Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 9 luglio 2024, iscritta al n. 170 reg. ord. 2024, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, sezione 16, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 220 (Disposizioni in materia di contenzioso tributario).
1.1.– La Corte rimettente premette di essere investita dell’appello proposto da un contribuente contro la sentenza che aveva respinto parzialmente il ricorso dallo stesso spiegato nei confronti dell’Agenzia delle entrate - Riscossione (ADER), avverso un’intimazione di pagamento fondata, tra le altre, su sei cartelle di pagamento relative a vari tributi.
Il giudice a quo riferisce che, in prime cure, il ricorrente aveva dedotto diversi profili di illegittimità dell’atto impugnato, tra i quali l’omessa notificazione degli atti ad esso presupposti, e che, nel contraddittorio con l’ADER, la Corte di giustizia tributaria di primo grado aveva accolto il ricorso solo con riferimento alla censura di difetto di notificazione di due delle sei cartelle di pagamento azionate.
Avverso tale pronuncia – prosegue l’ordinanza di rimessione – il contribuente aveva proposto appello con atto notificato il 30 gennaio 2024, lamentando che neanche per le restanti cartelle vi fosse in atti la prova dell’avvenuta notificazione, essendosi l’Amministrazione finanziaria limitata a produrre copia delle relative ricevute, dalle quali, peraltro, risultava che una delle cartelle era stata ritirata da un soggetto a lui sconosciuto, ancorché qualificato come “convivente”. Nel giudizio di secondo grado si era costituita l’ADER deducendo che ciascuna delle cartelle indicate dalla controparte era stata notificata mediante consegna nelle mani di familiare convivente e che risultava inviato l’avviso di legge a mezzo di lettera raccomandata come da distinta versata in atti.
Tanto premesso, la Corte rimettente rileva che nel fascicolo di primo grado non risultano prodotte tutte le relazioni di notificazione delle quattro cartelle di pagamento, presupposte all’intimazione impugnata, ritenute dal giudice di primo grado validamente notificate.
L’ordinanza di rimessione aggiunge che nel giudizio di appello l’Amministrazione ha prodotto ulteriori documenti intesi a dimostrare l’avvenuta notifica delle cartelle poste a fondamento dell’ingiunzione di pagamento e che, tuttavia, l’appellante ha eccepito l’irritualità di tale deposito in base all’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023.
1.2.– Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione sospettandone, come si è riferito, il contrasto con gli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost.
1.3.– In punto di rilevanza, la Corte rimettente sottolinea come la nuova disciplina trovi applicazione nel giudizio principale, avendo l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 stabilito che le disposizioni di detto decreto operano nei giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024, fatta eccezione per le modifiche elencate nell’art. 1, comma 1 – tra cui, alla lettera bb), figura anche la riforma delle prove in appello –, che, invece, si applicano ai giudizi incardinati, in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione, a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore dello stesso decreto legislativo.
1.4.– La Corte rimettente esclude, poi, la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, ritenendo che ad essa osti l’inequivoco tenore letterale della stessa.
1.5.– Quanto al profilo della non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, il giudice a quo denuncia anzitutto il contrasto con «il canone della ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost.». Osserva in proposito che la pur ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella conformazione degli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza. Nella specie tale limite sarebbe stato superato, in quanto la disposizione in scrutinio esprimerebbe una scelta legislativa arbitraria «che ineluttabilmente perturba il canone dell’eguaglianza».
1.6.– Rileva, in particolare, il Collegio rimettente che la disposizione censurata, per un verso, al comma 1, al pari dell’art. 345 del codice di procedura civile nella versione anteriore alla riforma introdotta dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), consente al giudice la valutazione della indispensabilità della documentazione prodotta soltanto in secondo grado; per altro verso, al comma 3, impedisce al medesimo giudice di compiere tale verifica «per una certa tipologia di atti», quali sono le notificazioni, «ontologicamente indispensabili secondo l’anzidetta accezione».
La previsione di cui al comma 3 – del tutto inedita nel sistema processuale generale – determinerebbe, così, una «autoevidente contraddizione», in quanto priverebbe il giudice dello stesso potere di delibazione della prova riconosciutogli dal comma 1. Una formulazione siffatta sarebbe indice sintomatico della irragionevolezza e della illogicità intrinseca della disposizione censurata e determinerebbe, al contempo, un’ingiustificata differenziazione del trattamento delle parti del giudizio.
Secondo il rimettente, il legislatore avrebbe così compiuto da sé il giudizio di indispensabilità – che, invece, lo stesso comma 1 del riformato art. 58 demanda al giudice – peraltro in modo imperscrutabile e contrario al canone di razionalità pratica ispirato dal criterio dell’id quod plerumque accidit. Non risulterebbe, infatti, comprensibile la ratio dell’esclusione dei documenti indicati nel comma 3 tra quelli depositabili al ricorrere dei presupposti di cui al comma 1, considerato che «il loro principale tratto comune distintivo» è da individuarsi nella «possibile decisività della loro tardiva produzione nel determinare l’esito della lite».
1.7.– Secondo il giudice a quo, una simile «perimetrazione in negativo della potestas iudicandi» costituirebbe anche una illegittima intromissione del legislatore in un ambito, quale è quello della valutazione della indispensabilità delle prove, riservato all’autorità giudiziaria, in violazione degli artt. 102, primo comma, 111, primo comma, e 24, secondo comma, Cost.
1.8.– La disposizione censurata sarebbe, altresì, in contrasto con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., secondo cui il giusto processo deve necessariamente svolgersi nel contraddittorio tra le parti e in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale, onde consentire la ricerca della verità processuale e una decisione giusta.
Il rimettente esclude, poi, che il denunciato sacrificio dell’esercizio della funzione giurisdizionale sia giustificato dall’esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo, posto che, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, tale principio è leso soltanto da norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza.
1.9.– L’art. 111, secondo comma, Cost. sarebbe ancora leso sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza tra le parti del processo, posto che, alla stregua della disciplina censurata, mentre la parte privata può produrre nuovi documenti, sia pure entro i limiti stabiliti dai novellati commi 1 e 2 dell’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, la parte pubblica non può depositare le specifiche tipologie di documenti elencati nel comma 3 di detta disposizione.
Secondo la Corte rimettente, infatti, alla stregua delle connotazioni generali del diritto e del processo tributario e di una «oggettiva regola di esperienza», la documentazione indicata nella disposizione in scrutinio riguarda gli atti «che rendono legittima la pretesa tributaria della parte pubblica» e, quindi, attengono all’attività difensiva dalla stessa ordinariamente svolta.
Viene, altresì, rimarcato che la disciplina in scrutinio non consente l’acquisizione dei documenti da essa indicati neppure quando l’indispensabilità della relativa produzione derivi dalle difese svolte dalla controparte nell’atto di appello ovvero dal deposito di documenti dalla stessa effettuato ai sensi dell’art. 58, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 546 del 1992.
2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi inammissibili e comunque manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
2.1.– A sostegno della inammissibilità, la difesa statale deduce, anzitutto, che il giudice a quo, riconducendo le violazioni denunciate alla immediata applicabilità della nuova disciplina ai giudizi in corso, ivi compresi quelli svolti in primo grado nel vigore del precedente regime processuale, sarebbe incorso nella erronea individuazione della disposizione espressiva della scelta legislativa ritenuta costituzionalmente illegittima, che invece sarebbe da ravvisare nell’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023.
2.1.1.– Le questioni di legittimità costituzionale sarebbero inammissibili anche perché muoverebbero da una erronea interpretazione del dato normativo.
Ad avviso dell’interveniente, l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, non precluderebbe affatto il deposito della documentazione comprovante la notificazione degli atti impugnati, ma si limiterebbe a vietare la produzione di tre tipologie di atti – le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere – ulteriormente specificando, in relazione all’ultima delle categorie menzionate, che essa riguarda quelli che rilevano «ai fini» della legittimità della sottoscrizione degli atti e delle notifiche dell’atto impugnato, ovvero degli atti che ne costituiscono il presupposto di legittimità.
Secondo la difesa statale, la disposizione censurata, «declinata in forma non sintetica», sarebbe diretta a vietare il deposito delle deleghe, delle procure e degli atti di conferimento di potere, distinti in tre gruppi: quelli rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, quelli rilevanti ai fini delle notifiche dell’atto impugnato e quelli rilevanti ai fini delle notifiche degli atti che costituiscono presupposto di legittimità dell’atto impugnato.
