Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 27 febbraio 2024, la Corte di cassazione, sezione quinta penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, 42 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2641, primo e secondo comma, del codice civile, censurandolo «nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato».
1.1.– Dall’ordinanza di rimessione risulta:
– che il Tribunale ordinario di Vicenza ha ritenuto G. Z., E. G., P. M. e A. P. responsabili di plurime condotte di aggiotaggio societario manipolativo e informativo, ostacolo alle funzioni di vigilanza della Banca d’Italia, della Banca centrale europea (BCE) e/o della Commissione nazionale per la società e la borsa (CONSOB), nonché di falso in prospetto, condannandoli a pene comprese tra i sei anni e i sei anni e sei mesi di reclusione; ha assolto M. P. dai reati ascrittigli; e ha affermato la responsabilità della Banca Popolare di Vicenza in relazione agli illeciti amministrativi dipendenti dai reati di aggiotaggio e ostacolo alle funzioni di vigilanza;
– che il Tribunale ha altresì disposto nei confronti degli imputati persone fisiche condannati, ai sensi dell’art. 2641, secondo comma, cod. civ., la confisca dell’importo di 963 milioni di euro, ritenuto equivalente alle somme di denaro utilizzate per la commissione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza – e cioè all’insieme dei finanziamenti concessi dall’istituto di credito a terzi per l’acquisto di azioni od obbligazioni dello stesso istituto, considerati «funzionali all’illecita alterazione del prezzo delle azioni ed alla creazione dell’artificiosa rappresentazione dell’entità del patrimonio di vigilanza» –, precisando di non poter procedere alla confisca diretta di tali somme nei confronti della banca, sottoposta a liquidazione coatta amministrativa;
– che la Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 10 ottobre 2022, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rilevata l’intervenuta prescrizione di una serie di reati contestati e assolto un imputato da taluni fatti contestatagli, ha ridotto le pene detentive inflitte agli imputati, condannandoli a pene comprese fra tre anni e undici mesi e due anni, sette mesi e quindici giorni di reclusione; in accoglimento del gravame della pubblica accusa, ha ritenuto M. P. responsabile di taluni reati ascrittigli, condannandolo alla pena di tre anni e undici mesi di reclusione; e ha ridotto la sanzione amministrativa pecuniaria irrogata alla Banca Popolare di Vicenza ai sensi dell’art. 12 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300);
– cha la Corte d’appello ha altresì revocato la confisca per equivalente applicata dal giudice di prime cure alle persone fisiche condannate, ritenendo che tale misura ablativa, di natura punitiva, fosse manifestamente sproporzionata rispetto al disvalore degli illeciti – non avendo gli imputati personalmente «tratto alcun profitto economicamente valutabile dalla commissione dei reati» ed essendo le loro condotte già adeguatamente punite dalle sanzioni detentive irrogate –, nonché disancorata dalla valutazione dell’entità del contributo causale di ciascun imputato nelle condotte contestate; con conseguente violazione delle garanzie di cui agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. e dell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE;
– che la Corte d’appello ha ritenuto di non dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2641, secondo comma, cod. civ., ma ha proceduto direttamente all’integrale disapplicazione di tale disposizione, richiamando in particolare la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dell’8 marzo 2022, in causa C-205/20, NE, secondo la quale il giudice comune è tenuto a disapplicare le sanzioni incompatibili con il principio di proporzionalità di cui all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE;
– che sia il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Venezia, sia gli imputati hanno impugnato la sentenza di appello innanzi alla Corte di cassazione;
– che il Procuratore generale lamenta, tra l’altro, la sussistenza di una violazione di legge, in riferimento agli artt. 2641 cod. civ., nonché agli artt. 25, secondo comma, e 101, secondo comma, Cost., per avere la Corte d’appello revocato la confisca per equivalente in base a un giudizio di manifesta sproporzione, malgrado l’art. 2641, secondo comma, cod. civ. configuri tale misura come obbligatoria e insuscettibile di «correttivi di tipo quantitativo correlati alle peculiarità del caso concreto»;
– che, nel medesimo motivo di ricorso, «con specifico riguardo all’ammissibilità di una disapplicazione parziale della previsione normativa, con la conseguente possibilità di disporre, in coerenza con il principio di proporzionalità, una confisca non estesa all’intero ammontare delle somme di denaro utilizzate per commettere i reati», il Procuratore generale ha sollecitato la Corte di cassazione a disporre rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), al fine di chiedere alla Corte di giustizia se, in base alla indicata sentenza dell’8 marzo 2022, «la normativa nazionale debba essere disapplicata anche quando tale risultato, in assenza di una base legale sufficientemente determinata, finisca, in violazione del principio di legalità e di separazione dei poteri, per attribuire al giudice valutazioni discrezionali in tema di politica criminale, rimesse dalla nostra Costituzione al legislatore».
