Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 dicembre 2024, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo promossa da tredici cittadini italiani (con annuncio pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 87, serie generale, dell’anno 2024) sul quesito così inizialmente formulato: «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?».
2.– L’Ufficio centrale, verificata con esito positivo la regolarità della richiesta, ha rilevato che sul decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), hanno inciso diverse modifiche legislative e quattro pronunce di illegittimità costituzionale, con le quali ha ritenuto opportuno integrare il quesito, che ha pertanto riformulato nei seguenti termini: «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, come modificato dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018, n. 96, dalla sentenza Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194, dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145; dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23 convertito con modificazioni dalla L. 5 giugno 2020, n. 40; dalla sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 2020, n. 150; dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147; dal d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79 (in G.U. 29/06/2022, n. 150); dalla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2024, n. 22; dalla sentenza della Corte costituzionale, del 4 giugno 2024, n. 128, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?».
2.1.– Il medesimo Ufficio centrale ha altresì attribuito al quesito la seguente denominazione: «Contratto di lavoro a tutele crescenti – disciplina dei licenziamenti illegittimi: Abrogazione».
3.– Il Presidente della Corte costituzionale, ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 20 gennaio 2025, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.
4.– L’8 gennaio 2025 i presentatori della richiesta di referendum, avvalendosi della facoltà di cui all’art. 33, terzo comma, della legge n. 352 del 1970, hanno depositato una memoria illustrativa a sostegno dell’ammissibilità della richiesta stessa.
Ricostruita l’evoluzione del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, i promotori rilevano, in particolare, che l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 determinerebbe la riespansione (quale normativa di risulta) della disciplina di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), che diverrebbe applicabile a prescindere dalla data di assunzione del dipendente illegittimamente licenziato, facendo venir meno le «differenziazioni tra lavoratori che svolgono le medesime attività, in direzione di una uniformità dei trattamenti».
Sarebbe, quindi, in tal modo ricondotta a unità la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi e ne risulterebbe rafforzata la tutela dei lavoratori, avuto particolare riguardo alla reintegrazione nel posto di lavoro occupato prima del recesso.
Di qui la chiarezza, omogeneità e univocità dell’odierno quesito – che nemmeno incontrerebbe i limiti di cui all’art. 75, secondo comma, della Costituzione, né quelli inerenti alle categorie delle leggi costituzionalmente necessarie o a contenuto costituzionalmente vincolato – dal momento che l’esito positivo del referendum assicurerebbe «senza incertezze il risultato finale (la reductio ad unum dei casi ammessi alla reintegra)» che ne costituirebbe lo scopo obiettivo.
5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, invece, non si è avvalso della facoltà di intervento nel giudizio di ammissibilità.
Considerato in diritto
1.– Questa Corte è chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’intero d.lgs. n. 23 del 2015.
2.– La richiesta è stata dichiarata legittima, con ordinanza del 12 dicembre 2024, dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione, che, dopo aver riformulato il relativo quesito integrandolo con le modifiche subite dal decreto legislativo sottoposto al voto del corpo elettorale, ha attribuito ad essa la seguente denominazione: «Contratto di lavoro a tutele crescenti – disciplina dei licenziamenti illegittimi: Abrogazione».
3.− Preliminarmente, va rilevato che, nella camera di consiglio del 20 gennaio 2025, questa Corte ha consentito, in conformità al proprio costante orientamento (da ultimo, sentenza n. 60 del 2022), che i presentatori della richiesta di referendum illustrassero oralmente le memorie depositate ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge n. 352 del 1970.
4.− Sempre in via preliminare, occorre definire il contesto normativo nel quale si collocano le disposizioni oggetto del quesito referendario.
4.1.– In estrema sintesi, e per quanto qui rileva, va ricordato che per lungo tempo i rimedi apprestati dall’ordinamento a fronte della illegittimità dei licenziamenti si sono tradotti in due forme di garanzia.
La prima, per i datori “sopra-soglia” (più di quindici lavoratori, ovvero più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, occupati in ciascuna unità produttiva o comunque nell’ambito dello stesso comune, oppure più di sessanta nel complesso), rappresentata dalla cosiddetta tutela reintegratoria (o “reale”) di cui all’art. 18 statuto lavoratori, consistente nella condanna alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro precedentemente occupato, al pagamento di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione e al versamento, per lo stesso periodo, dei contributi assistenziali e previdenziali.
La seconda, per i datori “sotto-soglia”, rappresentata, salve particolari ipotesi, dalla cosiddetta tutela indennitaria (od “obbligatoria”) di cui all’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), consistente nella condanna alla riassunzione del dipendente o, alternativamente, al pagamento in suo favore di un’indennità di importo compreso tra due mensilità e mezzo e sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, misura, questa, suscettibile di essere incrementata fino a quattordici mensilità.