Alla stregua di tale lettura, avvalorata dal dato testuale dell’impiego, nella elencazione, della congiunzione “e”, non sarebbe stata introdotta alcuna preclusione espressa alla produzione in appello della documentazione comprovante la notificazione dell’atto impugnato, dal momento che oggetto del divieto sarebbero, in definitiva, soltanto gli atti di conferimento di potere rilevanti ai fini delle notifiche degli atti.
2.1.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce l’inammissibilità delle questioni anche sotto il profilo del mancato esperimento, da parte della Corte rimettente, di una, pur possibile, interpretazione costituzionalmente orientata.
Secondo l’interveniente, la previsione della verifica della indispensabilità dei documenti di cui all’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 costituirebbe «norma portante di chiusura della nuova disciplina» e per questo andrebbe coordinata con il divieto posto dal comma 3.
Tale interpretazione della disposizione in esame evidenzierebbe che la valutazione di indispensabilità debba essere riferita anche ai documenti elencati nel citato comma 3, in linea con i principi costituzionali della tutela del diritto di difesa, del giusto processo e della parità delle armi in giudizio, nonché di eguaglianza e di ragionevolezza.
2.2.– Ad avviso dell’interveniente, le censure formulate dal rimettente sarebbero, comunque, manifestamente infondate, in quanto poggerebbero su una «discutibile lettura atomistica ed isolata del comma 3 dell’art. 58 che oblitera la relazione di complementarità necessariamente esistente tra il menzionato comma 3 e il comma 1 del medesimo articolo, quale disposizione contenente un principio portante del sistema delle prove nel processo tributario».
In ogni caso, osserva la difesa statale, il divieto di depositare le deleghe, le procure e gli atti di conferimento di potere – e non anche le notifiche degli atti impugnati – risponde all’esigenza di «evitare carenze probatorie dovute a negligenza, essendo ora le parti obbligate a un maggior rigore sin dall’avvio del giudizio».
3.– Con ordinanza del 27 settembre 2024, iscritta al n. 199 reg. ord. 2024, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, sezione 19, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali evocati nell’ordinanza iscritta al n. 170 reg. ord. 2024.
3.1.– La Corte rimettente premette di essere investita dell’appello proposto dall’ADER avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto l’impugnazione promossa da un contribuente contro una comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria, in quanto, stante la tardiva costituzione dell’amministrazione resistente, non si era potuto tenere conto dei documenti dalla stessa depositati.
Il giudice a quo espone che, a sostegno del ricorso di primo grado, il contribuente aveva contestato la mancata notificazione di cinque cartelle di pagamento richiamate nell’atto impugnato, il difetto di motivazione di quest’ultimo e la prescrizione della pretesa erariale.
La Corte rimettente riferisce che, con l’atto di appello, l’ADER ha prodotto nuovamente i documenti depositati in primo grado, tra cui le notificazioni delle cartelle esattoriali, e che l’appellato ha disconosciuto la conformità agli originali, ai sensi dell’art. 2719 del codice civile, delle copie di dette notificazioni, in relazione a due delle quali ha anche dedotto la nullità per omesso invio della raccomandata di comunicazione di avvenuta notifica.
L’ordinanza di rimessione chiarisce, quindi, che il giudizio di primo grado è iniziato nel vigore dell’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 nella versione anteriore alle modifiche allo stesso apportate dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, e che, tuttavia, il processo di appello, essendo stato incardinato il 9 febbraio 2024, in base all’art. 4 di tale decreto legislativo, soggiace alla nuova disciplina.
Ad avviso del giudice a quo, nel giudizio di appello sarebbe, pertanto, vietato produrre i documenti di cui al comma 3 del citato art. 58, in quanto introdotti in primo grado in modo irrituale.
La Corte rimettente dà, quindi, atto dell’avvenuto promovimento dell’incidente di costituzionalità dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, ad opera della Corte di giustizia tributaria della Campania per poi sollevare anch’essa questioni di legittimità costituzionale di tale disposizione, precisando, tuttavia, che l’esame della non manifesta infondatezza deve essere condotto non in termini generali, ma limitatamente all’applicazione della nuova disciplina durante la fase transitoria.
3.2.– Ricostruito, quindi, il nuovo assetto normativo introdotto dagli artt. 1, comma 1, lettera bb), e 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023, il giudice a quo osserva come l’intervento riformatore abbia modificato drasticamente la disciplina delle produzioni documentali in appello, laddove la «legge delega» prevedeva unicamente di rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi successivi al primo e non di introdurre un divieto assoluto né, tanto meno, di sancire un trattamento differenziato per tipologia di documenti.
Secondo il giudice a quo, il regime delineato dal censurato comma 3 dell’art. 58, «particolarmente rigoroso» e privo di qualsivoglia fondamento nella legge delega, sarebbe reso ancor più drastico dalla previsione della sua immediata applicabilità ai giudizi in corso.
3.3.– In punto di rilevanza, la Corte rimettente ritiene che detta disposizione debba trovare applicazione nel giudizio principale ed esclude che la sua formulazione letterale si presti ad una interpretazione costituzionalmente orientata.
3.4.– Quanto alle ragioni di non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, secondo il giudice a quo la disciplina censurata violerebbe, anzitutto, l’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza.
Si osserva, al riguardo, nella ordinanza di rimessione che, per quanto il legislatore goda di ampia discrezionalità in materia processuale, la scelta di rendere il divieto di produzione in appello delle indicate tipologie di documenti immediatamente applicabile alle controversie già instaurate in primo grado al momento dell’entrata in vigore della novella sia «indubbiamente irrazionale».
La previsione della immediata applicabilità del nuovo regime giuridico ai giudizi in corso inciderebbe, infatti, in modo «gravemente pregiudizievole ed irreparabile» sulla legittima scelta difensiva delle parti di rinviare, nell’esercizio di una facoltà riconosciuta dalla legge, la produzione di documenti all’eventuale giudizio di appello.
3.4.1.– La violazione dell’art. 3, primo comma, Cost. sarebbe resa evidente dalla circostanza che, a differenza delle parti dei giudizi introdotti successivamente all’entrata in vigore della novella, le quali hanno la possibilità di decidere «nella piena consapevolezza della situazione», le parti dei giudizi in corso non hanno potuto compiere tale valutazione.
3.5.– La Corte rimettente lamenta, altresì, che il divieto assoluto introdotto con la novella del 2023 nell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 non trovi riscontro nella legge delega (legge 9 agosto 2023 n. 111, recante «Delega al Governo per la riforma fiscale»), la quale aveva previsto esclusivamente il rafforzamento del divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo.
Nella stessa legge delega, osserva il giudice a quo, non era contemplata neppure la possibilità di applicare il nuovo regime processuale compendiato nell’art. 58, commi 1 e 3, ai giudizi in corso.
3.6.– Da ultimo, secondo il giudice a quo, l’introduzione, ad opera della disposizione censurata, di un divieto assoluto di produzione di documenti in appello anche nel caso in cui ricorrano i presupposti di cui al comma 1 dell’art. 58, che ne consentirebbero l’acquisizione, realizzerebbe un’interferenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale, determinando, altresì, la lesione del diritto alla prova e una «palese ed ingiustificata violazione» del principio del giusto processo, in contrasto con gli artt. 102, primo comma, 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost.
Il vulnus al principio del giusto processo, conclude la Corte rimettente, sarebbe particolarmente evidente sotto il profilo della non prevedibilità delle «regole processuali dell’intero percorso di tutela».
4.– Anche nel giudizio promosso con l’ordinanza iscritta al n. 199 reg. ord. 2024 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità e comunque di non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.
4.1.– Sotto il primo profilo, l’interveniente deduce anzitutto la erronea individuazione della disposizione all’origine del denunciato vulnus al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., rilevando che, nella prospettazione della Corte rimettente, l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata deriverebbe, anzitutto, dalla sua immediata applicabilità ai giudizi in corso, così che oggetto di censura avrebbe dovuto essere non l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, ma l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023.
4.1.1.– La censura relativa all’eccesso di delega sarebbe, invece, inammissibile in ragione della erronea identificazione del parametro costituzionale, avendo la rimettente ricondotto tale vizio alla violazione dell’art. 3 Cost. e non dell’art. 76 Cost.
4.1.2.– L’interveniente eccepisce, altresì, la inammissibilità di tutte le censure articolate nell’ordinanza di rimessione per non avere il giudice a quo praticato una «doverosa (e possibile) interpretazione costituzionalmente orientata», la quale avrebbe consentito di superare i prospettati dubbi di illegittimità costituzionale.