1.2.– La Sezione rimettente illustra quindi ampiamente le ragioni per le quali ritiene il motivo di ricorso proposto dal Procuratore generale relativo alla revoca della confisca meritevole di analisi in via prioritaria.
In particolare, il giudice a quo sottolinea come siano ormai passate in giudicato le statuizioni della Corte d’appello circa la non confiscabilità in via diretta, ai sensi dell’art. 2641, primo comma, cod. civ., dei beni strumentali (ossia dei finanziamenti concessi dall’istituto di credito a terzi per l’acquisto di proprie azioni ed obbligazioni e finalizzati a rappresentare una realtà economica del patrimonio di vigilanza dell’ente creditizio diversa da quella effettiva: sono citate Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 29 novembre 2018-16 gennaio 2019, n. 1991, e 26 maggio-19 settembre 2017, n. 42778), in ragione della sottoposizione della Banca a liquidazione coatta amministrativa. Ormai incontestata sarebbe, pertanto, la sussistenza del presupposto per procedere alla confisca per equivalente ai sensi del secondo comma dell’art. 2641 cod. civ., rappresentato dalla impossibilità di procedere alla confisca diretta.
Inoltre, se nelle more del giudizio è maturato il termine di prescrizione di alcuni dei reati per i quali gli imputati sono stati ritenuti responsabili, tale termine non sarebbe spirato per le condotte di ostacolo alle funzioni di vigilanza realizzate il 15 marzo, il 15 aprile, il 15 ottobre e il 4 novembre 2014; ciò che ancora permetterebbe l’applicazione della confisca ai sensi dell’art. 2641, secondo comma, cod. civ. in relazione a tali condotte.
Il motivo di ricorso del Procuratore generale, infine, sarebbe meritevole di accoglimento. La sentenza NE della Corte di giustizia imporrebbe infatti la disapplicazione delle norme interne contrarie all’art. 49, par. 3, CDFUE «nei soli limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate». Tale criterio imporrebbe «una verifica calibrata sulla struttura dell’apparato sanzionatorio e sulla funzione da esso perseguita» volta a individuare «un limite della risposta sanzionatoria» e a predeterminare i «criteri che devono orientare, nel contesto del principio di legalità, la valutazione di sproporzione». La Corte d’appello non avrebbe invece effettuato tale verifica, limitandosi ad osservare che le condotte degli imputati sarebbero già adeguatamente punite dalle pene detentive applicabili, così prospettando di fatto «una interpretazione abrogatrice della previsione» fondata su un giudizio di sproporzione, sempre e comunque, della confisca.
L’accoglimento del motivo di ricorso del Procuratore generale costringerebbe, però, la Sezione rimettente a vincolare il giudice del rinvio a disporre una misura ablativa che la stessa Sezione riterrebbe manifestamente sproporzionata. Un diverso esito sarebbe prospettabile solo laddove questa Corte accogliesse le questioni di legittimità costituzionale in questa sede formulate, che per tale ragione dovrebbero essere considerate rilevanti.
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, la Sezione rimettente rammenta che questa Corte, nella sentenza n. 112 del 2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nel testo introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto degli illeciti amministrativi in materia di abusi di mercato (tra cui l’aggiotaggio manipolativo) e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto.
