Sentenza 129/2024 (ECLI:IT:COST:2024:129)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: BARBERA - Redattore: AMOROSO
Camera di Consiglio del 21/05/2024;    Decisione  del 04/06/2024
Deposito del 16/07/2024;   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 3, c. 2°, del decreto legislativo 04/03/2015, n. 23.
Massime: 
Massime: 
Atti decisi: ord. 163/2023


Pronuncia

SENTENZA N. 129

ANNO 2024


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra A. C. e E. srl, con ordinanza del 20 novembre 2023, iscritta al n. 163 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2024, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 21 maggio 2024.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 4 giugno 2024 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

deliberato nella camera di consiglio del 4 giugno 2024.


Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 20 novembre 2023 (r.o. n. 163 del 2023) il Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato quattro questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 39, 40, 41 e 76 della Costituzione, aventi ad oggetto la disciplina del licenziamento disciplinare dettata dall’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui non prevede (o non consente) che il giudice annulli il licenziamento, con le conseguenze già previste per l’ipotesi dell’insussistenza del fatto (tra cui il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro), laddove il fatto contestato, in base alle previsioni della contrattazione collettiva applicabile al rapporto, sia punibile solo con sanzioni di natura conservativa.

1.1.– Le questioni sono sollevate nel corso di un giudizio di impugnazione del licenziamento disciplinare intimato, in data 21 ottobre 2022, a un dipendente assunto a tempo indeterminato il 22 agosto 2022, con la qualifica di addetto al settore movimento merci, all’esito del mancato accoglimento delle giustificazioni dallo stesso addotte rispetto alla contestazione di tre distinti addebiti disciplinari.

1.2.– Il ricorrente, nel giudizio a quo, allegava di rivestire la carica di rappresentante sindacale aziendale e che gli avvenimenti posti a fondamento della contestazione disciplinare, che si collocavano nell’ambito di una vicenda unitaria (lo stato di malattia iniziato il 27 settembre 2022 e concluso il 9 ottobre 2022), consistevano: nell’assenza di due giorni per malattia a fronte dei quali l’interessato aveva prodotto certificazione medica rilasciata in data successiva e, dunque, a giudizio dell’impresa non valida in quanto retroattiva; nell’assenza di un altro giorno, per aver omesso di comunicare preventivamente la prosecuzione dello stato di malattia (comunicazione comunque inviata il giorno successivo); nel fatto che, sempre in costanza di malattia, destinata a cessare dopo ulteriori tre giorni, si era presentato sul luogo di lavoro intorno alle ore 15,00, intrattenendosi nella sede dell’impresa fino alle ore 16,45, per poi allontanarsene a bordo di uno scooter guidato da un collega.

Dedotta l’infondatezza dei fatti contestati, il ricorrente chiedeva, in via principale, l’annullamento del licenziamento per giusta causa, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno; in subordine, la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno, da determinarsi alla luce della sentenza di questa Corte n. 194 del 2018, ferma restando l’estinzione del rapporto di lavoro ai sensi del comma 1 dello stesso articolo; in ulteriore subordine, la condanna della stessa al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.

1.3.– Il rimettente, in punto di rilevanza, dà atto che, a seguito dell’istruttoria testimoniale e documentale disposta nel corso del giudizio, era emerso che, dei tre fatti in contestazione, solo due apparivano assumere un rilievo disciplinare e che tali due addebiti risultavano punibili, ai sensi del Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) applicato dalle parti, con sanzioni di tipo conservativo.

In particolare, il primo dei tre addebiti andava riqualificato quale giustificazione tardiva (anziché assenza ingiustificata), posto che il certificato era stato redatto in prossimità dell’evento (appena due giorni dopo) e la prognosi era stata confermata dal medico di controllo dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), sicché per la sua modesta entità era sanzionabile con l’ammonizione scritta ai sensi dell’art. 47 CCNL; il secondo, consistente nella mera violazione delle modalità e dei termini per la comunicazione della prosecuzione dello stato di malattia rivestiva modesta rilevanza disciplinare ed era analogamente sanzionabile con sanzione conservativa; il terzo, invece, risultava del tutto privo di fondamento giuridico essendo emerso, all’esito dell’istruttoria, che si trattava di un comportamento non in grado di pregiudicare lo stato di salute del lavoratore e che non sussisteva alcuna volontà dello stesso di abusare dell’istituto della malattia o di contravvenire agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro dal momento che il dipendente, senza violare l’obbligo di reperibilità domiciliare, si era recato in azienda al solo scopo di espletare delle incombenze riconducibili alla sua qualità di rappresentante sindacale aziendale (RSA).

1.4.– Tanto premesso, il giudice a quo osserva che, pacifica tra le parti l’applicazione del regime normativo di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, tenuto conto sia della data di assunzione del dipendente che del requisito dimensionale dell’azienda, dal momento che risultava provata la sussistenza di due fatti disciplinarmente rilevanti, per quanto non idonei a sorreggere l’atto di recesso in ragione delle stesse previsioni del CCNL di categoria, la fattispecie non poteva essere ricondotta all’ambito applicativo del comma 2 dell’art. 3 citato, quanto piuttosto a quello del comma 1 del medesimo articolo, con conseguente esclusione della tutela reintegratoria richiesta dalla parte in via principale.

Diversamente da quanto previsto dall’art. 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella formulazione successiva alle modifiche introdotte dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), la disposizione censurata non prevede, infatti, il riconoscimento della tutela reintegratoria rispetto a condotte sussistenti e che abbiano rilevanza disciplinare, ma che siano punibili con sanzioni conservative, né la chiarezza del dato normativo consente di addivenire a un esito diverso attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata.

1.5.– Dovendo fare applicazione dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, il Tribunale di Catania dubita della legittimità costituzionale del comma 2 della stessa disposizione nella parte in cui, accordando la reintegra nell’unico caso dell’insussistenza del fatto (materiale o giuridico) contestato, non ricomprende le ipotesi in cui il fatto, pur disciplinarmente rilevante, è punibile, in ragione della contrattazione collettiva di riferimento applicata dal datore di lavoro, con una sanzione conservativa, anche di modesta entità, e per le quali, sebbene non risulti compromesso il rapporto di fiducia, potrà operare la sola tutela economica con conseguente estinzione del rapporto.

1.6.– Il giudice a quo formula, pertanto, plurime censure di illegittimità costituzionale, ritenendole non manifestamente infondate.

1.6.1.– Innanzitutto il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, con riferimento all’art. 3 Cost.

Sotto il profilo della ragionevolezza rileva che la disposizione, senza un plausibile motivo, consentirebbe al datore di lavoro di estromettere un dipendente che abbia commesso infrazioni di modesta entità – che, secondo le valutazioni delle parti sociali e del CCNL di categoria, sarebbero inidonee a compromettere il vincolo fiduciario, tanto da giustificare al più l’irrogazione di sanzioni conservative – con un atto di recesso, ancorché non nullo, né discriminatorio, che risulterebbe, comunque, arbitrario e irragionevole, perché fondato su fatti obiettivamente inidonei a giustificare l’estinzione del rapporto.