Con argomentazioni sovrapponibili a quelle spese nel giudizio promosso con l’ordinanza iscritta al n. 170 reg. ord. 2024, la difesa statale sostiene che l’inammissibilità delle questioni deriverebbe anche dalla erronea ricostruzione della disposizione censurata, dovendo la stessa essere interpretata, secondo il suo significato letterale, nel senso di riferire il divieto di produzione in appello esclusivamente alle deleghe, alle procure e agli altri atti di conferimento di potere e non anche alle notificazioni.
Inoltre, secondo la difesa statale, l’interpretazione conforme a Costituzione dei commi 1 e 3 dell’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 avrebbe posto in luce come il legislatore abbia inteso ammettere la verifica di indispensabilità anche per i documenti indicati nel citato comma 3.
4.1.3.– L’interveniente ha, altresì, ribadito quanto dedotto, in relazione alla richiamata ordinanza iscritta al n. 170 del reg. ord. 2024, in merito alla possibilità di superare in via ermeneutica i sospetti di illegittimità costituzionale legati alla immediata applicabilità di norme processuali restrittive di facoltà precedentemente riconosciute.
Secondo l’interveniente, sarebbe mancata un’indagine volta a distinguere, tra le numerose disposizioni elencate nell’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, quelle effettivamente applicabili non solo ai giudizi incardinati in primo grado, ma anche a quelli instaurati in appello (come nel caso di specie) e in cassazione.
4.2.– In subordine, il Presidente del Consiglio dei ministri ha concluso per la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. La scelta di predisporre per le categorie di atti indicate nel comma 3 dell’art. 58 una disciplina distinta ed autonoma rispetto a quella generale dettata dal comma 1 della stessa disposizione risponderebbe all’esigenza di ribadirne espressamente l’assoggettamento alla regola generale della non producibilità per la prima volta in appello, alla luce del principio di economia dei mezzi giuridici e di accelerazione del giudizio. Ciò, nella prospettiva di evitare carenze probatorie dovute a negligenza imponendo alle parti un maggior rigore sin dall’avvio del giudizio, in linea con l’esigenza di concentrazione processuale e con la valorizzazione del principio di autoresponsabilità.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 9 luglio 2024 (reg. ord. n. 170 del 2024), la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania (CGT Campania), sezione 16, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 – come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023 –, ai sensi del quale, nel giudizio di appello tributario «[n]on è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis».
1.1.– Secondo la Corte rimettente, la disposizione censurata contrasterebbe, anzitutto, con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., in quanto, ponendo un divieto probatorio privo di una ratio coerente con un «criterio di razionalità pratica», esprimerebbe una scelta che travalica i limiti della pur ampia discrezionalità riservata al legislatore nella configurazione degli istituti processuali e «perturba il canone dell’eguaglianza».
Per altro verso, la disciplina in questione rivelerebbe una «autoevidente contraddizione» sintomatica di irragionevolezza e di illogicità intrinseca, in quanto impedirebbe al giudice di appello la valutazione di indispensabilità delle nuove prove – allo stesso demandata, in via generale, dal comma 1 del medesimo art. 58 – in relazione ad alcune tipologie di documenti «ontologicamente indispensabili» ai fini della decisione.
1.2.– La CGT Campania ravvisa, altresì, una illegittima intromissione del legislatore in un ambito riservato all’autorità giurisdizionale, in contrasto con gli artt. 102, primo comma, e 111, primo comma, Cost.
La legge – osserva l’ordinanza di rimessione – può tipizzare il valore probatorio di alcuni mezzi istruttori e anche impedire l’acquisizione di determinate prove in appello, ma non può enucleare una serie eterogenea di documenti e inibire al giudice di valutarne la indispensabilità ai fini dell’acquisizione in secondo grado.
1.3.– Sarebbe, inoltre, leso il diritto di difesa, inteso come diritto al giudizio e alla prova, in contrasto con gli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.
1.4.– La disposizione censurata confliggerebbe, poi, con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in quanto vulnererebbe il contraddittorio e impedirebbe al giudice di pervenire ad una decisione «possibilmente giusta» attraverso la ricerca della «verità materiale».
1.5.– Sarebbero, infine, violati gli artt. 24, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla garanzia della parità tra le parti del processo, posto che, se la parte privata può produrre nuovi documenti – sia pure nei limiti stabiliti dai commi 1 e 2 dello stesso art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, come riformati dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023 –, alla parte pubblica è vietato depositare proprio gli atti che «rendono legittima la pretesa tributaria» e, quindi, secondo una regola di esperienza, attengono all’attività difensiva dalla stessa ordinariamente svolta.
2.– Anche la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia (CGT Lombardia), sezione 19, con ordinanza del 27 settembre 2024 (reg. ord. n. 199 del 2024), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come inserito dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023. Tale disposizione è censurata, anzitutto, perché ne è prevista l’applicazione ai giudizi instaurati in grado di appello a decorrere dal giorno successivo alla sua entrata in vigore e, dunque, anche a quelli aventi ad oggetto sentenze rese in base alla disciplina previgente.
2.1.– Tale previsione sarebbe «indubbiamente irrazionale», in quanto, in contrasto con l’art. 3 Cost., inciderebbe in modo «gravemente pregiudizievole ed irreparabile» sulla scelta difensiva delle parti di rinviare, nell’esercizio di una facoltà loro riconosciuta dalla disciplina previgente, il deposito di documenti all’eventuale giudizio di appello.
2.2.– Sarebbe, poi, violato il principio di eguaglianza, in quanto, non essendo stata esclusa l’applicazione del divieto posto dall’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 – così come della previsione di cui al comma 1 della stessa disposizione – per i casi in cui «le parti non abbiano avuto la possibilità di decidere se produrre o meno nei termini documenti in primo grado», si determinerebbe una disparità di trattamento tra le parti dei giudizi in corso alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, le quali non hanno potuto compiere tale valutazione, e quelle dei giudizi introdotti successivamente a tale data, che, invece, hanno potuto decidere «nella piena consapevolezza della situazione».
2.3.– Lamenta, ancora, la Corte rimettente che né il «divieto assoluto» di cui all’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, né la previsione dell’applicabilità del nuovo regime anche ai giudizi in corso troverebbero «alcun fondamento nella legge delega», la quale si è limitata a demandare al Governo il compito di rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo.
2.4.– Sarebbero, infine, violati gli artt. 102, primo comma, 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., in quanto l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, introducendo, in relazione a determinati documenti, un divieto assoluto di produzione in appello, in deroga alla previsione di cui al comma 1 del medesimo art. 58 – che, invece, consente l’acquisizione dei documenti indispensabili o non depositati in primo grado per causa non imputabile –, realizzerebbe un’interferenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale e una lesione del diritto alla prova, determinando una «palese ed ingiustificata violazione» del principio del giusto processo «sotto il profilo della prevedibilità delle regole processuali dell’intero percorso di tutela».
3.– Le due ordinanze di rimessione censurano discipline in parte coincidenti e in parte funzionalmente connesse ed evocano i medesimi parametri, sicché ne è opportuna la riunione ai fini di una decisione congiunta.
4.– In via preliminare, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri.
4.1.– In entrambi i giudizi l’interveniente ha eccepito l’erroneità dell’indicazione della disposizione censurata – l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 – rispetto alle deduzioni svolte, sostenendo che i dubbi di legittimità costituzionale, per come formulati, investirebbero, in realtà, la disciplina contenuta nell’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023, secondo la quale lo ius superveniens sulle prove in appello trova applicazione anche nei processi introdotti in secondo grado (e in Cassazione) a far data dal 5 gennaio 2024.
4.1.1.– Le eccezioni non sono fondate.
4.1.2.– Per quanto riguarda il giudizio iscritto al n. 170 reg. ord. 2024, dalla lettura complessiva dell’ordinanza di rimessione emerge con sufficiente chiarezza che il riferimento alla normativa intertemporale, peraltro solo accennato, ha una finalità soltanto argomentativa, mentre l’oggetto delle questioni effettivamente sollevate è costituito dalla disciplina di cui all’art. 58, comma 3, in sé considerata.
Poiché, dunque, il richiamo al regime transitorio non evoca un’autonoma questione, deve escludersi che si versi in ipotesi di aberratio ictus.
4.1.3.– Neanche la CGT Lombardia (reg. ord. n. 199 del 2024), è incorsa nell’erronea individuazione della normativa all’origine dei denunciati vulnera costituzionali.
È pur vero che, come puntualizzato nell’ordinanza di rimessione, le censure investono in via prioritaria la disciplina intertemporale in base alla quale le nuove regole sulle prove in appello si applicano ai giudizi di secondo grado incardinati dopo il 5 gennaio 2024, così come prevede l’art. 4, comma 2 del d.lgs. n. 220 del 2023.