Successivamente a tale pronuncia, l’art. 26, comma 1, lettera e) della legge 23 dicembre 2021, n. 238 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2019-2020) ha modificato l’art. 187 t.u. finanza, prevedendo che, in caso di condanna per reati in materia di abusi di mercato (tra cui l’aggiotaggio), la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, sia circoscritta ai beni che costituiscono profitto del reato.
Dalla sentenza e dall’intervento legislativo appena citati emergerebbe il principio per cui «nei casi di reati concernenti gli abusi di mercato, la confisca deve essere limitata al solo profitto, in quanto tale ablazione garantisce appieno la funzione ripristinatoria». E invero, la misura ablativa con connotazioni «punitivo-sanzionatorie», se estesa al prodotto e ai mezzi utilizzati per commettere il reato, potrebbe assumere carattere sproporzionato. La limitazione della confisca al profitto del reato realizzerebbe invece «una proporzione sostanzialmente automatica tra il vantaggio scaturente dalla commissione dell’illecito e l’ammontare della confisca, anche per equivalente, senza alcun riverbero sull’entità del trattamento sanzionatorio».
Il medesimo principio dovrebbe, ad avviso del giudice a quo, essere applicato alla confisca prevista dall’art. 2641 cod. civ. in relazione ai reati di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza, considerata «l’identità della ratio applicativa e della portata di tale disposizione» rispetto agli artt. 187 e 187-sexies t.u. finanza. E invero, «è proprio un meccanismo di confisca per equivalente strutturalmente correlato ai beni utilizzati per commettere il reato ad essere costruito dal legislatore in termini che non garantiscono in astratto, al di fuori dei casi dei tradizionali instrumenta sceleris, in genere rappresentati da cose intrinsecamente pericolose se lasciate nella disponibilità del reo, la proporzionalità della risposta sanzionatoria, intesa come […] necessaria adeguatezza al fatto, considerato nelle sue componenti oggettive e soggettive, che rappresenta la giustificazione retributiva della pena».
La riprova della sproporzione della misura si trarrebbe dalla circostanza che, ove si ragguagliassero le somme di denaro che ne sono oggetto alla pena detentiva, applicando i criteri di cui all’art. 135 del codice penale, si perverrebbe a pene di entità spropositata, «anche indipendentemente dal cumulo con la pur severa pena detentiva applicabile (da due a otto anni di reclusione)». Senza contare che «l’inesigibilità di importi di tale fatta […] comporta solo il risultato di realizzare, in linea generale, un permanente vincolo obbligatorio sul patrimonio dei soggetti condannati, senza comportare alcun reale vantaggio per il creditore».
La misura ablativa contrasterebbe più in particolare con il divieto, ricavabile dagli artt. 3 e 27, primo e terzo comma Cost., di infliggere pene manifestamente sproporzionate per eccesso, non solo in rapporto alle sanzioni previste per altre figure di reato, ma anche alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta. Tali pene tenderebbero a essere percepite come ingiuste dal condannato, finendo così per risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione (sono citate le sentenze n. 112 del 2019 e n. 68 del 2012 di questa Corte); e sarebbero, altresì, incompatibili con il principio di personalità della responsabilità penale, «che contrasta, in linea generale, con la previsione di “pene fisse”».
La confisca in esame colliderebbe inoltre con gli artt. 3 e 42 Cost., nonché – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – con gli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e 17 CDFUE, trattandosi di una sanzione che incide in senso limitativo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.
Sarebbe infine violato l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, tenuto anche conto del «principio di proporzionalità che informa la disciplina eurounitaria delle misure ablatorie di carattere patrimoniale» (sono richiamate la decisione quadro 2003/577/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa all’esecuzione nell’Unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio; la decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio, del 6 ottobre 2006, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca; la direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea; il regolamento UE 2018/1805 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 novembre 2018, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca).
1.4.– La Sezione rimettente rammenta in conclusione che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 15 del 2024 e n. 269 del 2017), «la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE a quelle previste dalla Costituzione italiana può generare un concorso di rimedi giurisdizionali».
