Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 31 maggio 2022 (reg. ord. n. 100 del 2022), la Corte d’appello di Milano, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, in riferimento agli artt. 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, e all’art. 7, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione.
La disposizione censurata, rimasta in vigore fino al 31 dicembre 2023, prevedeva che il componente del nucleo familiare richiedente il beneficio del reddito di cittadinanza (d’ora in poi, anche: Rdc), dovesse essere, tra l’altro: «residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».
Oggetto del giudizio principale è l’appello avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale ordinario di Milano, sezione lavoro, ha respinto il ricorso proposto da alcuni cittadini romeni, privi della residenza in Italia per almeno dieci anni, nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), ai sensi degli artt. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) e 702-bis del codice di procedura civile, chiedendo in via principale: a) l’accertamento della natura discriminatoria della condotta tenuta dall’INPS adottando la circolare n. 43 del 2019, che confermerebbe il requisito della residenza decennale ai fini dell’accesso al reddito di cittadinanza, e sospendendo la erogazione del beneficio nei confronti degli stessi ricorrenti; b) la modifica di tale circolare e la condanna dell’INPS al pagamento dell’importo del Rdc anche per la parte successiva alla sospensione; in via subordinata: c) la condanna dell’INPS al risarcimento del danno per la discriminazione subita, nella misura della prestazione non fruita.
In particolare, i motivi di gravame fanno valere il diritto al soggiorno acquisito dai ricorrenti, che il primo giudice non avrebbe considerato nell’escludere il contrasto della previsione del requisito di residenza decennale sia con il diritto dell’Unione, per violazione del diritto alla parità di trattamento e del divieto di discriminazione in ragione della nazionalità, sia con gli artt. 3, 4, 35, 38 e 117 Cost.
1.1.– L’ordinanza motiva la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate osservando che le parti ricorrenti, «in possesso degli ulteriori presupposti richiesti dalla legge», vedrebbero dipendere l’accesso al Rdc «solamente dal possesso o meno del requisito della lunga residenza» richiesto dalla disposizione censurata, il cui chiaro tenore letterale impedirebbe un’interpretazione costituzionalmente orientata.
L’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, contrasterebbe con gli artt. 3, 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 CFDUE, nonché agli artt. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e dell’art. 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE, previsioni costituenti concreta attuazione nel diritto derivato dell’Unione dei principi affermati dalle citate norme della Carta, relativi al divieto di discriminazione e al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale.
Proprio la violazione non solo di principi eurounitari, ma anche costituzionali, giustificherebbe la scelta di sollevare la questione di costituzionalità, alla luce della giurisprudenza di questa Corte sui casi di “doppia pregiudizialità” (è citata la sentenza n. 269 del 2017).
2.– Nell’argomentare le censure l’ordinanza di rimessione riporta anzitutto ampi passaggi della sentenza n. 19 del 2022, nella quale questa Corte ha sintetizzato la disciplina normativa e tratteggiato la natura del Rdc, per poi concentrarsi sulla questione, di interesse nella specie, «dei requisiti di residenza previsti indifferentemente per italiani e stranieri». Al riguardo, «per le prestazioni “non essenziali”» la giurisprudenza costituzionale riterrebbe «ragionevole richiedere un certo “radicamento territoriale” purché senza distinzioni tra italiani e stranieri» (sono richiamate le sentenze n. 2 del 2013 e n. 40 del 2011), dovendosi peraltro escludere la ragionevole correlabilità del requisito della residenza protratta per un tempo sproporzionato.
Il rimettente, inoltre, segnala alcune pronunce di questa Corte che hanno dichiarato costituzionalmente illegittimi requisiti siffatti imposti per la generalità dei richiedenti, italiani e stranieri (sentenze n. 44 del 2020, n. 168 del 2014, n. 222 e n. 172 del 2013) che, a suo avviso, confermerebbero il principio, affermato da questa Corte, «secondo cui il requisito del radicamento territoriale può fungere da ragionevole criterio selettivo solamente in relazione alle provvidenze non correlate a situazioni di bisogno o di disagio e dirette, quindi, a soddisfare finalità eccedenti il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona, solo se risponde ad un criterio di proporzionalità e ragionevolezza».
Nella prospettiva del diritto dell’Unione europea, il giudice a quo segnala che la giurisprudenza della Corte di giustizia avrebbe «sempre dato per scontato che un requisito di lungo-residenza possa costituire una discriminazione indiretta in ragione della cittadinanza, senza necessità di appoggiarsi a un particolare dato statistico» (sono richiamate le sentenze 16 gennaio 2003, in causa C-388/01, Commissione contro Italia, e 10 marzo 1993, in causa C-111/91, Commissione contro Lussemburgo). Tale carattere discenderebbe dalla constatazione che «la percentuale di cittadini che risiedono da lungo tempo sul territorio nazionale (o regionale) è certamente superiore alla corrispondente percentuale di stranieri».
2.1.– Secondo il giudice a quo, la citata sentenza n. 19 del 2022 si collocherebbe nel descritto quadro giurisprudenziale, costituzionale ed europeo, senza che risulti «dirimente per la questione odierna» l’«esito negativo» della pronuncia indicata, per avere ritenuto non fondata la censura che riteneva violato l’art. 3, primo comma, Cost., per l’assenza di una ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo e le situazioni di bisogno in vista delle quali è previsto il Rdc.
La citata sentenza, infatti, avrebbe ravvisato la suddetta correlazione non tanto nel «pregresso inserimento sociale del richiedente [...], né [nel]la pregressa residenza», non considerati dalla pronuncia, «ma esclusivamente [nel]la natura a tempo indeterminato del permesso» e, dunque, «solo nella prospettiva di stabilità, attestata dal fatto che il beneficiario non deve sottoporsi ogni due anni alla verifica del titolo di soggiorno».
Pertanto, in relazione ai beneficiari del Rdc, la pregressa residenza non consentirebbe di «fondare una prognosi di stanzialità, essendovi altri elementi maggiormente sintomatici in grado di attestare tale situazione»; in questo senso, secondo il giudice a quo rileverebbero l’iscrizione all’anagrafe, la titolarità di un’abitazione, la condizione di lavoratore rimasto incolpevolmente privo di occupazione e seriamente in cerca di un nuovo impiego, la condizione di genitore di figli regolarmente iscritti al ciclo scolastico.
2.2.– L’ordinanza di rimessione passa poi a esaminare la posizione dei cittadini dell’Unione europea nonché dei loro familiari, secondo la disciplina contenuta nella direttiva 2004/38/CE e nel decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri).
In particolare, essa rimarca che «i beneficiari del diritto di soggiorno e di soggiorno permanente in Italia godono della parità di trattamento con i cittadini italiani anche nell’accesso alle prestazioni di assistenza sociale», in base agli artt. 24 della direttiva e 19 del decreto legislativo citato; tra queste ricadrebbero anche «le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo», intese «a garantire, alle persone interessate, un reddito minimo di sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello Stato membro interessato» ed erogate dagli Stati membri in base a criteri oggettivi e predeterminati, indipendentemente dalla modalità di finanziamento e senza discrezionalità del soggetto erogatore, secondo quanto previsto dall’art. 70, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. In questo senso convergerebbe altresì la giurisprudenza della Corte di giustizia (sono richiamate le sentenze 11 novembre 2014, in causa C-333/13, Dano, e 2 settembre 2021, in causa C-350/20, O. D.).
Secondo l’ordinanza, da tale ricostruzione conseguirebbe che il Rdc, «essendo misur[a] rivolt[a] al contrasto alla povertà assoluta che v[iene] corrispost[a] con le modalità sopra ricordate», potrebbe rientrare nella suddetta nozione di cui al citato art. 70 «e, quindi, d[ovrebbe] essere concess[o] a tutti i cittadini UE in regime di parità di trattamento» in forza dell’art. 24 della direttiva 2004/38/CE. Peraltro, tale principio opererebbe appieno «solo [per] i soggiornanti permanenti, mentre per quelli di breve e di lungo periodo, se “inattivi”, [sarebbe] solo discrezionale», secondo quanto consentito agli Stati membri dal paragrafo 2 della citata disposizione e precisato dalla giurisprudenza europea (sono richiamate le sentenze 11 novembre 2014, in causa C-333/13, Dano, 25 febbraio 2016, in causa C-299/14, García-Nieto, e 15 settembre 2015, in causa C-67/14, Alimanovic).
Il rimettente osserva che, nel disciplinare il Rdc, il legislatore italiano, però, non si sarebbe avvalso della deroga di cui al paragrafo 2 del citato art. 24, posto che l’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, richiederebbe sotto il profilo soggettivo la mera titolarità della cittadinanza UE per la domanda del Rdc, «ponendosi così come lex specialis e permettendo a tutti i cittadini europei soggiornanti legalmente in Italia di accedere al beneficio, senza limitarlo a quelli economicamente attivi».
2.3.– Tuttavia, la previsione dell’ulteriore requisito, cumulativo, della «residenza in Italia “per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo”», avrebbe «di fatto ristretto il novero dei richiedenti al di là delle deroghe ammesse al d.lgs. 30/2007 e dalla direttiva 2004/38», con «l’effetto di escludere non solo i titolari del soggiorno di breve durata ma anche quelli titolari del soggiorno di lunga durata, non importa se attivi o inattivi, nonché un buon numero di soggiornanti permanenti se residenti da meno di dieci anni».