Ciò non di meno, la mancanza di una formale indicazione di tale disposizione tra quelle sospettate di illegittimità costituzionale deve ritenersi ininfluente ai fini dell’ammissibilità delle questioni, in quanto dalla lettura complessiva dell’ordinanza di rimessione risulta chiaramente che il giudice a quo ha inteso censurare in modo particolare tale disposizione (ex plurimis, sentenze n. 9 del 2025, n. 143 del 2023 e n. 223 del 2022).
D’altronde, come ripetutamente affermato da questa Corte, il thema decidendum deve essere identificato alla stregua del contenuto delle censure formulate nell’ordinanza di rimessione (sentenza n. 142 del 2023) e, quindi, ricostruendo l’effettiva volontà del rimettente in base ad una lettura coordinata della motivazione e del dispositivo (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2023, n. 228 e n. 88 del 2022).
4.2.– Non sussiste neppure l’ulteriore profilo di inammissibilità che l’interveniente ravvisa nella erronea indicazione, nell’ordinanza iscritta al n. 199 reg. ord. 2024, dell’art. 3 Cost. come parametro della denunciata violazione di eccesso di delega.
La censura con la quale la CGT Lombardia lamenta che la disciplina in scrutinio non troverebbe fondamento nella legge delega n. 111 del 2023 è, infatti, illustrata in modo tale da rendere evidente che la norma evocata a parametro sia quella espressa dall’art. 76 Cost.
Pertanto, l’inesatta indicazione del precetto costituzionale ritenuto violato, non impedendo di identificare con chiarezza la consistenza della questione sollevata, non ne determina la inammissibilità (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2021 e n. 87 del 2017)
4.3.– In entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri imputa al giudice rimettente di non aver colto il corretto significato letterale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, in base al quale il deposito della documentazione comprovante la notificazione dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità non sarebbe affatto precluso.
Più precisamente, secondo la difesa statale, la disposizione in scrutinio vieterebbe il deposito di tre tipologie di atti – le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere – per poi specificare che tale ultima categoria comprende gli atti di conferimento di potere che rilevano ai fini: a) della legittimità della sottoscrizione degli atti; b) delle notifiche dell’atto impugnato; c) delle notifiche degli atti che ne costituiscono il presupposto di legittimità.
Il legislatore avrebbe inteso, così, aggregare in un’unica proposizione reggente i tre ambiti indicati dalla disposizione censurata, ossia quello che riguarda la sottoscrizione degli atti, quello che concerne le notifiche dell’atto impugnato e quello che attiene alla notifica degli atti che costituiscono il presupposto di legittimità.
Dalla ritenuta erroneità delle soluzioni ermeneutiche sulle quali poggiano i dubbi di illegittimità costituzionale l’interveniente fa derivare l’inammissibilità delle questioni sollevate.
4.3.1.– Anche questa eccezione è priva di fondamento, atteso che, come più volte affermato da questa Corte, la correttezza della scelta interpretativa da cui muove il rimettente è estranea al vaglio di ammissibilità delle questioni e attiene propriamente al merito e perciò deve essere apprezzata unitamente a quest’ultimo (ex aliis, sentenze n. 76 del 2021, n. 281 del 2020 e n. 75 del 2019).
4.4.– L’Avvocatura generale dello Stato rinviene un ulteriore profilo di inammissibilità nella mancata sperimentazione, da parte di entrambi i giudici a quibus, di una pur praticabile interpretazione costituzionalmente orientata.
4.4.1.– A tal fine, l’interveniente argomenta che il nuovo art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, come inserito dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, contiene una «norma portante di chiusura della nuova disciplina» che deve essere coordinata con il divieto sancito dal comma 3. Per mezzo di questa operazione ermeneutica, la valutazione di indispensabilità andrebbe, quindi, riferita anche ai documenti elencati nel comma 3, in ossequio ai principi costituzionali della tutela del diritto di difesa, del giusto processo e della parità delle armi in giudizio, di ragionevolezza e di eguaglianza.
4.4.2.– Secondo la difesa statale, un tentativo «fattiv[o] (e non solo apparente)» di interpretazione conforme non sarebbe stato compiuto neppure con riferimento alla disciplina intertemporale, la quale si presterebbe, invece, ad una lettura che, nella fase transitoria, consenta di ammettere il deposito dei documenti vietati ai sensi dell’art. 58, comma 3, in quanto – sottolinea la difesa dello Stato – «documenti “indispensabili” ai fini della decisione».
4.4.3.– Neanche queste eccezioni sono fondate.
Le Corti rimettenti hanno escluso la praticabilità di un’alternativa ermeneutica idonea a superare i dubbi di illegittimità costituzionale reputando l’interpretazione conforme incompatibile con l’inequivoco tenore letterale della disciplina censurata. Tanto è sufficiente per ritenere insussistente l’eccepita inammissibilità, attenendo poi al merito la verifica della possibilità di una interpretazione conforme della disposizione censurata (ex plurimis, sentenze n. 5 del 2025, n. 202 e n. 104 del 2023).
5.– All’esame del merito delle questioni è opportuno premettere la ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni oggetto di censura.
5.1.– L’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, rubricato «Nuove prove in appello», è stato radicalmente modificato dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, mediante la riscrittura dei commi 1 e 2 e l’aggiunta del comma 3.
Il comma 1 riformato prevede che «[n]on sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile».
Il nuovo comma 2 stabilisce, invece, che «[p]ossono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati».
Infine, a norma del comma 3, inserito ex novo nel corpo dell’art. 58, «[n]on è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis».
Il d.lgs. n. 220 del 2023 ha apportato le suddette modifiche in attuazione della legge delega n. 111 del 2023, il cui art. 19, rubricato «Princìpi e criteri direttivi per la revisione della disciplina e l’organizzazione del contenzioso tributario», al comma 1, lettera d), aveva previsto che il Governo, nella revisione della disciplina del contenzioso tributario, avrebbe dovuto «rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo».
5.1.1.– La novella in scrutinio si inserisce in un ampio intervento di revisione del processo tributario che, a completamento del disegno di riforma avviato con la legge 31 agosto 2022, n. 130 (Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari) e in linea con le finalità di riduzione del contenzioso tributario previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), si prefigge di deflazionare il contenzioso attualmente pendente davanti alle corti di giustizia tributaria e alla Corte di cassazione; di ridurre i tempi delle controversie tributarie; di garantire la parità delle armi tra le parti del processo tributario; di completare la digitalizzazione della giustizia tributaria.
5.1.2.– Va aggiunto che il novellato art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 è stato pedissequamente trasfuso nell’art. 112 del decreto legislativo 14 novembre 2024, n. 175 (Testo unico della giustizia tributaria), in vigore dal 29 novembre 2024, ma applicabile dal 1° gennaio 2026, data da cui decorrono l’abrogazione delle disposizioni del d.lgs. n. 546 del 1992 e l’efficacia dello stesso testo unico, come espressamente previsto agli artt. 130 e 131 dello stesso d.lgs. n. 175 del 2024.
5.2.– L’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, come riscritto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, a norma dell’art. 4, comma 1, di quest’ultimo decreto legislativo, è entrato in vigore il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 3 gennaio 2024, e dunque il 4 gennaio 2024.
Il comma 2 del citato art. 4 del d.lgs. n. 220 del 2023 ha, però, stabilito che «[l]e disposizioni del presente decreto si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024, fatta eccezione per quelle di cui all’articolo 1, comma 1, lettere d), e), f), i), n), o), p), q), s), t), u), v), z), aa), bb), cc) e dd), che si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione, a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore del presente decreto».
Per quel che concerne, dunque, la novella sulle prove in appello introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, la previsione transitoria prescrive che detta disciplina si applichi ai giudizi instaurati in primo grado, in secondo grado e in Cassazione, a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore del decreto legislativo, ossia dal 5 gennaio 2024, laddove per le disposizioni diverse da quelle elencate nel comma 2 la riforma si applica «ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024».
5.3.– Nella relazione di accompagnamento del d.lgs. n. 220 del 2023 si chiarisce che la novella legislativa riscrive l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 prevedendo, nell’ottica del rafforzamento del divieto di nova nel giudizio di secondo grado programmato dalla legge delega, «la preclusione espressa per il giudice d’appello di fondare la propria decisione su prove che avrebbero potuto essere disposte o acquisite nel giudizio di primo grado».