La previsione avrebbe l’effetto sia di vanificare il ruolo delle parti sociali, rendendo prive di rilevanza tutte quelle disposizioni della contrattazione collettiva che hanno la funzione di graduare l’esercizio del potere disciplinare, sia di violare un principio immanente dell’ordinamento giuslavoristico, quale quello della necessaria gradualità delle sanzioni disciplinari ex art. 2106 del codice civile.

Quanto al profilo della disparità di trattamento, il giudice a quo osserva che l’ipotesi dell’insussistenza del fatto (materiale o giuridico) e l’ipotesi della commissione di un fatto punibile solo con una misura conservativa, integrerebbero ipotesi sostanzialmente omogenee, perché in entrambe non si manifesterebbe una condotta idonea a far venir meno il rapporto di fiducia tra le parti ovvero a giustificare la risoluzione del rapporto; apparirebbe dunque irragionevole riconoscere la tutela reintegratoria nella prima ipotesi, assicurando protezione all’interesse del lavoratore alla “continuità del rapporto”, e non anche nella seconda.

1.6.2.– Inoltre, il Tribunale di Catania prospetta la violazione degli artt. 2, 4, 35 e 36 Cost. per la irragionevole lesione che la disposizione dubitata arrecherebbe all’interesse del lavoratore alla continuità del rapporto, al suo legittimo affidamento a non essere assoggettabile a misure espulsive, al di fuori dai casi previsti dal proprio contratto di lavoro e dalla contrattazione collettiva ivi richiamata, a non essere vittima di atti irragionevoli, sproporzionati e lesivi della sua dignità, in violazione di beni giuridici non adeguatamente indennizzabili per equivalente.

1.6.3.– Ulteriori dubbi di legittimità sono individuati rispetto ai parametri di cui agli artt. 21, 24, 39, 40 e 41 Cost., per le conseguenze sull’assetto complessivo del rapporto di lavoro; la disposizione censurata provocherebbe uno squilibrio irragionevole ed eccessivo in danno della posizione del lavoratore, che dovrebbe poter esplicare la propria attività lavorativa senza temere ingiuste o dannose ripercussioni, quale è certamente quella di essere espulso dal proprio ambiente lavorativo, pur a fronte di violazioni disciplinari di scarsa entità.

All’interno del posto di lavoro il lavoratore dovrebbe essere in grado di esplicare pienamente le proprie prerogative costituzionali, quali il diritto di critica (art. 21 Cost.) o di denunzia (art. 24 Cost.), il diritto di sciopero (art. 40 Cost.), il diritto di esplicare liberamente attività sindacale ovvero di aderire ad iniziative di medesima natura (artt. 39 e 40 Cost.).

Al contrario, la facilità di estromissione dal posto di lavoro che la disposizione consente si rifletterebbe negativamente a danno anche di tali prerogative, ponendo il lavoratore in una posizione di smisurata soggezione psicologica nei riguardi del proprio datore di lavoro che, consapevole di poter subire solo una sanzione economica, potrebbe cogliere l’occasione per licenziare il dipendente semplicemente perché incline a rivendicare i propri diritti, a segnalare le eventuali inadempienze aziendali o ad esercitare con pienezza i propri diritti sindacali, laddove sono note le difficoltà sia sul piano probatorio che giuridico, di prospettare o dimostrare l’eventuale carattere ritorsivo dell’atto di recesso ovvero la sua natura discriminatoria.

1.6.4.– Il rimettente dubita, infine, della legittimità costituzionale dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 in riferimento all’art. 76 Cost., non apparendo autorizzata dalla legge delega la drastica limitazione della reintegra alla sola ipotesi dell’insussistenza del fatto, con esclusione dall’ambito di operatività di tale strumento dei casi in cui il fatto sia punibile con una sanzione conservativa, che sarebbe stata introdotta dal legislatore delegato esorbitando rispetto alle finalità della delega.

Lo scopo perseguito dal legislatore delegante non sarebbe stato quello di limitare oltremodo il diritto alla reintegra nei licenziamenti disciplinari, bensì quello di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro, di riordinare i contratti di lavoro, per renderli maggiormente coerenti con le esigenze del contesto occupazionale e produttivo, di rendere più efficiente l’attività ispettiva.

Tra le «specifiche fattispecie» che il legislatore delegato era chiamato a individuare non andavano incluse anche le ipotesi disciplinari riconducibili alle sanzioni conservative, perché la finalità della legge delega era verosimilmente solo quella di consentire al datore di lavoro di avere maggiore certezza in ordine alle possibili conseguenze del recesso, evitando che queste ultime fossero imprevedibili e, dunque, potessero incidere oltremodo ed ex post nell’assetto degli interessi economici dell’impresa.

2.– Con atto depositato il 22 gennaio 2024, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

2.1.– L’Avvocatura generale, in primo luogo, quanto all’eccesso di delega rileva che il legislatore delegato si sarebbe attenuto alle indicazioni dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), limitando il diritto alla reintegra per tutte quelle ipotesi in cui il licenziamento appaia una misura sproporzionata rispetto alla gravità dell’illecito disciplinare imputabile al lavoratore.

Al contrario, qualora si accedesse alla soluzione proposta dal rimettente, dal momento che la disposizione già attribuisce il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro nelle ipotesi di insussistenza del fatto disciplinare contestato, casistica che comprende anche le situazioni in cui il fatto contestato è storicamente avvenuto, ma è privo di rilievo disciplinare, la tutela reale, lungi dall’essere limitata a specifiche fattispecie, diverrebbe il rimedio generalizzato per qualsiasi ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato, ciò in violazione del criterio di delega.

Né sarebbe praticabile la soluzione di distinguere ulteriormente, all’interno della categoria dei licenziamenti disciplinari sproporzionati, tra i casi in cui il giudizio di sproporzione discenda da un’opera di valutazione dei fatti operata dal giudice e quelli in cui ciò derivi dal giudizio di proporzionalità eseguito dalle parti sociali, attraverso la previsione del contratto collettivo, trattandosi di fenomeni del tutto omogenei, che non sarebbe lecito trattare diversamente, e rispetto ai quali i contratti collettivi si limitano a delineare una tipizzazione, sulla base del comune apprezzamento delle parti sociali, che sarebbe comunque rilevante per l’accesso alla tutela risarcitoria prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.