Essa quindi motiva la propria scelta di sollevare questione di legittimità costituzionale rispetto alla possibile alternativa rappresentata dalla disapplicazione della norma interna contrastante con l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE osservando che, indipendentemente dall’essere quest’ultimo rimedio «foriero, nell’immediato, di incertezze e disparità di trattamento inevitabilmente conseguenti a decisioni adottate da singole autorità giudiziarie», nel caso di specie sarebbe necessario garantire, pur nel rispetto del primato del diritto dell’Unione europea, «l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona, tra i quali si colloca il principio di legalità in materia penale» (è citata l’ordinanza n. 24 del 2017 di questa Corte). Tale principio – che esige la formulazione chiara, precisa e stringente delle norme penali, onde consentire ai consociati di essere edotti delle conseguenze delle proprie condotte ed «impedire l’arbitrio applicativo del giudice» – apparterrebbe peraltro alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri dell’Unione quale corollario del principio di certezza del diritto (è citata Corte di giustizia, sentenza 12 dicembre 1996, in cause riunite C-74/95 e C-129/95, procedimenti penali a carico di X, paragrafo 25).
Nel caso di specie, «le esigenze di certezza del diritto penale e quelle correlate di predeterminazione, quantomeno dei criteri di riferimento ai quali il giudice deve attenersi per apprezzare l’esistenza o non (ed eventualmente in che misura) della sproporzione», indurrebbero a «escludere la possibilità di dare un’applicazione, prevedibile negli esiti, del principio di proporzionalità della risposta sanzionatoria, quando ciò possa condurre a non applicare una misura che il legislatore interno prevede come obbligatoria, senza lasciare al giudice interno alcuno spazio di graduazione».
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto nel giudizio costituzionale.
3.– Si è costituito in giudizio G. Z., imputato nel giudizio a quo, sostenendo la fondatezza delle questioni prospettate.
La misura ablativa prevista dall’art. 2641, secondo comma, cod. civ. avrebbe anzitutto natura punitiva, sia in quanto confisca per equivalente (è citata l’ordinanza n. 97 del 2009 di questa Corte), sia in quanto misura non limitata al profitto del reato, ma estesa al prodotto e ai beni strumentali e, dunque, volta all’ablazione di somme eccedenti il vantaggio economico conseguito dall’autore dell’illecito, con effetti peggiorativi della situazione patrimoniale di quest’ultimo (sono richiamate le sentenze n. 63 e n. 112 del 2019).
Da tale qualificazione discenderebbe la necessità che la confisca prevista dall’art. 2641 cod. civ. rispetti il principio di proporzionalità delle pene; principio con cui si porrebbero in frizione misure – come quella in esame – non graduabili in rapporto alla gravità dell’illecito e alla colpevolezza dell’autore.
Inoltre, la «combinazione tra la sanzione principale e l’ulteriore sanzione rappresentata dalla confisca del prodotto o dei beni strumentali che non consente alcuna commisurazione giudiziale» determinerebbe «una complessiva risposta sanzionatoria sproporzionata per eccesso». Gli artt. 2637 e 2638 cod. civ. già contemplerebbero infatti un apparato sanzionatorio di adeguata severità, al quale, per effetto dell’art. 2641, si dovrebbe obbligatoriamente aggiungere la confisca.
Sarebbe in particolare leso il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., che impone che a fatti di diverso disvalore corrispondano reazioni sanzionatorie diverse, laddove la confisca in esame non è modulabile in funzione della concreta gravità dell’illecito.
Sarebbero poi violati gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., essendo «evidente che una pena avente l’effetto di annientare economicamente l’autore dell’illecito non è idonea a perseguire alcuna finalità rieducativa».
Verrebbe altresì vulnerato il principio di necessaria individualizzazione della pena, discendente dagli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., non essendo modulabile – e dunque individualizzabile – la confisca di cui all’art. 2641 cod. civ.
L’eccessiva onerosità della misura ablativa contrasterebbe infine con il principio di tutela della proprietà privata e dell’iniziativa economica, di cui all’art. 42 Cost.