Viene, anche, rimarcato che «[r]esta comunque eccezionalmente ferma la possibilità per il giudice di secondo grado di acquisire le prove pretermesse nel primo grado, in ragione della loro indispensabilità ai fini della decisione, oppure in esito alla dimostrazione della riferibilità della mancanza probatoria a causa non imputabile alla parte appellante».
Nella stessa relazione si precisa che «si è ritenuto opportuno, all’esito di ulteriori approfondimenti, effettuati su impulso delle Commissioni riunite II e VI di Camera e Senato, in un’ottica di ulteriore rafforzamento del divieto di produzione di nuovi documenti in secondo grado […], di vietare il deposito di deleghe, procure e altri atti di conferimento di potere, nonché di notifiche dell’atto impugnato ovvero di atti che ne costituiscono presupposto di legittimità e che possono essere prodotti in primo grado, anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis».
5.4.– È utile ricordare che, nella versione originaria, l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, al comma 1, vietava l’ingresso di nuove prove in appello, salvo che il giudice non le ritenesse necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostrasse di non averle potute dedurre nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile, ma, al comma 2, precisava che «[è] fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti».
La giurisprudenza di legittimità aveva interpretato quest’ultima previsione con particolare ampiezza, indicando come unico limite alla producibilità di nuovi documenti nel giudizio di secondo grado l’essere gli stessi diretti a dimostrare la fondatezza delle domande e delle eccezioni precluse dall’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenze 26 giugno 2024, n. 17638 e 10 aprile 2024, n. 9635; ordinanze 25 ottobre 2024, n. 27741, 24 luglio 2024, n. 20550, 22 aprile 2024, n. 10788 e 27 febbraio 2024, n. 5199).
5.4.1.– La previgente disciplina dei nova istruttori nell’appello tributario rinveniva il suo immediato referente nell’omologo regime dettato dal codice di procedura civile.
Il contenuto precettivo del comma 1 dell’originario art. 58 era, infatti, pressoché coincidente con quello dell’art. 345 cod. proc. civ. nella formulazione assunta per effetto delle modifiche ad esso apportate dall’art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile). La disposizione del processo tributario ricalcava quella dettata per il processo civile sia quanto alla proibizione, in linea di principio, di nuove prove in appello, sia quanto alla previsione di un duplice temperamento a tale divieto, costituito dall’ammissione tanto della prova non dedotta in prime cure per causa non imputabile alla parte, quanto di quella ritenuta dal giudice necessaria ai fini della decisione.
Come confermato dalla relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo sulla disciplina del processo dinanzi agli organi speciali di giurisdizione in materia tributaria esaminato in Commissione bicamerale il 16 dicembre 1992, dal coevo modello civilistico l’art. 58 si discostava per la previsione espressa della facoltà, per le parti, di produrre in appello nuovi documenti a prescindere dalla ricorrenza di una delle condizioni richieste dal comma 1 per l’introduzione degli altri mezzi di prova.
L’art. 345 cod. proc. civ., nel testo risultante dalla riforma introdotta dalla legge n. 353 del 1990, disponeva, infatti, che «[n]el giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio».
5.4.2.– La disciplina del processo civile che il legislatore del 1992, nel configurare il giudizio tributario di secondo grado, ha tenuto presente è stata, tuttavia, oggetto di due ulteriori interventi riformatori, i quali hanno riscritto la disposizione del codice di rito in senso sempre più restrittivo, rendendo via via più netto il divario tra i due sistemi.
5.4.2.1.– L’art. 345 cod. proc. civ. è stato dapprima modificato dall’art. 46, comma 18, della legge n. 69 del 2009, il quale ha aggiunto alla regola generale della impossibilità di assumere nuove prove in appello l’espresso divieto di produzione di nuovi documenti. Un’analoga formulazione è stata di lì a poco adottata per il processo amministrativo dall’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), il cui art. 104, comma 2, dispone che «[n]on sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile».
5.4.2.2.– La disciplina delle prove nell’appello civile è stata, infine, oggetto di un’ulteriore significativa revisione ad opera dell’art. 54, comma 1, lettera 0b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale ha eliminato la possibilità di svolgere attività istruttoria in secondo grado in ragione della indispensabilità del mezzo probatorio, rendendo ancora più marcata la configurazione del giudizio di appello quale revisio prioris instantiae, piuttosto che come novum iudicium.
5.4.2.3.– L’ammissibilità in appello di nuove prove indispensabili è, invece, rimasta ferma per il rito semplificato di cognizione e per il cosiddetto “rito Fornero”, non essendo stati modificati né l’art. 704-quater cod. proc. civ., né l’art. 1, comma 59, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) – in seguito abrogati –, nonché per il rito del lavoro, essendo l’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ. rimasto immutato.
6.– Tutto ciò premesso, passando all’esame del merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, va anzitutto precisato che non risulta persuasiva l’interpretazione della disciplina in scrutinio prospettata dalla difesa statale – già illustrata nei precedenti punti 4.3. e 4.4. –, in base alla quale, da un lato, il divieto oggetto di censura non riguarderebbe le notificazioni dell’atto impugnato e degli atti presupposti e, dall’altro, tanto l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, quanto l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 si presterebbero ad una interpretazione conforme idonea a scongiurare le ipotizzate violazioni costituzionali.
6.1.– Alla stregua dei comuni canoni ermeneutici, letterale e logico, il tenore dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 non consente, anzitutto, di escludere le notificazioni dallo spettro applicativo del divieto in esso sancito.
Nell’elenco riportato nella previsione in scrutinio è, infatti, possibile distinguere due gruppi omogenei di documenti, al primo dei quali vanno ascritti sia quelli riconducibili alle nozioni giuridiche delle «deleghe» e delle «procure», sia quelli ricadenti nella descrizione concettuale, ad esse funzionalmente affine, degli «altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti». Diversamente da quanto ritenuto dall’interveniente, infatti, la congiunzione “e” e l’aggettivo “altri” connettono logicamente il terzo elemento ai primi due, alla stregua di una clausola di chiusura che completa il primo ambito di operatività del divieto e, al contempo, lo distingue dal secondo, che, invece, comprende le notificazioni tanto del provvedimento impugnato quanto degli atti presupposti.
6.2.– Deve, inoltre, rilevarsi che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa statale, la configurazione del nuovo art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 offre una assoluta resistenza ad una lettura che, in chiave costituzionale, predichi la soggezione delle ipotesi contemplate nel comma 3 alla regola generale espressa dal comma 1.
6.2.1.– L’art. 58 riformato detta, infatti, una disciplina composita, articolata in una norma proibitiva generale, codificata nel comma 1, che sancisce un divieto di nova istruttori in appello avente portata relativa, che, cioè, soffre una duplice eccezione nel caso in cui nuovo materiale probatorio, documentale e non, risulti indispensabile ai fini della decisione o la parte interessata dimostri di non averlo potuto introdurre in primo grado per causa ad essa non imputabile; e da una norma proibitiva speciale – contenente, cioè, un divieto di produzione in appello di alcuni specifici documenti – formulata in termini di assolutezza, come reso evidente dall’incipit dell’enunciato normativo («[n]on è mai consentito»).
L’espressa indicazione delle ipotesi escluse dall’ambito applicativo della regola generale e la perentorietà del tenore letterale del divieto precludono una esegesi che faccia ricadere anche i documenti elencati al comma 3 nel divieto probatorio temperato di cui al comma 1.
6.3.– Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riguardo alla disciplina transitoria.
L’inequivoca formulazione letterale dell’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 – il quale, in modo espresso, fa ricadere sotto lo ius superveniens i giudizi di appello incardinati dal giorno successivo all’entrata in vigore dell’innovazione normativa – non si presta all’interpretazione conforme proposta dall’interveniente al fine di escludere le lesioni denunciate.
7.– Ciò posto, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, sollevata dalla CGT Campania in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. è fondata nella parte in cui vieta il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti.
7.1.– Questa Corte è consapevole che la scelta legislativa di introdurre limiti più o meno stringenti all’ingresso di nuovo materiale cognitivo nel giudizio di secondo grado involge opzioni assiologiche sulle finalità del processo di significativa complessità, come dimostrano le oscillazioni che hanno caratterizzato l’evoluzione legislativa dei nova nell’appello civile, di cui il recente intervento riformatore sull’omologo istituto del processo tributario ha certamente tenuto conto. Il legislatore è, infatti, chiamato a compiere una ponderazione tra le istanze di celerità e di certezza che informano il sistema delle preclusioni e l’esigenza di un accertamento giudiziale che sia il più aderente possibile alla verità materiale.
