Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 6 marzo 2024, iscritta al n. 72 del registro ordinanze 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Trento ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 31, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 27-bis del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), inserito dall’art. 8, comma l, lettera b), del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159.
1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del procedimento a carico di un minorenne il quale, nel contesto di una lite familiare, avrebbe minacciato il padre con un coltello da cucina, in tal modo integrando il reato di cui agli artt. 612 e 339 del codice penale.
Il rimettente espone che, dopo l’interrogatorio del minore, il pubblico ministero ha notificato proposta di definizione anticipata del procedimento tramite percorso di rieducazione, ai sensi della norma censurata; che il difensore dell’indagato, segnalando la delicatezza della situazione del ragazzo e la necessità di un intervento strutturato, ha chiesto una proroga del termine di sessanta giorni, stabilito dalla norma medesima per il deposito del programma di reinserimento; che il pubblico ministero ha tuttavia negato la proroga, con l’argomento che essa non sarebbe prevista dalla norma di riferimento; che il difensore ha quindi depositato un programma rieducativo nel quale si prevede unicamente lo svolgimento di un’attività di volontariato in un centro di aggregazione territoriale.
La norma in questione non garantirebbe dunque – ad avviso del rimettente – «gli elementi conoscitivi indispensabili per valutare se il contenuto del programma rieducativo sia congruo rispetto ai fini educativi cui costituzionalmente deve tendere il processo penale minorile», attesa pure «la composizione monocratica dell’organo chiamato a pronunciarsi e quindi l’assenza della componente onoraria e del suo apporto per la valutazione in termini personalistici ed educativi del minore».
1.2.– Introducendo una peculiare messa alla prova “semplificata”, la norma contestata avrebbe sacrificato la finalità rieducativa a obiettivi di celerità procedimentale e risparmio delle risorse.
Infatti, la collocazione del nuovo istituto nella fase delle indagini preliminari, affidata a un giudice privo della componente esperta, in uno alla fissazione di un termine breve e improrogabile per l’elaborazione del programma di recupero, renderebbe impossibile assicurare la portata educativa della risposta penale e «allo stesso tempo – larvatamente – ne riesum[erebbe] la funzione retributiva».
Tali rilievi varrebbero per tutti e tre i momenti nei quali andrebbe idealmente scomposto l’iter del programma rieducativo, cioè il deposito, l’ammissione e la valutazione.
1.2.1.– Quanto al deposito, la strettezza e rigidità del termine di sessanta giorni imposto alla difesa sarebbe incompatibile con le esigenze istruttorie di un «programma personalizzato», senza il quale verrebbe ad esaltarsi una connotazione retributiva dell’istituto, anziché rieducativa, posto che il reato contestato finirebbe per apparire «l’unico dato certo sul minore»; la partecipazione dei servizi minorili risulterebbe «secondaria e strumentale, volta non già a elaborare il programma, previa conoscenza del minore, ma limitata alla mera individuazione di quelle attività che dovranno essere poste a completamento del programma rieducativo», il che potrebbe ridondare anche in una disparità di trattamento, precludendo l’accesso all’istituto per i minori la cui situazione socio-familiare reclami una più complessa analisi.
1.2.2.– In quanto affidata al giudice per le indagini preliminari – quindi un giudice monocratico togato e non un collegio integrato da esperti in ambito psico-pedagogico –, l’ammissione al percorso di rieducazione non potrebbe riflettere una compiuta ponderazione delle esigenze di risocializzazione del minore, finendo dunque per svolgersi, ancora in un’ottica prevalentemente retributiva, «solo attraverso dati strettamente oggettivi quali il reato per cui si procede».
1.2.3.– La carenza dell’apporto multidisciplinare inficerebbe anche la valutazione dell’esito del percorso rieducativo, la quale peraltro verrebbe effettuata senza che l’imputato sia stato nel frattempo preso in carico dai servizi minorili e senza che questi ultimi abbiano trasmesso al giudice una relazione conclusiva, come viceversa stabilito per l’ordinaria messa alla prova del minore, e finanche per la messa alla prova dell’adulto, preso in carico dall’ufficio di esecuzione penale esterna.
1.3.– Il rimettente considera impraticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata, che ovvii alla carenza di informazioni sulla condizione del minore per il tramite degli strumenti conoscitivi previsti in linea generale dagli artt. 6 e 9 del d.P.R. n. 448 del 1988.