2.2.– Quanto alle restanti questioni la difesa statale osserva che la norma non violerebbe il criterio della ragionevolezza in quanto, in presenza di condotte punite con sanzioni conservative, permarrebbe l’illegittimità del recesso del datore di lavoro, giustificato solo in presenza di illeciti disciplinari di sufficiente gravità (secondo la tipizzazione contenuta nel CCNL, ovvero sulla base della valutazione del giudice), seppure, nel rispetto della discrezionalità del legislatore, il rimedio previsto sarebbe quello indennitario e non quello reintegratorio, senza che il rimettente abbia spiegato per quale motivo tale sanzione non sarebbe dotata di una sufficiente deterrenza nei confronti del datore di lavoro.

Circa la violazione del principio di gradualità, evidenzia che il licenziamento sproporzionato resterebbe illegittimo seppure diversamente sanzionato, mentre la non fondatezza della censura di disparità di trattamento deriverebbe dall’eterogeneità della situazione assunta quale tertium comparationis.

2.3.– L’Avvocatura generale deduce inoltre che a fronte dell’insussistenza del fatto – ossia dell’illecito disciplinare, vale a dire di una condotta materiale del lavoratore ovvero di una condotta comunque qualificabile come contraria ai suoi doveri – il recesso del datore di lavoro finisce per avere il solo nomen di licenziamento per giusta causa, trovando evidentemente i suoi motivi in altre finalità, comunque non meritevoli di considerazione da parte dell’ordinamento; analoghe esigenze non sarebbero state rinvenute, né appaiono rinvenibili, nel licenziamento meramente “sproporzionato”, ferma restando la sua illiceità e la conseguente responsabilità del datore di lavoro sanzionata con un indennizzo adeguato.

Infine, quanto al rischio di licenziamenti ritorsivi, con pregiudizio della dignità e delle libertà del lavoratore, la difesa statale evidenzia che sono comunque disponibili gli strumenti che consentono di dichiarare la nullità di un licenziamento che abbia finalità discriminatoria o di rappresaglia, con tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 2 dello stesso d.lgs. n. 23 del 2015.


Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 20 novembre 2023 (reg. ord. n. 163 del 2023) il Tribunale di Catania, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato quattro questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 39, 40, 41 e 76 Cost., aventi ad oggetto la disciplina del licenziamento disciplinare dettata dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede (o non consente) che il giudice annulli il licenziamento, con le conseguenze già previste per l’ipotesi dell’insussistenza del fatto (tra cui il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro), laddove il fatto contestato, in base alle previsioni della contrattazione collettiva applicabile al rapporto, sia punibile solo con sanzioni di natura conservativa.

1.1.– Il giudice a quo è chiamato a decidere dell’impugnazione di un licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente assunto a tempo indeterminato il 22 agosto 2022, con la qualifica di addetto al settore movimento merci, all’esito del mancato accoglimento delle giustificazioni dallo stesso addotte rispetto alla contestazione di tre distinti addebiti disciplinari.

1.2.– Il ricorrente nel giudizio a quo allegava di rivestire la carica di rappresentante sindacale aziendale e deduceva l’infondatezza dei tre fatti contestati, che si collocavano nell’ambito di una vicenda unitaria (lo stato di malattia iniziato il 27 settembre 2022 e conclusosi il 9 ottobre 2022), consistenti nel ritardo di due giorni nel giustificare l’assenza per malattia, nell’omessa comunicazione preventiva della prosecuzione dello stato di malattia e nell’essersi presentato sul luogo di lavoro in costanza di malattia per espletare degli incombenti relativi al suo ruolo di rappresentante sindacale.

1.3.– Il rimettente, in punto di rilevanza, dà atto che, a seguito dell’istruttoria testimoniale e documentale disposta nel corso del giudizio, era emerso che, dei tre fatti in contestazione, solo due apparivano assumere un rilievo disciplinare e che tali due addebiti risultavano punibili, ai sensi del CCNL applicato dalle parti, con sanzioni di tipo conservativo; rilevava altresì che, pacifica tra le parti l’applicazione del regime normativo di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, tenuto conto sia della data di assunzione del dipendente che del requisito dimensionale dell’azienda, a fronte della sussistenza di due fatti disciplinarmente rilevanti, la fattispecie non poteva essere ricondotta all’ambito applicativo del comma 2 dell’art. 3 citato, quanto piuttosto a quello del comma 1 del medesimo articolo, con conseguente esclusione della tutela reintegratoria richiesta dalla parte in via principale, per quanto tali fatti non fossero idonei a sorreggere l’atto di recesso in ragione delle stesse previsioni del CCNL di categoria.

1.4.– Dovendo fare applicazione dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, il Tribunale di Catania dubita della legittimità costituzionale del comma 2 della stessa disposizione nella parte in cui, accordando la reintegra nell’unico caso dell’insussistenza del fatto (materiale o giuridico) contestato, non ricomprende le ipotesi in cui il fatto, pur disciplinarmente rilevante, è punibile, in ragione della contrattazione collettiva di riferimento applicata dal datore di lavoro, con una sanzione conservativa, anche di modesta entità, e per le quali, sebbene non risulti compromesso il rapporto di fiducia, potrà operare la sola tutela economica con conseguente estinzione del rapporto.

1.4.1.– In particolare, con riferimento all’art. 3 Cost., il rimettente deduce che la disposizione censurata tutelerebbe in modo ingiustificatamente differenziato situazioni omogenee, atteso che, anche nell’ipotesi della commissione di un fatto punibile solo con una misura conservativa, vi è una condotta inidonea a far venir meno il rapporto di fiducia tra le parti ovvero a giustificare la risoluzione del rapporto.

1.4.2.– Il contrasto con gli artt. 2, 4, 35 e 36 Cost. sarebbe invece imputabile alla irragionevole lesione della dignità del lavoratore sul posto di lavoro, quale formazione sociale ove questi esplica la propria personalità, del suo interesse alla continuità del rapporto, del suo diritto a non subire licenziamenti arbitrari e di condurre, attraverso la giusta retribuzione, un’esistenza libera e dignitosa.

1.4.3.– La disposizione censurata violerebbe poi gli artt. 21, 24, 39, 40 e 41 Cost., cagionando un irragionevole ed eccessivo squilibrio in danno della posizione del lavoratore mediante la compressione del pieno e libero esercizio delle sue prerogative lavorative e sindacali e il superamento del limite posto all’iniziativa privata che non può svolgersi in modo da compromettere la dignità della persona.

1.4.4.– Il giudice a quo deduce, infine, la violazione l’art. 76 Cost. perché l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, escludendo dall’ambito di operatività della reintegra le ipotesi in cui il fatto sia punibile con una sanzione conservativa, esorbita dagli scopi e dai criteri previsti dalla legge delega che ha demandato al legislatore delegato non già la drastica riduzione della tutela reintegratoria a un’unica fattispecie, ma solo la sua limitazione a specifiche ipotesi.

2.– La difesa statale non ha proposto alcuna eccezione preliminare, né sussistono profili di inammissibilità da sollevare d’ufficio.

Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi in merito al procedimento principale e al contesto fattuale in cui è stato intimato il licenziamento, oggetto del giudizio principale, risultano sufficienti a mostrare l’applicabilità della disposizione censurata (ex plurimis, sentenze n. 22 e n. 7 del 2024, n. 152 e n. 59 del 2021).

Il rimettente ha giustificato la necessità di fare applicazione del regime sanzionatorio indennitario previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in una ipotesi di licenziamento intimato sulla base di due fatti disciplinarmente rilevanti e sussistenti, ma non idonei a fondare l’atto di recesso perché puniti con sanzioni conservative alla stregua delle stesse previsioni della CCNL di categoria applicabile al rapporto. Pertanto, il licenziamento disciplinare doveva considerarsi illegittimo, ma la tutela del lavoratore non poteva essere ricondotta all’ambito applicativo di quella reintegratoria del comma 2 dell’art. 3 citato, essendo operante solo la tutela indennitaria di cui al comma 1 della medesima disposizione.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ha diffusamente motivato in ordine alle ragioni per le quali, a suo giudizio, la disposizione censurata sarebbe suscettibile dei sollevati dubbi di legittimità costituzionale. Altresì ha escluso la possibilità di addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, ritenendo chiara la formulazione della disposizione censurata, nel senso di escludere la tutela reintegratoria anche in caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo basato su fatti sussistenti sì, ma inidonei, secondo la preventiva valutazione delle parti sociali contenuta nella contrattazione collettiva, a giustificare la massima sanzione espulsiva.

3.– Prima di esaminare il merito delle questioni, è opportuno richiamare in premessa, per le linee generali, il quadro normativo di riferimento.

3.1.– La nozione di licenziamento disciplinare trova la sua storica conferma nella sentenza di questa Corte n. 204 del 1982, che ha esteso le garanzie dettate dall’art. 7, secondo e terzo comma, statuto lavoratori a tutti i licenziamenti fondati su un inadempimento del lavoratore; la definizione è stata, poi, recepita nella legge n. 92 del 2012, che, all’art. 1, comma 41, regola gli effetti del licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare.

Il tratto comune delle causali giustificative del licenziamento disciplinare è il notevole inadempimento del lavoratore agli obblighi contrattuali, nelle due varianti, essenzialmente quantitative, del giustificato motivo soggettivo ex art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e della giusta causa «che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» (art. 2119 cod. civ.).

3.2.– La natura “ontologica” del licenziamento disciplinare costituisce ormai ius receptum: il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, indipendentemente dalla sua inclusione, o meno, tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto, deve essere considerato di natura disciplinare, con conseguente assoggettamento alle garanzie dettate in favore del lavoratore dall’art. 7, secondo e terzo comma, statuto lavoratori, circa la contestazione dell’addebito e il diritto di difesa, nonché, per il caso in cui le parti si siano avvalse legittimamente della facoltà di prestabilire quali fatti e comportamenti integrino l’indicata condotta giustificativa del recesso, anche di quella della preventiva pubblicità di siffatte previsioni prescritta dal primo comma.

La valutazione di gravità è frutto di un giudizio complesso, che si relaziona, da un lato, alla portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro lato, alla proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.

4.– Come evidenziato da questa Corte nella coeva sentenza n. 128 del 2024, resa in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per anni il contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro è stato operato per mezzo di due forme di garanzia, condizionatamente al ricorrere di un livello occupazionale minimo del medesimo datore (almeno quindici lavoratori occupati nell’unità produttiva o sessanta nel complesso): a) la cosiddetta tutela indennitaria (o “obbligatoria”), prevista originariamente dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, per le imprese sotto soglia; b) la cosiddetta tutela reintegratoria (o “reale”), prevista dall’art. 18 statuto lavoratori, per le imprese sopra soglia.

4.1.– Con il passaggio dal regime originario dell’art. 18 statuto lavoratori a quello novellato dalla legge n. 92 del 2012, il sistema generalizzato, che vedeva la tutela reintegratoria applicata in ogni caso, è stato sostituito da uno “misto”, che combina due ipotesi in cui opera ancora la reintegrazione, piena o “attenuata”, e due ipotesi in cui vige solo la tutela indennitaria, più o meno estesa (sentenze n. 44, n. 22 e n. 7 del 2024).

Il frazionamento delle tutele viene confermato dal d.lgs. n. 23 del 2015 che, nel tracciare un diverso perimetro delle aree di tutela, restringe l’ambito applicativo della reintegra “attenuata” e amplia in modo corrispondente quello riservato all’indennizzo “forte”.

4.2.– Il riavvicinamento tra le due discipline – iniziato con il venir meno dell’automatismo di calcolo dell’indennizzo previsto solo per i licenziamenti soggetti al d.lgs. n. 23 del 2015 (a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 194 del 2018) e la abrogazione del rito speciale contemplato dalla legge n. 92 del 2012 per effetto dell’art. 37, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata) – si è accentuato all’esito della sentenza n. 22 del 2024 che, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 limitatamente alla parola «espressamente», quanto alla fattispecie del licenziamento nullo ha rimosso il restringimento della tutela reintegratoria alle nullità espresse (sentenza n. 44 del 2024).

5.– A partire dalla riforma del 2012 l’individuazione del vizio dell’atto di recesso illegittimo è divenuto un passaggio interpretativo fondamentale per individuare le tutele da riconoscere al lavoratore illegittimamente licenziato.

5.1.– Limitata la disamina al licenziamento disciplinare, che rileva ai fini delle censure in esame, nel disegno riformatore della legge n. 92 del 2012, la tutela reintegratoria piena è riservata all’ambito della nullità e della discriminazione, mentre per le imprese sopra-soglia la tutela reintegratoria nella forma attenuata viene riconosciuta ai licenziamenti disciplinari nelle due evenienze ritenute più gravi, quelle cioè in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per l’insussistenza del fatto contestato, ovvero perché il fatto contestato è riconducibile fra le condotte suscettibili di sanzioni solo conservative in base alle previsioni del contratto collettivo o del codice disciplinare applicabili.

Ai sensi dell’art. 18, quarto comma, statuto lavoratori, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, il regime applicabile ai licenziamenti intimati dopo il 18 luglio 2012 è quello della reintegrazione cosiddetta attenuata (reintegra e indennità risarcitoria non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto); il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, applica invece la disciplina di cui al quinto comma (cioè la cosiddetta tutela indennitaria “forte” pari ad un’indennità risarcitoria omnicomprensiva tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).

5.2.– La linea di demarcazione tra l’area della tutela reintegratoria e quella della tutela solo compensativa è stata nuovamente modificata dal d.lgs. n. 23 del 2015, che ha introdotto un distinto regime di tutela in caso di illegittimità del licenziamento per i lavoratori assunti con il contratto di lavoro a tutele crescenti, quindi necessariamente in data successiva alla sua entrata in vigore (7 marzo 2015).