Ed è evidente che, con l’introduzione del divieto ex art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, il legislatore abbia inteso accordare priorità all’esigenza di arginare la dilatazione dei tempi di definizione del giudizio tributario.
Gli stessi lavori preparatori confermano che il divieto è volto a circoscrivere ulteriormente, rispetto a quanto già previsto al comma 1 dello stesso art. 58, lo spazio per un’appendice istruttoria in appello, in linea con gli obiettivi di riduzione del contenzioso tributario indicati dalla legge delega n. 111 del 2023 e dal PNRR.
Il divieto concerne, infatti, due tipologie di documenti – quelli comprovanti, rispettivamente, il conferimento del potere rappresentativo sostanziale e processuale e la notificazione dell’atto impugnato e di quelli ad esso presupposto – la cui mancata acquisizione in prime cure è all’origine di un vasto contenzioso, nell’ambito del quale, nel vigore del precedente testo dell’art. 58, la Corte di cassazione aveva confermato la producibilità in appello di entrambe le tipologie di prove documentali in questione (ex aliis, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 17 luglio 2019, n. 19190; ordinanze 16 dicembre 2024, n. 32657 e 26 maggio 2021, n. 14567).
7.2.– Per quanto riguarda, però, le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, la esclusione degli stessi dalla regola – prevista per la generalità delle prove – della deducibilità in appello nei casi in cui il giudice ne ritenga indispensabile l’acquisizione o ne sia stata impossibile la deduzione in primo grado per causa non imputabile alla parte esibisce una manifesta irragionevolezza, così travalicando il limite all’esercizio della pur ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore nella configurazione degli istituti processuali (ex multis, sentenze n. 189 e n. 96 del 2024, n. 67 del 2023).
7.3.– L’ampiezza semantica dei termini «deleghe» e «procure», confermata dalla clausola di chiusura concernente gli «altri atti di conferimento di potere», induce ad includere nel perimetro del divieto ex art. 58, comma 3, non solo le deleghe con cui viene attribuito il potere di firma degli atti impositivi e, più in generale, gli atti di conferimento della rappresentanza sul piano sostanziale, ma anche gli atti costituenti il presupposto della rappresentanza processuale e quelli di designazione del difensore abilitato all’assistenza tecnica in giudizio.
7.3.1.– Il concetto di delega evoca, anzitutto, l’atto di conferimento della legittimazione sostitutiva indicato da diverse disposizioni come requisito di validità dell’accertamento tributario. Emblematico, al riguardo, è l’art. 42 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), il quale richiede, a pena di nullità dell’avviso di accertamento, la sottoscrizione del capo dell’ufficio, ovvero del direttore provinciale, o del funzionario della carriera direttiva da lui delegato (Corte di cassazione, sezione quinta civile, ordinanza 31 ottobre 2018, n. 27871), con previsione estesa da specifiche disposizioni normative a diversi altri tributi.
7.3.2.– I termini «deleghe» e «procure», rimandano, altresì, agli atti di attribuzione della rappresentanza processuale incidenti sulla capacità di stare in giudizio di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 546 del 1992 e, quindi, da un lato, agli atti con cui i dirigenti degli uffici che, ai sensi dei commi 2, 3 e 3-ter della stessa disposizione, possono stare in giudizio anche direttamente, trasferiscono ad altro funzionario il potere di rappresentanza processuale ovvero il solo potere di firma degli atti processuali (ex aliis, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 14 ottobre 2015, n. 20628); dall’altro lato alle procure, generali o speciali, con cui le altre parti, a mente del comma 1 della medesima disposizione, possono designare un rappresentante processuale.
Ancora, le deleghe e le procure richiamano il conferimento del potere di assistenza tecnica in giudizio ai soggetti abilitati ai sensi dell’art. 12, comma 3, del medesimo decreto legislativo.
7.3.2.1.– Pur tuttavia, nell'accezione indicata nel punto precedente, gli atti in questione non costituiscono temi di prova soggetti alle ordinarie preclusioni istruttorie, in quanto non attengono al merito della causa, ma alla legittimazione processuale o alla rappresentanza tecnica e, quindi, alla regolare costituzione del rapporto processuale. Esse non sono, pertanto, soggette al giudizio di indispensabilità supposto dall’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, né ricadono nello speciale divieto di cui al comma 3 di tale disposizione.
7.4.– Ciò precisato, va rilevato che, con la riforma di cui al d.lgs. n. 220 del 2023, il legislatore ha optato per un modello di gravame ad istruttoria chiusa, temperato dal riconoscimento della facoltà, per le parti, di introdurre in secondo grado prove nuove indispensabili ai fini della decisione o incolpevolmente non dedotte in primo grado.
A fronte di una configurazione siffatta, la deroga alla regola della limitata acquisibilità di nova istruttori introdotta per le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere risulta priva di una ragionevole ratio distinguendi.
La sottrazione di tali documenti al regime generale, pur perseguendo la finalità deflattiva di limitare ulteriormente il materiale cognitivo acquisibile in appello, non trova appiglio nelle caratteristiche oggettive – strutturali, effettuali e funzionali – degli atti esclusi, non essendo rinvenibile in essi un elemento differenziale sul quale il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, possa costruire una disciplina diversificata.
All’opposto, le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere non solo appartengono al più ampio genus delle prove documentali, che l’art. 58, comma 1, sottopone alla regola generale della producibilità, al ricorrere dei requisiti prescritti, in secondo grado, ma – a differenza delle notificazioni dell’atto impugnato e di quelli presupposti, di cui si dirà meglio più avanti – non presentano tratti differenziali idonei ad incidere sul meccanismo di acquisizione di nova istruttori in appello.
7.4.1.– La manifesta irragionevolezza del frammento normativo in esame viene ancor più chiaramente in luce ove si consideri che il divieto assoluto di produzione dei documenti con i quali si fornisce la prova della legittimazione sostanziale o processuale altera la parità delle armi, in quanto sottrae una facoltà difensiva alla parte che, in base al thema decidendum, sia chiamata a fornirne dimostrazione in giudizio.
7.5.– Deve, ancora, evidenziarsi che la disposizione in scrutinio, là dove inibisce il deposito in appello delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere pur quando ne sia stata incolpevolmente impossibile la produzione in primo grado, comporta un’ingiustificabile compressione del diritto alla prova (sentenze n. 41 del 2024 e n. 275 del 1990), quale nucleo essenziale del diritto di difesa ex art. 24 Cost. (sentenze n. 205 del 1997 e n. 248 del 1974) e del contraddittorio.
7.5.1.– Occorre, infatti, considerare che il processo di appello costituisce la prima e unica occasione per dedurre i mezzi di prova che non siano stati introdotti in primo grado per causa non imputabile alla parte.
La regola della deducibilità in secondo grado costituisce, in questo caso, una declinazione dell’istituto della rimessione in termini previsto dall’art. 153 cod. proc. civ. – applicabile anche nel processo tributario (ex aliis, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 17 giugno 2015, n. 12544) –, il quale, essendo posto a presidio delle garanzie costituzionali difensive e del giusto processo (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 15 luglio 2024, n. 19395), rappresenta un essenziale rimedio per eliminare, in via successiva, le conseguenze pregiudizievoli dell’inattività processuale incolpevole.
Né, in relazione alla specifica ipotesi in esame, le conseguenze sfavorevoli derivanti dal divieto ex art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 possono ritenersi adeguatamente bilanciate dall’interesse all’accelerazione dei tempi di definizione del giudizio.
La finalità acceleratoria e deflattiva è, infatti, realizzata sopprimendo il diritto alla prova nei casi in cui il giudizio di appello rappresenta l’unica occasione per il suo esercizio, essendone stata la deduzione in prime cure impossibile a causa di un fatto ostativo esterno alla sfera volitiva e di controllo della parte.
7.6.– Alla luce di quanto fin qui esposto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, limitatamente alle parole «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti,».
7.7.– Rispetto al frammento normativo investito dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale tutte le altre censure sono assorbite.
8.– Per quanto concerne, invece, il divieto di produzione in appello delle «notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis», pure sancito dall’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, nessuna delle censure formulate dalle Corti rimettenti può trovare accoglimento.
8.1.– Priorità logica deve essere accordata alla doglianza di eccesso di delega formulata dalla CGT Lombardia, la quale, come già detto, è da ritenersi riferibile al parametro di cui all’art. 76 Cost., non formalmente evocato, ma implicitamente sotteso dalle argomentazioni sviluppate dalla rimettente.
8.1.1– Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo.
Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, pertanto, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Tale affermazione, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse (ex aliis, sentenze n. 129 del 2024 e n. 96 del 2020).
