REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), introdotto dall’art. 14, comma 1, lettera a-bis), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, nel procedimento vertente tra K. S. e il Ministero dell’interno e altri, con ordinanza del 30 maggio 2024, iscritta al n. 141 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell’anno 2024, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 28 gennaio 2025.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2025 il Giudice relatore Filippo Patroni Griffi;
deliberato nella camera di consiglio del 30 gennaio 2025.
Ritenuto in fatto
1.− Con ordinanza del 30 maggio 2024, iscritta al n. 141 del registro ordinanze 2024, il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 38 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), introdotto dall’art. 14, comma 1, lettera a-bis), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132.
La disposizione subordina la concessione della cittadinanza italiana allo straniero o all’apolide − per matrimonio o per naturalizzazione di cui agli artt. 5 e 9 della legge n. 91 del 1992 − al possesso di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER), dimostrato dal possesso di un titolo di studio o di apposita certificazione linguistica.
1.1.− Il giudice amministrativo riferisce di essere chiamato a decidere dell’impugnazione da parte di una cittadina straniera del provvedimento prefettizio che ha dichiarato inammissibile la sua istanza di concessione della cittadinanza italiana, presentata ai sensi dell’art. 9 della legge n. 91 del 1992, per mancanza di un’adeguata conoscenza della lingua italiana.
In fatto, la ricorrente ha prospettato di essere nell’oggettiva impossibilità di conseguire la richiesta competenza linguistica a causa di deficit cognitivo, derivante da numerose patologie, oltre che dall’età, e di averne offerto prova in sede procedimentale con produzione di un certificato medico dell’Azienda unità sanitaria locale (AUSL), che attestava che era affetta «da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti da età [...] handicap». Il TAR dà anche conto che tale condizione di disabilità era stata ulteriormente suffragata, in sede processuale, con il deposito dei verbali della competente commissione medica per l’accertamento dell’invalidità civile dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), che l’aveva dichiarata invalida ultrasessantacinquenne medio-grave «con difficoltà persistenti a svolgere le funzioni ed i compiti propri della sua età» e «portat[rice] di handicap in situazione di gravità» ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).
In diritto, la parte ha dedotto per più profili il vizio di cattivo esercizio del potere discrezionale, ma principalmente la violazione dell’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992: di tale articolo, posto a fondamento della motivazione del provvedimento sfavorevole, il ricorso ha prospettato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui precluderebbe il conseguimento della cittadinanza anche se l’apprendimento linguistico sia impedito da una grave e accertata disabilità.
1.2.− Tanto premesso, il TAR rimettente motiva sui presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionale sollecitate dalla parte.
In punto di rilevanza, l’ordinanza si sofferma sull’infondatezza del motivo di eccesso di potere, in ragione del chiaro tenore dell’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992 che non lasciava all’amministrazione la possibilità di una diversa determinazione.
Piuttosto, ai fini della decisione del ricorso, il rimettente assume che sarebbe decisiva la doglianza di violazione di legge per illegittimità costituzionale di tale disposizione: dalla invocata pronuncia di illegittimità costituzionale della norma impeditiva dell’acquisto dello status civitatis per chi è nell’impossibilità oggettiva di apprendere l’italiano deriverebbe, infatti, l’accoglimento della domanda di annullamento dell’atto negativo, proposta dalla ricorrente che presenta menomazioni cognitive.
1.3.− Alla illustrazione delle ragioni di non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, il giudice a quo premette una breve ricostruzione del quadro normativo.
Rammentati i diversi casi in cui, in virtù degli artt. 5 e 9 della legge n. 91 del 1992, lo straniero e l’apolide possono acquisire la cittadinanza per matrimonio (art. 5) o per naturalizzazione (art. 9), l’ordinanza si sofferma sulla condizione posta alla attribuzione dello status civitatis da parte dell’art. 9.1: il possesso di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 secondo il QCER.
Tale padronanza linguistica deve essere dimostrata tramite «il possesso di un titolo di studio rilasciato da un istituto di istruzione pubblico o paritario riconosciuto dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale o dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca» ovvero tramite «apposita certificazione rilasciata da un ente certificatore riconosciuto dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale o dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca». Ne sono, invece, esentati coloro che siano titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che abbiano sottoscritto l’accordo di integrazione, rispettivamente ai sensi dell’art. 9 e dell’art. 4-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).
Afferma il giudice a quo che il grado di conoscenza dell’italiano assurgerebbe a metro di valutazione del grado di inserimento dello straniero nel tessuto sociale nazionale: il riscontro della abilità linguistica servirebbe a verificare la sussistenza di un elevato livello di integrazione nella società italiana e dimostrerebbe, in uno al possesso degli altri requisiti richiesti dalla legge, l’idoneità del richiedente a conseguire lo status di cittadino.