Pur escludendo che tale requisito, esteso anche ai cittadini italiani, integri «una discriminazione direttamente basata sulla nazionalità», come tale vietata da varie disposizioni dell’ordinamento dell’Unione, il giudice a quo rileva che esso «oper[erebbe] una discriminazione “indiretta” dato che sfavori[rebbe] i cittadini di altri Stati membri in misura maggiore rispetto ai cittadini italiani», poiché «per i primi, in gran parte nati e cresciuti al di fuori del territorio italiano, [sarebbe] oggettivamente più arduo soddisfare una condizione di questo tipo rispetto a chi, come i secondi, p[otrebbe] più facilmente maturare i periodi di residenza utili» (sono richiamate le sentenze della Corte di giustizia UE 18 luglio 2007, in causa C-212/05, Hartmann, e 16 gennaio 2003, in causa C-388/01, Commissione contro Italia).
Ad avviso del rimettente, «[i]l carattere discriminatorio emerge[rebbe] anche dal fatto che solo gli ultimi due anni devono essere continuativi», potendo i cittadini italiani più facilmente dimostrare di avere “accumulato” i primi otto anni di residenza in Italia, spesso sin dalla nascita, «rispetto ai cittadini di altri Stati UE che in buona parte si trasferiscono in Italia dopo un certo numero di anni trascorsi altrove».
2.3.1.– Il requisito della residenza decennale complessiva e biennale continuativa di cui alla disposizione censurata risulterebbe «sproporzionato perché privo di ragionevole correlabilità e, quindi, indirettamente discriminatorio», non prendendo in considerazione «il grado effettivo di integrazione di quei cittadini europei e loro familiari che, pur risiedendo in Italia da meno tempo o in maniera non continuativa negli ultimi due anni, sono, sulla base di altri concordanti elementi, sufficientemente integrati nel nostro Paese». In particolare, esso si porrebbe «in palese contrasto con l’art. 24 della direttiva 2004/38/CE, laddove afferma, in tema di prestazioni d’assistenza sociale, la parità di trattamento del cittadino europeo».
Il rimettente richiama poi, da un lato, il «Report Rdc» redatto dall’INPS nell’aprile del 2022, dal quale emergerebbe che il 4 per cento dei richiedenti il Rdc è cittadino europeo; dall’altro lato, i dati ISTAT relativi al 2020, secondo cui delle persone considerate a rischio povertà, la quota dei cittadini europei è del 24,2 per cento.
Inoltre, la relazione dell’ottobre del 2021 del Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza avrebbe segnalato, tra le maggiori criticità della misura, proprio il requisito della residenza decennale, al quale andrebbe ricondotta l’esclusione, di fatto, di un’ampia parte di stranieri.
2.3.2.– Il giudice a quo ritiene dunque che il cittadino dell’Unione avente diritto di soggiorno si troverebbe «in posizione del tutto analoga» a quella del soggiornante extracomunitario di lungo periodo, esaminata nella sentenza n. 19 del 2022: così come tale soggetto, anche il primo «pot[rebbe] perdere il diritto al soggiorno solo in casi eccezionali» e «non [sarebbe] sottopost[o] alla procedura di rinnovo della autorizzazione al soggiorno».
Ne deriverebbe che per il cittadino UE la condizione di avente diritto al soggiorno basterebbe a giustificare l’accesso al Rdc, mentre «l’ulteriore requisito di aver soggiornato per un periodo più o meno lungo in Italia» sarebbe «privo di qualsiasi rilevanza sotto il profilo delle prospettive di “stabilizzazione” e, dunque, [...] privo di ‘ragionevole correlazione’ proprio secondo i parametri indicati dalla sentenza n. 19/2022».
A ogni modo, la discriminazione indiretta non sarebbe comunque giustificata: il requisito della residenza decennale, da un lato, «persegu[irebbe] uno scopo di dubbia legittimità (aiutare i bisognosi di un inserimento sociale solo in quanto “radicati” nel territorio e non in quanto bisognosi) e, dall’altro, persegu[irebbe] detta finalità con mezzi sicuramente non “proporzionati e necessari”». Il «particolare svantaggio» gravante sui cittadini UE contrasterebbe quindi «con il divieto di discriminazione in ragione della nazionalità nell’accesso ai vantaggi sociali ex art. 7 par. 2 del Regolamento e anche con il diritto alla parità di trattamento di cui all’art. 24, direttiva 2004/38».
Peraltro, l’eventuale esigenza di assicurare il radicamento territoriale sarebbe garantita nella specie dalla previsione dell’obbligo di risiedere stabilmente nel territorio italiano «per tutta la durata del beneficio» (art. 2, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito).
2.4.– In conclusione, il giudice a quo ritiene, in via principale, che l’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, violi gli artt. 3, 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 CDFUE, all’art. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE, «nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba essere “residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata del beneficio, in modo continuativo”».
2.4.1.– Il rimettente prospetta anche una questione di legittimità costituzionale in via subordinata, ove si ritenga che, «nella specie, attesa la natura “mista” del beneficio, possa dirsi legittima l’imposizione di un requisito di residenza pregressa»: quest’ultimo, di durata decennale, sarebbe infatti sproporzionato e irragionevole, dovendosi invece ritenere, in generale, che «il possesso di un titolo di soggiorno (quantomeno) permanente sia sufficiente» ad attestare la stabilità della presenza sul territorio.
Pertanto, sulla base della giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 63 del 2021 e i precedenti ivi richiamati), nell’ordinamento emergerebbero chiari «punti di riferimento» nel senso che, «in relazione ai cittadini UE, possa essere più che sufficiente (per garantire l’esigenza di una prospettiva di stabilità dello straniero) la pregressa residenza quinquennale»: il d.lgs. n. 30 del 2007, in attuazione della direttiva 2004/38/CE, prevederebbe infatti che «[i]l cittadino dell’Unione che ha soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nel territorio nazionale ha diritto al soggiorno permanente [...]».
La pretesa di un ulteriore requisito di lunga residenza, da parte della disposizione censurata, non sarebbe giustificata né ragionevole, ma solamente finalizzata a ridurre la platea degli stranieri che possono beneficiare del Rdc. Da ciò conseguirebbe che la stessa disposizione del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, violerebbe i parametri già illustrati «nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba essere “residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata del beneficio, in modo continuativo”, anziché prevedere che il beneficiario del reddito di cittadinanza che sia cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea debba essere “residente in Italia per almeno 5 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo”».
2.4.2.– Infine, in ulteriore subordine, ad avviso del rimettente sarebbe «più che sufficiente, per garantire la prospettiva della stabilità, che il beneficiario sia residente in modo continuativo negli ultimi due anni»; poiché il cittadino UE, dopo i primi tre mesi di soggiorno potrebbe chiedere l’iscrizione all’anagrafe se si trovi in determinate condizioni, la residenza biennale continuativa rappresenterebbe senz’altro un elemento sintomatico del radicamento territoriale di tale straniero, che risulterebbe meritevole di essere assoggettato al percorso di integrazione sociale prevista dal Rdc. Il citato art. 2 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, violerebbe i già richiamati parametri «nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba essere “residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata del beneficio, in modo continuativo”, anziché prevedere che il beneficiario del reddito di cittadinanza che sia cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea debba essere “residente in Italia negli ultimi due anni, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo”».
La questione di legittimità costituzionale così sollevata sarebbe rilevante in quanto tre ricorrenti, «al momento della presentazione della domanda, risultavano residenti in Italia da meno di 5 anni».
3.– Con atto depositato il 12 ottobre 2022 si è costituito nel presente giudizio l’INPS, chiedendo di dichiarare inammissibili e comunque non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
Queste sarebbero inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza, sia perché l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata «non condurrebbe all’effetto [...] dell’accoglimento della domanda della parte ricorrente», in mancanza dell’accertamento da parte del giudice del possesso degli altri requisiti previsti dalla disciplina sul Rdc in capo ai richiedenti; sia in quanto il giudice a quo avrebbe qualificato il ricorso introduttivo come un’azione contro la discriminazione ai sensi degli artt. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 e 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, anziché dichiararlo inammissibile, come eccepito dall’Istituto. Ad avviso della parte, infatti, nel caso in esame mancherebbero i presupposti legittimanti la speciale procedura di cui al citato art. 28, consentita solo a fronte di un comportamento discriminatorio, mentre nella fattispecie la prestazione reclamata sarebbe stata negata legittimamente, difettando in capo al richiedente i necessari requisiti previsti dalla legge. L’eventuale accoglimento delle questioni, dunque, «non potrebbe avere l’effetto di rendere antigiuridico un “comportamento” che tale non era» quando è stato realizzato, e pertanto non sarebbe utile «nel processo principale e per la definizione dello stesso».
3.1.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate sarebbero a ogni modo non fondate.
Il Rdc non sarebbe soltanto un «beneficio economico, bensì un più ampio progetto personalizzato», essendo inserito in una cornice costituita sia da sostegni al nucleo familiare, sia da impegni dello stesso nucleo.
L’obiettivo di inclusione attiva e di affrancamento mirato dalla povertà, cui è finalizzato il Rdc, deporrebbe quindi nel senso di «una prestazione volta a superare le criticità in cui è incorso il nucleo familiare, già radicato stabilmente sul territorio italiano, e non già di uno strumento per creare il radicamento sociale dei nuclei familiari legati – in modo stabile – al territorio e che versano in condizione di difficoltà economica», come riterrebbe il giudice a quo.