8.1.2.– Nel caso di specie, considerata l’ampiezza del criterio fissato dall’art. 19, comma 1, lettera d), della legge delega n. 111 del 2023, secondo il quale il Governo, nella revisione della disciplina del contenzioso tributario, avrebbe dovuto «rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo», non può ritenersi che il legislatore delegato, nel prevedere, accanto ad un generale divieto di nova temperato, l’ulteriore e più stringente norma proibitiva di cui al censurato art. 58, comma 3, si sia discostato dalla ratio della legge delega.
8.2.– Non contrasta, inoltre, con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost. né lede il diritto alla prova ex art. 24, secondo comma, Cost. e al contraddittorio ex art. 111, secondo comma, Cost. la scelta, alla base della previsione in scrutinio, di proibire il deposito delle notificazioni anche quando risultino indispensabili ai fini della decisione.
8.2.1.– In proposito, è utile ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è indispensabile la prova idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola, senza lasciare margini di dubbio, oppure quella in grado di provare quanto rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata fosse incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 4 maggio 2017, n. 10790).
8.2.2.– La facoltà di dedurre in appello una prova nuova, ma indispensabile costituisce, dunque, uno strumento di contemperamento tra il regime delle preclusioni istruttorie – il quale «non è un carattere tanto coessenziale al sistema da non ammettere alternative, essendo soltanto una tecnica elaborata per assicurare rispetto del contraddittorio, parità delle parti nel processo e sua ragionevole durata» (ancora Cass., sez. un. civ., n. 10790 del 2017) – e l’esigenza che l’accertamento giudiziale sia aderente alla realtà dei fatti.
La predisposizione di una disciplina che, al fine di favorire la ricerca della verità materiale, accordi alle parti la possibilità di integrare in appello le carenze probatorie emerse all’esito del giudizio di primo grado non costituisce, dunque, una garanzia indefettibile del giusto processo, ma, piuttosto, un’attenuazione del rigore delle preclusioni istruttorie in appello, che il legislatore può, o meno, accordare «sulla base di una scelta discrezionale, come tale insindacabile» (sentenza n. 199 del 2017) e calibrare secondo le caratteristiche e le esigenze del tipo di processo.
È, infatti, significativo che nel processo civile, all’esito di una travagliata evoluzione legislativa, tale facoltà sia stata espunta dalla disciplina dell’appello.
Ciò che, invece, in ossequio ai principi consacrati negli artt. 24 e 111 Cost., deve essere necessariamente assicurato è un sistema processuale che garantisca alle parti l’esercizio del diritto alla prova in almeno uno dei gradi di giudizio.
8.2.3.– Ciò premesso, diversamente da quanto ritenuto dalle Corti rimettenti, rispetto alle notificazioni dell’atto impugnato e di quelli presupposti, la deroga in scrutinio appare sorretta da una adeguata ragione giustificativa.
I documenti in esame – a differenza delle notifiche degli atti processuali che, essendo volte a documentare la regolarità dell'instaurazione e dello svolgimento del processo, sfuggono al divieto probatorio in scrutinio – forniscono la prova di una condizione di validità o di efficacia dell’esercizio della funzione impositiva, e per tale ragione la produzione degli stessi nei giudizi in cui tale profilo risulti controverso esaurisce l’attività istruttoria.
Infatti, la notificazione, da un lato, è condizione di efficacia degli atti impositivi, in quanto, stante il loro carattere recettizio, consente ad essi la produzione degli effetti, senza tuttavia incidere sulla loro validità (Corte di cassazione, sezione quinta civile, ordinanza 24 agosto 2018, n. 21071); dall’altro lato, integra un requisito di validità dell’atto consequenziale, posto che, secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 4 marzo 2008, n. 5791; sezione quinta civile, ordinanza 18 gennaio 2018, n. 1144).
Va, inoltre, considerato che, come chiarito dalle pronunce ora richiamate, in quest’ultimo caso la nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dall’art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli, facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria.
La Corte di cassazione ha anche evidenziato che se, in quest’ultimo caso, il giudizio verte sull’esistenza, o meno, della pretesa tributaria, nel primo il giudice è chiamato a verificare esclusivamente la sussistenza, o meno, del difetto di notifica, al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi) (Cass., sez. un. civ., n. 5791 del 2008).
Da ciò deriva che, in tale ultima evenienza, la dimostrazione, o meno, della notificazione contestata definisce il giudizio.
8.2.4.– Ed è in ragione di tale attitudine dimostrativa che, rispetto alle notificazioni, il legislatore ha ritenuto superflua, perché inutilmente dilatoria, l’operatività del modello temperato di cui all’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992.
Si è voluto, in questo modo, evitare che nelle controversie in cui si faccia questione della esistenza o della validità delle notifiche il giudizio di appello venga instaurato al solo fine di effettuare un deposito documentale che, pur essendo da solo sufficiente per la definizione del giudizio, sia stato omesso in prime cure.
8.3.– Il divieto di produzione delle notifiche in appello si sottrae alle censure di irragionevolezza e di violazione degli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., anche là dove non esclude dal proprio ambito di applicazione l’ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto depositare il documento nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
8.3.1.– Giova, anzitutto, ricordare che nella disciplina generale dei nova istruttori in appello la causa non imputabile coincide con un fatto estraneo alla sfera di controllo della parte che rende impossibile la tempestiva deduzione della prova in prime cure. In tale nozione rientra anche il caso di ignoranza incolpevole della esistenza della prova o quello in cui la stessa prova sia venuta ad esistenza in un momento successivo al maturare delle preclusioni istruttorie del giudizio di primo grado.
Va anche rammentato che nelle suddette evenienze, ai fini della restituzione in termini, la valutazione dell’imputabilità dell’impedimento deve effettuarsi con riferimento allo sforzo di diligenza richiesto nel caso concreto (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 25 novembre 2024, n. 30324).
8.3.2.– Rispetto alla notificazione degli atti tributari non è configurabile, sul piano logico, né l’ipotesi in cui il documento venga ad esistenza successivamente allo spirare dei termini per le deduzioni istruttorie del giudizio di primo grado in cui sia in contestazione l’atto notificato, né quella in cui l’amministrazione venga a conoscenza della sua esistenza solo dopo che sia maturata detta preclusione.
Ciò in quanto l’atto tributario produce i suoi effetti tipici per mezzo della notificazione, sicché o la notifica esiste – e quindi deve essere necessariamente conosciuta dall’amministrazione, sulla quale grava un dovere qualificato di documentazione del procedimento notificatorio e di conservazione e custodia dei relativi atti – prima che la pretesa impositiva venga azionata, oppure la stessa pretesa è da ritenersi inefficace ab origine e quindi non può essere fatta valere.
8.3.3.– Inoltre, laddove le contestazioni cadano sulla notifica di un atto presupposto emesso da un soggetto diverso da quello che ha adottato l’atto impugnato, il comma 6-bis dell’art. 14 del d.lgs. n. 546 del 1992, parimenti introdotto dal d.lgs. n. 220 del 2023, impone che il ricorso introduttivo sia sempre proposto nei riguardi di entrambi i soggetti, al fine di consentire che la produzione della notifica avvenga direttamente ad opera dell’ente che ha provveduto alla sua esecuzione.
Diverso è, invece, il caso in cui l’impossibilità di produrre in primo grado la documentazione attestante la notificazione dell’atto impugnato derivi dalla sua distruzione o perdita per fatto estraneo alla sfera di controllo dell’amministrazione, venendo, in tale evenienza, in considerazione la diversa facoltà, da esercitarsi pur sempre entro i termini per le deduzioni istruttorie del giudizio di primo grado, di ricostruire il documento smarrito o distrutto attraverso altri mezzi di prova, come ad esempio la testimonianza scritta ex art. 257-bis cod. proc. civ., estesa anche al processo tributario dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, come sostituito dall’art. 4, comma 1, lettera c), della legge 31 agosto 2022 n. 130 (Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari): ciò in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 2724 cod. civ., la cui estensione al diritto tributario è stata confermata dalla stessa giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 16 novembre 2016, n. 23331).
8.3.4.– È evidente come la restrizione operata dall’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 sia diretta a evitare che il giudizio di primo grado venga inutilmente instaurato in difetto di una regolare notifica, nonché ad arginare le distorsioni processuali indotte dalla «grave vulnerabilità ed inefficienza, anche con riferimento al sistema delle notifiche, che ancora affligge il sistema italiano della riscossione» (sentenza n. 190 del 2023).