Per i “nuovi assunti” la tutela reintegratoria è stata ulteriormente ridimensionata nel caso di licenziamento per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo ed è stata del tutto eliminata in ipotesi di licenziamento “economico”, ossia per giustificato motivo oggettivo o collettivo.

Secondo l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nei casi in cui risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, da determinarsi secondo i criteri dettati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità, come rideterminata dalla novella di cui al decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96.

Ai sensi del comma 2 dello stesso art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria che non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

L’ambito di applicazione della tutela reale è riservata all’ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale contestato, con espressa esclusione dei casi in cui l’illegittimità del licenziamento risieda esclusivamente nel difetto di proporzionalità della misura espulsiva adottata dal datore di lavoro rispetto all’effettiva gravità della condotta posta in essere dal dipendente; all’area di operatività della tutela indennitaria sono invece ricondotte anche le ipotesi in cui l’inadeguatezza del licenziamento discende dall’esistenza di una previsione contrattuale che, per quel tipo di addebiti, esclude il potere del datore di lavoro di recedere dal rapporto.

6.– Il giudice rimettente censura il mancato riconoscimento della tutela reintegratoria quando, per l’inadempienza del lavoratore contestata dal datore di lavoro, che si riveli “sussistente”, sia la stessa contrattazione collettiva a prevedere una sanzione conservativa.

Si verte in questi casi non già in ipotesi di «insussistenza del fatto», perché è pacifico che la ragione di inadempimento esista, bensì di un radicale difetto di proporzionalità della sanzione del licenziamento rispetto alla violazione disciplinare allegata dal datore di lavoro, per la quale la contrattazione collettiva prevede solo una sanzione conservativa.

6.1.– La distinzione tra un licenziamento intimato per una causa o un motivo soggettivo “ingiustificati” e un licenziamento intimato per una causa o un motivo soggettivo fondati su un fatto materiale “insussistente” non aveva avuto alcuna ricaduta sul sistema sanzionatorio fino al 2012.

Per i licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012 la categoria della “insussistenza” acquista per la prima volta autonoma rilevanza rispetto a quella della “ingiustificatezza”; essa, vuoi per la ragione disciplinare, vuoi per quella d’impresa, resta l’unica meritevole della tutela reintegratoria.

All’esito delle modifiche apportate all’art. 18 statuto lavoratori il criterio della necessaria importanza dell’inadempimento risulta decisivo solo ai fini della valutazione di legittimità, o meno, del licenziamento, mentre la reintegrazione resta consentita limitatamente alle ipotesi in cui l’illegittimità del recesso è maggiormente evidente e dunque là dove il fatto addebitato non sussista, ovvero nel caso in cui quel fatto sia punito dalla disciplina collettiva applicabile con una sanzione conservativa.

6.2.– Il nuovo criterio di graduazione si rivela da subito di complessa interpretazione.

Quanto al «fatto contestato», dopo qualche iniziale incertezza, la giurisprudenza di legittimità si è progressivamente consolidata su una nozione che, valorizzando il richiamo alla contestazione, e, quindi, alla rilevanza disciplinare della condotta, attrae nella tutela reintegratoria tutte le ipotesi in cui sia da escludere in radice un inadempimento, anche sotto il profilo soggettivo, perché la condotta non è accompagnata dalla necessaria coscienza e volontà oppure è stata tenuta in un contesto in relazione al quale nessun addebito può essere mosso al lavoratore.

L’insussistenza del «fatto contestato» comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare, quanto al profilo oggettivo ovvero a quello soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente, e dunque il fatto, pur sussistente, sia privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica e quindi sia sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 10 maggio 2018, n. 11322 e 26 maggio 2017, n. 13383, ordinanza 7 febbraio 2019, n. 3655).

La difficoltà di ricondurre al fatto anche il giudizio di proporzionalità fondato sull’art. 2106 cod. civ., è stata stemperata con il consolidarsi di altro orientamento favorevole all’apertura alle clausole generali in merito all’ampiezza del rinvio operato dall’art. 18, quarto comma, statuto lavoratori, alle previsioni della contrattazione collettiva e dei codici disciplinari.

L’interpretazione più restrittiva – che limitava l’accesso alla tutela reale ai casi in cui la valutazione di proporzionalità, fra sanzione conservativa e fatto contestato, fosse tipizzata dalla contrattazione collettiva (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 luglio 2019, n. 19578; 20 maggio 2019, n. 13533 e 9 maggio 2019, n. 12365) – è stata oggetto di una successiva rimeditazione, oggi consolidata sino ad assurgere al rango di diritto vivente.

A partire da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 aprile 2022, n. 11665, si è infatti affermato che in caso di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dal novellato art. 18, quarto e quinto comma, statuto lavoratori, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, senza che detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmodi nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come recepito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (successivamente, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 3 gennaio 2024, n. 107; 28 giugno 2022, n. 20780 e 26 aprile 2022, n. 13063).

6.3.– L’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 apre, infine, un’ulteriore fase per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015: dall’“insussistenza” del motivo soggettivo viene espunta la valutazione di proporzionalità del licenziamento rispetto alla inadempienza contestata al lavoratore, mentre sul versante del motivo economico l’“insussistenza” viene del tutto equiparata all’“ingiustificatezza” e la tutela reale è esclusa del tutto.

Due le innovazioni di assoluto rilievo in tema di licenziamento disciplinare: la qualificazione del fatto come «materiale» e l’espressa esclusione, ai fini dell’individuazione del fatto rilevante per la selezione della tutela applicabile, del giudizio di proporzionalità con la conseguente eliminazione del riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva.

7.– Passando al merito delle questioni, deve essere esaminata, in via logicamente preliminare, quella sollevata in riferimento all’art. 76 Cost.

7.1.– Nella prospettazione del giudice rimettente l’eccesso di delega riguarderebbe la compatibilità della scelta di consentire la reintegra nell’unica fattispecie prevista dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla legge delega n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act), il cui art. 1, comma 7, lettera c), dispone, come visto, che la tutela reintegratoria venga limitata a specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare.

7.2.– La questione non è fondata.

Il controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge delega, in continuità con la costante giurisprudenza costituzionale, va operato partendo dal dato letterale, per poi, a fronte di elementi testuali eventualmente suscettibili di divergenti letture, procedere ad una indagine sistematica e teleologica volta a verificare se l’attività del delegato, nell’esercizio del margine di discrezionalità che gli compete nell’attuazione della legge delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n. 250 e n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015 e n. 119 del 2013) e mantenendosi comunque nell’alveo delle scelte di fondo operate dalla stessa (sentenza n. 278 del 2016), senza contrastare con gli indirizzi generali desumibili da questa (sentenze n. 229 del 2014 e n. 272 del 2012); occorre, comunque, tener conto «del grado di specificità dei principi e criteri direttivi e della maggiore o minore ampiezza dell’oggetto della delega» e che «la loro interpretazione deve muovere, innanzi tutto, dalla “lettera” del testo normativo, a cui si affianca l’interpretazione sistematica sulla base della ratio legis, emergente dal contesto complessivo della legge di delega e dalle finalità che essa persegue (sentenze n. 22 e n. 7 del 2024)» (sentenza n. 96 del 2024).

