Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2023, iscritta al n. 17 del registro ordinanze 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Modena ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 12, comma 1, lettera d), numeri 1) e 2), della legge 24 novembre 2023, n. 168 (Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica), nella parte in cui, disciplinando la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, «non consente al giudice, tenuto conto di tutte le specificità del caso concreto e motivando sulle stesse, di stabilire una distanza inferiore a quella legalmente prevista di 500 metri» e al contempo «prevede che, qualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle modalità di controllo, il giudice debba necessariamente imporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi, senza, invece, possibilità di valutare e motivare, pur garantendo le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., la non necessità di applicazione del dispositivo elettronico di controllo nel caso concreto».
Il giudice a quo espone che nei confronti di A. M. – indagata del reato di atti persecutori, aggravato da preesistente relazione affettiva, a norma dell’art. 612-bis, secondo comma, del codice penale – è stata applicata in data 11 dicembre 2023, su conforme richiesta del pubblico ministero, la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa, alla di lui madre e alla nuova fidanzata, con l’attivazione del dispositivo elettronico di controllo remoto e con la prescrizione di mantenere dalla persona offesa e dai luoghi dalla stessa abitualmente frequentati – allo stato individuati nella casa di abitazione e nel luogo di lavoro – una distanza di almeno cinquecento metri.
L’ordinanza di rimessione aggiunge che i Carabinieri delegati per l’esecuzione della misura hanno evidenziato non esservi nel luogo di residenza dell’indagata una copertura della rete mobile sufficiente al funzionamento del dispositivo elettronico di controllo e non essere comunque possibile l’osservanza della distanza minima legale di cinquecento metri, attese le modeste dimensioni del centro abitato, tali che l’indagata stessa, non solo per andare a lavoro, ma anche per recarsi eventualmente in municipio, farmacia, ufficio postale o alla caserma dei Carabinieri, si troverebbe sempre costretta ad avvicinarsi troppo alla casa della persona offesa.
1.1.– In ordine alla rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo assume che, alla luce delle censurate previsioni, la fattuale impossibilità di eseguire la misura disposta imporrebbe l’applicazione di una misura più grave, eventualmente congiunta alla prima, della quale tuttavia non vi sarebbe nella specie un’effettiva necessità, posto che l’indagata è persona incensurata, ha una stabile occupazione lavorativa ed è madre di due minori.
D’altro canto, non sarebbe praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata, atteso che le norme in questione, per effetto delle modifiche operate dalla legge n. 168 del 2023, stabiliscono testualmente e inderogabilmente sia la distanza minima di cinquecento metri, sia l’impiego del dispositivo di controllo elettronico, senza lasciare al giudice alcun margine di discrezionalità.
1.2.– In ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente deduce che le disposizioni censurate appaiono «travalicare i limiti della ragionevolezza e della proporzione, quali corollari del principio di uguaglianza consacrato nell’art. 3 Cost.».
Invero, il carattere fisso della distanza minima di cinquecento metri e l’effetto di aggravamento della misura determinato dagli ostacoli tecnici inerenti al dispositivo di controllo impedirebbero di «tenere conto della gravità del fatto, della personalità dell’indagato e di altre specificità che possono presentarsi nel caso sottoposto al giudice (quali, come nel caso di specie, la concreta conformazione del territorio)».
In particolare, la distanza minima di cinquecento metri, ragionevole per i grandi centri urbani, nei comuni di piccole dimensioni negherebbe di fatto l’accesso a molti servizi fondamentali, anche attinenti alla salute, risultando quindi insufficiente la previsione del comma 4 dello stesso art. 282-ter cod. proc. pen., il quale consente una modulazione del divieto solo per motivi di lavoro o per esigenze abitative.
Risulterebbe altresì violato l’art. 13 Cost., sotto il profilo della riserva di giurisdizione sulla misura restrittiva della libertà personale, in quanto sia l’estensione dell’area interdetta, sia le conseguenze di aggravamento degli ostacoli tecnici, sarebbero stabilite dal legislatore «direttamente ed indiscriminatamente».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni non fondate.