Nella specie, non sarebbe quindi pertinente il richiamo alla giurisprudenza costituzionale formatasi sui requisiti di accesso a prestazioni essenziali.
Infatti, nell’ambito della ampia e complessa definizione del Rdc, «la sua porzione più evidente sembra restare quella che ne registra la natura propulsiva rispetto al mondo del lavoro». Oltre all’obiettivo di «mobilitare i beneficiari alla ricerca di una nuova attività», finalizzata al conseguimento della loro autonomia economica, sarebbe significativo, da un lato, che il diritto al Rdc non sarebbe «strettamente legato alla situazione di completa inabilità al lavoro», ciò che confermerebbe «uno scopo non rivolto, in principalità, a sostenere i poveri»; dall’altro lato, che sarebbero previsti sgravi fiscali in favore delle aziende private che assumono i beneficiari del Rdc, a conferma della natura di misura attiva per il lavoro.
3.2.– La difesa dell’INPS richiama poi la sentenza n. 19 del 2022 che, «pur non esprimendosi formalmente sul numero di anni (di soggiorno o di residenza) ritenuti sufficienti o necessari» per l’accesso al Rdc, avrebbe affermato il principio sostanziale secondo cui non sarebbe irragionevole una norma che leghi il riconoscimento di una prestazione, quale il Rdc, al “radicamento territoriale” del soggetto beneficiario e della sua famiglia.
In definitiva, nell’ambito delle prestazioni non direttamente o esclusivamente rivolte a soddisfare bisogni primari dell’individuo, il legislatore ben potrebbe riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti in Italia, il cui status costituirebbe di per sé un adeguato nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l’erogazione della provvidenza. La Corte rimettente avrebbe dunque equiparato il Rdc a situazioni del tutto eterogenee.
L’assenza di un vulnus all’art. 3 Cost. emergerebbe anche dal fatto che il requisito della residenza decennale è previsto sia per i cittadini italiani, sia per quelli comunitari ed extra comunitari, mentre la differenza operata dal legislatore sarebbe ragionevolmente fondata sul radicamento territoriale del soggetto nel territorio nazionale, a prescindere dalla sua cittadinanza.
3.3.– Quanto alle censure riferite agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione alle evocate disposizioni del diritto dell’Unione, la difesa dell’INPS le ritiene generiche e prive di fondamento.
Sotto un primo profilo, la ratio e la finalità del Rdc porrebbero questa prestazione «al di fuori dei settori di sicurezza sociale, in senso stretto intesi, tutelati dal diritto dell’Unione», rendendo ragionevole la scelta del legislatore di attribuirla in presenza del requisito della residenza, come connotato.
D’altro canto, la parte pubblica richiama la sentenza n. 50 del 2019 con cui questa Corte avrebbe ritenuto non irragionevole, né discriminatoria, la previsione del requisito della titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo con riferimento all’assegno sociale, prestazione prevista dopo il raggiungimento di un’età quantomeno prossima a quella di uscita dal mercato del lavoro. Ancor più coerente con le motivazioni di tale pronuncia apparirebbe la legittimità della limitazione all’accesso di una prestazione come il Rdc.
3.3.1.– Non fondata risulterebbe la censura formulata in relazione alle disposizioni della CDFUE, stante la già ricordata estraneità del Rdc ai settori di “sicurezza sociale” definiti dal diritto europeo nonché la espressa previsione di cui all’art. 51 della medesima Carta, secondo cui questa si applica esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione e non ne estende l’applicazione al di là delle competenze dell’Unione stessa, né, tantomeno, ne introduce di nuove.
In aggiunta, l’art. 34 della Carta non sarebbe nella specie applicabile, dal momento che la materia del contrasto alla povertà rientra di per sé nella competenza degli Stati membri e il riferimento, al paragrafo 3, al «fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà» non potrebbe comportare, come detto, l’attribuzione all’Unione della competenza in questo specifico settore.
Andrebbe infine disattesa anche la doglianza relativa all’asserito contrasto con l’art. 24, paragrafo 2, della direttiva 2004/38/CE, in assenza di una discriminazione indiretta in danno dei cittadini UE.
Ricordando che la prestazione, non a caso denominata «di cittadinanza», presupporrebbe uno stabile collegamento del richiedente con il territorio italiano e il suo mercato del lavoro, la difesa dell’INPS richiama il considerando n. 10 della citata direttiva, che inviterebbe gli Stati membri a «evitare che coloro che esercitano il loro diritto di soggiorno diventino un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante». Pertanto, potendo gli Stati membri subordinare a date condizioni il diritto al soggiorno per un periodo superiore a tre mesi, il legislatore italiano avrebbe inserito tra tali condizioni «anche il requisito della residenza», come declinata dalla disposizione censurata; ciò che comporterebbe sia la verifica della sussistenza di un effettivo legame tra la persona e lo Stato italiano, sia un contenimento della spesa pubblica correlata alla concessione del Rdc, secondo un principio affermato dalla Corte di giustizia (è richiamata la sentenza 11 novembre 2014, in causa C-333/13, Dano).
4.– Con atto depositato il 18 ottobre 2022 si sono costituite cinque delle sei parti private appellanti nel giudizio principale, chiedendo, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), di dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, nei termini di cui alla questione sollevata in via principale, oppure di quelle che l’ordinanza ha formulato in via di ulteriore subordine.
La difesa delle parti private sottolinea che i parametri interposti evocati unitamente all’art. 117, primo comma, Cost. conferirebbero loro, nella condizione di cittadine dell’Unione europea, uno specifico diritto di uguaglianza che sarebbe «“più forte” e più assoluto di quello riconosciuto a tutti i consociati dall’art. 3 Cost.». La violazione dei vincoli di parità di trattamento stabiliti dagli artt. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE si realizzerebbe mediante una discriminazione indiretta, ossia con l’utilizzo di un criterio apparentemente neutro, ma destinato a porre i cittadini di altri Stati membri in condizione di particolare svantaggio. I principi del diritto antidiscriminatorio richiederebbero di verificare la finalità, l’appropriatezza e la necessità dell’applicazione di tale criterio e imporrebbero quindi «un controllo ancora più stringente di quello derivante dal generale principio di uguaglianza».
4.1.– Le parti concordano con il giudice a quo nel ritenere che le affermazioni della sentenza n. 19 del 2022 non contrastino con i dubbi di legittimità costituzionale sollevati: nella specie, sul presupposto che «il cittadino dell’Unione [abbia il] diritto di soggiornare in Italia a tempo indeterminato», si dovrebbe verificare la ragionevole correlabilità del requisito rispetto alla finalità perseguita dalla prestazione.
In particolare, nel giudizio a quo rileverebbe la eventuale illegittimità costituzionale della previsione della residenza per gli otto anni ulteriori rispetto ai due immediatamente precedenti l’erogazione del Rdc, dovendosi rilevare che il termine di due anni sarebbe «sempre stato considerato dal legislatore più che sufficiente per individuare il giusto equilibrio tra passato e futuro, cioè tra pregressa residenza e probabilità di stabilità», come previsto per il reddito d’inclusione, per il reddito di emergenza, per l’assegno unico universale. Nemmeno potrebbe valere il richiamo all’assegno sociale, ossia «l’unico caso di utilizzo del medesimo parametro decennale», trattandosi di un «corrispettivo solidaristico di quanto doverosamente offerto dallo straniero al progresso materiale o spirituale della società» (è citata la sentenza n. 50 del 2019 di questa Corte), mentre nel Rdc il contributo del beneficiario sarebbe «offerto non prima ma nel corso della prestazione».
In sostanza, «il requisito non regge[rebbe] il controllo di ragionevolezza ex art. 3 Cost.» perché non servirebbe a garantire il “pregresso contributo” del beneficiario, dal momento che il suo diritto nascerebbe proprio dal trovarsi «“ai margini”» e in stato di bisogno. Nemmeno servirebbe a garantire la permanenza futura, in alcun modo assicurata da quella pregressa, tanto più se frammentata e risalente nel tempo.
4.2.– Con riferimento alle censure di violazione, sotto il profilo della discriminazione indiretta, degli specifici obblighi di parità di trattamento previsti dalle disposizioni evocate a parametri interposti, la difesa delle parti private ritiene non decisive le considerazioni svolte dall’ordinanza di rimessione in ordine alla facoltà per gli Stati membri, prevista dall’art. 24, paragrafo 2, della direttiva 2004/38/CE, di limitare il riconoscimento delle prestazioni di assistenza sociale ai cittadini dell’Unione non titolari del diritto di soggiorno permanente.
Da un lato, tre delle originarie ricorrenti godrebbero in ogni caso del diritto di soggiorno permanente; dall’altro lato, nel giudizio principale era stata dedotta la ricorrenza, per altre parti ricorrenti, di specifiche situazioni che fonderebbero il diritto al soggiorno e il conseguente diritto alla parità di trattamento.
Sotto un altro profilo, la difesa riconosce che la richiamata affermazione del rimettente discenderebbe dalla qualificazione del Rdc nell’ambito delle prestazioni di assistenza sociale di cui all’art. 70 del regolamento CE n. 883/2004, che «potrebbe essere dubbia per vari motivi, anche connessi alla peculiare funzione dell’istituto». Tuttavia, non sarebbe decisivo includere il Rdc in tale ambito, perché, da un lato, l’art. 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE non conterrebbe alcun riferimento al citato art. 70; dall’altro lato, il diritto alla parità di trattamento non sarebbe limitato ai titolari del diritto di soggiorno permanente.