L’impiego di questi mezzi istruttori produrrebbe infatti una dilatazione dei tempi di definizione del procedimento e un aggravio di funzionamento dei servizi minorili, il che colliderebbe con gli obiettivi di celerità e deflazione perseguiti dal legislatore della novella, obiettivi resi viepiù evidenti dall’inciso «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica», introdotto dall’art. 6, comma 1, lettera 0a), dello stesso d.l. n. 123 del 2023, come convertito, riguardo all’avvalimento dei servizi minorili contemplato dall’art. 6 del d.P.R. n. 448 del 1988.
Non sarebbe d’altronde enucleabile un’interpretazione adeguatrice che consenta al giudice di integrare il programma ritenuto incongruo ai fini educativi: l’integrazione officiosa del progetto risulterebbe per vero «incompatibile con la natura negoziale della proposta educativa», atteso che «la determinazione del suo contenuto è rimessa alla difesa».
In caso di ritenuta incongruità del programma, il giudice neppure potrebbe disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero, perché questa integrerebbe un’inammissibile regressione atipica del processo, considerato che, al momento della valutazione del progetto rieducativo, già vi sarebbe stato l’esercizio dell’azione penale, pur se in modo informale, «senza alcuna garanzia processuale tipicamente associata a tale atto».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o non fondate.
2.1.– L’inammissibilità deriverebbe dall’oscurità del petitum, non essendo chiaro se il rimettente solleciti un intervento ablativo o manipolativo, cioè la rimozione integrale del nuovo istituto o la rimodulazione di aspetti specifici della sua disciplina.
Sarebbe poi erroneo il giudizio del rimettente circa l’impossibilità di un’interpretazione conforme, sotto i vari profili indicati dall’ordinanza di rimessione.
Invero, la norma censurata non sancirebbe la perentorietà del termine per il deposito del programma rieducativo, né precluderebbe il ricorso agli strumenti conoscitivi ex artt. 6 e 9 del d.P.R. n. 448 del 1988; la norma stessa prevedrebbe inoltre il coinvolgimento dei servizi minorili nell’elaborazione del progetto di reinserimento e non escluderebbe che il giudice, qualora ritenga tale progetto incongruo ai fini educativi, ne approfondisca i punti carenti, ovvero restituisca gli atti al pubblico ministero per le ulteriori necessarie verifiche.
2.2.– Nel merito, le censure rivolte all’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 non sarebbero fondate, poiché questo si limiterebbe a «fornire una ulteriore opportunità al minore», consentendogli l’uscita anticipata dal procedimento penale anche quando il minore stesso, autore di un reato di modesta gravità e tuttavia non occasionale, non possa ottenere una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto ex art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988 (appunto per difetto di occasionalità del comportamento), né intenda però accedere alla messa alla prova ex art. 28 dello stesso d.P.R. n. 448 del 1988 (misura di più lunga e impegnativa ottemperanza).
Non sarebbero violati la parità di trattamento ex art. 3 Cost., né il favor minoris di cui all’art. 31 Cost., poiché la mancata adesione dell’indagato al nuovo istituto «non è preclusiva dell’accesso alla messa alla prova né di ogni altro esito del giudizio».
D’altronde, il circoscritto perimetro applicativo di tale istituto, limitato sia dal requisito attinente all’entità massima della pena edittale, sia da quello di concreta tenuità del fatto-reato, implicherebbe spazi valutativi a loro volta piuttosto ristretti, il che ne giustificherebbe la devoluzione al giudice togato monocratico, peraltro pur sempre in grado di apprezzare i profili personalistici della vicenda, attese le competenze professionali che possiede come giudice specializzato minorile.
In definitiva, l’interveniente assume di non riscontrare «profili di irragionevolezza nella norma censurata, né tantomeno una pretermissione dei principi fondanti del processo minorile, giacché la ricostruzione dell’istituto che appare più in linea con il dettato costituzionale consente di integrare gli aspetti della personalizzazione del trattamento ai fini dell’adempimento della funzione rieducativa del processo penale e di quella specificamente retributiva».
