il
rimettente, comporta la "violazione o la menomazione del diritto di
difesa" del cittadino danneggiato, il quale, per le difficoltà di
prova dell'insidia e perché normalmente soccombente anche in
presenza di conclamata inerzia della pubblica amministrazione, è
spesso indotto a rinunziare ad adire l'autorità giudiziaria.
2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo la declaratoria di inammissibilità e comunque della
manifesta infondatezza della questione sollevata. In una memoria
depositata nell'imminenza della camera di consiglio, ha insistito in
particolare nel chiedere la declaratoria d'inammissibilità, avendo
la Corte costituzionale dichiarato manifestamente inammissibile
identica questione con ordinanza n. 82 del 1995.
Considerato in diritto
1. - Il giudice di pace di Genova dubita della legittimità
costituzionale dell'art. 2051 cod. civ., in quanto non applicabile
anche alla pubblica amministrazione per i beni demaniali soggetti ad
uso ordinario, generale e diretto da parte dei cittadini; dell'art.
2043 cod. civ., in quanto prevede che l'inerzia colposa della
pubblica amministrazione, atta a creare o a non rimuovere situazioni
di pericolo, sia causa di responsabilità della stessa solo in
presenza di una situazione di insidia stradale; dell'art. 1227, primo
comma, cod. civ., in quanto esclude, ove sia presente detta insidia
un accertamento del concorso di colpa del danneggiato.
Secondo il rimettente, le denunciate disposizioni, come sopra
interpretate, contrasterebbero: con l'art. 3 della Costituzione, in
quanto si determinerebbe una situazione di ingiustificata
diseguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; con l'art. 24
della Costituzione, in quanto la difficoltà che il danneggiato
potrebbe incontrare nella prova del pericolo occulto, ed il connesso
rischio di soccombere, pur nella presenza di conclamate inerzie della
pubblica amministrazione, potrebbe comportare la violazione o la
menomazione del diritto di difesa del danneggiato medesimo, sia sotto
il profilo della denegata giustizia, sia sotto il profilo della
rinunzia da parte dello stesso, di fronte a rischi reali di
soccombenza, ad adire l'autorità giudiziaria; con l'art. 97 della
Costituzione, in quanto potrebbero fornire un involontario supporto
all'inerzia, anche protratta e colpevole, della pubblica
amministrazione.
2. - Va preliminarmente disattesa l'eccezione di inammissibilità
proposta dal Presidente del Consiglio, che ha richiamato quale
precedente specifico l'ordinanza n. 82 del 1995 di questa Corte,
pronunciata con riguardo a identica questione.
Il rimettente, infatti, non solleva - come, invece, allora - una
questione di mera interpretazione della normativa denunciata, ma
assume quale "diritto vivente" l'interpretazione di essa da parte di
una giurisprudenza asseritamente consolidata, e dichiara che a questa
intenderebbe aderire ove venissero ritenuti privi di fondamento i
dubbi di illegittimità costituzionale da lui prospettati.
3. - Nel merito la questione è infondata.
3.1. - Il giudice a quo afferma l'esistenza di un "diritto vivente"
sulla normativa, con riguardo a cui formula le suindicate censure
d'incostituzionalità. Ma la ricognizione della giurisprudenza, dalla
quale muove, appare incompleta e non corretta. Egli, infatti, ha
trascurato di prendere in considerazione gli svolgimenti più recenti
della giurisprudenza stessa, attraverso un doveroso esame di
significative pronunce, nelle quali sarebbe stato agevole rinvenire
quelle puntualizzazioni tese a dare della denunciata normativa
un'interpretazione, non solo rispettosa di tutti i canoni
ermeneutici, ma anche conforme alla Costituzione - così come di
seguito precisato -, e dunque da preferire ad altre, sulla cui
legittimità costituzionale possano sorgere dubbi in sede di
giudizio.
3.2. - Il proprietario delle cose che abbiano cagionato danno a
terzi è responsabile ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., solo in
quanto ne sia custode, e dunque ove egli sia stato oggettivamente in
grado di esercitare un potere di controllo e di vigilanza sulle cose
stesse.
Ciò basta a rendere ragione dell'approdo ermeneutico, ribadito
anche di recente dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui
alla pubblica amministrazione non è applicabile il citato articolo,
allorché sul bene di sua proprietà non sia possibile - per la
notevole estensione di esso e le modalità d'uso, diretto e generale,
da parte dei terzi - un continuo, efficace controllo, idoneo ad
impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti.
S'intende - e in alcune sentenze ciò viene sottolineato - che la
"notevole estensione del bene" e "l'uso generale e diretto" da parte
dei terzi costituiscono meri indici dell'impossibilità d'un concreto
esercizio del potere di controllo e vigilanza sul bene medesimo; la
quale dunque potrebbe essere ritenuta, non già in virtù d'un puro e
semplice riferimento alla natura demaniale e all'estensione del bene,
ma solo a seguito di un'indagine condotta dal giudice con riferimento
al caso singolo, e secondo criteri di normalità.
Con tale interpretazione si rimane indubbiamente nell'ambito del
sistema codicistico della responsabilità extracontrattuale,
venendosi solo a precisare - in conformità alla evidente ratio dello
stesso art. 2051 - i limiti dell'operatività di uno dei particolari
criteri d'imputazione previsti dal codice civile in luogo di quello
generale posto dall'art. 2043.
Si deve allora passare allo scrutinio di costituzionalità
dell'asserito "diritto vivente" formatosi su quest'ultima
disposizione.
