Ritenuto in fatto
1. - Chiamato a decidere sul reclamo di un detenuto avverso
l'ammonizione inflittagli dal direttore del carcere per inosservanza
di ordini, il magistrato di sorveglianza di Bologna, con ordinanza
emessa il 28 ottobre 1998, pervenuta a questa Corte l'11 gennaio
1999, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in
riferimento agli articoli 3, 13, secondo e terzo comma, 24, primo e
secondo comma, 97, primo comma, 113, primo e secondo comma, della
Costituzione, dell'art. 34 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà), nella parte in cui non
prevede che nel disporre le perquisizioni personali l'amministrazione
penitenziaria rediga atto motivato circa i presupposti e le modalità
della perquisizione, da comunicare entro quarantotto ore
all'autorità giudiziaria per la convalida.
Il remittente premette che il detenuto reclamante lamentava la
illegittimità della sanzione disciplinare irrogata a causa del suo
rifiuto di effettuare nudo le flessioni sulle gambe davanti agli
agenti della polizia penitenziaria in sede di perquisizione
personale, sottolineando il carattere lesivo della propria dignità
di tale operazione; che in risposta al quesito posto da esso
magistrato in sede istruttoria circa la legittimità di tale pratica
durante le perquisizioni personali, il Ministero della giustizia
rilevava che la suddetta modalità di perquisizione consente, con la
collaborazione del detenuto e in determinate occasioni che
giustificano perquisizioni più accurate, un controllo efficace e
tempestivo, evitando ritardi o disservizi che potrebbero
compromettere l'ordine e la sicurezza all'interno dell'istituto o la
sicurezza della stessa persona, precisando altresì che dinanzi al
rifiuto di collaborazione l'amministrazione può far ricorso all'uso
della forza, ai sensi dell'art. 41 dell'ordinamento penitenziario,
per prevenire od impedire eventuali situazioni pericolose per la
sicurezza, e che il prosieguo della perquisizione può assumere
natura di atto di polizia giudiziaria, disciplinata dalle norme del
codice di procedura penale; che la direzione del carcere comunicava
che le perquisizioni personali nei confronti di detto detenuto erano
eseguite con modalità particolarmente accurate secondo le
disposizioni contenute in una circolare del 28 gennaio 1982, che
appunto prevede le flessioni sulle gambe, a causa di una precisa
segnalazione proveniente dal dipartimento dell'amministrazione
penitenziaria circa la pericolosità del predetto detenuto; che la
difesa del reclamante eccepiva l'illegittimità costituzionale
dall'art. 34 della legge n. 354 del 1975, per contrasto con
l'articolo 13 della Costituzione, nella parte in cui non prevede
l'atto motivato dell'autorità giudiziaria per procedere a
perquisizione personale nei confronti dei detenuti; che il pubblico
ministero concludeva per la rilevanza e la non manifesta infondatezza
di detta questione.
Ciò premesso, il magistrato remittente motiva la rilevanza della
questione di legittimità costituzionale osservando che, poiché si
tratta di un reclamo contro il provvedimento disciplinare adottato
per sanzionare il rifiuto del detenuto, considerato come inosservanza
di ordine legittimamente impartito dalla polizia penitenziaria in
sede di perquisizione personale, dal riconoscimento della
illegittimità costituzionale della norma denunciata discenderebbe
l'illegittimità dell'agire amministrativo, e pertanto
l'illegittimità della sanzione inflitta per l'inosservanza di un
ordine non legittimo.
Osserva poi il giudice a quo quanto alla non manifesta
infondatezza, che l'art. 34 dell'ordinamento penitenziario,
prevedendo il potere di perquisire le persone detenute o internate
qualora sussistano motivi di sicurezza, e nel pieno rispetto della
personalità del detenuto, prescinde totalmente da un intervento
dell'autorità giudiziaria a garanzia della legittimità di tale
restrizione della libertà personale: il procedimento si svolge tutto
in ambito amministrativo, in quanto è l'amministrazione che decide
l'an, ravvisando la sussistenza dei motivi di sicurezza, il quando e
il quomodo.
Ad avviso del remittente tali interventi sulla libertà personale
sarebbero in contrasto con l'art. 13 della Costituzione, che non
ammette alcuna forma di perquisizione personale se non con
l'intervento, sia pure successivo in sede di convalida,
dell'autorità giudiziaria. I detenuti non potrebbero essere esclusi
da questa garanzia, se non considerando il potere di perquisizione
personale come inerente alle modalità di esecuzione della
detenzione, e dunque l'ordinamento penitenziario come un ordinamento
separato per il quale non varrebbero i principi generali
dell'ordinamento giuridico. Il contrasto di tale orientamento con la
Costituzione apparirebbe ancora più evidente nei casi di soggetti
sottoposti a custodia cautelare. Più in generale, il detenuto,
secondo quanto riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte,
sarebbe titolare di un residuo di libertà incomprimibile ad libitum
dell'amministrazione penitenziaria, residuo tanto più prezioso in
quanto è l'ultimo ambito in cui può espandersi la sua personalità.