3.– L’Unione camere penali italiane (UCPI) ha presentato un’opinione scritta quale amicus curiae – ammessa con decreto presidenziale del 19 dicembre 2024 –, argomentando in senso adesivo alle censure del rimettente.
Anche a parere dell’UCPI, la norma censurata rifletterebbe un’«irragionevole preclusione ad un’effettiva presa in carico del minore e dei suoi bisogni educativi», per «una esigenza di mera celerità processuale, che in un giudizio di bilanciamento non potrà che risultare subvalente rispetto alle finalità ed esigenze sottese al rito minorile».
Quale «forma anticipata e semplificata di messa alla prova», l’istituto introdotto dall’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 dovrebbe condividere con la messa alla prova «la centralità della valutazione della personalità del minore», quindi la collegialità interdisciplinare del giudice e la completezza degli accertamenti personologici.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Trento ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 31, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988, inserito dall’art. 8, comma l, lettera b), del d.l. n. 123 del 2023, come convertito.
Il giudice a quo espone che, nel procedimento a carico di un minorenne indagato per minaccia in danno del padre, il pubblico ministero ha notificato proposta di definizione anticipata del procedimento tramite percorso di rieducazione, ai sensi della norma censurata.
Aggiunge il rimettente che il difensore del ragazzo ha chiesto una proroga del breve termine stabilito dalla norma medesima per il deposito del programma rieducativo, proroga tuttavia non concessa dal pubblico ministero, in quanto non contemplata dalla disposizione.
Questa, dunque, non garantirebbe «gli elementi conoscitivi indispensabili per valutare se il contenuto del programma rieducativo sia congruo rispetto ai fini educativi cui costituzionalmente deve tendere il processo penale minorile», attesa pure «la composizione monocratica dell’organo chiamato a pronunciarsi e quindi l’assenza della componente onoraria e del suo apporto per la valutazione in termini personalistici ed educativi del minore».
Nell’elaborazione del programma di reinserimento, nella relativa ammissione e infine nella valutazione del suo esito, la marginalizzazione del ruolo dei servizi minorili e l’assenza degli esperti educatori all’interno dell’organo giudicante impedirebbero una compiuta ponderazione delle esigenze di risocializzazione del minore.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per oscurità del petitum, restando incerto se il giudice a quo solleciti la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 nella sua interezza o in alcune parti soltanto, ed eventualmente in quali parti.
In effetti, l’ordinanza di rimessione, dopo aver esposto in parte motiva numerosi argomenti nel senso dell’illegittimità costituzionale della norma censurata, in dispositivo impiega una formula ellittica («nei termini dianzi indicati»).
Dalla motivazione dell’ordinanza può tuttavia evincersi che le censure investono tale norma alla radice, ovvero come «istituto», secondo quanto si legge nel capoverso finale della motivazione stessa.
Peraltro, il giudice a quo formula anche doglianze specifiche, in riferimento alla brevità e improrogabilità del termine di deposito del programma rieducativo, alla marginalità del ruolo dei servizi minorili nella redazione e attuazione del programma medesimo, all’impossibilità per il giudice di ovviarvi tramite gli ordinari strumenti istruttori e alla natura togato-monocratica del giudice officiato della procedura.
L’eccezione della difesa statale va dunque respinta, valendo il principio, ripetutamente affermato da questa Corte, per cui, ai fini dell’identificazione dell’oggetto della questione incidentale di legittimità costituzionale, è sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione dell’ordinanza di rimessione emergano il contenuto e il verso delle censure, spettando poi a questa Corte l’individuazione del rimedio appropriato al vulnus eventualmente riscontrato (da ultimo, tra molte, sentenze n. 163, n. 111 e n. 105 del 2024).
2.1.– Superabile è altresì l’ulteriore eccezione dell’Avvocatura, per cui le questioni sarebbero inammissibili perché «erronea» sarebbe la valutazione del rimettente circa l’impossibilità di un’interpretazione adeguatrice.
Ai fini dell’ammissibilità della questione incidentale, è sufficiente che il rimettente abbia motivato – come qui ha fatto – sulle ragioni di impraticabilità dell’interpretazione adeguatrice, mentre se tali ragioni siano esatte o meno è profilo che attiene al merito (da ultimo, tra molte, sentenze n. 163, n. 105 e n. 6 del 2024).