1.3.1.− Alla luce del delineato quadro, il Tribunale amministrativo regionale assume che la rigida interpretazione dell’art. 9.1, inteso come preclusivo dell’acquisto della cittadinanza anche per il richiedente impossibilitato ad acquisire tale conoscenza della lingua per «gravi disabilità e certificati deficit cognitivi», contrasti con la Costituzione per quattro profili.
1.3.2.− In primo luogo, la disposizione violerebbe l’art. 2 Cost., che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo.
Impedire a un soggetto di ottenere la cittadinanza per la sua incapacità, oggettiva e insuperabile, di apprendere la lingua italiana, determinata dalle condizioni psicofisiche, significherebbe non garantire «l’acquisizione di un diritto fondamentale, qual è lo status di cittadino». Infatti, sarebbe ostacolato l’inserimento completo ed effettivo della persona disabile nella collettività cui oramai appartiene.
1.3.3.− La disciplina di cui all’art. 9.1 confliggerebbe anche con l’art. 3 Cost., che garantisce, anche a protezione dei diritti inviolabili, il principio di uguaglianza a prescindere dalle condizioni personali, tra cui si colloca indubbiamente la condizione di menomazione cognitiva.
In particolare, il requisito della conoscenza della lingua pretesa dalla disposizione per l’attribuzione della cittadinanza, concretizzerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti «“sani”», capaci di apprenderla, e soggetti «“non sani”», impediti nell’apprendimento e di conseguenza nell’acquisto della condizione di cittadino.
1.3.4.− In terzo luogo, la disposizione censurata, in parte qua, vulnererebbe l’art. 38, primo e terzo comma, Cost. che, per «evitare che la disabilità [sia] fattore limitativo dell’uguaglianza, delinea un sistema [che] riconosc[e] il diritto all’assistenza sociale per gli “inabili” al lavoro e […] il diritto all’educazione e alla formazione professionale agli “inabili” e ai “minorati”».
1.3.5.− Inoltre, per il giudice a quo, la disciplina contestata violerebbe anche il quadro normativo sovranazionale «cui l’ordinamento dello Stato è tenuto a conformarsi a mente dell’art. 10» Cost. e, in particolare la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità approvata dall’Assemblea generale il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità) e il cui spettro di protezione – secondo la lettera definitoria del suo art. 1, secondo comma – ricomprende anche le menomazioni mentali, intellettuali o sensoriali.
Infatti, l’art. 18 della Convenzione impone agli Stati firmatari il riconoscimento alle persone con disabilità «su base di uguaglianza con gli altri», tra l’altro, del «diritto alla cittadinanza, anche assicurando che le persone con disabilità: (a) abbiano il diritto di acquisire e cambiare la cittadinanza e non siano private della cittadinanza arbitrariamente o a causa della loro disabilità; (b) non siano private a causa della disabilità, della capacità di ottenere, detenere ed utilizzare la documentazione attinente alla loro cittadinanza o altra documentazione di identificazione, o di utilizzare le procedure pertinenti, quali le procedure di immigrazione, che si rendano necessarie per facilitare l’esercizio del diritto alla libertà di movimento».
Il così riconosciuto diritto di acquisire, mantenere e cambiare la cittadinanza a prescindere dalle condizioni personali di disabilità si troverebbe garantito solo se la legislazione degli Stati aderenti alla Convenzione impedisca che la disabilità, in qualsiasi forma essa si declini, possa costituire elemento impeditivo all’acquisto della cittadinanza.
1.3.6.− Infine, il tribunale amministrativo si premura di escludere la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 9.1.
Al di fuori delle ipotesi della sottoscrizione dell’accordo di integrazione e dei titolari del permesso di soggiorno UE per lungosoggiornanti, il chiaro tenore letterale della disposizione non contemplerebbe alcuna deroga all’obbligo del richiedente la cittadinanza di dimostrare una adeguata conoscenza della lingua italiana per chi sia impedito ad apprenderla per condizioni di grave disabilità.
1.3.7.− A sostegno delle sollevate questioni, l’ordinanza richiama la sentenza n. 258 del 2017 di questa Corte. L’art. 9.1 soffrirebbe di profili di illegittimità costituzionale analoghi a quelli riscontrati da tale pronuncia in relazione all’art. 10 della medesima legge n. 91 del 1992 ove precludeva l’efficacia del decreto di concessione della cittadinanza, per mancato giuramento, anche ai soggetti incapaci di soddisfare tale adempimento in ragione di una grave e accertata condizione di disabilità.