Onde l'amministrazione penitenziaria potrebbe adottare solo i
provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione della
detenzione, dai quali sarebbero escluse le misure suscettibili di
introdurre ulteriori restrizioni, che richiederebbero l'esercizio di
una funzione giurisdizionale, in ossequio all'art. 13 della
Costituzione.
Il giudice a quo si pone il problema del bilanciamento dei
principi costituzionali concorrenti nel caso in esame, in particolare
rilevando come a fronte della posizione soggettiva del detenuto vi
sia l'opposta esigenza della difesa dell'ordine e della sicurezza
negli istituti penitenziari, dell'ordine giuridico e della
collettività, che giustificherebbe l'esercizio dei poteri di
coazione personale sui detenuti: ma ritiene che la disciplina
costituzionale sulla libertà personale, che consente in via di
urgenza la temporanea sostituzione degli organi di pubblica sicurezza
a quelli giudiziari nell'adozione di atti coercitivi, sia idonea a
consentire la composizione dell'eventuale conflitto tra esigenze
contrapposte.
La norma denunciata rimette invece l'esecuzione di tali
interventi alla completa ed insindacabile discrezionalità
dell'amministrazione penitenziaria, la quale non deve motivare in
alcun atto la perquisizione, mentre la prescrizione che questa
avvenga "nel pieno rispetto della personalità" (art. 34, secondo
comma) potrebbe costituire "una mera petizione di principio", dal
momento che la perquisizione è effettuata dalla stessa autorità che
la dispone, la quale non deve renderne conto ad alcuno, né redigere
alcun verbale. Non potrebbe negarsi che negli istituti di pena
sussista l'esigenza di interventi "a sorpresa" dettati dall'urgenza
di prevenire situazioni pericolose per la sicurezza, ma tali esigenze
potrebbero, ad avviso del remittente, congruamente perseguirsi anche
nel rispetto del principio costituzionale che riserva all'autorità
giudiziaria la formulazione di giudizi di disvalore sulla persona e
l'adozione di misure "degradanti".
L'attuale sistema delle perquisizioni personali nei confronti dei
detenuti appare, secondo il giudice a quo, in contrasto con gli
invocati parametri costituzionali, anzitutto perché non prevede
nessun potere di controllo ex post da parte di un organo giudiziario
circa il rispetto dei presupposti e dei limiti prescritti, onde
l'art. 34 violerebbe la previsione della riserva di giurisdizione
sancita dall'art. 13 della Costituzione. Inoltre il controllo ex post
del giudice imporrebbe all'amministrazione l'obbligo di motivare le
ragioni che hanno giustificato l'intervento, con effetto deterrente
circa eventuali abusi e vessazioni, e a garanzia anche del diritto di
difesa. La mancata previsione della redazione di un atto che illustri
i motivi e le modalità della perquisizione eseguita non
consentirebbe al destinatario di tutelare in modo adeguato i suoi
diritti in via giurisdizionale, in violazione degli artt. 24, commi
primo e secondo, 97, comma primo e 113, commi primo e secondo, della
Costituzione.
La "lacuna normativa" apparirebbe infine "in contrasto con il
principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost." per la disparità di
trattamento rispetto ad altre situazioni in cui pure si richiedono
interventi preventivi nell'immediatezza del fatto, per le quali
tuttavia il legislatore prevede perquisizioni effettuate dagli organi
della pubblica sicurezza, soggette a successiva convalida da parte
del Procuratore della Repubblica sulla base del processo verbale
redatto: si richiamano in proposito l'art. 4 della legge n. 152 del
1975, in tema di perquisizioni volte ad accertare il possesso di
armi, nel corso di operazioni di polizia, e l'art. 103 del d.P.R.
n. 309 del 1990, in tema di perquisizioni urgenti nel corso di
operazioni di polizia per la prevenzione e la repressione del
traffico illecito di sostanze stupefacenti. Non si giustificherebbe,
in questa prospettiva, la scelta legislativa operata in materia di
perquisizioni personali sui detenuti.