3.– Nel merito, le questioni sono fondate, nei limiti e nei sensi di cui appresso.
4.– Attesa la novità dell’istituto introdotto dalla norma censurata, è opportuno premetterne una sintetica illustrazione.
4.1.– Rubricato «[p]ercorso di rieducazione del minore», l’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 contempla un’inedita forma di rottura della sequenza reato-pena (diversion); la diversione avviene con l’estinzione del reato per l’esito positivo di un programma, sicché trattasi di una prova, anche se di connotati peculiari.
L’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 si colloca tra l’art. 27, che disciplina la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, e l’art. 28, che prevede la prova minorile “tradizionale”, evidenziandosi così una sorta di progressione, all’interno della quale il nuovo istituto sta a metà strada tra la definizione anticipata per irrilevanza del fatto, massimamente favorevole al minore, e la definizione anticipata per messa alla prova, più esigente verso il giovane.
Invero, la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto può essere pronunciata, già durante le indagini preliminari, qualora il fatto-reato sia tenue e la condotta occasionale, senza necessità di un impegno del minore, ma solo perché l’ulteriore corso del procedimento ne pregiudicherebbe le esigenze educative.
Viceversa, la messa alla prova non può essere disposta nel corso delle indagini preliminari e consiste in un’osservazione dinamica della personalità del minore per un periodo non breve (di regola fino a un anno, o fino a tre per i titoli di reato più gravi), nell’ambito della quale l’imputato è affidato ai servizi minorili, e deve attuare il progetto di intervento elaborato dagli stessi, a norma dell’art. 27 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni).
4.2.– Confrontato con la prova di cui all’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988, il percorso rieducativo di cui all’art. 27-bis dello stesso decreto assume i tratti di una prova “semplificata”, e così si trova infatti definito nei lavori parlamentari (A.S. n. 878 – XIX Legislatura).
La semplificazione non consiste soltanto nell’inferiore durata del programma di reinserimento (fino a otto mesi), ma riflette anche il meno intenso coinvolgimento dei servizi minorili, giacché l’impulso alla redazione del programma non spetta ad essi, ma alla difesa.
Oltre che semplificata, la messa alla prova di nuova istituzione risulta altresì “anticipata”, essendone prevista l’attivazione durante la fase delle indagini preliminari, a differenza di quanto accade per la prova minorile ordinaria.
Infatti, ai sensi del comma 1 dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988, «[d]urante le indagini preliminari, il pubblico ministero, quando procede per reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione ovvero una pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva, se i fatti non rivestono particolare gravità, può notificare al minore e all’esercente la responsabilità genitoriale la proposta di definizione anticipata del procedimento, subordinata alla condizione che il minore acceda a un percorso di reinserimento e rieducazione civica e sociale sulla base di un programma rieducativo che preveda, sentiti i servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e nel rispetto della legislazione in materia di lavoro minorile, lo svolgimento di lavori socialmente utili o la collaborazione a titolo gratuito con enti del Terzo settore o lo svolgimento di altre attività a beneficio della comunità di appartenenza, per un periodo compreso da due a otto mesi».
Per il comma 2, primo periodo, dello stesso art. 27-bis, «[i]l deposito del programma rieducativo, redatto in collaborazione anche con i servizi dell’amministrazione della giustizia, deve avvenire, da parte dell’indagato o del suo difensore, entro sessanta giorni dalla notifica della proposta del pubblico ministero».
Emerge quindi un tratto “negoziale” della prova anticipata, che, a differenza della normale prova minorile, non è uno strumento ad impulso del giudice, ma una forma diversiva proposta da una parte (il pubblico ministero) ed eventualmente accettata dall’altra (il minore), al giudice restando affidato, oltre ovviamente al controllo di cui all’art. 129 del codice di procedura penale, un mero vaglio esterno: «[r]icevuto il programma, il pubblico ministero lo trasmette al giudice per le indagini preliminari, che fissa l’udienza in camera di consiglio per deliberare sull’ammissione del minore al percorso di reinserimento e rieducazione» (art. 27-bis, comma 2, secondo periodo); «[i]l giudice, sentiti l’imputato e l’esercente la responsabilità genitoriale, valutata la congruità del percorso di reinserimento e rieducazione, con l’ordinanza di ammissione di cui al comma 2 ne stabilisce la durata e sospende il processo per la durata corrispondente», tempo durante il quale «il corso della prescrizione è sospeso» (art. 27-bis, comma 3).