2.− È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le sollevate questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate.
2.1.− In via preliminare, l’interveniente ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per differenti profili.
2.1.1.− In primo luogo, la pronuncia richiesta invaderebbe la sfera riservata al legislatore.
Il rimettente chiederebbe una pronuncia additiva, volta a inserire una norma di eccezione nella disposizione che subordina il riconoscimento della cittadinanza alla conoscenza della lingua italiana: così facendo, si riconoscerebbe in via innovativa la cittadinanza a taluni soggetti, a prescindere dal requisito linguistico che il legislatore ha configurato come elemento costitutivo della fattispecie acquisitiva dello status civitatis.
La difesa statale sostiene in proposito che – diversamente dalla prospettiva dell’ordinanza di rimessione – la conoscenza della lingua italiana non sarebbe un requisito esterno al riconoscimento della cittadinanza, ma un suo elemento costitutivo interno, al pari degli altri richiesti dagli artt. 5 e 9 della legge n. 91 del 1992.
L’atto di intervento rammenta in proposito che il valore della lingua italiana è già stato evidenziato dalla sentenza n. 210 del 2018 di questa Corte, secondo cui l’italiano è l’unica lingua ufficiale del sistema costituzionale e, tra l’altro, elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare in quanto è mezzo primario di trasmissione dei valori culturali che essa esprime.
2.1.2.− In secondo luogo, il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce l’inammissibilità delle questioni per insufficiente motivazione sulla rilevanza sotto due diversi aspetti.
Anzitutto, la formulazione delle questioni sarebbe generica in quanto il giudice a quo non preciserebbe a quale dei diversi titoli contemplati dall’art. 9 la ricorrente abbia richiesto la cittadinanza.
Inoltre, l’ordinanza presenterebbe carenza argomentativa sulla rilevanza in relazione alla «prognosi di fondatezza del ricorso», quanto al ricorrere dell’incapacità assoluta ad apprendere la lingua ed al suo essere giustificata dall’insorgenza delle sue cause nella fase iniziale della permanenza in Italia.
Da un lato, il TAR non avrebbe adeguatamente illustrato perché la documentazione medica acquisita dimostrasse l’esistenza di una patologia cognitiva (innata o risalente) tale da determinare un’impossibilità assoluta di imparare l’idioma nazionale. Piuttosto, le «gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti da età [e] handicap», genericamente attestate dal certificato dell’AUSL, sarebbero prive di riferimento alla natura dei deficit, alla data della loro insorgenza, e al loro grado, mentre i certificati dell’INPS darebbero conto di malattie fisiche.
Dall’altro lato, l’atto di rimessione non avrebbe dato rilievo alle circostanze che gli interventi chirurgici e le terapie cui era stata sottoposta la ricorrente risalissero all’incirca al 2017 e che l’attestazione dell’AUSL fosse del 2021 e, dunque, che le patologie erano insorte dopo molti anni dall’ingresso in Italia (2009): risulterebbe, quindi, privo di giustificazione il difetto di conoscenza dell’italiano al momento della domanda di concessione della cittadinanza.
2.2.− Nel merito, la difesa statale ha resistito alle diverse questioni promosse.
2.2.1.− Anzitutto, la violazione dell’art. 2 Cost. non sarebbe fondata perché il diritto a ottenere la cittadinanza non sarebbe un diritto inviolabile dell’uomo.
L’aspirazione dello straniero a ottenere lo status civitatis andrebbe bilanciato con i diritti della collettività in cui chiede l’inserimento, sicché non si configura come un diritto pieno e assoluto.
La cittadinanza neppure figura tra i diritti riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo o dai suoi protocolli, con la conseguenza che il legislatore nazionale ha ampia discrezionalità in materia.
Questa risulterebbe, nella specie, correttamente esercitata, in quanto sarebbe richiesta la prova di una conoscenza medio-bassa dell’italiano, necessaria a integrarsi nella comunità nazionale. Secondo la definizione nella normativa europea di riferimento, il livello B1 consisterebbe, infatti, nella capacità di «comprendere i punti essenziali di messaggi standard chiari in lingua italiana su argomenti che si affrontano normalmente al lavoro, a scuola, in famiglia, nel tempo libero».
2.2.2.− La disposizione censurata non contrasterebbe neppure con l’art. 3 Cost.
Infatti, in generale, l’ordinamento italiano prevede l’integrazione scolastica e formativa dei disabili mediante percorsi dedicati, al termine dei quali possono essere conseguiti i titoli di studio, se necessario mediante prove equipollenti a quelle previste per gli altri candidati e con l’utilizzo di mezzi tecnici o ausili necessari (si citano gli artt. 13 e 16 della legge n. 104 del 1992 e l’art. 318 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado»).