A quest’ultimo riguardo, potrebbe darsi che taluno sia titolare del mero diritto di soggiorno non permanente, ma ciononostante abbia la condizione di lavoratore, di cui all’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, o di “ex lavoratore”, di cui al paragrafo 3 della stessa disposizione, e dunque non si trovi nella condizione di cui all’art. 24, paragrafo 2, della citata direttiva.
Nella specie, precisato che «nessuna delle parti private ha mai perso la qualità di lavoratore ai sensi del citato art. 7 par. 3», la difesa rileva che la questione di legittimità costituzionale dovrebbe riferirsi al parametro interposto effettivamente evocato, ossia il paragrafo 1 dell’art. 24 della direttiva 2004/38/CE, avuto riguardo «a cittadini dell’Unione che hanno diritto al soggiorno in qualità di lavoratori», ai sensi dei paragrafi 1 e 3 del precedente art. 7, esulando dal thema decidendum «ogni altra questione interpretativa della direttiva, ivi compresa quella dei cd “comunitari inattivi”».
4.3.– Da ultimo, secondo le parti private il requisito di residenza decennale violerebbe il diritto alla parità nell’attribuzione di diritti sociali o di vantaggi sociali, riconosciuto dagli artt. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE.
5.– Con atto depositato il 18 ottobre 2022 è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale.
Queste sarebbero inammissibili anzitutto perché non sussisterebbero, in realtà, «gli estremi della “doppia pregiudizialità”»; nella specie, la prospettata violazione delle norme europee non si sovrapporrebbe, quanto piuttosto si affiancherebbe, al denunciato contrasto con l’art. 3 Cost. In relazione alle prime, il giudice a quo avrebbe quindi dovuto proporre rinvio pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Sotto un ulteriore profilo, l’inammissibilità è eccepita «con riferimento alle proposte subordinate di carattere additivo». Infatti, per la specifica prestazione del Rdc, il legislatore avrebbe seguito la logica «di prevedere requisiti personali ad hoc», ossia la residenza decennale e quella biennale ininterrotta al momento della domanda, senza considerare automaticamente estensibili quelli di residenza previsti per l’attribuzione dello status di cittadino italiano, di cittadino dell’Unione soggiornante permanente, o di cittadino di un Paese terzo lungo soggiornante.
5.1.– Nel merito, non si potrebbe ritenere sussistente la discriminazione indiretta a favore dei cittadini italiani sul solo argomento che questi potrebbero maturare il requisito più facilmente rispetto ai cittadini di altri Stati membri; se così fosse, per il legislatore interno non sarebbe mai possibile prevedere requisiti di residenza, neppure stabilendoli anche per i propri cittadini.
Dal contesto normativo in cui si inserisce il requisito in esame emergerebbe che la residenza decennale, per quanto dia rilievo a un fatto riferito al passato, sarebbe «di tale consistenza da giustificare senza alcun dubbio la ragionevole previsione che l’interessato continuerà a protrarla anche in futuro», alla luce altresì del concorrente requisito della residenza biennale ininterrotta prima della domanda.
In coerenza con la natura e i caratteri del Rdc, infatti, in base al criterio in esame sono inclusi i cittadini di altri Stati membri che mostrino una obiettiva tendenza a stabilirsi nella nostra società; e restano esclusi i nazionali che mostrino la tendenza a non legarsi stabilmente con essa.
Pertanto, la previsione di un criterio uniforme e consistente risulterebbe «per definizione non discriminatoria, proprio perché [sarebbe] la medesima per tutti»; il riferimento al requisito della residenza sarebbe anche di semplice accertamento e applicazione.
Inoltre, la discrezionalità degli Stati membri sarebbe nella specie piena, poiché nessuna norma di diritto dell’Unione, in particolare quelle evocate dal giudice a quo, disciplinerebbe misure come il Rdc; d’altro canto, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia sarebbe legittimo che uno Stato membro conceda una “prestazione previdenziale” «solo dopo che è stato possibile accertare l’esistenza di un nesso reale fra chi cerca lavoro e il mercato del lavoro di tale Stato» (è richiamata la sentenza 23 marzo 2004, in causa C-138/02, Collins).
A maggior ragione ciò varrebbe nel caso del Rdc, essendo questo diverso dalla prestazione di cui alla citata sentenza.
Inoltre, il requisito della residenza prolungata prescinderebbe del tutto dalla cittadinanza e sarebbe obiettivamente collegato alla necessità di accertare il suddetto nesso, trattandosi di una prestazione particolarmente complessa dal punto di vista amministrativo e comportante l’erogazione di rilevanti somme a carico del bilancio dello Stato. Sarebbe quindi legittimo che questo riservi una misura del genere «soltanto a nuclei familiari di cui sia certo il radicamento».
5.2.– Peraltro, le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. sarebbero comunque non fondate per l’assorbente considerazione che la peculiare natura del Rdc escluderebbe, contrariamente a quanto osservato dal giudice a quo, «che la materia appartenga al diritto dell’Unione».
Infatti, l’art. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE limiterebbe l’operatività della parità di trattamento a ciò che rientri «nel campo di applicazione del trattato», mentre una prestazione come il Rdc sarebbe integralmente compresa nella competenza e nella discrezionalità degli Stati membri e, comunque, esulerebbe da quelle qualificabili come di sicurezza sociale o di assistenza sociale contemplate dal regolamento CE n. 883/2004.
Nemmeno rileverebbero gli artt. 21 e 34 CFDUE, poiché il successivo art. 51, paragrafo 2, escluderebbe che la Carta possa estendere il campo di applicazione dei Trattati.
D’altro canto, richiamando ampi passaggi della sentenza n. 19 del 2022 di questa Corte, l’Avvocatura ribadisce l’irrilevanza del diritto dell’Unione e la conseguente non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale basate sugli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., osservando che il Rdc non costituirebbe una misura di protezione o assistenza sociale, volta direttamente e semplicemente a erogare denaro a persone o nuclei familiari indigenti o colpiti dalla disoccupazione. Oltre a essere compatibile e cumulabile con le indennità di disoccupazione o con le misure pecuniarie di sostegno ai carichi familiari, il Rdc sarebbe una misura complessa, nella quale la componente della erogazione pecuniaria sarebbe solo strumentale alla stipula e alla esecuzione delle misure personalizzate costituite dal patto per il lavoro o dal patto per l’inclusione sociale, la cui finalità è quella di risolvere le problematiche che il nucleo familiare, nella sua interezza, presenta.
Si tratterebbe dunque di una misura totalmente nella competenza degli Stati membri, relativa a un campo di azione nel quale, finora, non risulterebbe che l’Unione abbia esercitato competenze. In ogni caso, oltre a quanto già rilevato, andrebbe esclusa l’operatività dell’art. 34, paragrafo 3, CFDUE poiché il fine ivi enunciato di «lottare contro l’esclusione sociale e la povertà» risulterebbe concretizzato solo come diritto all’assistenza sociale e abitativa, riferito a misure ben diverse e più circoscritte rispetto al Rdc.
6.– Con decreto presidenziale del 25 gennaio 2023 sono state ammesse le opinioni scritte depositate dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL), dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) aps, dalla Caritas ambrosiana e dalla Comunità di Sant’Egidio Milano ONLUS.
Le opinioni della CGIL e dell’ASGI richiamano dati statistici che denoterebbero, all’interno della popolazione residente, una incidenza proporzionalmente maggiore della condizione di povertà assoluta per gli stranieri rispetto agli italiani.
In questo senso, la previsione del requisito di residenza decennale per l’accesso al Rdc avrebbe determinato una bassa copertura di tale categoria di destinatari.
Considerazioni analoghe, basate sull’attività sociale direttamente svolta, che evidenzia la gravità delle situazioni di povertà esistenti, sono portate dalle opinioni della Caritas Ambrosiana e dalla Comunità di Sant’Egidio Milano; quest’ultima aggiunge anche informazioni relative ad alcune delle parti private, assistite dai suoi operatori.
7.– Tutte le parti e l’interveniente hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza del 21 maggio 2024 nonché, a seguito del rinvio a nuovo ruolo della trattazione del giudizio, in vista della successiva udienza fissata per il 12 febbraio 2025.
7.1.– Con la prima memoria l’INPS segnala che la normativa disegnata dal legislatore sarebbe «tutt’uno con la compatibilità finanziaria della misura di cui trattasi» e richiama la nota 8 maggio 2024 redatta dalle competenti strutture centrali dell’Istituto, allegata alla memoria, «per rappresentare le conseguenze finanziarie derivanti dall’interpretazione propugnata dal Giudice rimettente».
In particolare, ove non fosse stato previsto il requisito di residenza decennale, «il maggior onere per la finanza pubblica, calcolato sull’intero periodo in cui il Reddito e la Pensione di cittadinanza è stato in vigore (Aprile 2019 - Dicembre 2023) è stimato in complessivi 3.088 milioni di euro».
L’Istituto evidenzia altresì di avere respinto o revocato 106 mila domande di reddito di cittadinanza «per mancanza del requisito decennale in parola» e che «ad oggi sono ancora pendenti poco più di 600 controversie vertenti sulla medesima questione». Con riferimento alla intera platea delle suddette domande, una pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione in esame comporterebbe oneri finanziari per circa 850 milioni di euro.
7.2.– La prima memoria delle parti private dà conto, anzitutto, di alcune vicende successive alla ordinanza di rimessione, segnalando l’avvio da parte della Commissione europea, nel febbraio del 2023, di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia riferita al requisito oggetto del giudizio di legittimità costituzionale sulla base di una posizione che, a loro avviso, sarebbe «identica a quella della Corte rimettente».