3.3. - La giurisprudenza, sia dei giudici di merito sia della Corte
di cassazione, in effetti è da tempo consolidata nel senso che colui
il quale intenda far valere la responsabilità extracontrattuale
della pubblica amministrazione, deve - una volta esclusa, nei limiti
sopra chiariti, l'applicabilità dell'art. 2051 - dimostrare che
l'evento dannoso sia eziologicamente ricollegabile ad un'insidia (o
trabocchetto), cioè ad una situazione di fatto che rappresenti
pericolo occulto per l'utente del bene demaniale, e segnatamente
della strada aperta al pubblico.
Ma il giudice a quo non ha colto le ragioni e la portata di codesto
indirizzo giurisprudenziale, consolidatosi dopo una complessa e
sempre più raffinata elaborazione, che ebbe inizio sin dalla entrata
in vigore della legge 20 marzo 1865 all. E, abolitrice del
contenzioso amministrativo, passando poi attraverso varie fasi.
Ragioni e portata, che sono tali da far considerare prive di
consistenza le censure mosse nell'ordinanza di rimessione, secondo
quanto appresso chiarito.
3.4. - Anzitutto è da rammentare che l'art. 2043 cod. civ.
contiene una clausola generale. Il legislatore, infatti, ha
utilizzato una formula aperta, che consente al giudice l'adattamento
di tale norma alle circostanze del caso attraverso la valutazione dei
limiti di meritevolezza degli interessi pretesamente lesi, anche in
relazione ad altri interessi antagonisti, secondo l'evolversi della
coscienza sociale e del sistema giuridico generale nonché degli
strumenti normalmente a disposizione dei soggetti titolari di tali
interessi. Sicché, nelle fattispecie come quella in esame, è
compito del giudice ordinario accertare secondo le circostanze di
tempo e di luogo se la pubblica amministrazione sia in concreto
responsabile per i danni, tenuto conto anche del particolare rapporto
di fatto che, da una parte, il proprietario e, dall'altra, il terzo
danneggiato hanno con la cosa in relazione alla quale l'evento si
verifica.
Occorre poi considerare che la manutenzione delle strade
costituisce per l'ente pubblico un dovere istituzionale non correlato
a un diritto soggettivo dei privati, i quali possono far valere
soltanto un interesse legittimo al corretto esercizio del potere
discrezionale dell'ente medesimo. Pertanto il difetto di manutenzione
assume rilievo, nei rapporti con i privati, unicamente allorché la
pubblica amministrazione non abbia osservato le specifiche norme e le
comuni regole di prudenza e diligenza poste a tutela dell'integrità
personale e patrimoniale dei terzi, in violazione del principio
fondamentale del neminem laedere: venendo così a superare il limite
esterno della propria discrezionalità, con conseguente sua
sottoposizione al regime generale di responsabilità dettato
dall'art. 2043 cod. civ.
Ma, nell'accertamento in concreto di questa, non si può ignorare
il particolare rapporto che - come sopra si è già accennato - hanno
con la strada pubblica, da una parte, l'ente proprietario e,
dall'altra, gli utenti, i quali, in coerenza con il principio di
autoresponsabilità, sono indubbiamente gravati d'un onere di
particolare attenzione nell'esercizio dell'uso ordinario diretto del
bene demaniale, per salvaguardare appunto la propria incolumità.
Ebbene, in questo quadro, la nozione d'insidia stradale viene a
configurarsi come una sorta di figura sintomatica di colpa, elaborata
dall'esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate tecniche
di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, col preciso
fine di meglio distribuire tra le parti l'onere probatorio, secondo
un criterio di "semplificazione analitica" della fattispecie
generatrice della responsabilità in esame. Se e in quanto il
danneggiato provi l'insidia può e deve essere affermata la
responsabilità della pubblica amministrazione, salvo che questa, a
sua volta, provi di non aver potuto rimuovere - adottando le misure
idonee - codesta situazione di pericolo, i cui elementi costitutivi
il giudice ha comunque il compito di individuare in modo specifico
(fra l'altro precisando gli standards di diligenza connessi alla
visibilità e prevedibilità nonché all'evitabilità del pericolo
stesso, in relazione all'uso della strada), onde accertare in
definitiva se ricorrano, a stregua delle peculiarità del caso, le
condizioni richieste dall'art. 2043 cod. civ.
Che poi, una volta acclarata in tal modo la responsabilità della
pubblica amministrazione, di regola risulti inapplicabile l'art.
1227, primo comma, cod. civ., dipende da evidenti ragioni di
incompatibilità logica fra un possibile concorso di colpa del
danneggiato e la stessa nozione d'insidia essendo questa
contraddistinta appunto dai caratteri dell'imprevedibilità e
dell'inevitabilità del pericolo.
3.5. - Per dissipare, infine, il dubbio espresso dal rimettente,
secondo cui una tale interpretazione della denunciata normativa
consentirebbe il permanere nell'ordinamento giuridico di antichi
privilegi a favore della pubblica amministrazione, non più
giustificabili in uno Stato di diritto, sembra opportuno aggiungere,
conclusivamente, che l'utilizzazione giurisprudenziale della
suddescritta figura sintomatica di colpa non è estranea neanche alla
responsabilità extracontrattuale dei privati, convenuti per il
risarcimento dei danni conseguenti a difetto di manutenzione dei loro
immobili.
Tale difetto, invero, al di fuori di specifici obblighi di legge o
contrattuali (e salvo quanto sopra precisato con riguardo all'art.
2051 cod. civ.), rileva unicamente sotto specie di violazione del
principio del neminem laedere allo stesso modo per la pubblica
amministrazione e per i privati: eventuali diversità di giudizio
dovendosi ricollegare soltanto alle peculiarità del bene, influenti
sulla relativa manutenzione.