In definitiva, secondo il remittente, la previsione di un obbligo
in capo all'amministrazione penitenziaria di redigere un atto
congruamente motivato sulla perquisizione personale effettuata, da
sottoporre al vaglio dell'autorità giudiziaria, realizzerebbe, in
ossequio al principio di ragionevolezza, un equilibrato bilanciamento
dei principi costituzionali in gioco, mentre l'attuale sistema
assicurerebbe tutela solo alle esigenze di sicurezza a scapito dei
diritti di libertà e di difesa.
2. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per
difetto di rilevanza, o, in subordine, infondata.
Essa sembrerebbe difettare di rilevanza, non avendo il giudice
remittente motivato in ordine alla legittimità dell'ordine impartito
dall'autorità penitenziaria, e quindi in ordine alla legittimità
della conseguente sanzione disciplinare.
Infatti la legittimità della normativa sulle perquisizioni
personali dei detenuti potrebbe essere sindacata solo nella concreta
ipotesi in cui il giudice abbia accertato preliminarmente che il
comportamento della amministrazione sia conforme alla normativa
censurata, sì che la proposizione della questione di
costituzionalità si porrebbe come ultimo rimedio possibile per
l'accoglimento del reclamo, altrimenti da respingere.
La questione sarebbe invece posta come ipotetica o eventuale.
Ciò risulterebbe anche considerando che lo stesso remittente ha
evidenziato nelle premesse la tesi secondo cui la pratica delle
flessioni sulle gambe sarebbe consentita con la collaborazione del
detenuto, in mancanza della quale, ove ritenuto necessario,
l'amministrazione potrebbe ricorrere all'impiego di mezzi di
coercizione, ai sensi dell'art. 41 dell'ordinamento penitenziario.
Non risultando dall'ordinanza che oggetto di discussione sia
l'applicazione di tale ultima norma, non sarebbe chiaro se il giudice
abbia considerato la collaborazione del detenuto per tale pratica
come una facoltà a lui attribuita (avendo l'amministrazione la
possibilità di ricorrere a mezzi diversi dalla perquisizione in
senso stretto, cioè ai mezzi di coercizione), con la conseguenza
che, in mancanza del consenso del detenuto, un ordine in tal senso
non avrebbe potuto essere impartito, risultando perciò illegittima
la sanzione disciplinare irrogata.
Nel merito, in subordine, l'Avvocatura erariale osserva che lo
stato di detenzione comporterebbe necessariamente limitazioni alla
garanzia della inviolabilità della libertà personale.
Considerato in diritto
1. - La questione sollevata investe l'art. 34 della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
che disciplina le perquisizioni personali nei confronti dei detenuti
e degli internati, stabilendo che esse possono essere effettuate "per
motivi di sicurezza" (primo comma), e che devono essere effettuate
"nel pieno rispetto della personalità" (secondo comma). La
disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che, nel
disporre la perquisizione, l'amministrazione penitenziaria debba
redigere atto motivato circa i presupposti e le modalità della
stessa e comunicarlo entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria
per la convalida, secondo quanto è previsto dall'art. 13, terzo
comma, della Costituzione per i provvedimenti restrittivi della
libertà personale adottati in via provvisoria dall'autorità di
pubblica sicurezza.
La disciplina denunciata sarebbe in contrasto, in primo luogo,
con l'art. 13 della Costituzione, appunto perché non rispetterebbe
la "riserva di giurisdizione" ivi stabilita, non prevedendo un
intervento di controllo a posteriori da parte dell'autorità
giudiziaria, controllo che imporrebbe all'amministrazione l'obbligo
di motivare i provvedimenti, con effetto deterrente circa eventuali
abusi e vessazioni, a garanzia altresì del diritto di difesa.
La mancata previsione di un atto dell'amministrazione che
illustri i motivi e le modalità della perquisizione eseguita,
inoltre, non consentirebbe al destinatario di tutelare in modo
adeguato i suoi diritti in via giurisdizionale, con conseguente
violazione dei diritti di azione giudiziaria e di difesa (art. 24,
primo e secondo comma, della Costituzione), dei principi di
imparzialità e buon andamento dell'amministrazione (art. 97, primo
comma, della Costituzione), nonché del diritto alla tutela
giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione, senza
esclusioni o limitazioni (art. 113, primo e secondo comma, della
Costituzione).
Sussisterebbe, infine, violazione del principio di
eguaglianza-ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione per
la disparità di trattamento rispetto ad altre ipotesi nelle quali la
legge, pur prevedendo il potere degli organi di pubblica sicurezza di
procedere a perquisizioni personali in via di urgenza, impone la
successiva convalida da parte dell'autorità giudiziaria.