In particolare, quanto al procedimento del riconoscimento della cittadinanza, è parimenti garantita la possibilità, per le persone con menomazioni, di acquisire idonee certificazioni linguistiche con percorsi formativi e certificativi modulati sulle specifiche condizioni di disabilità del soggetto. Così, l’ente certificatore società Dante Alighieri garantisce ai candidati con disabilità attrezzature particolari o misure compensative per lo svolgimento dei test dietro presentazione di apposita certificazione medica.
L’insufficienza di tali misure configurerebbe «una situazione così particolare da porsi come idonea a giustificare un trattamento differenziato»: la parità di trattamento andrebbe, infatti, correlata al diritto reclamato e per lo status di cittadinanza la conoscenza della lingua è elemento indefettibile.
2.2.3.− Ancora, secondo l’Avvocatura, l’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992 non vulnererebbe l’art. 18 della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità.
Infatti, la disposizione internazionale vieterebbe tanto la privazione della cittadinanza quanto «pratiche che consistono in provvedimenti» che negano e privano lo status civitatis, ma solo in conseguenza diretta della disabilità.
Al contrario, nella fattispecie all’esame del rimettente, il rigetto dell’istanza di concessione della cittadinanza non sarebbe fondato sulla menomazione, ma con essa avrebbe un legame solo indiretto: il motivo del diniego sarebbe il difetto del fondamentale requisito linguistico, derivante dal deficit psico-fisico. Per contro, il diritto convenzionale dei disabili di acquisire e cambiare la cittadinanza risulterebbe garantito attraverso le illustrate misure atte a consentire anche ai portatori di disabilità le certificazioni linguistiche.
2.2.4.− In ultimo, sarebbe non fondata anche la questione riferita all’art. 38 Cost.
Le modalità agevolative offerte dagli istituti certificatori garantirebbero i diritti sociali riconosciuti agli inabili dalla disposizione costituzionale e, comunque, tali diritti non presupporrebbero la cittadinanza.
2.3.− A conclusione della difesa, l’interveniente assume l’inconferenza del richiamo della citata sentenza n. 258 del 2017 di questa Corte per la soluzione delle questioni sollevate dal TAR Emilia-Romagna.
Infatti, in quel precedente veniva in rilievo l’impossibilità, per il disabile, di prestare il giuramento e, dunque, l’impossibilità di assolvere a un adempimento successivo al decreto che ha concesso la cittadinanza, in esito al riscontro «“[del]le altre condizioni previste dalla legge che regola l’acquisizione della cittadinanza”».
Al contrario, nella specie si discorrerebbe di uno degli elementi costitutivi per l’acquisto della cittadinanza.
Considerato in diritto
1.− Il TAR Emilia-Romagna dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992, introdotto dall’art. 14, comma 1, lettera a-bis), del d.l. n. 113 del 2018, come convertito, nella parte in cui, imponendo il requisito della conoscenza linguistica per l’attribuzione della cittadinanza italiana, precluderebbe la sua concessione «a quei soggetti che, in ragione della impossibilità di apprendere la lingua per gravi disabilità e certificati deficit cognitivi, non siano nelle condizioni di documentar[ne] la conoscenza».
È denunciato il contrasto della disposizione con gli artt. 2, 3, 10 e 38 Cost.
1.1.− Il giudice a quo solleva le questioni nel corso di un giudizio di impugnazione di un provvedimento prefettizio che ha dichiarato inammissibile l’istanza di una straniera di concessione della cittadinanza italiana, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 91 del 1992, sul presupposto del difetto del possesso del suddetto requisito linguistico. La ricorrente nel giudizio a quo − premesso di essere nell’oggettiva incapacità di conseguire la richiesta competenza linguistica per deficit cognitivo, derivante da numerose patologie, oltre che dall’età − ha dedotto quale motivo principale di ricorso l’illegittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992 su cui si fonda la motivazione dell’atto amministrativo sfavorevole.
1.2.− In punto di rilevanza, il TAR rimettente osserva che, dall’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992, deriverebbe l’accoglimento del ricorso.
1.3.− In relazione alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza – esclusa la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione, alla luce del suo chiaro tenore letterale − assume, per quattro profili, l’illegittimità costituzionale della norma che subordina l’acquisto della cittadinanza alla prova della conoscenza della lingua anche per l’individuo incapace, in termini oggettivi e insuperabili, di apprenderla a causa di deficit psico-fisici.
In primo luogo, sarebbe leso l’art. 2 Cost.: la condizione impedirebbe alla persona disabile di ottenere «un diritto fondamentale, qual è lo status di cittadino».