La difesa delle parti private aggiunge che il legislatore, «[p]robabilmente anche in relazione» a tale procedura, avrebbe ridotto il periodo di pregressa residenza allorché ha sostituito il reddito di cittadinanza con l’assegno di inclusione, determinandolo in cinque anni, di cui gli ultimi due continuativi (ai sensi dell’art. 2, comma 2, lettera a, numero 2, del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, recante «Misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro», convertito, con modificazioni, nella legge 3 luglio 2023, n. 85). Si tratterebbe, pertanto, «di un riconoscimento che il precedente limite era sproporzionato».
È segnalata altresì la pendenza davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea di un giudizio (cause riunite C-112/22 e C-223/22) avente a oggetto l’eventuale contrasto tra la stessa disposizione censurata e l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. Al riguardo, la memoria richiama le conclusioni presentate dall’avvocato generale, nel senso della sussistenza del suddetto contrasto, ritenendole nella specie rilevanti, in disparte la diversità della disposizione del diritto dell’Unione di riferimento.
La difesa delle parti private ritiene poi erronea la tesi dell’Avvocatura generale dello Stato secondo la quale il Rdc rientrerebbe integralmente nella competenza e nella discrezionalità degli Stati membri. In senso contrario: a) rileverebbe in particolare l’art. 24 della direttiva 2004/38/CE, che, prevedendo al paragrafo 2 ipotesi in cui gli Stati membri possono limitare il riconoscimento di prestazioni di assistenza sociale, assumerebbe che queste siano normalmente attribuite, in forza del principio espresso al paragrafo 1; b) tra le competenze dell’Unione vi sarebbero «strumenti, se pure di soft law», negli ambiti della politica sociale e del contrasto alla povertà e all’esclusione; c) in ogni caso, rileverebbero le previsioni che «autorizza[no] l’Unione a regolare i vincoli di parità di trattamento», ossia gli artt. 18, 21 e 45 TFUE.
Peraltro, per la soluzione delle questioni riguardanti il diritto dell’Unione è suggerita la possibilità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, dal momento che sia il giudizio in precedenza richiamato, sia l’altro, in quella stessa sede pendente (causa C-747/22, K. H.), non riguarderebbero le «norme dell’Unione qui rilevanti».
Da ultimo, la difesa delle parti private rileva che i dati finanziari contenuti nel documento depositato dall’INPS (ricevuto in anticipo dalla difesa dell’Istituto), da un lato, non distinguerebbero i cittadini UE da quelli dei Paesi terzi; dall’altro, «pecc[herebbero] di estrema approssimazione per eccesso». In particolare, la cifra di 3.088 milioni di euro non sarebbe pertinente, «essendo evidente che chi non ha proposto domanda non potrebbe ora farlo per anni passati», se non altro perché l’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), necessario ai fini della domanda, «non viene rilasciato per anni pregressi».
A ogni modo, per un verso, gli oneri finanziari non potrebbero far venire meno gli obblighi di parità di trattamento sanciti dal diritto dell’Unione; per altro verso, un ente pubblico dovrebbe considerare, oltre al tema dei costi, che la preclusione del sostegno contro la povertà «a causa di un requisito (in ipotesi) contrario alla Costituzione» sarebbe una situazione tale da «meritare certamente un rimedio effettivo» per le persone coinvolte.
7.3.– La memoria dell’Avvocatura generale dello Stato, in via preliminare, chiede che questa Corte «dichiari la sopravvenuta irrilevanza della questione», oppure, in subordine, restituisca gli atti al giudice a quo «per nuova valutazione della rilevanza». In questo senso deporrebbero: a) la abrogazione, a decorrere dal 1° gennaio 2024, della disciplina complessiva del reddito di cittadinanza, interamente sostituita da quella dell’assegno di inclusione; b) la previsione, per l’accesso alla nuova prestazione, di un requisito di residenza limitato a cinque anni, di cui gli ultimi due continuativi; c) la previsione in base alla quale, nell’anno 2023, la misura del Rdc «è riconosciuta nel limite massimo di sette mensilità e comunque non oltre il 31 dicembre 2023» (art. 1, comma 313, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025»).
Secondo l’Avvocatura, si tratterebbe di sopravvenienze normative idonee a influire sull’esito del giudizio principale, dovendo «condurre al rigetto della richiesta di riattivazione delle erogazioni» sospese per difetto del requisito di residenza, «non essendo ormai consentiti riconoscimenti ex novo del diritto al reddito di cittadinanza né ulteriori erogazioni dello stesso».
Nel merito, sostiene la difesa statale, non andrebbero prese in considerazione le conclusioni dell’Avvocato generale, nelle richiamate cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D. dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che recepirebbero la qualificazione del Rdc fornita dal Tribunale ordinario di Napoli, giudice del rinvio, «in modo erroneo rispetto a quanto chiarito» da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022.
8.– Con ulteriore memoria depositata in data 20 gennaio 2025 l’INPS dà conto della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., che ha ritenuto la disposizione censurata – e quella che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa al requisito di residenza – in contrasto con il principio di parità di trattamento di cui all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE.
La difesa dell’Istituto, tuttavia, esclude che le valutazioni contenute in questa pronuncia possano essere «automaticamente trasposte al presente giudizio», avendo la Corte di giustizia fondato il proprio convincimento sulla base della qualificazione del Rdc quale prestazione di assistenza sociale, erroneamente operata dal giudice del rinvio.
Inoltre, la previsione del requisito selettivo del periodo di residenza sarebbe giustificata dalla natura del beneficio e dalla esigenza di assicurarne la sostenibilità finanziaria, rispettando così l’art. 81 Cost.; in questo senso, una pronuncia di questa Corte che si ponesse «in scia» di quella della Corte di giustizia «potrebbe rischiare di comportare effetti finanziari tali da incidere in misura estremamente rilevante sul bilancio dello Stato».
8.1.– La difesa dell’Istituto prospetta, infine, come già eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, la manifesta irrilevanza sopravvenuta delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.
La struttura del Rdc sarebbe infatti caratterizzata «dalla connessione inscindibile tra erogazione del beneficio economico e misure di reinserimento sociale e lavorativo», che non è più possibile realizzare dal 1° gennaio 2024, essendo venute meno tutte le strutture, gli organismi preposti, così come anche le procedure amministrative finalizzate al reinserimento lavorativo e sociale del beneficiario, a sottoscrivere il Patto per il lavoro ed a individuare i percorsi di formazione idonei. Pertanto, se si ritenesse, comunque, di procedere all’astratto riconoscimento giudiziario del diritto delle parti ricorrenti «si darebbe luogo ad un mutamento della natura giuridica della prestazione, che, da misura di inclusione sociale e lavorativa si trasformerebbe in mero sussidio economico sganciato dalla finalità propria della disciplina legislativa in materia».
9.– Le parti private, con ulteriore memoria depositata in data 22 gennaio 2025, ritengono che, alla luce della richiamata sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, «anche per i cittadini dell’Unione» si dovrebbe ritenere non più applicabile il requisito di residenza stabilito dalla disposizione censurata.
Al riguardo, verrebbe in rilievo il tema del «divieto di discriminazioni alla rovescia», esaminato dalla sentenza di questa Corte n. 443 del 1997 e, oggi, sancito dall’art. 53, comma 1, della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea), ai sensi del quale «[n]ei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini dell’Unione europea».
Ad avviso delle parti private il fatto che la pronuncia della Corte di giustizia riguardi il trattamento del cittadino di un Paese terzo non varrebbe a «condurre a esiti diversi», che, per di più, sarebbero tali da privare di significato la stessa cittadinanza dell’Unione.
Inoltre, il profilo della discriminazione alla rovescia, costituendo «riflesso» sia dell’art. 3 Cost., sia degli artt. 21 e 34 CDFUE, non potrebbe dirsi estraneo ai parametri evocati dall’ordinanza di rimessione.
9.1.– Secondo le parti private, comunque, anche nel presente giudizio andrebbe seguito lo stesso percorso offerto dalla recente sentenza della Corte di giustizia; in particolare, dovendo l’acquisizione della cittadinanza dell’Unione essere considerata sufficiente per accedere alla parità di trattamento – al pari dell’acquisizione del permesso di lungo soggiorno, per i cittadini dei Paesi terzi, valutata dalla citata pronuncia – il legislatore nazionale non potrebbe aggiungere requisiti che rendano anche indirettamente più difficoltoso l’accesso a tale parità.
9.2.– Nel senso indicato non sarebbe di ostacolo la qualificazione data al Rdc dalla giurisprudenza costituzionale, che non potrebbe «comportare l’esclusione dalla nozione di “assistenza sociale” di tutte le prestazioni “condizionali”», dovendosi, pertanto, chiedere «se tale aiuto, comunque qualificato, sia soggetto a qualche vincolo di parità di trattamento».
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Milano, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in riferimento agli artt. 3, 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 CDFUE, 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE.
Tra i requisiti stabiliti per il riconoscimento del reddito di cittadinanza, la disposizione censurata prevedeva che il beneficiario dovesse essere «residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».
Secondo il giudice a quo – le cui censure non toccano affatto la previsione che la residenza permanga durante l’erogazione del beneficio – il suddetto requisito di residenza pregressa violerebbe l’art. 3 Cost., non essendo ragionevolmente correlabile alla ratio della prestazione in esame e determinando, inoltre, una discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea.