Secondo il giudice a quo solo la previsione dell'obbligo di
redigere un atto motivato, da sottoporre al vaglio dell'autorità
giudiziaria, realizzerebbe un ragionevole bilanciamento fra i diritti
di libertà e di difesa, da un lato, e dall'altro le esigenze di
sicurezza che possono giustificare le perquisizioni.
2. - L'eccezione di inammissibilità della questione, avanzata
dalla difesa del Presidente del Consiglio, non può essere accolta.
Il remittente ha infatti motivato la rilevanza della questione,
osservando che la risoluzione di essa è pregiudiziale alla
definizione del giudizio davanti ad esso instaurato, nel quale è
contestata la legittimità di una sanzione disciplinare inflitta per
inosservanza dell'ordine di sottoporsi a perquisizione con le
modalità indicate. La legittimità costituzionale della norma che
prevede il potere di procedere a perquisizioni personali nei
confronti dei detenuti condiziona infatti la legittimità dell'ordine
di perquisizione, e la legittimità di tale ordine a sua volta
condiziona la legittimità della sanzione disciplinare.
Non si può condividere la tesi dell'Avvocatura erariale, secondo
cui la questione di legittimità costituzionale potrebbe essere
sollevata solo come estremo rimedio, una volta esclusa ogni altra
ragione di illegittimità dell'atto sottoposto al controllo del
giudice. Al contrario, il quesito sulla legittimità costituzionale
della norma attributiva del potere esercitato, legittimità messa in
dubbio in quanto detta norma non prevede la convalida della
perquisizione da parte dell'autorità giudiziaria, e non
consentirebbe un efficace controllo giudiziario sulle perquisizioni,
precede logicamente ogni questione circa la conformità o meno, alla
norma stessa, dell'atto sottoposto a controllo.
Né vale osservare, come fa la difesa del Presidente del
Consiglio, che, nella specie, richiedendo la perquisizione, da
effettuare con le particolari modalità indicate, la collaborazione
del detenuto, il giudice a quo avrebbe dovuto chiarire se riteneva il
consenso del detenuto condizione di legittimità dell'ordine, con la
conseguenza che, in mancanza di tale consenso, l'ordine, e dunque la
sanzione, risulterebbero senz'altro illegittimi. Altro è infatti la
collaborazione necessaria del detenuto per la effettuazione della
perquisizione con le particolari modalità indicate, altro il
consenso dello stesso, non richiesto e comunque irrilevante,
vertendosi nell'ambito di diritti indisponibili.
3. - Nel merito, la questione non è fondata nei sensi di seguito
specificati.
La tesi del remittente, secondo cui le perquisizioni personali a
carico dei detenuti dovrebbero rispettare le regole di cui
all'art. 13, secondo e terzo comma, della Costituzione, e in
particolare la regola che impone l'intervento dell'autorità
giudiziaria, sia pure per controllare e convalidare a posteriori la
perquisizione disposta ed eseguita dall'amministrazione in via di
urgenza, presuppone che dette perquisizioni incidano su un diritto di
libertà del detenuto non venuto meno per effetto dello stato di
detenzione. Solo in questo caso, infatti, potrebbero trovare
applicazione le norme costituzionali che stabiliscono i presupposti e
le modalità per l'adozione di misure di "restrizione della libertà
personale" (art. 13, secondo comma).
Lo stato di detenzione comporta, per definizione, una limitazione
della libertà personale, che deve intervenire alle condizioni e nei
modi previsti dall'art. 13 della Costituzione, cioè sulla base di
una misura legale, adottata o convalidata dall'autorità giudiziaria.
È certamente vero che, come argomenta il giudice a quo, lo stato
di detenzione lascia sopravvivere in capo al detenuto diritti
costituzionalmente protetti, e in particolare un "residuo" di
libertà personale. Questa Corte, muovendo proprio da questa
premessa, ha più volte chiarito che l'amministrazione penitenziaria
non può adottare "provvedimenti suscettibili di introdurre ulteriori
restrizioni in tale ambito, o che, comunque, comportino una
sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà
personale" imposto al detenuto, il che può avvenire "soltanto con le
garanzie (riserva di legge e riserva di giurisdizione) espressamente
previste dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione"; ma può
solo adottare "provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione
della pena (rectius: della detenzione), che non eccedono il
sacrificio della libertà personale già potenzialmente imposto al
detenuto con la sentenza di condanna" (sentenza n. 349 del 1993),
ossia "misure di trattamento rientranti nell'ambito di competenza"
della medesima amministrazione, "attinenti alle modalità concrete,
rispettose dei diritti del detenuto, di attuazione del regime
carcerario in quanto tale, e dunque già potenzialmente ricomprese
nel quantum di privazione della libertà personale conseguente allo
stato di detenzione" (sentenza n. 351 del 1996).