In secondo luogo, l’imposizione generalizzata della dimostrazione della adeguata conoscenza dell’italiano violerebbe il principio di uguaglianza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., in quanto concretizzerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti «“sani”», capaci di apprenderlo, e soggetti «“non sani”», impediti nell’apprendimento e, di conseguenza, nell’acquisizione della cittadinanza.
Ancora, l’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992, in parte qua, vulnererebbe l’art. 38, primo e terzo comma, Cost. che, per «evitare che la disabilità [sia] fattore limitativo dell’uguaglianza, delinea un sistema [che] riconosc[e] il diritto all’assistenza sociale per gli “inabili” al lavoro e […] il diritto all’educazione e alla formazione professionale agli “inabili” e ai “minorati”».
Infine, il mancato esonero dalla prova del requisito linguistico contrasterebbe con l’art. 10 Cost., in relazione all’art. 18, comma 1, lettere a) e b), della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità. Il parametro sovranazionale riconosce il diritto di acquisire, mantenere e cambiare la cittadinanza agli individui con menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali e tale diritto non sarebbe garantito dal legislatore italiano che, con la norma censurata, ostacolerebbe l’acquisto dello status civitatis alle persone con disabilità nelle sue diverse forme.
2.− Il Presidente del Consiglio dei ministri ha contestato, innanzi tutto, l’ammissibilità delle questioni con due eccezioni: per un verso, la pronuncia additiva richiesta invaderebbe la sfera discrezionale riservata al legislatore, riconoscendo la condizione di cittadino a prescindere dal possesso della competenza linguistica; e, per altro verso, sarebbe insufficiente la motivazione sulla rilevanza.
Entrambe le eccezioni di inammissibilità vanno disattese.
2.1.− Non v’è dubbio che il legislatore goda di ampia discrezionalità nella disciplina dell’attribuzione della cittadinanza. Ma le scelte del legislatore, al pari che in altre discipline connotate da elevata discrezionalità, non si sottraggono per questo al giudizio di costituzionalità, in quanto devono pur sempre essere compiute secondo canoni di non manifesta irragionevolezza e di proporzionalità rispetto alle finalità perseguite (tra le altre, sentenze n. 88 del 2023, n. 194 del 2019, n. 202 del 2013 e n. 245 del 2011), cui si deve aggiungere, per quanto qui segnatamente interessa, il rispetto delle garanzie riservate alle persone con disabilità (sentenza n. 3 del 2025).
Il rimettente, invero, non chiede una pronuncia additiva tesa a colmare un vuoto di tutela o a introdurre elementi di novità nel procedimento di attribuzione della cittadinanza, ma dubita della compatibilità, con gli evocati parametri costituzionali, della compiuta scelta legislativa di esigere la prova della competenza linguistica per tutti i richiedenti la cittadinanza, senza esonero per quelli che non abbiano la capacità di acquisirla a causa di disabilità.
In definitiva, quanto eccepito dal Presidente del Consiglio dei ministri attiene semmai al merito e non alla ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate (in termini analoghi, sentenze n. 196 e n. 134 del 2024 e n. 171 del 2022).
2.2.− Con riferimento alla dedotta insufficiente motivazione sulla rilevanza, l’eccezione è svolta sotto due diversi profili: perché il giudice a quo non preciserebbe a quale dei diversi titoli contemplati dall’art. 9 della legge n. 91 del 1992 la ricorrente abbia presentato istanza di concessione della cittadinanza italiana; e perché il giudice a quo non avrebbe né esposto le ragioni per le quali la cittadina straniera si trovi, a causa delle specifiche disabilità comprovate dalla documentazione medica prodotta, nell’oggettiva impossibilità di apprendimento della lingua, né considerato che le patologie erano insorte dopo molti anni dall’ingresso in Italia, sicché non sarebbe giustificato il difetto di conoscenza dell’italiano al momento della presentazione della domanda di cittadinanza.
Sotto ambedue i profili, l’eccezione non è fondata.
2.2.1.− La precisazione sul titolo a sostegno dell’istanza era infatti superflua, posto che la prova della lingua è richiesta per tutti i casi di naturalizzazione.
2.2.2.− Quanto al secondo profilo dedotto, il giudice a quo assume l’invalidità del provvedimento, che ha dichiarato inammissibile la domanda di concessione della cittadinanza per mancanza del requisito linguistico, in via derivata dalla illegittimità costituzionale della disposizione censurata che lo impone e, inoltre, prospetta che, nel concreto, il richiedente versi in una condizione di disabilità tale da rivendicare l’auspicato esonero dalla prova della conoscenza della lingua.