Ad avviso dell’interveniente, la predeterminazione normativa della distanza di cinquecento metri, «proprio in considerazione della limitazione dei diritti dell’indagato, appare conforme ai principi di legalità e determinatezza delle misure cautelari».
D’altronde, il giudice conserverebbe ampia discrezionalità nell’applicazione «delle comuni regole di valutazione dell’adeguatezza e della proporzionalità della misura per il caso concreto».
Anche nell’ipotesi di non fattibilità tecnica del controllo elettronico non sarebbe preclusa, e sarebbe anzi doverosa, «l’applicazione graduale delle varie prescrizioni», secondo i criteri generali di cui all’art. 275 cod. proc. pen.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il GIP del Tribunale di Modena ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 12, comma 1, lettera d), numeri 1) e 2), della legge n. 168 del 2023.
Nel prevedere come inderogabili la distanza minima di cinquecento metri e l’attivazione del dispositivo di controllo elettronico, quali forme esecutive della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, e prescrivendo l’applicazione di ulteriori anche più gravi misure cautelari nell’ipotesi di non fattibilità tecnica del controllo remoto, le disposizioni censurate violerebbero gli artt. 3 e 13 Cost.
La rigidità applicativa di tali disposizioni impedirebbe al giudice di adeguare la misura coercitiva alle esigenze cautelari della fattispecie concreta, sicché le disposizioni stesse, per un verso, travalicherebbero «i limiti della ragionevolezza e della proporzione, quali corollari del principio di uguaglianza», per l’altro, invaderebbero la riserva di giurisdizione concernente la restrizione della libertà personale dell’indagato.
2.– Intervenuto in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto dichiararsi le questioni non fondate, sull’assunto che le norme contestate non privino il giudice della discrezionalità necessaria ad attuare gli ordinari criteri di adeguatezza e proporzionalità della misura cautelare.
3.– Le questioni non sono fondate, nei termini che seguono.
4.– La diffusione della violenza di genere e dei femminicidi ha indotto il legislatore a reiterati interventi volti alla difesa delle persone vulnerabili.
Una componente essenziale del disegno legislativo è rappresentata dalle misure cautelari, specificamente l’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, misure disciplinate, rispettivamente, dagli artt. 282-bis e 282-ter cod. proc. pen.
La rilevanza funzionale di queste misure è sottolineata dall’essere le stesse puntuale trasposizione dell’ordine di protezione europeo, di cui al decreto legislativo 11 febbraio 2015, n. 9 (Attuazione della direttiva 2011/99/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 sull’ordine di protezione europeo), sia nella procedura “attiva”, quando cioè l’ordine è emesso dal giudice italiano (art. 5), sia nella procedura “passiva”, nella quale il giudice italiano riconosce un ordine emesso all’estero (art. 9).
4.1.– Il divieto di avvicinamento è stato previsto già dall’art. 282-bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari).
Come detto, l’art. 282-bis disciplina l’allontanamento dalla casa familiare, ma, al comma 2, prevede l’eventuale ordine aggiuntivo di non avvicinamento «a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa».
Successivamente, l’avvertita necessità di includere nella sfera di protezione le relazioni non fondate sulla condivisione della casa familiare ha portato il legislatore a configurare il divieto di avvicinamento anche quale misura autonoma, a tal fine provvedendo l’art. 282-ter cod. proc. pen., inserito dall’art. 9, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38.
L’art. 7, comma 1, dello stesso d.l. n. 11 del 2009, come convertito, ha inserito altresì l’art. 612-bis cod. pen., introducendo il reato di atti persecutori (cosiddetto stalking), rispetto al quale la misura cautelare del divieto di avvicinamento ha una specifica funzione protettiva.
4.2.– L’art. 15, comma 2, della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere) – nota come legge sul “codice rosso” – ha aggiunto, alla fine del comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen., le parole «anche disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’articolo 275-bis», vale a dire l’utilizzo dei mezzi tecnici di controllo remoto che l’art. 275-bis cod. proc. pen. prevede per gli arresti domiciliari.