4.2.– L’art. 18 statuto lavoratori è stato poi profondamente modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), che ha abbandonato «il criterio della tutela reintegratoria generalizzata» – applicabile, cioè, quale che fosse il vizio accertato dal giudice – «adottando invece un criterio selettivo ispirato essenzialmente alla gravità dell’illegittimità da cui è affetto il licenziamento e prevedendo plurimi e gradati regimi di tutela. Ha riservato la tutela reintegratoria alle ipotesi di maggiore gravità […]: quella “piena” in caso di licenziamento nullo o discriminatorio; quella “attenuata” in caso di licenziamento fondato su un “fatto insussistente”. In tutti gli altri casi la tutela è solo indennitaria, più o meno ampia secondo due distinte declinazioni, entrambe di tipo compensativo della perdita del posto di lavoro conseguente all’effetto risolutivo del rapporto, che comunque si produce» (sentenza n. 128 del 2024).
4.3.– È questo il contesto in cui è intervenuto il d.lgs. n. 23 del 2015, adottato nell’esercizio della delega disposta dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), diretta a «favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di “nuovi assunti”, accentuandone la flessibilità in uscita con il riconoscimento di una tutela risarcitorio-monetaria predeterminata, e quindi alleggerendo le conseguenze di un licenziamento illegittimo» (sentenza n. 129 del 2024).
A tal fine, il d.lgs. n. 23 del 2015 ha dettato una disciplina organica dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi intimati, tanto dai datori “sopra-soglia” quanto da quelli “sotto-soglia”, ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri assunti, a decorrere dal 7 marzo 2015, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Pur muovendosi nel solco della frammentazione delle tutele introdotta dalla legge n. 92 del 2012, il legislatore delegato ne ha così mutato i rispettivi confini applicativi, introducendo una normativa che, rispetto a quella di cui all’art. 18 statuto lavoratori, in via generale, ridimensiona la tutela indennitaria e limita ulteriormente quella reintegratoria, nel caso di licenziamento individuale per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, eliminandola poi del tutto nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il d.lgs. n. 23 del 2015 interviene inoltre sulla disciplina del licenziamento collettivo, sempre limitatamente ai lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015, sopprimendo la tutela reintegratoria anche nel caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, legali o previsti da accordo sindacale.
4.4.– In realtà, il complessivo arretramento delle garanzie a favore della flessibilità in uscita è stato successivamente mitigato, su specifici profili, dalle pronunce di illegittimità costituzionale che l’Ufficio centrale per il referendum ha ritenuto opportuno menzionare nel quesito referendario.
Sulla tutela indennitaria hanno inciso le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, all’esito delle quali è venuto meno l’automatismo di calcolo dell’indennizzo previsto solo per i licenziamenti soggetti al d.lgs. n. 23 del 2015, che «è ora fissato in una forbice tra un minimo e un massimo e non è più quantificato in modo rigido unicamente secondo la progressione lineare dell’anzianità di servizio» (sentenza n. 7 del 2024).
Quanto, invece, alla tutela reintegratoria, la sentenza n. 22 del 2024, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 per eccesso di delega, limitatamente alla parola «espressamente», ha realizzato un significativo ampliamento del campo di applicazione della tutela reintegratoria “piena”: per effetto di questa pronuncia, infatti, il regime del licenziamento nullo intimato ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015 trova oggi applicazione sia nel caso in cui nella disposizione imperativa violata ricorra l’espressa e testuale sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, ma sia possibile rinvenire, comunque, il carattere imperativo della prescrizione per la presenza di un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.
Infine, la sentenza n. 128 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo in esame, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria “attenuata”, ivi riservata alle sole ipotesi di licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, si applichi, in luogo di quella meramente indennitaria originariamente prevista, anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale rimane estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.
4.5.– Resta, comunque, che, in controtendenza rispetto al complessivo arretramento delle garanzie a favore della flessibilità in uscita, la disciplina di cui al d.lgs. n. 23 del 2015 in alcuni casi particolari comporta un ampliamento delle stesse.
Ciò si verifica nelle ipotesi del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore prima del superamento del cosiddetto periodo di comporto (art. 2110, secondo comma, codice civile, all’esito della citata sentenza n. 22 del 2024 di questa Corte) e in quelle in cui il giudice accerti che il licenziamento intimato per disabilità fisica o psichica del lavoratore è ingiustificato perché l’inidoneità allo svolgimento delle mansioni assegnategli «non [era in realtà] riconducibile ad una condizione di disabilità» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 maggio 2024, n. 14307). In questi casi, infatti, è garantita la tutela reintegratoria “piena”, anziché quella “attenuata” prevista dall’art. 18 statuto lavoratori.