Tanto è sufficiente ai fini dell’ammissibilità della questione: il giudizio sulla rilevanza è riservato al rimettente e, rispetto a esso, questa Corte effettua un controllo meramente “esterno”, limitato ad accertare l’esistenza di una motivazione non implausibile, non palesemente erronea o contraddittoria (per tutte, sentenze n. 192 del 2022 e n. 32 del 2021), senza spingersi fino a un esame autonomo degli elementi che hanno portato il giudice a quo a determinate conclusioni, potendo interferire su tale valutazione solo se essa, a prima vista, appaia assolutamente priva di fondamento (sentenza n. 218 del 2020).
3.− Ancora in via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 10 Cost., in relazione all’art. 18, comma 1, lettere a) e b), della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità.
Il parametro costituzionale evocato risulta, infatti, del tutto inconferente (tra le altre, sentenze n. 189 e n. 96 del 2024, n. 171 del 2023 e n. 259 del 2022).
Il giudice a quo assume che l’ordinamento interno «è tenuto a conformarsi a mente» dell’art. 10 Cost. alla suddetta Convenzione.
Tale parametro costituzionale, tuttavia, non è quello per il tramite del quale la norma internazionale assume la capacità di condizionare la normazione interna.
Non lo è con riferimento al suo primo comma, in quanto non si lamenta la violazione del diritto internazionale consuetudinario, bensì di quello pattizio.
Non lo è neppure con riferimento al suo secondo comma, poiché la Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità non è un trattato avente a oggetto la «condizione giuridica dello straniero», configurandosi semmai come obbligo internazionale la cui violazione sarebbe in ipotesi riconducibile all’art. 117, primo comma, Cost. (sentenze n. 168 del 2023 e n. 236 del 2012).
4.− L’esame del merito delle questioni sollevate richiede un breve inquadramento dell’obbligo della dimostrazione della competenza linguistica per talune ipotesi di acquisto della cittadinanza e delle relative clausole esonerative codificate.
4.1.− Tra le diverse ipotesi di acquisizione della cittadinanza previste dalla legge n. 91 del 1992 e, in particolare, per le sole fattispecie di acquisto per matrimonio (art. 5) e per naturalizzazione (art. 9), il d.l. n. 113 del 2018, come convertito, ha imposto, con l’inserimento della disposizione censurata, il requisito del «possesso […] di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER)». L’onere probatorio può essere assolto alternativamente con l’attestazione del possesso di un titolo di studio rilasciato da un istituto di istruzione pubblico o paritario, riconosciuto dai ministeri competenti, o con la produzione di un’apposita certificazione rilasciata da un ente certificatore, riconosciuto ancora dai ministeri competenti.
Secondo il predetto sistema di certificazione delle lingue straniere − elaborato dal Consiglio d’Europa ed il cui utilizzo è stato promosso con la raccomandazione del 28 settembre 2001 −, il livello B1 è un livello intermedio di conoscenza della lingua ed è definito come proprio di colui che «è in grado di comprendere i punti essenziali di messaggi chiari in lingua standard su argomenti familiari che affronta normalmente al lavoro, a scuola, nel tempo libero ecc.; se la cava in molte situazioni che si possono presentare viaggiando in una regione dove si parla la lingua in questione; sa produrre testi semplici e coerenti su argomenti che gli siano familiari o siano di suo interesse; è in grado di descrivere esperienze e avvenimenti, sogni, speranze, ambizioni, di esporre brevemente ragioni e dare spiegazioni su opinioni e progetti».
4.2.− La ratio dell’introduzione della competenza linguistica quale requisito costitutivo della fattispecie acquisitiva dello status civitatis risiede nella volontà del legislatore di riscontrare, per il suo tramite, un rilevante grado di integrazione dello straniero nella comunità nazionale cui è richiesto di accoglierlo.
4.3.− Il legislatore, nella disposizione censurata, ha previsto solo due casi di esonero dal riscontro della abilità linguistica per il richiedente la cittadinanza.
Sono, infatti, esclusi dalla relativa dimostrazione, a mente del secondo alinea dell’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992, il cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea e l’apolide che versino in due alternative condizioni: a) se, al primo regolare ingresso in Italia, contestualmente alla richiesta del permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, abbiano sottoscritto l’accordo di integrazione di cui all’art. 4-bis del d.lgs. n. 286 del 1998; b) se siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo ai sensi dell’art. 9 del medesimo d.lgs. n. 286 del 1998.
Le esenzioni si giustificano con la circostanza che, in entrambi i casi, lo straniero dà prova di una conoscenza dell’italiano − seppur al livello «elementare» (A2) e, dunque, inferiore a quello «intermedio» (B1) richiesto per la cittadinanza − e avere così avviato un percorso di inserimento nel tessuto sociale.