Pertanto, il quesito preliminare cui la Corte è chiamata a
rispondere nella presente occasione è se le perquisizioni personali
previste dal regolamento penitenziario ed effettuate dagli agenti
della polizia penitenziaria a carico dei detenuti siano misure
incidenti sul "residuo" di libertà personale di cui questi ultimi
sono titolari, ovvero costituiscano misure rientranti nel regime
carcerario e dunque non eccedenti il sacrificio della libertà
personale già discendente dallo stato di detenzione. Soltanto se,
infatti, la risposta fosse nel primo senso, come si è detto,
dovrebbero trovare applicazione le garanzie di cui all'art. 13,
secondo e terzo comma, della Costituzione.
4. - Il remittente non contesta che vi sia un'esigenza di difesa
dell'ordine e della sicurezza negli istituti penitenziari, nonché di
difesa dell'ordine giuridico e della collettività, che giustifica
l'esercizio di poteri di coazione personale sui detenuti, e quindi
anche di poteri di perquisizione: ma ritiene che tali esigenze
possano giustificare solo la previsione di misure restrittive
adottate con le garanzie dell'art. 13 della Costituzione, e quindi
sottintende che da tali misure risulti inciso un diritto di libertà
non compresso dallo stato di detenzione.
Se così fosse, invero, non sarebbe nemmeno sufficiente
richiedere solo, come fa il giudice a quo, un intervento successivo
di convalida della perquisizione da parte dell'autorità giudiziaria.
Se si trattasse di misure incidenti su uno spazio di libertà non
pregiudicato dallo stato di detenzione, dovrebbero dispiegarsi
pienamente le garanzie di cui all'art. 13, secondo e terzo comma,
della Costituzione, e dunque i "casi e modi" delle perquisizioni
personali dovrebbero essere specificati tassativamente dalla legge -
non essendo sufficiente in proposito il generico riferimento ai
"motivi di sicurezza" che si trova nel testo dell'art. 34 della legge
n. 354 del 1975 -, e l'intervento motivato dell'autorità giudiziaria
dovrebbe di norma essere preventivo, e non successivo, salva restando
solo l'ipotesi di perquisizioni effettuate senza previo ordine
giudiziale per ragioni di urgenza riscontrate in concreto, e con
successivo giudizio di convalida.
In realtà, la restrizione della libertà personale in cui si
sostanzia lo stato di detenzione dà luogo all'applicazione di un
regime - risultante dalla complessiva disciplina dell'ordinamento
penitenziario, nel rispetto dell'art. 13, quarto comma, della
Costituzione - al quale sono intrinseche le ragioni di ordine e di
sicurezza che consentono o impongono un controllo della persona da
parte degli agenti amministrativi. Il detenuto si trova sotto la
responsabilità dell'amministrazione penitenziaria, a cui è affidato
il compito di assicurare che egli rimanga in carcere (evitando
pericoli di evasione), di controllare il rispetto da parte sua delle
regole della disciplina carceraria, ma anche di garantirne
l'incolumità proteggendolo da possibili aggressioni da parte di
altri detenuti.
Del regime carcerario, come definito dalle norme che lo regolano,
fa parte la previsione di perquisizioni, volte a prevenire i rischi,
che l'esperienza della vita dei penitenziari dimostra sussistere, di
introduzione in carcere e di detenzione da parte dei carcerati di
armi, di oggetti atti ad offendere o comunque proibiti per ragioni di
disciplina, di altre cose o sostanze vietate. Infatti il regolamento
penitenziario (ora il d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, che però non
reca sostanziali innovazioni, a questo riguardo, rispetto al
previgente d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431) disciplina le diverse
ipotesi di perquisizione personale dei detenuti, all'ingresso in
istituto (art. 23, comma 1), in occasione dei trasferimenti (art. 83,
comma 2), nelle altre situazioni in cui il regolamento interno
dell'istituto stabilisce che si effettuino perquisizioni ordinarie
(art. 74, comma 4), nonché, in via straordinaria, su ordine del
direttore ovvero, in caso d'urgenza, su iniziativa del personale
(art. 74, commi 5 e 7).