Parimenti di favore è l’estensione della disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015 (art. 9, comma 2) ai licenziamenti intimati dalle cosiddette organizzazioni di tendenza, esclusi invece dal campo di applicazione dell’art. 18 statuto lavoratori.
5.– Così delineata la cornice normativa di riferimento, va innanzitutto rilevato che le norme recate dal d.lgs. n. 23 del 2015 sono estranee alle materie per le quali l’art. 75, secondo comma, Cost. preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo.
6.– Né l’ammissibilità della richiesta referendaria è ostacolata dalla possibilità di ritenere la normativa in esame «costituzionalmente necessari[a]» o «a contenuto costituzionalmente vincolato» (sentenza n. 16 del 1978), dal momento che l’eventuale esito positivo del referendum non determinerebbe una lacuna nella tutela del fondamentale diritto al lavoro: dall’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 deriverebbe l’applicabilità, anche ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, della disciplina dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966.
L’odierno quesito referendario, infatti, punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente: la disciplina dettata dal suddetto decreto legislativo si è affiancata a quella dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, dando così luogo a «un duplice e parallelo regime» (sentenza n. 44 del 2024).
L’effetto innovativo sulla disciplina vigente, connaturale alla abrogazione referendaria, consisterebbe quindi nella «fisiologica espansione della sfera di operatività» (sentenza n. 50 del 2000) di norme già presenti nell’ordinamento, tuttora vigenti, anche se compresse, per effetto della applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum, su un ambito di efficacia limitato ai soli licenziamenti individuali dei lavoratori già in servizio alla data del 7 marzo 2015.
7.− Il quesito referendario sottoposto al giudizio di ammissibilità non risulta nemmeno carente di una matrice razionalmente unitaria.
A conforto di tale conclusione milita, innanzitutto, la circostanza che l’art. 75 Cost. stabilisce espressamente che la richiesta referendaria può avere ad oggetto l’abrogazione anche totale di una legge o di un atto avente valore di legge, «con ciò di per sé contemplando anche la possibilità che il referendum investa un testo articolato e complesso, ed escludendo di conseguenza che tali caratteri di un atto siano pregiudizialmente motivo di inammissibilità del quesito» (sentenza n. 56 del 2022).
Rileva, piuttosto, perché la richiesta referendaria sia ammissibile, che il quesito incorpori «l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira (sentenza n. 29 del 1987), nel senso che dalle norme proposte per l’abrogazione sia dato trarre con evidenza “una matrice razionalmente unitaria” (sentenze n. 16 del 1978; n. 25 del 1981), “un criterio ispiratore fondamentalmente comune” o “un comune principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale” (sentenze n. 22, n. 26, n. 28 del 1981; n. 63, n. 64, n. 65 del 1990)» (sentenza n. 47 del 1991).
Nel caso di specie, la «matrice razionalmente unitaria» che giustifica l’unicità della richiesta è ravvisabile nel profilo teleologico sotteso al quesito referendario, mirante all’abrogazione di un corpus organico di norme e funzionale alla reductio ad unum, senza più la divisione tra prima e dopo la data del 7 marzo 2015, della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, con la riespansione della disciplina pregressa, valevole per tutti i dipendenti, quale che sia la data della loro assunzione.
La circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità, perché in alcuni casi particolari si avrebbe, invece, un arretramento di tutela (come si è evidenziato al punto 4.5.), non assume una dimensione tale da inficiare la chiarezza, l’omogeneità e la stessa univocità del quesito medesimo. Questo chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua articolata formulazione.
In definitiva, i limiti costituzionali al referendum, da questo punto di vista, sono essenzialmente preordinati a evitare, da un lato, la distorsione in senso plebiscitario del precipuo strumento di democrazia diretta contemplato dalla Costituzione (sentenze n. 56 del 2022 e n. 16 del 1978) e, dall’altro, l’incisione sulla libertà del voto dell’elettore, che potrebbe maturare «convincimenti diversi» rispetto a una pluralità di questioni profondamente difformi e insuscettibili di essere ricondotte ad unità (ex plurimis, sentenza n. 12 del 2014). Tali limiti, tuttavia, non precludono l’abrogazione totale di un testo normativo che contempla soluzioni differenti (ex plurimis, sentenze n. 56 del 2002, n. 15 del 1997 e n. 35 del 1993), qualora rimanga comunque salvaguardato un nesso di coerenza tra il mezzo e il fine referendario: in tal caso non si concreta un uso artificioso del referendum abrogativo (ancora, sentenza n. 16 del 1978), tale da eccedere le previsioni dell’art. 75 Cost.
8.− In definitiva, non ostandovi alcuna ragione di ordine costituzionale, la richiesta di referendum deve essere dichiarata ammissibile.