4.3.– Mette conto rammentare che, in sede di conversione del d.l. n. 123 del 2023, alla norma oggi censurata sono state apportate significative modifiche.
La proposta del pubblico ministero è divenuta facoltativa («può notificare», anziché «notifica»); insieme al requisito astratto della pena edittale ne è stato introdotto uno concreto («se i fatti non rivestono particolare gravità»); la durata del percorso rieducativo è stata incrementata (non più «da uno a sei mesi», bensì «da due a otto mesi»); il termine per il deposito del programma è stato raddoppiato (non più «entro trenta giorni» dalla notifica della proposta, ma «entro sessanta giorni»); è stato inserito un inciso sul controllo spettante al giudice ai fini dell’ammissione della prova («valutata la congruità del percorso di reinserimento e rieducazione»).
In particolare, dove si prevedeva che il rifiuto del percorso rieducativo, la sua ingiustificata interruzione o valutazione negativa avrebbero senz’altro impedito la messa alla prova ex art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988, ora si stabilisce che l’ingiustificata interruzione è solo un elemento di giudizio – semplicemente «valutata» – per un’eventuale messa alla prova (art. 27-bis, comma 5, secondo periodo).
4.4.– Quanto al funzionamento e all’esito della prova semplificata, «[i]n caso di interruzione o mancata adesione al percorso, i servizi minorili dell’amministrazione della giustizia informano il giudice, che fissa l’udienza in camera di consiglio e, sentite le parti, adotta i provvedimenti conseguenti» (art. 27-bis, comma 4).
Peraltro, «[n]el caso in cui il minore non intenda accedere al percorso di reinserimento e rieducazione o lo interrompa senza giustificato motivo, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero, che può procedere con richiesta di giudizio immediato anche fuori dei casi previsti dall’articolo 453 del codice di procedura penale» (art. 27-bis, comma 5, primo periodo).
Infine, «[d]ecorso il periodo di sospensione, il giudice fissa una nuova udienza in camera di consiglio nella quale, tenuto conto del comportamento dell’imputato e dell’esito positivo del percorso rieducativo, dichiara con sentenza estinto il reato» (art. 27-bis, comma 6, primo periodo); in caso contrario, «restituisce gli atti al pubblico ministero, che può procedere con richiesta di giudizio immediato anche fuori dei casi previsti dall’articolo 453 del codice di procedura penale» (art. 27-bis, comma 6, secondo periodo).
5.– La valutazione delle doglianze richiede un confronto tra l’assetto normativo del nuovo istituto, appena descritto, e il quadro costituzionale della prova minorile, delineato dalla giurisprudenza di questa Corte, nei termini appresso sintetizzati.
5.1.– Come ancora rimarcato nella più recente decisione sulla prova minorile, «[i]l tratto qualificante dell’istituto è rappresentato dall’adozione di un progetto di intervento che si traduce in una serie di prescrizioni individualizzate e a contenuto variabile perché tarate sul profilo personologico del minore e sul contesto socio-familiare in cui questi è inserito» (sentenza n. 8 del 2025).
Invero, questa Corte ha costantemente sottolineato l’eterogeneità teleologica tra la messa alla prova del minore e quella dell’adulto, poiché quest’ultima ha un’innegabile componente sanzionatoria, mentre l’altra ha funzione esclusivamente rieducativa (sentenze n. 139 e n. 75 del 2020, n. 68 del 2019).
La diversità di funzione si manifesta nel contenuto della prova, giacché, a norma dell’art. 168-bis, terzo comma, cod. pen., la prestazione del lavoro di pubblica utilità è una condizione imprescindibile della prova dell’adulto, mentre l’art. 27 del d.lgs. n. 272 del 1989 non menziona il lavoro tra le prescrizioni obbligatorie del progetto di prova minorile (sentenze n. 75 del 2020 e n. 68 del 2019).