Deve dunque concludersi che le perquisizioni personali disposte
nei confronti dei detenuti, nei casi previsti dai regolamenti, sono
comprese fra le "misure di trattamento, rientranti nella competenza
dell'amministrazione penitenziaria, attinenti alle modalità concrete
(...) di attuazione del regime carcerario in quanto tale" (sentenza
n. 351 del 1996). Esse non incidono, di per sé, sul "residuo" di
libertà personale di cui sono titolari i detenuti, bensì rientrano
nell'ambito delle restrizioni alla libertà personale implicate dallo
stato di detenzione. Non v'è pertanto luogo, in questi limiti, ad
applicare le regole dell'art. 13, secondo e terzo comma, della
Costituzione.
5. - Neppure ha fondamento la censura di violazione del principio
di eguaglianza o di ragionevolezza, fondata sul raffronto con le
ipotesi di perquisizioni personali effettuate dalla polizia per
accertare l'eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di
effrazione (art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152) o nell'ambito
dei controlli per la prevenzione e la repressione del traffico
illecito di sostanze stupefacenti (art. 109, comma 3, del d.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309), in cui è prevista la convalida da parte
dell'autorità giudiziaria. Si tratta infatti, in quelle ipotesi, di
perquisizioni a carico di persone in stato di libertà, e dunque
nessun utile raffronto può effettuarsi con la diversa situazione dei
detenuti.
6. - Questa prima conclusione non esaurisce, però, l'ambito dei
problemi sollevati con la presente questione di legittimità
costituzionale.
Il potere di perquisizione dei detenuti, attribuito
all'amministrazione carceraria, non è senza limiti, né con riguardo
ai presupposti, né con riguardo alle modalità del suo esercizio.
Inoltre, e conseguentemente, la garanzia del rispetto di tali limiti
richiede che le misure adottate ed eseguite dall'amministrazione
penitenziaria siano soggette a pieno controllo giurisdizionale.
Per ciò che attiene ai presupposti, le perquisizioni possono
essere effettuate solo "per motivi di sicurezza" (art. 34 della legge
n. 354 del 1975), come specificati dalle norme regolamentari
ricordate. Queste indicano le situazioni nelle quali le esigenze di
sicurezza comportano in via ordinaria l'effettuazione di
perquisizioni personali, nonché i presupposti e le procedure per le
perquisizioni "fuori dei casi ordinari", che possono essere disposte
solo per ordine del direttore (art. 74, comma 5, del d.P.R. n. 230
del 2000), ovvero, in caso di comprovata "particolare urgenza", su
iniziativa del personale dell'istituto, che deve però informarne
immediatamente il direttore, "specificando i motivi che hanno
determinato l'urgenza" (art. 74, comma 7, del d.P.R. n. 230 del
2000).
Il potere di perquisizione non può dunque essere esercitato ad
libitum dell'amministrazione o della polizia penitenziaria, ma solo
nei casi in cui è previsto dalle norme che definiscono il regime
carcerario. Al di fuori di questi presupposti, esso sarebbe
esercitato arbitrariamente, esulando dalla applicazione del regime
carcerario per sconfinare nell'indebita incisione della libertà
personale del detenuto, onde le relative misure e attività sarebbero
contrarie al diritto.
Quanto ai modi della perquisizione che - è il tema specifico da
cui prende origine il giudizio a quo - vale anzitutto il principio
per cui i provvedimenti dell'amministrazione in ordine alle modalità
di esecuzione della pena detentiva, non eccedenti il sacrificio della
libertà personale già imposto al detenuto dallo stato di
detenzione, "rimangono soggetti ai limiti ed alle garanzie previsti
dalla Costituzione in ordine al divieto di ogni violenza fisica e
morale (art. 13, quarto comma), o di trattamenti contrari al senso di
umanità (art. 27, terzo comma), ed al diritto di difesa (art. 24)"
(sentenza n. 349 del 1993; e cfr. anche sentenza n. 410 del 1993). A
fronte dunque del potere dell'amministrazione, fondato sulle ragioni
di sicurezza inerenti alla vita carceraria, e pur non opponendovisi
un diritto di libertà personale, già compresso dallo stato di
detenzione, stanno in ogni caso precisi ed inviolabili diritti della
personalità spettanti al detenuto; e le misure di attuazione del
regime carcerario devono essere in ogni caso "rispettose dei diritti
del detenuto" (sentenza n. 351 del 1996).