La stessa previsione si porrebbe in contrasto anche con la parità di trattamento e con il divieto di discriminazione previsti dalle evocate disposizioni del diritto dell’Unione.
2.– La disciplina del Rdc, compresa la disposizione censurata, è stata abrogata a decorrere dal 1° gennaio 2024, ai sensi di quanto disposto dall’art. 1, comma 318, della legge n. 197 del 2022.
Tale sopravvenienza normativa – eccepiscono in via preliminare l’Avvocatura generale dello Stato e l’INPS nelle memorie depositate – determinerebbe la sopravvenuta irrilevanza della questione.
Ciò in quanto, a seguito dall’abrogazione del Rdc, per effetto del venir meno delle strutture e delle procedure finalizzate al reinserimento lavorativo e sociale del beneficiario, non sarebbe più possibile né sottoscrivere il Patto per il lavoro, né individuare i percorsi di formazione idonei; pertanto procedendo all’astratto riconoscimento giudiziario del diritto delle parti ricorrenti, si darebbe luogo ad un mutamento della natura giuridica della prestazione, che, da misura di inclusione sociale e lavorativa si trasformerebbe in mero sussidio economico sganciato dalla finalità propria della disciplina legislativa in materia.
Le eccezioni non sono fondate.
L’intervenuta abrogazione della disposizione censurata non incide, infatti, sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, la cui ammissibilità, sotto questo profilo, permane intatta, dovendo il giudice a quo pronunciarsi sulla domanda di accertamento del carattere discriminatorio della sospensione della erogazione del Rdc nei confronti delle parti ricorrenti, realizzata dall’INPS in attuazione della previsione indubbiata nel periodo in cui questa era in vigore.
Altrettanto è a dirsi con riferimento all’ulteriore domanda, spiegata nel giudizio principale, di condanna dell’INPS al risarcimento del danno per la suddetta discriminazione. Tale pronuncia non costituirebbe un riconoscimento ex novo del beneficio ormai cessato, come sostenuto dall’Avvocatura e dall’INPS, rappresentando piuttosto un rimedio per una condotta posta in essere nella vigenza della disposizione censurata, fermo restando per il giudice il compito di individuare i criteri di quantificazione del danno applicabili alla fattispecie.
3.– L’INPS ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sotto due profili.
3.1.– Anzitutto, il giudice a quo non avrebbe accertato la sussistenza degli altri requisiti previsti dalla disciplina del Rdc in capo ai soggetti richiedenti.
L’eccezione non è fondata, avendo il giudice rimettente affermato che il riconoscimento del Rdc in capo alle parti ricorrenti dipenderebbe «solamente dal possesso o meno del requisito della lunga residenza»; si tratta di una motivazione sufficiente ai fini della rilevanza, «tenuto conto anche del carattere “esterno” del controllo operato da questa Corte sul punto» (sentenza n. 19 del 2022; nello stesso senso, sentenza n. 34 del 2022).
3.2.– Secondo l’Istituto, inoltre, il giudice a quo avrebbe qualificato il ricorso introduttivo come un’azione contro la discriminazione, senza che, tuttavia, ne ricorressero le condizioni, essendosi l’INPS limitata a riscontrare che le parti richiedenti non possedevano i requisiti previsti dalla legge. Pertanto, la soluzione del dubbio di costituzionalità non sarebbe utile, non potendo rendere antigiuridico un comportamento che tale non era quando è stato realizzato.
Neppure tale eccezione è fondata: più volte questa Corte ha deciso nel merito «questioni originate da azioni anti-discriminazione proposte contro atti applicativi di una norma legislativa (sentenze n. 44 del 2020, n. 166 del 2018 e n. 119 del 2015)» (sentenza n. 19 del 2022).
4.– Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato le questioni di legittimità costituzionale sollevate sarebbero inammissibili perché non sussisterebbero, in realtà, «gli estremi della “doppia pregiudizialità”»: nella specie, la prospettata violazione delle disposizioni del diritto dell’Unione – gli artt. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE, considerati attuativi degli artt. 21 e 34 CDFUE – non si sovrapporrebbe, quanto piuttosto si affiancherebbe, al denunciato contrasto con l’art. 3 Cost. In relazione alle prime, il giudice a quo avrebbe quindi dovuto proporre rinvio pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
4.1.– La prospettazione della difesa statale non può essere condivisa.
Al riguardo il giudice rimettente, nell’introdurre i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, giustifica esplicitamente la scelta di proporre l’incidente di costituzionalità «in considerazione del fatto che la norma interna sopra citata vìola non solo principi eurounitari, ma anche principi costituzionali», e richiama «l’ormai costante orientamento sulla doppia pregiudizialità» di questa Corte, a partire dalla sentenza n. 269 del 2017, di cui riporta ampi passaggi.
Soprattutto, nel motivare la non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo articola i profili della discriminazione indiretta che porterebbero la disposizione interna a violare, in stretta connessione, da un lato, il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. e, dall’altro, quello di non discriminazione espresso dall’art. 21 della Carta, nella specie attuato dal richiamato art. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, secondo cui, «ogni cittadino dell’Unione che risiede», in base alla direttiva stessa, «nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato».
Non vi è dubbio che, ravvisando una discriminazione avente a oggetto l’esercizio del diritto di soggiorno in base alla citata direttiva e, al contempo, una violazione del «principio di eguaglianza, che ha valore fondante nel disegno costituzionale» (sentenza n. 1 del 2025), la questione sollevata assume un “tono costituzionale”. Pertanto, una volta che il giudice abbia individuato l’incidente di costituzionalità come «rimedio più appropriato, ponderando le peculiarità della vicenda sottoposta al suo esame» (ancora sentenza n. 1 del 2025) – sulla base, nella specie, della evidente idoneità di una pronuncia ad efficacia erga omnes a rimuovere in radice la discriminazione – questa Corte potrà rispondere a tali censure «con gli strumenti che le sono propri e che comprendono una vasta gamma di tecniche decisorie» (di nuovo sentenza n. 1 del 2025 e ordinanza n. 21 del 2025), contribuendo ad assicurare piena effettività al diritto dell’Unione in modo «sempre più integrato» (sentenze n. 7 e n. 1 del 2025, n. 181 e n. 15 del 2024), dovendosi escludere che il sindacato accentrato di costituzionalità si ponga in antitesi con un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo.
Ciò vale a maggior ragione quando i «principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano […] i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana» sì che «la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione» (sentenza n. 269 del 2017).
In questa evenienza di overlapping di tutele di livello costituzionale, sussiste l’opportunità «di un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale» (ancora sentenza n. 269 del 2017), con conseguente possibile assorbimento della denunciata violazione del diritto europeo, ferma restando la possibilità, per il giudice comune, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia o, ricorrendone i presupposti, della non applicazione.
5.– Sempre in via preliminare, pur in assenza di eccezione sul punto, va dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 34 CDFUE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE.
5.1.– Quanto alla disposizione della Carta, il rimettente si limita a menzionarla, affermandone la violazione, ma senza fornire alcun argomento diretto, in particolare, a illustrare «il presupposto di applicabilità della CDFUE, cioè la circostanza che le norme sul reddito di cittadinanza rappresentino “attuazione del diritto dell’Unione” ai sensi del suo art. 51», con conseguente inammissibilità della relativa questione per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza (sentenza n. 19 del 2022).
5.2.– Quanto alla censura basata sulla violazione dell’art. 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE, essa sconta una carente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo.
Sebbene il principio di parità di trattamento riconosciuto dalla citata previsione operi a favore del lavoratore cittadino di un Paese membro presente nel territorio di un altro Stato dell’Unione, al cui mercato del lavoro abbia «già avuto accesso» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 6 ottobre 2020, in causa C-181/19, Jobcenter Krefeld, punto 45), l’ordinanza, sotto questo profilo, «non contiene indicazioni sufficienti ad una corretta ricostruzione della fattispecie oggetto del giudizio a quo, necessaria al fine di valutare tanto la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, quanto la non manifesta infondatezza della stessa» (sentenza n. 128 del 2014 e, nello stesso senso, sentenze n. 256 del 2022 e n. 56 del 2015).
Inoltre, l’ordinanza non fornisce argomenti sulla possibilità di qualificare il Rdc come «vantaggio sociale», di cui il lavoratore cittadino di un altro Stato membro deve godere al pari del lavoratore nazionale ai sensi del richiamato art. 7, paragrafo 2; peraltro, nemmeno prende in considerazione che, coerentemente con la prevalente funzione di misura di politica attiva del lavoro e di inclusione sociale, l’accesso al Rdc non implica lo status di lavoratore.
Pertanto, sotto il profilo appena evidenziato, l’evocazione della suddetta previsione del diritto dell’Unione risulta del tutto sfornita di motivazione, discendendone la inammissibilità della questione sollevata.
6.– Va, infine, esaminata l’eccezione di inammissibilità che l’Avvocatura indirizza alle questioni sollevate dal rimettente in via subordinata, dirette a conseguire una pronuncia che limiti il requisito di residenza pregressa al periodo di cinque anni precedente alla domanda (di cui gli ultimi due in modo continuativo), oppure, in ulteriore subordine, al periodo di due anni continuativi prima della domanda.
Secondo la difesa statale, avendo il legislatore utilizzato per il Rdc criteri selettivi ad hoc, risulterebbe precluso ricavare, da discipline di altri istituti, validi punti di riferimento per una pronuncia di tipo sostitutivo.