5.2.– Nella disciplina originaria, anteriormente all’introduzione del comma 5-bis dell’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 da parte dell’art. 6, comma 1, lettera c-bis), del d.l. n. 123 del 2023, come convertito (sul quale questa Corte ha pronunciato la ricordata sentenza n. 8 del 2025), la messa alla prova del minore, al contrario di quella dell’adulto, era svincolata da un rapporto di proporzionalità al reato per cui si procede, ed era infatti consentita a prescindere dalla gravità di questo, la quale si rifletteva soltanto sulla durata della prova (sentenze n. 139 del 2020 e n. 68 del 2019).
5.3.– Quale istituto puramente educativo, la messa alla prova del minore è sottratta alla negoziazione tra le parti, non richiedendo il consenso del minore, né del pubblico ministero, ed è rimessa alla discrezionalità del giudice (sentenze n. 139 del 2020 e n. 125 del 1995).
Il giudice della prova minorile deve perciò avere le competenze interdisciplinari necessarie alle valutazioni personologiche richieste dalla finalità educativa dell’istituto, e non è quindi irragionevole che, a differenza della prova dell’adulto, la quale può essere disposta anche in fase di indagini preliminari ex art. 464-ter cod. proc. pen., la prova del minore possa essere disposta solo più avanti, in udienza preliminare, laddove il giudice è un collegio integrato dagli educatori (sentenza n. 139 del 2020).
5.4.– D’altronde, «[l]a finalità essenzialmente rieducativa della messa alla prova minorile si oppone a un’eccessiva anticipazione procedimentale delle relative valutazioni», sicché l’opzione legislativa di escludere la messa alla prova del minore durante le indagini preliminari e di fissare nell’udienza preliminare il primo momento utile per l’accesso all’istituto «corrisponde ragionevolmente all’esigenza di assicurare che le relative valutazioni siano esercitate su un materiale istruttorio sufficientemente definito, oltre che da un giudice strutturalmente idoneo ad apprezzarne tutti i riflessi personalistici» (ancora, sentenza n. 139 del 2020).
La difformità di soluzioni negoziali-deflattive rispetto agli obiettivi educativi del processo minorile – difformità che ha giustificato l’esclusione da tale processo anche dell’istituto del patteggiamento della pena (sentenze n. 272 del 2000 e n. 135 del 1995) – si oppone all’esportazione in ambito minorile dell’anticipazione della prova alla fase delle indagini preliminari.
La prova anticipata, infatti, per la disciplina dell’art. 464-ter cod. proc. pen., è una prova negoziale e patteggiata, basata su un accordo di convenienza tra l’indagato adulto e il pubblico ministero, «secondo un indirizzo di politica legislativa cui non sono estranee finalità generali di deflazione giudiziaria per reati di contenuta gravità», il che non è replicabile per la messa alla prova del minore, «poiché l’essenziale finalità rieducativa ne plasma la disciplina in senso rigorosamente personologico, estraneo ogni obiettivo di deflazione giudiziaria» (sentenza n. 139 del 2020).
6.– All’interno di queste coordinate, le doglianze in scrutinio esigono, su uno specifico e tuttavia essenziale aspetto, qual è quello della composizione del giudice investito della procedura, una pronuncia di illegittimità costituzionale di tipo sostitutivo, mentre, per gli aspetti ulteriori, la norma censurata si presta ad un’interpretazione costituzionalmente orientata.
6.1.– La messa alla prova, quale istituto di protezione della gioventù, ai sensi dell’art. 31, secondo comma, Cost., ha lo scopo primario di favorire l’uscita del minore dal circuito penale, la più rapida possibile, soprattutto attraverso una riflessione critica del giovane, sul proprio vissuto e la propria condotta, in mancanza della quale l’istituto stesso diverrebbe mezzo di pura deflazione, tra l’altro stimolando, per una sorta di eterogenesi dei fini, calcoli opportunistici dell’indagato minorenne.
Al perseguimento di questo delicato obiettivo sono funzionali la composizione pedagogicamente qualificata dell’organo giudicante e il sostegno continuo dei servizi minorili, in difetto dei quali la prova del giovane non raggiunge la finalità costituzionale sua propria, piegandosi verso la logica, completamente diversa, dell’istituto per adulti.
6.1.1.– Quanto alla struttura del giudice, la norma censurata, nel testuale riferimento, al comma 2, al «giudice per le indagini preliminari», si oppone a qualunque interpretazione adeguatrice, poiché il GIP minorile, a norma dell’art. 50-bis, comma 1, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), è giudice singolo, privo della componente onoraria esperta.