Per ciò che concerne i limiti sostanziali, la legge
sull'ordinamento penitenziario li ribadisce espressamente, là dove
stabilisce che "la perquisizione personale deve essere effettuata nel
pieno rispetto della personalità" del detenuto (art. 34, secondo
comma, della legge n. 354 del 1975), con una prescrizione da
ritenersi di portata sostanzialmente equivalente a quella contenuta
nell'art. 249, comma 2, del codice di procedura penale, concernente
le perquisizioni per ragioni di ricerca di corpi di reato o di cose
pertinenti al reato, ai cui sensi "la perquisizione è eseguita nel
rispetto della dignità e, nei limiti del possibile, del pudore di
chi vi è sottoposto". Nella stessa linea, il regolamento
penitenziario specifica che "il personale che effettua la
perquisizione e quello che vi presenzia deve essere dello stesso
sesso del soggetto da perquisire" (art. 74, primo comma, del d.P.R.
n. 230 del 2000). A ciò si aggiunge, comunque, lo stretto dovere
dell'amministrazione di curare e sorvegliare che le circostanze
ambientali in cui le perquisizioni si svolgono, e i comportamenti del
personale che vi procede, siano in concreto rispettosi della persona
e della sua inviolabile dignità. Quanto più, infatti, la persona,
trovandosi in stato di soggezione, è esposta al possibile pericolo
di abusi, tanto più rigorosa deve essere l'attenzione per evitare
che questi si verifichino.
7. - L'affermazione di limiti sostanziali al potere di
perquisizione, derivanti da diritti della personalità, e per altro
verso del diritto inviolabile alla tutela giurisdizionale, che
accompagna per necessità costituzionale ogni situazione soggettiva
protetta, e dunque anche i diritti dei detenuti (cfr. sentenze n. 212
del 1997, n. 26 del 1999), comporta che ci si interroghi sulla
sussistenza in concreto, nell'ordinamento penitenziario, di garanzie
effettive di tutela giurisdizionale dei diritti suscettibili di
essere incisi dalle perquisizioni. È questa, al di là
dell'improprio richiamo all'art. 13, secondo e terzo comma, della
Costituzione, la sostanza della censura mossa dal remittente
all'art. 34 della legge penitenziaria, attraverso l'evocazione dei
parametri degli articoli 3, 24, primo e secondo comma, 97, primo
comma, e 113 della Costituzione.
Sarebbe infatti vano rinvenire nel sistema legislativo il
riconoscimento dei diritti del detenuto, se non sussistessero forme
di tutela giurisdizionale degli stessi, o queste non risultassero
efficaci per mancanza dei presupposti necessari all'esercizio del
controllo giurisdizionale.
Non basta il controllo che il giudice penale può essere chiamato
ad esercitare sulle perquisizioni illegittime in sede di cognizione
dei reati di "perquisizione e ispezione personale arbitrarie"
(art. 609 del codice penale, ai cui sensi è punito "il pubblico
ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, esegue
una perquisizione o un'ispezione personale"), che fossero
eventualmente commessi dal personale delle istituzioni penitenziarie,
pur dovendosi ritenere applicabile tale fattispecie delittuosa anche
alle perquisizioni arbitrarie o abusive compiute a carico dei
detenuti. Né basta il controllo esercitabile dallo stesso giudice
penale allorquando sia chiamato a valutare la sussistenza, nei
confronti di detenuti imputati di reati contro la pubblica
amministrazione, come la violenza o minaccia o la resistenza ad un
pubblico ufficiale, compiuti in occasione di perquisizioni
illegittime, della esimente di aver reagito ad un atto arbitrario del
pubblico ufficiale (art. 4 del d.lgs. 14 settembre 1944, n. 288).
Si tratta infatti, in entrambi i casi, di una cognizione solo
indiretta ed eventuale, insufficiente ad apprestare una piena tutela
giurisdizionale dei diritti dei detenuti nei riguardi di atti
illegittimi dell'amministrazione.
Per la stessa ragione, non basta il sindacato giurisdizionale,
ancora una volta indiretto, sulla legittimità dell'ordine di
sottoporsi a perquisizione, in sede di reclamo al magistrato di
sorveglianza, ai sensi dell'art. 69, comma 6, lettera b della legge
penitenziaria - come nella specie sottoposta al giudice a quo -
avverso la sanzione disciplinare che sia stata irrogata per il
rifiuto da parte del detenuto di ottemperarvi.
Occorre che vi sia una sede giurisdizionale nella quale
l'eventuale illegittimità della misura possa essere direttamente e
pienamente fatta valere ex se, come motivo di impugnazione della
misura medesima, per garantire l'osservanza sia dei limiti "esterni"
del potere esercitato, sia dei limiti "interni" inerenti alla
congruità dell'atto rispetto al fine cui è diretto (cfr. sentenze
n. 410 del 1993, n. 351 del 1996, n. 376 del 1997).