7.3.– Sullo scopo della legge di delega n. 183 del 2014, nel senso di favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di “nuovi assunti”, accentuandone la flessibilità in uscita con il riconoscimento di una tutela risarcitorio-monetaria predeterminata, e quindi alleggerendo le conseguenze di un licenziamento illegittimo, questa Corte si è ampiamente espressa nella sentenza n. 44 del 2024, ove ai punti 6 e 7 del Considerato in diritto si afferma che «[l]’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, nel contesto di un ampio intervento in materia di diritto del lavoro e del sistema di previdenza e assistenza sociale, ha delegato il Governo ad adottare, in particolare, un “testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro” e a tal fine ha indicato sia la finalità perseguita, sia specifici principi e criteri direttivi. Lo “scopo” complessivo, avuto di mira dal legislatore, è stato quello di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo».

7.4.– Prevedendo l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge delega che la tutela reintegratoria dovesse essere prevista solamente per «specifiche» fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nel prefigurare la reintegrazione solamente nel caso della insussistenza del fatto materiale il legislatore delegante si è posto nel solco dei principi e dei criteri direttivi fissati dal legislatore delegante e delle finalità che lo hanno ispirato, con ciò rispettando il carattere di residualità che la legge delega ha inteso riconoscere alla tutela ripristinatoria.

Né può sostenersi che la contraddizione deriverebbe dall’utilizzazione del plurale («specifiche fattispecie»).

Per favorire l’occupazione dei “nuovi assunti” mediante la riduzione dell’area della reintegrazione, il legislatore delegato non aveva l’obbligo, ma solamente la facoltà di prevedere una molteplicità di categorie di vizi di licenziamento disciplinare cui ricollegare la reintegrazione; se il criterio direttivo principale era quello di invertire l’ordine di grandezza dell’ambito applicativo rendendo recessiva la tutela ripristinatoria rispetto a quella indennitaria, la limitazione ad un’unica fattispecie non solo non eccede la delega quanto alla “lettera” del dato normativo, ma opera all’interno di essa in coerenza con le finalità che la stessa perseguiva.

8.– Proseguendo nell’esame del merito, le questioni che investono la disposizione censurata (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015) sono sollevate in riferimento a ulteriori plurimi parametri (artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 40 e 41 Cost.), che possono essere esaminati congiuntamente perché le dedotte violazioni degli stessi convergono verso un’unica censura di fondo: sarebbe costituzionalmente illegittima la mancata previsione, nella fattispecie, della tutela reintegratoria del lavoratore illegittimamente licenziato, potendo farsi applicazione solo della tutela indennitaria.

Le questioni non sono fondate.

8.1.– Si è già ricordato che oggetto di impugnazione nel giudizio principale è un licenziamento disciplinare o per colpa; tale è quello fondato su una dedotta “giusta causa” (ex art. 2119 cod. civ.), risultante da una inadempienza «che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto», oppure su un “giustificato motivo” soggettivo (ex art. 3 della legge n. 604 del 1966), consistente in «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro».

La natura “disciplinare” del recesso datoriale implica innanzi tutto il rispetto delle regole formali e procedurali di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, che richiama in particolare le garanzie previste dall’art. 7 statuto lavoratori. Tra queste, la garanzia procedimentale più importante consiste nell’«osservanza del contraddittorio tra datore e lavoratore quale indefettibile regola di formazione delle misure disciplinari» (così la già citata sentenza n. 204 del 1982, che ha esteso le garanzie dettate dal secondo e terzo comma di tale disposizione a tutti i licenziamenti che presuppongono un inadempimento del lavoratore e che pertanto sono “ontologicamente” disciplinari).

Sul piano sostanziale – che è quello rilevante in questo giudizio di legittimità costituzionale – la natura “disciplinare” del recesso datoriale comporta l’applicabilità del canone generale della proporzionalità, secondo cui l’inadempimento del lavoratore deve essere caratterizzato da una gravità tale da compromettere definitivamente la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto. Il licenziamento è sempre una “extrema ratio”, sicché è giustificato, e quindi legittimo, solo se proporzionato alla gravità dell’addebito contestato e accertato in giudizio. Il principio di proporzionalità con riferimento al licenziamento del lavoratore costituisce ormai un acquis del diritto vivente, più non messo in discussione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 11665 del 2022; analogamente, sentenze di questa Corte n. 123 del 2020 e n. 194 del 2018). Esso è, in fondo, una proiezione del più generale principio di proporzionalità che pervade il diritto punitivo, penale e non (recentemente, sentenza n. 46 del 2024), e che trova un riscontro positivo anche nella disciplina civilistica dell’inadempimento, il quale, per essere rilevante al fine della risoluzione del rapporto, non deve essere di scarsa importanza, come previsto in generale dall’art. 1455 cod. civ.

Nella fattispecie in esame, non è in discussione l’applicazione di tale principio, né è dubbio che la sua violazione comporti che la causa del recesso datoriale non sia “giusta” (art. 2119 cod. civ.) o che il motivo soggettivo dello stesso non sia “giustificato” (art. 3 della legge n. 604 del 1966): il licenziamento, ove il giudice ritenga il difetto di proporzionalità, è certamente illegittimo.

Le questioni sollevate dal giudice rimettente concernono, invece, le conseguenze di tale illegittimità: se può egli, in tale evenienza, ordinare la reintegrazione del prestatore nel posto di lavoro ai sensi del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, come richiesto dal ricorrente in giudizio, oppure se debba limitarsi solo ad accordare la tutela indennitaria prevista dal comma 1 dell’art. 3.

8.2.– La valutazione di proporzionalità del licenziamento, quanto alle conseguenze in termini di tutela reintegratoria o solo indennitaria, ha trovato – come si è già rilevato sopra – una regolamentazione significativamente diversa nella legge n. 92 del 2012 e nel d.lgs. n. 23 del 2015, in attuazione della legge delega n. 183 del 2014. Ciò è rilevante ancora nell’attualità perché la disciplina della legge n. 92 del 2012 continua ad applicarsi ai lavoratori in servizio alla data del 7 marzo 2015, mentre la regolamentazione del d.lgs. n. 23 del 2015 opera per i lavoratori assunti a partire da tale data; la quale quindi costituisce lo spartiacque tra una disciplina ad esaurimento ed una a regime in progressiva estensione (sentenza n. 44 del 2024).