Nello specifico, infatti, chi ha adempiuto all’accordo di integrazione ha, tra l’altro, conseguito il livello A2 della sola «lingua italiana parlata» (art. 2, comma 4, lettera a, del d.P.R. 14 settembre 2011, n. 179, recante il «Regolamento concernente la disciplina dell’accordo di integrazione tra lo straniero e lo Stato, a norma dell’articolo 4-bis, comma 2, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286»), mentre chi ha ottenuto il permesso per lungosoggiornanti ha superato il test di conoscenza della lingua italiana, orale e scritta, nel medesimo livello A2 (combinato disposto dell’art. 9, comma 2-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dell’art. 2, comma 1, del decreto del Ministro dell’interno 7 dicembre 2021, recante «Modalità di svolgimento del test di conoscenza della lingua italiana, previsto dall’articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, introdotto dall’articolo 1, comma 22, lettera i) della legge n. 94/2009»).
Con riferimento a tali discipline deve ancora sottolinearsi che, diversamente da quella censurata, l’imposizione del requisito di apprendimento linguistico si accompagna a norme che − con diverse, ma simili formule − dispensano, rispettivamente dalla sottoscrizione dell’accordo o dalla sottoposizione al test linguistico, lo straniero che presenti disabilità gravemente limitative della possibilità di acquisire la conoscenza dell’italiano.
In particolare, ai sensi dell’art. 2, comma 8, del d.P.R. n. 179 del 2011 «[n]on si fa luogo alla stipula dell’accordo ai fini del rilascio del permesso di soggiorno e, se stipulato, questo si intende adempiuto, qualora lo straniero sia affetto da patologie o da disabilità tali da limitare gravemente l’autosufficienza o da determinare gravi difficoltà di apprendimento linguistico e culturale, attestati mediante una certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale».
A sua volta, l’art. 1, comma 3, lettera b), del d.m. 7 dicembre 2021 esclude la necessità del superamento del test linguistico per il rilascio del permesso di soggiorno UE per lungosoggiornanti, «[per lo] straniero affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti dall’età, da patologie o da handicap, attestate mediante certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica».
4.4.− Per contro, deve darsi atto della circostanza che, in relazione alla prova della conoscenza dell’italiano nel procedimento per l’acquisto della cittadinanza, la prassi degli istituti certificatori offre soluzioni agevolative per il richiedente con difficoltà oggettive, ma non assolute, nel relativo apprendimento (o anche di dimostrazione dell’apprendimento). Infatti, per consentire il superamento degli ostacoli che il disabile può incontrare nell’esame, tali enti predispongono specifiche facilitazioni (quali la fornitura di strutture o attrezzature particolari, l’aggiunta di tempo e la lettura ad alta voce).
4.5.− Inoltre, a livello di diritto comparato, risulta utile rilevare che, in pressoché tutti gli ordinamenti dei Paesi europei in cui è richiesta la conoscenza dell’idioma nazionale, in relazione a determinati procedimenti di attribuzione della cittadinanza, sono dettate, al contempo, specifiche norme che − con differenti formulazioni − esentano dalla prova della predetta competenza coloro che siano impediti ad acquisirla, a causa di determinate condizioni personali di vulnerabilità (per patologia, per disabilità fisica o mentale, per anzianità).
Così, ad esempio e tra gli altri, si rinvengono siffatte clausole di esonero: a) nell’ordinamento francese, a favore di coloro che, secondo una certificazione medica, sono affetti da disabilità o da condizioni di salute che impediscono di sottoporsi alla valutazione delle competenze linguistiche; b) nell’ordinamento tedesco, a favore di coloro che non possono dare prova della conoscenza dell’idioma a causa di una patologia fisica, di un disturbo psichico o mentale, di una condizione di disabilità o dell’età; c) nell’ordinamento del Regno Unito a favore di coloro che sono affetti da una condizione fisica o psicologica di lungo termine che gli precluda di apprendere l’inglese o di ottenere una certificazione linguistica, per come attestato da un medico in apposito modulo.
5.− Nel merito, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata, con assorbimento delle ulteriori questioni.