6.1.– L’eccezione non è fondata.
La possibilità di adottare pronunce sostitutive, costantemente ammessa dalla giurisprudenza di questa Corte, consegue dall’accertamento di «un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione» (sentenza n. 6 del 2024), a fronte del quale «non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 138 del 2024).
7.– Le questioni sono fondate nei termini che seguono in riferimento all’art. 3 Cost.
7.1.– Le numerose pronunce in cui questa Corte si è occupata del Rdc sono state tutte risolte a partire dall’affermazione di una interpretazione, funzionale a inquadrarne correttamente la natura all’interno del sistema costituzionale, che è stata ripetutamente ribadita in termini univoci (sentenze n. 1 del 2025, n. 54 del 2024, n. 34 e n. 19 del 2022, n. 137, n. 126 e n. 7 del 2021; ordinanza n. 29 del 2024).
Ai fini della decisione delle questioni considerate in quei giudizi, infatti, è risultato sempre dirimente evidenziare la peculiarità strutturale e funzionale di questa misura, dove la componente di integrazione al reddito è strettamente condizionata al conseguimento di obiettivi di inserimento nel mondo del lavoro e comunque di inclusione sociale, che richiedono il coinvolgimento attivo del beneficiario.
Fin dall’inizio di questo filone giurisprudenziale si è quindi chiarito che «la disciplina del reddito di cittadinanza definisce un percorso di reinserimento nel mondo lavorativo che va al di là della pura assistenza economica»: mentre le prestazioni di assistenza sociale vere e proprie si «fonda[no] essenzialmente sul solo stato di bisogno», il Rdc prevede «un sistema di rigorosi obblighi e condizionalità», che strutturano un percorso formativo e d’inclusione, «il cui mancato rispetto determina, in varie forme, l’espulsione dal percorso medesimo» (sentenza n. 126 del 2021 e, in termini simili, sentenza n. 122 del 2020).
L’erogazione del Rdc, infatti, «“è condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni, […] nonché all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale” (art. 4, comma 1). Questo percorso si realizza o con il Patto per il lavoro (stipulato presso un centro per l’impiego e che “deve contenere gli obblighi e gli impegni previsti dal comma 8, lettera b”, che riguardano essenzialmente la ricerca attiva del lavoro e l’accettazione delle offerte congrue) o con il Patto per l’inclusione sociale, stipulato presso i servizi comunali competenti per il contrasto della povertà (art. 4, commi 7 e 12). Si tratta di due “canali” comunicanti, nel senso che il beneficiario convocato dal centro per l’impiego può essere inviato al servizio comunale e viceversa (art. 4, commi 5-quater e 12). Il Patto per l’inclusione sociale comprende anche gli “interventi per l’accompagnamento all’inserimento lavorativo” (art. 4, comma 13)» (sentenza n. 19 del 2022).
Si è quindi ribadito che: «il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari, definiti in Patti sottoscritti da tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all’art. 4, commi 2 e 3, del d.l. n. 4 del 2019). È inoltre prevista la decadenza dal beneficio nel caso in cui un solo componente non rispetti gli impegni (art. 7, comma 5, del d.l. n. 4 del 2019)» (ancora sentenza n. 19 del 2022).
In definitiva, gli strumenti apprestati non consistono in meri sussidi per rispondere alla situazione di povertà, dal momento che il beneficio economico erogato è inscindibile da una più complessa e qualificante componente di inclusione attiva, diretta a incentivare la persona nell’assunzione di una responsabilità sociale, che si realizza attraverso la risposta positiva agli impegni contenuti in un percorso appositamente predisposto e che dovrebbe condurre, per questa via, all’uscita dalla condizione di povertà.
Non incoerentemente, quindi, il mancato rispetto degli impegni priva il soggetto del beneficio economico, in conseguenza dell’interruzione del percorso che era stato condiviso tra il beneficiario e il sistema pubblico.
All’interno di questa peculiare struttura della misura, si giustificano anche le ulteriori condizionalità e preclusioni che la connotano, anch’esse finalizzate al percorso di integrazione sociale.
Al riguardo, questa Corte ha giudicato non incoerente la sospensione del Rdc per il venir meno degli specifici requisiti di onorabilità necessari sia per accedere che per mantenere il Rdc, ovvero la mancata soggezione a una misura cautelare personale e l’assenza di condanna per taluni specifici reati intervenuta nei dieci anni antecedenti (sentenze n. 169 del 2023, n. 126 del 2021 e n. 122 del 2020).
Nella medesima prospettiva, la sentenza n. 54 del 2024 ha ritenuto «coerente con tale natura del Rdc la previsione, contenuta nell’art. 5, comma 6, sesto periodo, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che “[a]l fine di prevenire e contrastare fenomeni di impoverimento e l’insorgenza dei disturbi da gioco d’azzardo (DGA), [ha] in ogni caso fatto divieto di utilizzo del beneficio economico per giochi che prevedono vincite in denaro o altre utilità”»; ha quindi precisato che «[i]l principio di eguaglianza sostanziale, alla cui attuazione il Rdc è peraltro riconducibile, non può certo essere invocato a sostegno di una questione di legittimità costituzionale nell’interesse di chi ha travolto le regole fondamentali dell’istituto, alterandone così la natura».
La stessa temporaneità della misura (diciotto mesi, rinnovabili) è stata ricollegata alla sua precipua natura, che non si risolve in mero sussidio economico per contrastare la povertà, ma si presenta diversamente articolata, mirando a offrire chances di integrazione sociale e lavorativa.
È evidente che una simile struttura, fondata sulla temporaneità, precisi obblighi e soprattutto rigide condizionalità persino in grado, se disattese, di determinare il venir meno del diritto alla prestazione, risulterebbe del tutto inconciliabile con il carattere meramente assistenziale e quindi con le caratteristiche tipiche delle vere e proprie prestazioni di assistenza sociale, dove invece prevale l’esigenza, sostanzialmente incondizionata, di rispondere ai bisogni primari, «indifferenziabili e indilazionabili» (sentenza n. 166 del 2018), cui sono relative (ex plurimis, sentenza n. 42 del 2024 e ordinanza n. 29 del 2024).
Nella sentenza n. 137 del 2021, del resto, è stata ritenuta in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost. la revoca di prestazioni assistenziali di quest’ultimo tipo, fondate sullo stato di bisogno, persino ai condannati in via definitiva per reati di mafia o terrorismo, i quali stiano scontando la pena in modalità alternativa alla detenzione.
Si è infatti precisato che, sebbene queste persone abbiano gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile, «attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere».
7.2.– La descritta natura del Rdc – affermata dalla giurisprudenza di questa Corte in termini di interpretazione costituzionalmente orientata (necessaria perché, qualora fosse inteso quale prestazione meramente assistenziale, il Rdc non potrebbe che rivelarsi intrinsecamente contraddittorio e irragionevole alla luce dei principi costituzionali) – deve essere ancora ribadita in questa sede, senza che a ciò possa ritenersi d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D.
In tale pronuncia, infatti, la Corte di giustizia, come di consueto, ha interpretato il diritto dell’Unione, ma non ha operato un sindacato sull’esattezza, o no, dell’interpretazione del diritto nazionale, quale offerta dal giudice del rinvio pregiudiziale. Essa quindi, da un lato, ha sì affermato che «spetta al giudice del rinvio stabilire se il “reddito di cittadinanza” di cui trattasi nei procedimenti principali costituisca una prestazione sociale» e che proprio tale giudice (il Tribunale di Napoli) «constata nelle sue domande di pronuncia pregiudiziale che il “reddito di cittadinanza” costituisce una prestazione di assistenza sociale volta a garantire un livello minimo di sussistenza, rientrante in uno dei tre settori indicati all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, ossia le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale, ai sensi della legislazione nazionale».
Dall’altro, tuttavia, la stessa Corte non ha affatto avallato tale interpretazione del Tribunale di Napoli, perché ha chiaramente precisato che «indipendentemente dalle critiche espresse dal governo di uno Stato membro nei confronti dell’interpretazione del diritto nazionale adottata dal giudice del rinvio, l’esame delle questioni pregiudiziali dev’essere effettuato sulla base di tale interpretazione e non spetta alla Corte verificarne l’esattezza».
Solo sulla scorta di tale premessa – che espressamente riconosce come tale interpretazione sia suscettibile di verifica da parte degli organi a cui invece istituzionalmente spetta, secondo l’ordinamento nazionale, proprio verificarne l’esattezza – la sentenza è giunta a ritenere che «il “reddito di cittadinanza” di cui trattasi nei procedimenti principali costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta».
7.3.– In definitiva, la sentenza della Corte di giustizia non ha verificato l’esattezza dell’interpretazione proposta dal giudice del rinvio, ovvero dal Tribunale di Napoli, in ordine alla natura del Rdc, ma ha correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno.
Del resto, se è indiscutibile che alla Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e del diritto derivato, al fine di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte, così come la funzione di nomofilachia del diritto nazionale lo è alla Corte di cassazione, essendo orientate ad assicurare anche la certezza del diritto.
8.– Una volta ribadita la natura del Rdc, occorre confrontarsi con le questioni poste dal giudice rimettente, che prospetta in primo luogo il contrasto con l’art. 3 Cost., ritenendo che il radicamento territoriale dei dieci anni richiesto dalla disciplina censurata risulti del tutto privo di giustificazione e non proporzionato.