La contrarietà del trattamento sanzionatorio imposto dall’art. 2641 cod. civ. ai citati parametri costituzionali emergerebbe plasticamente nel caso di specie, poiché «una confisca pari all’ammontare di euro 963.000.000,00, nei confronti di persone fisiche, oltre a essere di fatto inesigibile», rappresenterebbe «una risposta sanzionatoria manifestamente sproporzionat[a] per eccesso rispetto alla lesione del pur rilevante bene giuridico della tutela della solidità e dell’affidabilità del mercato e dei sistemi bancari».
La denunciata illegittimità costituzionale dell’art. 2641 sussisterebbe con riferimento tanto alla confisca per equivalente, quanto a quella diretta, sia del prodotto del reato, sia dei beni strumentali, ancorché il rimettente abbia appuntato le proprie censure sulla sola confisca per equivalente dei beni strumentali, questa sola essendo la fattispecie rilevante nel giudizio a quo.
D’altra parte, l’art. 2641 costituirebbe una «norma priva di razionalità interna», atteso che, nell’ordinamento italiano, la confisca per equivalente sarebbe in via generale prevista come controvalore soltanto del prodotto, del profitto o del prezzo del reato, e non dei beni strumentali. La confisca per equivalente dei beni strumentali sarebbe in effetti priva di «una funzione coerente con quelle finalità preventive che l’ordinamento si prefigge nel prevedere la confisca dei beni utilizzati per commettere il reato».
L’art. 2641, secondo comma, cod. civ. sarebbe ormai «l’unica norma dell’ordinamento a prevedere la confisca per equivalente dei beni strumentali», a dispetto dell’evidente parallelismo che sussiste tra il delitto di aggiotaggio di cui all’art. 2637 cod. civ. e la fattispecie di aggiotaggio di cui all’art. 185 t.u. finanza e – correlativamente – tra la confisca di cui all’art. 2641 cod. civ. e quella di cui all’art. 187 t.u. finanza. Tale disposizione rappresenterebbe, in definitiva, il risultato di un mero «difetto di coordinamento tra le norme stratificatesi a seguito della modifica legislativa intervenuta nell’ambito degli abusi di mercato», che viola il canone della ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., «intesa come coerenza interna del sistema giuridico nel raffronto tra fattispecie analoghe».
Quanto infine al tema della «doppia pregiudizialità» e alla scelta del rimettente di privilegiare l’incidente di costituzionalità rispetto alla disapplicazione dell’art. 2641 cod. civ., la parte osserva che il primo rimedio «è ammissibile ed al contempo è preferibile, tenuto conto che la declaratoria di illegittimità determina quella stabilità nell’ordinamento interno, che la disapplicazione, affidata al singolo Giudice, non può garantire» (sono citate le sentenze di questa Corte n. 269 del 2017 e n. 149 del 2022).
4.– Nella memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza pubblica, la difesa di G. Z. ha insistito sull’argomento per cui la disposizione censurata sarebbe, anche nel raffronto con l’art. 240 cod. pen., «intrinsecamente priva di razionalità posto che l’ablazione degli instrumenta sceleris ha ragion d’essere solo nella forma diretta».
E invero, l’art. 240 cod. pen. prevederebbe la possibilità di ablazione delle «cose che servirono o furono destinate a commettere il reato» solo in forma diretta, in coerenza con la «funzione special-preventiva tipica delle misure di sicurezza» che «può essere realizzata solo sottraendo al reo lo strumento materiale impiegato per il reato». Le altre forme di confisca contemplate dall’art. 240 cod. pen., ossia la confisca del prezzo del reato e del profitto, avrebbero invece «uno scopo recuperatorio-ripristinatorio e dunque di neutralizzazione dell’ingiusto arricchimento».
Ancora, la confisca dei beni strumentali prevista dall’art. 240 cod. pen. sarebbe facoltativa, mentre quella prevista, anche per equivalente, dall’art. 2641 cod. civ. ha natura obbligatoria; e proprio tale obbligatorietà la porrebbe in frizione con il principio di proporzionalità, in considerazione del carattere fisso e non graduabile della misura ablativa rispetto alla gravità dell’illecito e alla colpevolezza del responsabile.