Non può, infatti non ricordarsi come le gravi inefficienze del sistema della riscossione abbiano dato origine «“[al]l’enorme proliferazione, negli ultimi anni, di controversie strumentali di impugnazione degli estratti di ruolo radicate dai debitori iscritti a ruolo” con “un aumento esponenziale delle cause […] innanzi alle Commissioni Tributarie, ai Giudici di Pace e, più in generale, alla Magistratura ordinaria per far valere, spesso pretestuosamente, ogni sorta d’eccezione avverso cartelle notificate anche molti anni prima, senza che l’Agente della riscossione si fosse attivato in alcun modo per il recupero delle pretese ad esse sottese, e perfino nei casi in cui vi avesse rinunciato, anche nell’esercizio dell’autotutela” (relazione finale della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria del 30 giugno 2021)» (ancora, sentenza n. 190 del 2023).
8.4.– Sempre con riferimento al divieto di produzione in appello delle notificazioni, non è fondata neppure la censura di violazione del principio di eguaglianza e di parità delle armi, posto che, come già evidenziato, il regime diversificato introdotto per gli atti in questione risulta non manifestamente irragionevole.
8.5.– Parimenti non fondata è la censura con la quale si lamenta che la disposizione in scrutinio impedirebbe al giudice di pervenire ad una decisione giusta attraverso la ricerca della verità materiale, in contrasto con gli artt. 102, primo comma, e 111, primo comma, Cost.
L’aderenza della ricostruzione processuale dei fatti alla verità materiale non è oggetto di specifica protezione costituzionale, essendo piuttosto le garanzie del giusto processo espressamente sancite dall’art. 111 Cost. a coadiuvare il giudice nell’accertamento della verità conducendolo ad una decisione giusta.
8.6.– Deve, infine, escludersi la denunciata ingerenza del legislatore nel potere giurisdizionale di valutazione della prova.
Anzitutto, l’apprezzamento della indispensabilità non concerne l’attitudine dimostrativa della prova, quanto, piuttosto, la sua idoneità ad eliminare ogni possibile incertezza in ordine ad una ricostruzione fattuale già effettuata dal giudice di prime cure (Cass., sez. un. civ., n. 10790 del 2017).
In ogni caso, l’ordinamento processuale ammette la possibilità che il potere giudiziale di valutazione della prova subisca limitazioni imposte dalla legge, come è reso evidente dal principio generale espresso dall’art. 116 cod. proc. civ., secondo il quale il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti.
9.– Venendo alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla CGT Lombardia in riferimento all’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023, sono fondate le censure ex artt. 3 e 111 Cost., con cui si prospetta, da un lato, la «palese ed ingiustificata violazione» del principio del giusto processo «sotto il profilo della prevedibilità delle regole processuali dell’intero percorso di tutela» e, dall’altro, il pregiudizio recato alla scelta difensiva delle parti dei processi già instaurati in primo grado al momento dell’entrata in vigore della novella processuale.
9.1.– Questa Corte ha affermato che ampia è la discrezionalità del legislatore nell’operare le scelte più opportune per disciplinare la successione di leggi processuali nel tempo (ordinanze n. 382 e n. 213 del 2005).
Il regime transitorio è, infatti, «volto ad assicurare il passaggio da una disciplina ad un’altra secondo tempi e scale di priorità che rientrano nel senso politico della discrezionalità legislativa, sì che ben può essere mantenuta in vita solo una parte ovvero la totalità delle norme abrogate in riferimento a situazioni pendenti, e variamente stabilita la sorte dei processi in corso» (sentenza n. 400 del 1996).
In relazione alle disposizioni intertemporali, questa Corte ha peraltro precisato che vige «il principio generale il quale esige che il passaggio da un previgente ad un nuovo regime processuale non sia regolato da norme manifestamente irragionevoli e lesive dell’affidamento nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite» (sentenza n. 309 del 2008).
Il principio della tutela dell’affidamento come «ricaduta e declinazione “soggettiva”» della certezza del diritto, la quale, a propria volta, integra un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto», è connaturato sia all’ordinamento nazionale, sia al sistema giuridico sovranazionale (sentenze n. 70 e n. 4 del 2024, n. 210 del 2021).
Tale principio non esclude che il legislatore possa adottare disposizioni che modificano in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici, anche in relazione a diritti soggettivi perfetti. Ciò può avvenire, tuttavia, a condizione «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica» (sentenza n. 216 del 2023; nello stesso senso, sentenza n. 145 del 2022).
9.2.– Il limite della ragionevolezza risulta, nella specie, superato.
L’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 dispone l’immediata applicazione del nuovo art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 (segnatamente delle disposizioni «di cui all’articolo 1, comma 1, letter[a] […] bb)» del d.lgs. n. 220 del 2023, che hanno riscritto in senso più restrittivo la disciplina dei nova istruttori in appello dettata dal previgente art. 58) ai processi di primo e secondo grado e di cassazione incardinati a far data dal giorno successivo all’entrata in vigore (prevista per il 4 gennaio 2024) del medesimo d.lgs. n. 220 del 2023.
Così disponendo, tuttavia, la previsione transitoria oblitera la circostanza che nei processi iniziati in grado di appello dopo tale data, il cui primo grado sia stato incardinato nel vigore della precedente disciplina, le parti, confidando sulla facoltà, loro riconosciuta dal previgente art. 58, comma 2, di depositare documenti anche nell’eventuale processo di gravame, potrebbero averne omesso la produzione in prime cure.
Infatti, nei casi in cui, al momento dell’entrata in vigore della novella, i termini per le deduzioni istruttorie ex art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992 siano già spirati, le parti non hanno la possibilità di prevenire le conseguenze dei sopravvenuti divieti probatori – e in special modo di quello assoluto ex art. 58, comma 3 – mediante un tempestivo deposito nel giudizio di primo grado.
In questo modo, lo ius superveniens, sebbene formalmente operi per il futuro, nella sostanza incide sugli effetti giuridici di situazioni processuali verificatesi nei giudizi iniziati nel vigore della precedente normativa e ancora in corso.
Esso, infatti, finisce per riconsiderare, sanzionandola ex post, la mancata produzione di documenti in primo grado, senza considerare che la disciplina previgente ne consentiva ampiamente il differimento in appello, come confermato dalla ricordata giurisprudenza di legittimità, secondo cui la producibilità di nuovi documenti nel giudizio di secondo grado era da escludere per i soli documenti diretti a dimostrare la fondatezza delle domande e delle eccezioni precluse dall’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992.
In definitiva, per i processi nei quali, al momento dell’entrata in vigore della novella, siano già decorsi i termini per le produzioni documentali in primo grado, l’immediata efficacia del mutamento normativo determina conseguenze non dissimili da quelle della retroattività impropria, in quanto, frustrando l’aspettativa delle parti che hanno confidato nella possibilità di esercitare il loro diritto alla prova anche in appello, lede il legittimo affidamento, «da considerarsi ricaduta e declinazione “soggettiva” dell’indispensabile carattere di coerenza di un ordinamento giuridico, quale manifestazione del valore della certezza del diritto» (sentenza n. 108 del 2019).
È pur vero che, con riferimento particolare ai rapporti di durata, e alle modificazioni peggiorative che su di essi incidono secondo il meccanismo della cosiddetta retroattività impropria, questa Corte ha più volte affermato che il legislatore dispone di ampia discrezionalità e può anche modificare in senso sfavorevole la disciplina di quei rapporti, ancorché l’oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, e comunque a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non trasmodi in un regolamento irrazionalmente lesivo del legittimo affidamento dei cittadini (ex plurimis, sentenze n. 136 del 2022, n. 234 del 2020 e n. 241 del 2019).
Tuttavia, una giustificazione siffatta non si ravvisa nel caso di specie, non potendo la pur legittima esigenza di dare immediata attuazione alla disciplina che il legislatore ha ritenuto più adeguata e opportuna, così sostituendola a quella contestualmente abrogata, prevalere su situazioni giuridiche già maturate nel previgente assetto normativo.
Del resto, in relazione alla previgente disciplina dei nova in appello dettata dall’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, l’art. 79, comma 1, dello stesso decreto legislativo aveva espressamente previsto che le relative disposizioni «non si applicano ai giudizi già pendenti in grado d’appello davanti alla commissione tributaria di secondo grado e a quelli iniziati davanti alla commissione tributaria regionale se il primo grado si è svolto sotto la disciplina della legge anteriore».
9.3.– L’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prescrive che le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lettera bb), dello stesso d.lgs. n. 220 del 2023 si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal giorno successivo alla sua entrata in vigore, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 220 del 2023.
9.4.– Le restanti censure riguardanti l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 sono assorbite.