In particolare, il requisito dei dieci anni non risponderebbe «ai requisiti di ragionevole correlabilità» con il Rdc, dato che tale «tempo sproporzionato» di residenza, sebbene richiesto «indifferentemente per italiani e stranieri», determinerebbe quantomeno una discriminazione indiretta a danno dei cittadini di altri Stati membri.
8.1.– Va precisato che, nella sentenza n. 19 del 2022, questa Corte si è confrontata, escludendone l’illegittimità costituzionale, solo con l’altro requisito, previsto dall’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, del possesso del permesso di lungo soggiorno per i cittadini di Paesi terzi, e quindi della residenza per almeno cinque anni continuativi sul territorio nazionale, necessaria per conseguire tale permesso.
In tale pronuncia, in ogni caso, è stato messo in evidenza che gli obiettivi del Rdc implicano «una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza».
È quindi anche il radicamento territoriale, e non solo la mera prospettiva di stabilità – come invece ritenuto dal giudice a quo –, ad essere stato considerato in tale pronuncia.
In questa prospettiva, del resto, nel valutare la ragionevolezza di tale criterio può essere considerata non solo la complessità delle attività richieste alle pubbliche amministrazioni per realizzare le politiche attive del lavoro e di inclusione sociale, ma anche l’entità delle risorse finanziarie destinate alla attuazione della misura.
Rispetto alla precedente misura – il reddito di inclusione (il cosiddetto ReI), che richiedeva solo due anni di residenza – si è, infatti, realizzato un forte salto di livello, poiché: a) la consistenza del beneficio economico è più che raddoppiata per ciascun nucleo familiare, garantendo una provvidenza che potrebbe, per il suo ammontare, esporre lo Stato italiano a migrazioni puramente “assistenziali”; b) la stessa platea dei nuclei beneficiari è fin dall’inizio raddoppiata; c) le risorse finanziarie stanziate dal bilancio dello Stato sono più che triplicate; d) è stato necessario un rafforzamento della struttura organizzativa con l’assunzione di personale da parte delle pubbliche amministrazioni coinvolte nell’attuazione del Rdc.
In considerazione di tali elementi caratterizzanti non può essere accolta la questione prospettata in via principale dal giudice rimettente, che porterebbe, in sostanza, ad annullare completamente il requisito di radicamento territoriale in base alla residenza, rendendo sufficiente solo quello, per i cittadini degli Stati membri, del diritto di soggiorno.
Non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile: questa Corte, del resto, rispetto a una misura (attinente alla concessione di mutui agevolati) che non ha incidenza su diritti fondamentali, ha precisato che «non è manifestamente irragionevole, nel contesto di risorse finanziarie comunque non illimitate, che il legislatore valorizzi la posizione di chi rispetto al territorio già vanti un legame duraturo», per cui non ha censurato «il requisito della residenza protratta per almeno otto anni» (sentenza n. 53 del 2024).
Un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata.
La stessa Corte di giustizia (grande sezione, sentenza 15 luglio 2021, in causa C-709/20, C. G.) ha, in particolare, precisato che riconoscere ai cittadini di Stati membri che non beneficiano di un diritto di soggiorno in forza della direttiva 2004/38/CE la fruizione «di prestazioni di assistenza sociale allo stesso titolo dei cittadini nazionali […] rischierebbe di consentire a cittadini dell’Unione economicamente inattivi di utilizzare il sistema di protezione sociale dello Stato membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento (v., in tal senso, sentenza dell’11 novembre 2014, Dano, C‑333/13 […], punti 74, 76 e 77 e la giurisprudenza ivi citata)». Per cui «uno Stato membro ha la possibilità, ai sensi dell’articolo 7 della direttiva 2004/38, di negare la concessione di prestazioni di assistenza sociale a cittadini dell’Unione economicamente inattivi che esercitino la libertà di circolazione e che non dispongano delle risorse sufficienti per poter rivendicare il beneficio del diritto di soggiorno ai sensi di tale direttiva».
La Corte di giustizia ha anche precisato che l’esigenza di garantire l’esistenza di «nesso reale tra il richiedente una prestazione e lo Stato», nonché di «garantire l’equilibrio finanziario» del sistema sociale nazionale «costituiscono, in linea di principio, obiettivi legittimi idonei a giustificare restrizioni ai diritti di libera circolazione e di soggiorno previsti dall’art. 21 TFUE» (sentenza 21 luglio 2011, in causa C-503/09, Stewart, punti 89 e 90).
Coerentemente con questa posizione, a livello dell’Unione europea, la recente raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva, consente chiaramente agli Stati membri, per l’accesso a prestazioni aventi struttura e funzioni analoghe a quelle del Rdc, il ricorso al criterio selettivo basato sulla residenza protratta, anche in considerazione dell’esigenza di salvaguardare «la sostenibilità delle finanze pubbliche», purché «la durata del soggiorno legale sia proporzionata».
In questa prospettiva, il considerando n. 22 della suddetta raccomandazione precisa che «[l]’introduzione di criteri non discriminatori per l’accesso a un reddito minimo non pregiudica le eccezioni alla parità di trattamento previste o consentite dal diritto dell’Unione, come la direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio».
8.2.– Tuttavia, nonostante tali considerazioni – che non si oppongono, ex se, alla possibilità di prevedere un requisito di residenza pregressa, quando si tratti di prestazioni non meramente assistenziali caratterizzate da un complesso progetto di inclusione lavorativa e sociale – il periodo di residenza decennale istituisce una barriera temporale all’accesso al Rdc che trascende del tutto la ragionevole correlazione con le finalità di quest’ultimo.
A differenza di altre misure, come l’assegno sociale, che questa Corte ha ritenuto correlate allo «stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo» (sentenza n. 50 del 2019 e ordinanza n. 29 del 2024), il progetto di inclusione previsto dal Rdc non guarda, come invece le suddette misure, al concorso realizzato nel passato, ma alle chances dell’integrazione futura, mirando alla prospettiva dello stabile inserimento lavorativo e sociale della persona coinvolta.
In quest’ottica il gravoso termine del pregresso periodo decennale non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità precipua del Rdc e si pone in violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost.
Tali principi, infatti, si oppongono alla discriminazione, anche indiretta (come di recente ribadito con la sentenza n. 25 del 2025), prodotta da una barriera temporale, effetto del requisito censurato, che, sebbene applicato a ogni richiedente, appare artificialmente finalizzata al solo tentativo di limitare l’accesso alla prestazione, favorendo i cittadini italiani già residenti (più facilitati – come peraltro dimostrano i dati segnalati dal giudice rimettente – a integrare tale requisito), a scapito sia di quelli di altri Stati membri dell’Unione, sia di quelli di Paesi terzi.
Del resto, proprio il termine decennale è stato la causa dell’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea nei confronti dell’Italia sia per la discriminazione indiretta, sia per la discriminazione a danno degli stessi italiani, a cui il requisito poteva, in effetti, precludere la possibilità di trasferirsi a lavorare fuori dal Paese.
Tale procedura è stata chiusa solo a seguito dell’abrogazione del Rdc a decorrere dal 1° gennaio 2024 e alla sua sostituzione con l’assegno di inclusione, dove il termine di residenza pregressa è stato ridotto a cinque anni, non più oggetto di contestazione a livello della Commissione europea.
8.3.– Alla luce di tutte queste considerazioni e nell’ottica di allontanarsi il meno possibile dal bilanciamento che, nella sua discrezionalità, è stato operato dal legislatore, la ragionevole correlazione con la misura del Rdc appare ricomponibile proprio in riferimento a quest’ultimo termine di cinque anni.
Questo dato temporale, infatti, non solo è quello assunto, come detto, dal legislatore nazionale all’interno dell’assegno di inclusione, “erede” del Rdc, ma è anche quello che, in sostanza, è stato giudicato non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la «relativa stabilità della presenza sul territorio»; non è poi di certo irrilevante che esso sia anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che «testimoni[a] il “radicamento del richiedente nel paese in questione”».
Il termine di cinque anni si presenta, quindi, come una grandezza pre-data idonea a costituire un punto di riferimento presente nell’ordinamento (ex multis, sentenze n. 128, n. 90 e n. 6 del 2024 e n. 95 del 2022) utilizzabile al fine di ricomporre la ragionevole correlazione con il requisito di radicamento territoriale.
Deve quindi essere accolta la prima questione formulata in via subordinata dal giudice rimettente, per cui va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni», per violazione dell’art. 3 Cost.
8.4.– In questi termini, si ricompone armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terzi, viene espunto con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinamento dell’Unione europea.
Si evita così, oltretutto, l’insorgere di una discriminazione alla rovescia altrimenti effettivamente prospettabile, come giustamente rilevato dalla difesa delle parti private, in relazione ai cittadini dell’Unione europea, che rimanevano ancora soggetti al termine decennale.
Infatti, come questa Corte ha già rilevato nella sentenza n. 1 del 2025, la «pronuncia di incostituzionalità, nel caducare un requisito che ha valenza generale, consente di porre rimedio alle incongruenze di una disciplina che per tutti, cittadini e stranieri, prescrive il requisito della residenza decennale. Si scongiura così il rischio delle “discriminazioni a rovescio”, che una disapplicazione, circoscritta ai soggiornanti di lungo periodo tutelati dalla direttiva 2003/109/CE, non mancherebbe di generare a danno degli altri beneficiari delle provvidenze».
9.– Restano assorbite le questioni sollevate in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 21 CDFUE e 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, e ogni altra questione.