L’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992 impone la verifica della padronanza linguistica non elementare per chiunque presenti l’istanza di cittadinanza, senza accompagnarsi ad un’altra norma che, restringendone la portata soggettiva, esoneri dalla prova del requisito le persone che siano oggettivamente impossibilitate ad apprendere la lingua italiana, a causa di una infermità o di una menomazione di natura fisica o psichica. Ciò, peraltro, al contrario di quanto l’ordinamento preveda per lo straniero cui sia richiesto di sottoscrivere l’accordo di integrazione o per lo straniero che faccia istanza di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
Così facendo, la norma censurata tratta, ingiustificatamente e irragionevolmente, in modo uguale situazioni diverse: detta, infatti, una disciplina uniforme – la prova del possesso della competenza linguistica – valida anche per persone che, in ragione della loro disabilità, versano in situazione oggettivamente diversa dalla generalità dei richiedenti la cittadinanza. In senso opposto, il principio di eguaglianza richiede, nella fattispecie in esame, che per tale specifica categoria di stranieri il riscontro dell’integrazione avvenga con requisiti commisurati, e quindi proporzionati, alle relative capacità e, dunque, esige una disciplina differenziata con dispensa dalla prova del requisito linguistico (si vedano, per la violazione del principio di uguaglianza in ragione dell’ingiustificata omologazione di situazioni differenti, tra le altre, sentenze n. 165 del 2022, n. 185 e n. 143 del 2021, n. 274 del 2016 e, in particolare, n. 163 del 1993).
È dunque vulnerato il principio di eguaglianza formale con riferimento alle «condizioni personali», tra le quali «si colloca indubbiamente la condizione di disabilità» (sentenze n. 114 del 2019 e n. 258 del 2017) – espressamente considerata e tutelata dall’art. 38 Cost. e, a livello internazionale, dalla Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità e sul cui trattamento giuridico questa Corte ha ripetutamente affermato che confluiscono un complesso di princìpi «che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale» (sentenze n. 3 del 2025, n. 42 del 2024, n. 110 del 2022, n. 83 del 2019, n. 258 del 2017, n. 275 del 2016 e n. 215 del 1987).
Sotto diverso angolo di visuale, pretendere la padronanza della lingua italiana, indifferentemente, da tutti i richiedenti la cittadinanza, si risolve nel porre una condizione inesigibile per quegli stranieri che siano oggettivamente impediti ad apprenderla in ragione di una disabilità. Il che costituisce altresì una violazione di uno dei corollari del principio di ragionevolezza, e segnatamente del principio ad impossibilia nemo tenetur, che trova molteplici applicazioni nel diritto sostanziale e nel diritto processuale (sentenza n. 157 del 2021 e si vedano anche n. 250 del 2010, n. 5 del 2004 e n. 97 del 1973). Analogamente, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione di cui all’art. 10 della medesima legge n. 91 del 1992 – che pone quale condizione di efficacia del decreto di concessione della cittadinanza per naturalizzazione il giuramento di fedeltà alla Repubblica – proprio nella parte in cui non prevede che sia esonerata dal giuramento la persona incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità (sentenza n. 258 del 2017).
E, d’altra parte, il vulnus sussiste anche con riguardo alla declinazione sostanziale del principio di eguaglianza (art. 3, secondo comma, Cost.), in quanto l’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992 frappone, anzi che rimuovere, un ostacolo all’acquisto della cittadinanza per tale specifica categoria di persone vulnerabili e, nella prospettiva degli effetti prodotti, si traduce in una forma di discriminazione indiretta (sentenze n. 3 e n. 1 del 2025, n. 264 del 2013, e ancora n. 163 del 1993), che può condurre a «una forma di emarginazione sociale» (sentenza n. 258 del 2017).
5.1.− In conclusione, deve ritenersi che l’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992 sia costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede una clausola di esenzione dalla dimostrazione della conoscenza della lingua italiana per lo straniero che versi in condizioni di oggettiva e documentata impossibilità di acquisirla in ragione di una disabilità.
Quanto alla formula di esonero adeguata al caso di specie, essa può essere rinvenuta in quella già prevista dall’ordinamento in relazione al test di lingua richiesto per l’ottenimento del permesso di soggiorno UE di lungo periodo.
Va, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992, nella parte in cui non esonera dalla prova della conoscenza della lingua italiana il richiedente affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti dall’età, da patologie o da disabilità, attestate mediante certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica.
5.2.− Restano assorbite le ulteriori questioni sollevate in riferimento agli artt. 2 e 38 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), introdotto dall’art. 14, comma 1, lettera a-bis), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, nella parte in cui non esonera dalla prova della conoscenza della lingua italiana il richiedente affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti dall’età, da patologie o da disabilità, attestate mediante certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge n. 91 del 1992, introdotto dall’art. 14, comma 1, lettera a-bis), del d.l. n. 113 del 2018, come convertito, sollevata, in riferimento, all’art. 10 della Costituzione, in relazione all’art. 18, comma 1, lettere a) e b), della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall’Assemblea generale il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità), dal Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 gennaio 2025.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore
Valeria EMMA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 marzo 2025
Il Cancelliere
F.to: Valeria EMMA
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