La possibilità di assistere il divieto di avvicinamento con il dispositivo di controllo tecnico –cosiddetto braccialetto elettronico – ha corrisposto all’esigenza di accentuare la funzione protettiva della misura, che per i reati di genere si pone in termini peculiari.
4.3.– Il controllo elettronico è stato introdotto appunto per gli arresti domiciliari, con l’inserimento dell’art. 275-bis cod. proc. pen., ad opera dell’art. 16, comma 2, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 19 gennaio 2001, n. 4.
Il testo originario dell’art. 275-bis rimetteva l’applicazione del controllo remoto al giudice («se lo ritiene necessario»), mentre il testo odierno, modificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, sancisce una presunzione relativa di adeguatezza di tali procedure tecniche («salvo che [il giudice] le ritenga non necessarie»), sicché gli arresti domiciliari con controllo elettronico sono adesso la regola e quelli “semplici” l’eccezione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 aprile-19 maggio 2016, n. 20769).
4.4.– Quale modalità esecutiva del divieto di avvicinamento, il controllo elettronico ha una funzione dedicata, che ne distingue la stessa operatività pratica.
Invero, mentre negli arresti domiciliari il braccialetto è un presidio unidirezionale, che consente alle forze dell’ordine di monitorare un’eventuale evasione, nel divieto di avvicinamento esso è un presidio bidirezionale, che, in caso di avvicinamento vietato, allerta non solo le forze dell’ordine, ma anche la vittima, dotata di apposito ricettore.
Il divieto di avvicinamento può essere sia un divieto “fisso”, riferito a luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa – luoghi che occorre dunque indicare nell’ordinanza applicativa (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 aprile-28 ottobre 2021, n. 39005) –, sia un divieto “mobile”, riferito proprio alla persona offesa, nel qual caso l’avvicinamento può dipendere anche dalla casualità degli spostamenti e la pertinente segnalazione si rivela viepiù essenziale in funzione di allerta.
4.5.– Ispirata dalla ratio di massimizzare la capacità difensiva del tracciamento di prossimità, la legge n. 168 del 2023 (“nuovo codice rosso”) ha reso obbligatorio il controllo elettronico nel divieto di avvicinamento: l’art. 12, comma 1, lettera d), numero 1), ha eliso la congiunzione «anche» che nel testo anteriore del comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. precedeva l’inciso «disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’articolo 275-bis»; e ha pure stabilito che, «[q]ualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice impone l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi».
In funzione della medesima ratio di tutela, sempre l’art. 12, comma 1, lettera d), numero 1), della citata legge ha ulteriormente modificato il comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen., fissando una distanza minima per il divieto di avvicinamento, che deve essere «comunque» non inferiore a cinquecento metri.
L’art. 12, comma 1, lettera d), numero 2), della stessa legge, modificando il comma 2 dell’art. 282-ter cod. proc. pen., ha riferito la distanza minima e il controllo elettronico obbligatorio pure all’eventuale tutela dei prossimi congiunti della persona offesa e delle persone con questa conviventi o a questa legate da relazione affettiva.
Analoghe modifiche normative – circa la distanza minima di cinquecento metri, l’applicazione obbligatoria del braccialetto elettronico e le conseguenze della sua non fattibilità tecnica – hanno riguardato il divieto di avvicinamento quale prescrizione accessoria dell’ordine di allontanamento dalla casa familiare, per effetto dell’intervento sul comma 6 dell’art. 282-bis cod. proc. pen. operato dall’art. 12, comma 1, lettera c), numeri 3) e 4), della più volte citata legge n. 168 del 2023.
4.6.– Le sopra descritte modifiche non hanno viceversa interessato il divieto di avvicinamento disposto in fase precautelare, quale prescrizione accessoria dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, di cui all’art. 384-bis cod. proc. pen., norma, quest’ultima, inserita dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119.
Nonostante sia intervenuta anche sulla disciplina di questa misura precautelare, in origine adottabile solo in flagranza di reato, e ora invece anche al di fuori di essa, la legge n. 168 del 2023, all’art. 11, comma 1, non ha esteso a tale misura l’irrigidimento delle modalità esecutive viceversa previsto per la misura cautelare.