Benché il legislatore della legge penitenziaria "non abbia
esplicitamente e compiutamente risolto il problema dei rimedi
giurisdizionali idonei ad assicurare la tutela" dei diritti dei
detenuti nell'ambito dell'istituzione carceraria (sentenza n. 212 del
1997), a censurare tale lacuna ha già provveduto questa Corte
dichiarando l'illegittimità costituzionale degli articoli 35 e 69
della legge n. 354 del 1975 proprio "nella parte in cui non prevedono
un tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della
amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono
sottoposti a restrizione della libertà personale" (sentenza n. 26
del 1999). Non vi è ragione dunque di tornare sul punto, avendo
detta pronuncia già realizzato, nei limiti di ciò che spetta a
questa Corte, l'adeguamento costituzionale dell'ordinamento sotto il
profilo considerato: mentre spetta al legislatore effettuare le
scelte necessarie per disciplinare la materia, e spetta ai giudici,
frattanto, individuare nell'ordinamento in vigore lo strumento per
concretizzare il principio affermato (cfr. sentenze n. 270 del 1999,
n. 295 del 1991).
8. - In questa sede resta solo da esaminare se le modalità
procedimentali applicabili alle perquisizioni dei detenuti siano
sufficienti ed idonee a consentire un effettivo controllo
giurisdizionale degli atti dell'amministrazione. In particolare, a
questi fini, è necessario che tali atti siano motivati e
documentati.
Già si è detto, quanto ai presupposti della misura, come il
regolamento penitenziario contenga una disciplina, ovviamente
vincolante, dei casi di perquisizione ordinaria, nonché dei casi e
dei modi in cui si può procedere a perquisizione "fuori dei casi
ordinari". In quest'ultima ipotesi, non manca la garanzia di
motivazione dell'atto, sia nel caso di ordine del direttore (art. 74,
comma 5, del d.P.R. n. 230 del 2000), che, in base ai principi
generali dell'attività amministrativa, specie se incidente su
posizioni individuali tutelate, deve essere motivato; sia nel caso
d'urgenza, in cui il personale procede di propria iniziativa,
dovendone motivare specificamente le ragioni nell'informarne
"immediatamente" il direttore (art. 74 cit., comma 7). Ciò comporta
che, in ogni caso, i presupposti dell'atto devono essere documentati.
Quanto alle modalità, il regolamento, espressamente, si limita a
prescrivere che la perquisizione avvenga alla presenza di un
appartenente al corpo di polizia penitenziaria, di qualifica non
inferiore a quella di vice sovrintendente (art. 74 cit., comma 1,
primo periodo), e a precisare che la perquisizione può non essere
eseguita quando è possibile compiere l'accertamento con strumenti di
controllo (art. 74 cit., comma 2).
Tuttavia, il sistema normativo deve essere interpretato in
conformità alla Costituzione, e questa impone, come si è detto, che
sia assicurata una diretta ed effettiva tutela giurisdizionale dei
diritti dei detenuti. Perché essa possa dispiegarsi, è necessario
che l'attività dell'amministrazione risulti sempre documentata e
verificabile - in conformità del resto anche ai principi di
trasparenza e buon andamento che la governano - al fine di consentire
il controllo del giudice sul rispetto dei limiti ad essa posti.
Deve pertanto ritenersi che sia sempre necessaria ed imposta,
proprio per consentire un effettivo controllo giurisdizionale, una
forma di documentazione dell'avvenuta perquisizione, che permetta di
conoscere l'identità di chi vi è stato sottoposto e di chi vi ha
proceduto e assistito, le circostanze di luogo e di tempo, il
fondamento giustificativo della stessa, dato dal ricorrere dei casi
ordinari o dall'esistenza dell'ordine del direttore o dalle ragioni
di particolare urgenza, specificate nell'informazione immediata data
al direttore, nonché le modalità con le quali la perquisizione è
avvenuta, in particolare nel caso in cui si ritenga di dover
ricorrere a modalità diverse da quelle ordinarie o che comportino
una ispezione corporale. In tali ultime ipotesi, inoltre, l'obbligo
di motivazione, e la conseguente possibilità di sindacato
giurisdizionale, si debbono ritenere estesi anche alla scelta delle
modalità, che debbono essere, oltre che sempre rispettose della
personalità del detenuto, adeguatamente giustificate, e ciò sia che
si tratti di una iniziativa assunta nell'ambito dell'istituto, sia
che sussistano istruzioni o segnalazioni dell'amministrazione
penitenziaria centrale, a loro volta pienamente sindacabili da parte
del giudice.
9. - Così interpretato, alla luce dei principi costituzionali,
il sistema normativo, non hanno ragione di sussistere le censure
mosse dal remittente in relazione all'art. 34 della legge
penitenziaria.