La legge n. 92 del 2012 – che ha frazionato i regimi di protezione del lavoratore nei confronti del licenziamento illegittimo prevedendo due ipotesi di tutela reintegratoria (piena ed attenuata) ed altrettante di tutela indennitaria (di maggiore o minore contenuto) – accorda, in particolare, la tutela reintegratoria attenuata «nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (art. 18, quarto comma, statuto lavoratori, come novellato).

La rilevanza che tale disposizione assegna alle previsioni dei contratti collettivi non solo è coerente con la generale operatività del principio di proporzionalità, ma anche implica che il contenuto dello stesso possa essere declinato dalla contrattazione collettiva e che il giudice debba tenerne conto, con la conseguenza che la violazione di quest’ultima comporta, per il lavoratore illegittimamente licenziato, la tutela reintegratoria attenuata.

8.3.– In seguito, intervenendo anche su tale aspetto della disciplina dei licenziamenti, l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 ha contemplato la tutela reintegratoria attenuata in un ambito più ristretto, ossia «[e]sclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».

Il legislatore delegato, nel rispetto della legge di delega (come si è già riconosciuto sopra), ha individuato proprio nel licenziamento fondato su un “fatto materiale insussistente” le «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato», alle quali trova tuttora applicazione la tutela reintegratoria, ancorché nella forma attenuata.

Quindi, quanto al licenziamento disciplinare, la “specifica fattispecie” conservata nell’area della tutela reale è quella del recesso datoriale fondato, appunto, su un “fatto materiale insussistente”. Se l’addebito contestato al lavoratore risulta insussistente all’esito del giudizio di impugnazione del licenziamento, il giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore, illegittimamente licenziato, nel posto di lavoro. Ma se, al contrario, l’addebito contestato risulta provato, non rileva più, a tal fine, la «valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Il licenziamento potrà risultare “sproporzionato” rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore – e quindi, sotto questo profilo, illegittimo – ma la tutela sarà quella indennitaria del comma 2 dell’art. 3 citato.

8.4.– Orbene, in generale, questa Corte ha più volte affermato – e qui ribadisce – che la reintegrazione non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore a fronte dell’illegittimità del licenziamento, che sia compatibile con la garanzia costituzionale del lavoro (art. 35 Cost.); il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può operare una diversa scelta della disciplina di contrasto dei licenziamenti illegittimi sempre che risulti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva (sentenza n. 7 del 2024). Questa Corte ha, infatti, sottolineato che la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenze n. 125 del 2022; n. 59 del 2021 e n. 46 del 2000), in quanto «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (sentenza n. 254 del 2020).

Occorre però che la tutela sia comunque adeguata e sufficientemente dissuasiva.

Tuttavia – ha precisato questa Corte (sentenza n. 7 del 2024) – «l’adeguatezza e sufficiente dissuasività del sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi vanno valutate nel complesso e non già frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualità e proporzionalità della sanzione che il legislatore, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha previsto come differenziata, conservando la reintegrazione (unitamente ad un indennizzo senza tetto massimo) per i casi di più gravi violazioni, quali quello del licenziamento nullo o discriminatorio, e riservando agli altri casi la tutela indennitaria (con un tetto massimo) secondo il più incisivo criterio risultante dalle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020».

Siffatta valutazione di adeguatezza e sufficiente dissuasività va qui ribadita considerando l’apparato complessivo di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo, quale contenuto nel d.lgs. n. 23 del 2015, successivamente novellato dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito, ed emendato da pronunce di questa Corte. Esso prevede la tutela reintegratoria piena in caso di licenziamento nullo (non solo in caso di nullità espresse: sentenza n. 22 del 2024) o discriminatorio; la tutela reintegratoria attenuata ove il licenziamento (non solo quello disciplinare, ma anche quello per giustificato motivo oggettivo: sentenza n. 128 del 2024) si fondi su un “fatto insussistente”; la tutela indennitaria estesa fino anche a trentasei mensilità di retribuzione in caso di difetto di giusta causa o di giustificato motivo (sentenza n. 194 del 2018) o fino a dodici mensilità in caso di vizi formali o procedurali (sentenza n. 150 del 2020).

In definitiva, anche se a seguito del d.lgs. n. 23 del 2015 si è ridotta – per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 – l’area della tutela reintegratoria rispetto alla disciplina posta dalla legge n. 92 del 2012, e ancor più rispetto a quella precedente della generale tutela reintegratoria (art. 18 statuto lavoratori, nel testo vigente fino alla modifica di cui alla citata legge n. 92 del 2012), rimane, nel complesso, un ancora sufficiente grado di adeguatezza e dissuasività del regime di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo e non si è raggiunta la soglia oltre la quale una carente disciplina di contrasto del licenziamento illegittimo entrerebbe in frizione con la tutela costituzionale del lavoro (artt. 1, 4 e 35 Cost.).

Del resto adeguatezza e dissuasività sono requisiti che questa Corte ha già ritenuto sussistenti in riferimento all’indennità di cui all’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia per i licenziamenti individuali (sentenza n. 194 del 2018), che per i licenziamenti collettivi (sentenza n. 7 del 2024), anche in una prospettiva temporale, posto che il fluire del tempo giustifica l’applicazione di un trattamento differenziato a situazioni analoghe quando sia rispettato il canone della ragionevolezza.

Nella citata sentenza n. 194 del 2018, richiamata dalla sentenza n. 7 del 2024, si ricorda come sia stato più volte affermato, in occasione dell’esame di disposizioni introduttive di forfetizzazioni legali limitative del risarcimento del danno, che «la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale (sentenza n. 148 del 1999), purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991)».

Il giudizio di adeguatezza del meccanismo risarcitorio forfetizzato utilizzato dal d.lgs. n. 23 del 2015, una volta superata la rigidità collegata all’anzianità ad opera della sentenza n. 194 del 2018, si fonda proprio sulla sua idoneità a realizzare un ragionevole contemperamento degli interessi in conflitto, che nella specie non possono che individuarsi in quelli del lavoratore da un lato e dell’impresa, e per essa del datore di lavoro, dall’altro; a giudizio di questa Corte l’indennizzo previsto dal comma 1 della disposizione censurata è stato strutturato come un rimedio con adeguata efficacia deterrente in cui alla funzione riparatoria si affianca quella dissuasiva e sanzionatoria.

Anche quanto alla compatibilità costituzionale dei limiti quantitativi posti dal d.lgs. n. 23 del 2015, questa Corte ha già riconosciuto (sentenze n. 7 del 2024 e n. 194 del 2018) che il limite massimo dell’indennità (elevato a trentasei mensilità dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito) non si pone in contrasto con la nozione costituzionale di “adeguatezza” del risarcimento, la quale impone che il ristoro sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto.

Di qui la non fondatezza delle sollevate questioni con riferimento a tutti gli evocati parametri.