5.– Ad avviso del rimettente, l’inderogabilità della distanza minima di cinquecento metri e l’obbligatorietà del dispositivo di controllo elettronico renderebbero la misura cautelare del divieto di avvicinamento tanto rigida da precluderne ogni adeguamento alle esigenze cautelari del caso concreto, imponendone peraltro l’aggravamento nel caso in cui – come nella specie – le piccole dimensioni del centro abitato e l’assenza di una sufficiente copertura di rete, aspetti evidentemente non imputabili all’indagato, determinino l’oggettiva inattuabilità di una misura siffatta.
Tali argomenti intendono evocare la giurisprudenza costituzionale sugli automatismi nelle misure cautelari, sebbene già in prima battuta debba notarsi che l’applicazione del braccialetto elettronico non è di per sé una misura cautelare, ma ne è soltanto una modalità applicativa (Cass., sez. un., sentenza n. 20769 del 2016).
5.1.– A partire dalla sentenza n. 265 del 2010 (ma in senso analogo già la sentenza n. 299 del 2005), questa Corte ha più volte affermato che la coercizione cautelare, in ossequio al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e al favor libertatis ex art. 13 Cost., deve rispondere ai criteri del minor sacrificio necessario e dell’individualizzazione, non essendo tollerabili automatismi, né presunzioni assolute (l’indirizzo è compendiato dalla sentenza n. 232 del 2013 e in ultimo richiamato dalla sentenza n. 22 del 2022).
Detto orientamento ha trasformato da assoluta in relativa la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per gran parte dei reati elencati dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., fino al recepimento del principio nell’art. 4, comma 1, della legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità), che, intervenendo proprio sull’art. 275, comma 3, ha mantenuto la presunzione assoluta unicamente per i delitti associativi di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen.
Con riferimento a tale tipologia di reati, e al persistente automatismo custodiale, questa Corte, investita delle censure ex artt. 3, 13 e 27 Cost., ha dichiarato le stesse manifestamente infondate (ordinanza n. 136 del 2017, per il reato ex art. 416-bis cod. pen.) o non fondate (sentenza n. 191 del 2020, per il reato ex art. 270-bis cod. pen.). Tali decisioni hanno fatto leva sull’eccezionale pericolosità correlata alla normale persistenza del vincolo associativo (mafioso o terroristico), a fronte della quale si è ritenuto non censurabile il bilanciamento effettuato dal legislatore, con la finalità di prevenire il rischio di un’«eventuale sopravvalutazione, da parte del giudice, dell’adeguatezza di una misura non carceraria» (sentenza n. 191 del 2020).
5.2.– Nel porre le norme oggi in scrutinio a confronto con il richiamato indirizzo giurisprudenziale, va tenuto presente che esse non hanno ad oggetto la misura cautelare estrema – vale a dire la custodia in carcere –, ma una misura cautelare di assai minore impatto sulla libertà personale dell’indagato, qual è il divieto di avvicinamento, e con riferimento solo a particolari modalità applicative di tale divieto, inerenti alla distanza minima e al controllo remoto.
Ogni considerazione si sposta quindi sul piano del bilanciamento tra i valori in tensione: da un lato, la libertà di movimento della persona indagata, dall’altro, l’incolumità fisica e psicologica della persona minacciata.
5.3.– Il braccialetto elettronico – dispositivo di scarso peso, applicato alla caviglia dell’indagato e quindi normalmente invisibile ai terzi – non impedisce alla persona soggetta al divieto di avvicinamento di uscire dalla propria abitazione e soddisfare tutte le proprie necessità di vita, purché essa non oltrepassi il limite dei cinquecento metri dai luoghi specificamente interdetti o da quello in cui si trova la vittima del reato in relazione al quale il divieto stesso è stato disposto.