In ossequio all’art. 31, secondo comma, Cost., la dizione della norma censurata deve essere quindi sostituita con quella «giudice dell’udienza preliminare», con riferimento, cioè, all’organo che, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 50-bis, è composto, oltre che dal magistrato, da due giudici onorari esperti.
Per conseguenza, ogni riferimento al «giudice», contenuto nei commi dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 successivi al comma 2, deve essere inteso come riferimento al GUP.
6.1.2.– Quanto al ruolo dei servizi minorili, l’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988, nonostante una formulazione non perspicua, contiene elementi da valorizzare nel senso della presenza costante della struttura pubblica a fianco del minorenne in prova.
Eloquente la disposizione del comma 4, che, prevedendo un’informativa dei servizi al giudice circa l’interruzione o mancata adesione del minore al percorso rieducativo, evidentemente postula che il minore stesso sia seguito dai servizi, fin dall’inizio della prova e durante il suo svolgimento.
Lo stesso programma di reinserimento non può essere elaborato senza l’intervento dei servizi minorili, giacché, per il comma 1 dell’art. 27-bis, questi devono sempre essere «sentiti» in merito, e anzi, per il successivo comma 2, il programma deve essere redatto collaborando «anche» con i servizi minorili, laddove la particella non allude alla mera eventualità, ma a un vero e proprio obbligo di coinvolgere “anche” (e dunque “altresì”) i servizi minorili stessi.
Ne deriva che, alla fine del periodo di sospensione, allorché deve valutare l’esito del percorso rieducativo agli effetti del comma 6 dell’art. 27-bis, il giudice provvede sulla base della relazione conclusiva trasmessa dai servizi, non diversamente da quanto accade per la prova minorile ordinaria, a norma dell’art. 27, comma 5, del d.lgs. n. 272 del 1989.
6.2.– All’indicazione del GUP quale organo officiato dell’ammissione del minore al percorso di reinserimento corrisponde la qualificazione della proposta del pubblico ministero come atto di esercizio dell’azione penale.
Per quanto il comma 1 della norma censurata abbia un riferimento temporale piuttosto generico («[d]urante le indagini preliminari»), esso deve interpretarsi nel senso che la proposta del pubblico ministero possa intervenire solo quando sia sufficientemente definito il contesto del fatto-reato e il quadro esistenziale del minore, quando cioè sia possibile valutare, non soltanto che «i fatti non rivestono particolare gravità», come esige lo stesso comma 1, ma anche che non sia possibile chiedere la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988.
Il tenore letterale della norma in questione non preclude tale interpretazione, e anzi la accompagna, laddove si riferisce al minore, raggiunto dalla proposta ex art. 27-bis, come «imputato» (comma 3), laddove parla di conseguente sospensione del «processo» (ancora, comma 3) e di eventuale estinzione del reato per «sentenza» (comma 6).
In questa prospettiva, la restituzione degli atti al pubblico ministero – cui l’art. 27-bis si riferisce per le ipotesi di ingiustificata interruzione ed esito negativo del percorso rieducativo (commi 5 e 6) – non è una restituzione funzionale all’esercizio dell’azione penale (già avvenuto e irretrattabile), ma una restituzione finalizzata a un nuovo impulso processuale sulla medesima imputazione (eventualmente tramite la richiesta di giudizio immediato, svincolata dai presupposti comuni, che lo stesso art. 27-bis, commi 5 e 6, la cui legittimità costituzionale non è posta in discussione dal rimettente, consente in tali ipotesi).
6.3.– Atteso che la proposta del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988, integrando esercizio dell’azione penale, postula un’indagine adeguata, sia sulla consistenza del fatto-reato, sia sulle condizioni esistenziali del minore, non può la norma censurata – come del resto osservato dalla difesa statale – essere interpretata isolatamente dagli artt. 6 e 9 dello stesso decreto, che impongono il coinvolgimento dei servizi minorili e dei servizi socio-sanitari da parte dell’autorità giudiziaria e, rispettivamente, gli accertamenti sulla personalità del minorenne a iniziativa del pubblico ministero e del giudice.