9.– L’ulteriore questione sollevata con riferimento all’art. 39 Cost. presenta profili di particolarità.

La questione non è fondata nei termini che seguono.

9.1.– Il giudice rimettente, pur svolgendo considerazioni di carattere più generale, focalizza le proprie censure in riferimento al caso specifico, oggetto del giudizio principale: quello di un licenziamento disciplinare fondato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevede una sanzione solo conservativa.

Se la lettura della disposizione censurata fosse nel senso che, anche in questa particolare ipotesi, rimane «estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento», sì che la tutela dovrebbe essere solo indennitaria, allora le censure del giudice rimettente, riferite alla denunciata violazione dell’art. 39 Cost., avrebbero, in effetti, fondamento.

La previsione a opera della contrattazione collettiva di sanzioni solo conservative implica la preclusione della sanzione espulsiva, qual è il licenziamento. È possibile che l’inadempimento del lavoratore in ordine a obbligazioni strumentali, quali nella specie l’obbligo di comunicare tempestivamente la giustificazione dello stato di malattia, sussistente e certificato come impeditivo della prestazione lavorativa, sia qualificato dalle parti del rapporto, alle quali il contratto collettivo si applica, come di gravità contenuta e che la graduazione delle sanzioni irrogabili sia espressamente prevista nell’ambito di quelle solo conservative.

Altrimenti detto, le parti possono prevedere che specifiche inadempienze del lavoratore siano qualificate, dalla contrattazione collettiva applicabile al rapporto, come meno gravi e, perciò, siano reprimibili con sanzioni solo conservative e non già con il licenziamento, il quale, se intimato, risulterebbe convenzionalmente “sproporzionato”.

Una disposizione di legge che si sovrapponesse a questa valutazione circa la sproporzione del licenziamento comprimerebbe ingiustificatamente l’autonomia collettiva, il cui ruolo essenziale nella disciplina del rapporto di lavoro, privato e pubblico, è stato più volte riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 53 del 2023, n. 153 del 2021, n. 257 del 2016 e n. 178 del 2015).

9.2.– Però ciò non accade se si accoglie un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, orientata alla conformità all’evocato parametro (art. 39 Cost.).

Infatti, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (sentenza n. 42 del 2017), potendo questa Corte indicarne l’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità a Costituzione, sì da superare un dubbio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 41 e n. 36 del 2024, n. 183, n. 105, n. 46 e n. 10 del 2023).

Come evidenziato, da ultimo, nella sentenza n. 96 del 2024, «[l]’interpretazione adeguatrice, quando operata da questa Corte, rappresenta l’esito della valutazione delle censure di legittimità costituzionale mosse dal giudice a quo e quindi ha una valenza e portata peculiari rispetto all’ordinaria esegesi del giudice comune».

Può allora considerarsi che, per un verso, l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 non contiene, in realtà, alcun riferimento testuale alle «previsioni dei contratti collettivi», richiamate invece espressamente dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012 che, nel novellare il quarto comma dell’art. 18 statuto lavoratori, ha dato rilevanza alla valutazione convenzionale di proporzionalità quanto alle sanzioni applicabili per inadempienze del lavoratore. Non vi è quindi – nell’art. 3, comma 2 – un’esclusione espressa di tale rilevanza. E anzi rileva che la finalità della legge di delega è stata non già quella di sovrapporre la legge alla contrattazione collettiva, ma di contrastare una interpretazione di “sproporzione” lata al punto da rendere sufficiente che la contrattazione collettiva preveda genericamente che il licenziamento possa essere intimato per i fatti “più gravi”, per comportare l’applicabilità della tutela reintegratoria.

Per l’altro verso, rimane la generale previsione dell’art. 30, comma 3, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), secondo cui «[n]el valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi». E la tipizzazione può ricorrere anche al negativo, nel senso che la contrattazione collettiva può stabilire, con riferimento a specifiche ipotesi, ciò che non può costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.

E allora, la disposizione censurata può – e deve – essere letta nel senso che il riferimento alla proporzionalità del licenziamento, il cui difetto è attratto all’ambito della tutela solo indennitaria del licenziamento illegittimo, ha sì una portata ampia, tale da comprendere anche le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento, come clausola generale ed elastica, non diversamente dalla legge, allorché questa richiede che il licenziamento si fondi su una giusta causa o un giustificato motivo e ne definisce la nozione. Essa non concerne, però, anche le particolari ipotesi di regolamentazione pattizia alla stregua delle quali specifiche e nominate inadempienze del lavoratore sono passibili solo di sanzioni conservative. In tali ipotesi, il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento. Non vi è un ‟fatto materiale” che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, sì che la fattispecie va equiparata a quella, prevista dalla disposizione censurata, dell’«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata.

9.3.– La mancata previsione della reintegra nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalle previsioni della contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti.

Le previsioni della contrattazione collettiva sono espressione dell’autonomia negoziale di entrambe le parti, sì che la predeterminazione della sanzione conservativa consente al datore di lavoro di conoscere in anticipo la gravità di specifiche inadempienze del lavoratore e quindi di adeguare ex ante il provvedimento disciplinare senza correre il rischio di dover subire l’alea di un successivo giudizio di proporzionalità; se la ratio del ridimensionamento della rilevanza del sindacato di proporzionalità, recato dal d.lgs. n. 23 del 2015, è anche quella di garantire maggiore certezza, tale finalità risulta ampiamente soddisfatta dalla puntuale tipizzazione operata della contrattazione collettiva.

Non è quindi contraddetto il ridimensionamento della tutela reintegratoria in caso di licenziamento disciplinare, che rimane pur lasciando fuori dall’esclusione della valutazione di proporzionalità l’ipotesi dello specifico fatto, disciplinarmente rilevante, che la contrattazione collettiva preveda come suscettibile di una sanzione solo conservativa.

Rimane altresì la simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragione di impresa, tracciata da questa Corte nella sentenza n. 128 del 2024 sulla linea del “fatto materiale insussistente”, lungo la quale c’è il riallineamento delle due fattispecie di licenziamento, anche se il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo per un fatto assai lieve, tipizzato dalla contrattazione collettiva con previsione specifica, si collochi al di qua di quella linea e ricada anch’esso nella tutela reintegratoria attenuata.

E tale interpretazione si impone ai fini dell’adeguamento al parametro costituzionale evocato dal rimettente.

10.– In conclusione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., va dichiarata non fondata (punto 7 e seguenti); parimenti non fondate sono le questioni sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 40 e 41 Cost. (punto 8 e seguenti); la questione sollevata in riferimento all’art. 39 Cost. va dichiarata non fondata nei termini sopra indicati (punto 9 e seguenti).


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 40, 41 e 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 39 Cost., dal Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2024

Il Cancelliere

F.to: Igor DI BERNARDINI


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