La distanza indicata non appare in sé esorbitante, e corrisponde alla funzione pratica del tracciamento di prossimità, che è quella di dare uno spazio di tempo sufficiente alla potenziale vittima di più gravi reati per trovare sicuro riparo e alle forze dell’ordine per intervenire in soccorso.
Negli abitati più piccoli la distanza di cinquecento metri può rivelarsi stringente, ma, ove ciò si verifichi, all’indagato ne viene un aggravio che può ritenersi sopportabile, quello di recarsi nel centro più vicino per trovare i servizi di cui necessita, senza rischiare di invadere la zona di rispetto.
Qualora poi rilevino «motivi di lavoro» o «esigenze abitative», la cui individuazione è rimessa al giudice che dispone la misura, il comma 4 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. già consente al giudice stesso di stabilire modalità particolari di esecuzione del divieto di avvicinamento, restituendo così all’applicazione della misura margini di flessibilità.
A un sacrificio relativamente sostenibile per l’indagato si contrappone l’impellente necessità di salvaguardare l’incolumità della persona offesa, la cui stessa vita è messa a rischio dall’imponderabile e non rara progressione dal reato-spia (tipicamente lo stalking) al delitto di sangue.
5.4.– Oltre che non irragionevole, questo bilanciamento asseconda il criterio di priorità enunciato dall’art. 52 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata e resa esecutiva con legge 27 giugno 2013, n. 77.
Nel disciplinare le misure urgenti di allontanamento imposte dal giudice, inclusive del divieto di avvicinamento, la norma convenzionale stabilisce infatti che deve darsi «priorità alla sicurezza delle vittime o delle persone in pericolo».
Il controllo elettronico nell’attuazione delle ordinanze restrittive e degli ordini di protezione è inoltre specificamente previsto dalla direttiva (UE) 2024/1385 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2024, sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (considerando 46).
5.5.– L’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. («[q]ualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice impone l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi») sembra stabilire, con la locuzione «impone», un aggravamento automatico del divieto di avvicinamento, quale effetto di un dato oggettivo, non imputabile all’indagato, cioè appunto la «non fattibilità tecnica» del controllo elettronico.
La norma può essere tuttavia interpretata in senso costituzionalmente adeguato, valorizzando la particella «anche», che vi figura a delimitare il comparativo «più gravi».
Se ne trae conferma dal raffronto con il penultimo periodo dello stesso comma 1 dell’art. 282-ter cod. proc. pen., laddove, per la differente ipotesi nella quale il controllo elettronico risulti impossibile per il diniego di consenso dell’indagato, quindi per un fatto a lui imputabile, si prevede l’applicazione incondizionata «di una misura più grave».
Pertanto, se l’indagato consente a indossare il dispositivo e questo non può funzionare per motivi tecnici (quale il difetto della copertura di rete), il giudice non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di adeguatezza e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (in primis, il divieto od obbligo di dimora ex art. 283 cod. proc. pen.), ma anche una misura più lieve (segnatamente, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ex art. 282 cod. proc. pen.).
5.6.– In buona sostanza, si riproduce per il divieto di avvicinamento, quindi per una misura di scala inferiore, il modulo di rivalutazione delle esigenze cautelari individuato dalle sezioni unite della Corte di cassazione per l’ipotesi di indisponibilità del braccialetto elettronico negli arresti domiciliari: inattuabili gli arresti con controllo elettronico, non subentra alcun automatismo, né a favore dell’indagato (arresti “semplici”), né a suo sfavore (custodia in carcere), occorrendo invece rivalutare l’idoneità, la necessità e la proporzionalità di ciascuna misura in relazione alle esigenze cautelari del caso concreto (Cass., sez. un., n. 20769 del 2016).
Mutatis mutandis, impraticabile il divieto di avvicinamento con braccialetto elettronico per ragioni di non fattibilità tecnica, il giudice deve rivalutare la fattispecie concreta senza preclusioni, né automatismi, e quindi, in aderenza alle regole comuni di adeguatezza e proporzionalità, come può aggravare la coercizione cautelare, così può alleviarla.
6.– Nei sensi sopra esposti, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Modena vanno pertanto dichiarate non fondate.