Il rimettente ritiene che a tale interpretazione osti l’inserimento nell’art. 6 del d.P.R. n. 448 del 1988, ad opera dell’art. 6, comma 1, lettera 0a), del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, della clausola «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica», che tuttavia non può interpretarsi come riferita all’impiego ordinario dei servizi minorili già previsto dalla legge, ma soltanto a eventuali forme atipiche e straordinarie di impegno degli operatori.
6.4.– Anche la contrazione procedimentale determinata dalla brevità del termine di deposito del programma rieducativo è suscettibile di adeguamento interpretativo.
Il comma 2 dell’art. 27-bis ha un’apparenza cogente, in quanto prescrive che il deposito del programma «deve avvenire» entro sessanta giorni, il che, nel caso di specie, ha prima indotto il pubblico ministero a negare la proroga del termine e poi il giudice rimettente a considerare il termine stesso come perentorio.
In realtà, come dedotto dall’Avvocatura generale, il termine può intendersi ordinatorio, perché, ai sensi dell’art. 173 cod. proc. pen. – norma applicabile al procedimento minorile per effetto del rinvio ex art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988 –, in difetto di un’espressa previsione decadenziale, il termine è prorogabile.
Alla luce di tale interpretazione, se, per giustificate ragioni, non riesce a rispettare il termine di deposito di sessanta giorni e necessita di altro tempo per redigere il programma rieducativo, la difesa del minore può ottenere una proroga dal pubblico ministero; e lo stesso pubblico ministero può concedere una proroga del termine in funzione della sollecitazione rivolta alla difesa affinché integri un programma lacunoso.
6.5.– Riguardo alla valutazione di congruità del percorso di reinserimento, che il comma 3 dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 prescrive in funzione dell’eventuale ammissione alla prova, l’omessa previsione della facoltà del giudice di integrare o modificare il programma rieducativo potrebbe indurre a ritenere che il giudice stesso si trovi davanti all’alternativa secca – accettare o respingere l’accordo dalle parti –, sì da atteggiarsi quasi a un giudice del patteggiamento dell’adulto.
Anche questa incongruenza si presta tuttavia ad una correzione interpretativa, sulla base di quanto la giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato per la prova minorile ordinaria, dovendosi in particolare ritenere che al giudice non sia precluso disporre integrazioni o modifiche del progetto di intervento, ma solo farlo in modo unilaterale, senza consultare le parti e i servizi (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 28 gennaio-5 febbraio 2020, n. 4926; sezione quinta penale, sentenza 20 marzo-10 aprile 2013, n. 16332).
6.6.– Infine, per quanto riguarda l’oggetto della prova, sebbene il comma 1 dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 sembri privilegiare la prestazione di attività lavorativa da parte del minore, tanto da far espressamente salvo il «rispetto della legislazione in materia di lavoro minorile», il tenore della norma consente un’interpretazione conforme all’art. 31, secondo comma, Cost., da due angolature concorrenti.
In primo luogo, tra le «altre attività a beneficio della comunità di appartenenza», menzionate dallo stesso comma 1 dell’art. 27-bis, possono annoverarsi anche attività non strettamente lavorative, ma di carattere socio-relazionale, in modo non dissimile da quanto accade nella prova minorile ordinaria.
Inoltre, il sistema giuridico minorile contiene previsioni di salvaguardia – in particolare quelle sulle misure penali di comunità – estensibili per analogia, di modo che, anche per gli eventuali impegni lavorativi oggetto della prova semplificata, valga la cautela che «non devono mai compromettere i percorsi educativi in atto» (art. 3, comma 2, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p, della legge 23 giugno 2017, n. 103»).
7.– In virtù della pronuncia sostitutiva sulla composizione del giudice e dei descritti adeguamenti interpretativi, la norma censurata si sottrae alla richiesta di ablazione radicale, anche in ragione del fatto che il nuovo istituto, per come modificato in sede di conversione del d.l. n. 123 del 2023, non preclude ulteriori percorsi procedimentali, incluso quello della messa alla prova ordinaria.
8.– Per tutto quanto esposto, l’art. 27-bis, comma 2, del d.P.R. n. 448 del 1988 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 31, secondo comma, Cost., nella parte in cui indica «giudice per le indagini preliminari», anziché «giudice dell’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario)».
Le ulteriori questioni sollevate sono dichiarate non fondate, nei sensi di cui in motivazione.