In relazione alla violazione dei parametri unionali, e in particolare del principio di proporzionalità delle pene di cui all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, la parte richiama il considerando n. 17 della direttiva 2014/42/UE e il considerando n. 27 della direttiva (UE) 2024/1260 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 aprile 2024, riguardante il recupero e la confisca dei beni, secondo cui la confisca per equivalente degli strumenti del reato può essere applicata solo «se, alla luce delle circostanze particolari del caso di specie, tale misura è proporzionata, considerato, in particolare, il valore dei beni strumentali interessati».
Quanto, infine, al rimedio ai vulnera denunciati dal rimettente, la parte, ribadita la preferibilità dell’incidente di costituzionalità, auspica la caducazione in toto della previsione della confisca per equivalente dei beni strumentali. E invero, «[i]potizzare una confisca per equivalente per un valore diverso ed inferiore, significherebbe trasformare tale misura ablativa in una sorta di “pena pecuniaria” al di fuori di qualsiasi parametro legislativo di riferimento».
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione quinta penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. add. CEDU, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49, paragrafo 3, CDFUE – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2641, primo e secondo comma, cod. civ., censurandolo «nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato».
2.– In relazione all’ammissibilità delle questioni prospettate, occorre osservare quanto segue.
La Sezione rimettente deve giudicare del ricorso per cassazione del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Venezia che investe, tra gli altri, il capo della sentenza con cui è stata revocata la confisca della somma di 963 milioni di euro, a suo tempo disposta dal Tribunale di Vicenza a carico di quattro imputati sulla base del qui censurato art. 2641 cod. civ., che prevede la confisca obbligatoria di una somma di denaro o di beni di valore equivalente ai beni utilizzati per commettere taluno dei reati societari disciplinati dal Titolo XI del Libro V del codice civile, quando non sia possibile l’individuazione o l’apprensione di tali ultimi beni.
La somma originariamente confiscata dal Tribunale era stata calcolata con riferimento all’importo complessivo che – secondo il giudice di prime cure – sarebbe stato utilizzato dalla banca presso la quale gli imputati stessi a vario titolo operavano, per commettere una pluralità di fatti costitutivi dei delitti di aggiotaggio societario e ostacolo alle funzioni di vigilanza.
La Corte d’appello, considerando tale confisca manifestamente sproporzionata rispetto al disvalore dei reati dei quali gli imputati sono stati ritenuti responsabili, ne aveva ravvisato la contrarietà, tra l’altro, all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE. Conseguentemente, aveva ritenuto di dover disapplicare, nel caso concreto, l’art. 2641 cod. civ.
La Sezione rimettente della Corte di cassazione si trova, ora, a vagliare la fondatezza del ricorso del Procuratore generale, il quale lamenta la violazione della disposizione censurata, che la Corte d’appello avrebbe, ad avviso del ricorrente, erroneamente disapplicato.
Ad avviso di questa Corte, la valutazione della Sezione rimettente circa la rilevanza di tutte le questioni prospettate deve essere condivisa.
Ciò, in particolare, sotto il triplice profilo:
(a) della non implausibilità della qualificazione della somma della cui confisca si discute come «somma di denaro di valore equivalente» ai beni utilizzati per commettere il reato, qualificazione che condiziona l’applicabilità della disposizione censurata nel giudizio a quo (infra, 2.1.);
(b) della prospettabilità delle questioni di legittimità costituzionale indipendentemente dall’effetto diretto, recentemente affermato dalla Corte di giustizia, del principio di proporzionalità della pena sancito dall’art. 49, paragrafo 3, CDFUE (infra, 2.2.);
(c) della effettiva applicabilità di quest’ultima disposizione nel caso in esame alla luce dell’art. 51 CDFUE, e conseguentemente della sua idoneità a essere evocata anche come parametro interposto in una questione di legittimità costituzionale sollevata innanzi a questa Corte (infra, 2.3.).
2.1.– La Sezione rimettente sottolinea che gli unici fatti allo stato non coperti dalla prescrizione, tra quelli contestati alle persone fisiche imputate nel processo a quo, sono quattro condotte di ostacolo alle funzioni di vigilanza, asseritamente realizzate in altrettante date specifiche tra marzo e ottobre 2014.
Rispetto a tali condotte, ci si potrebbe invero interrogare sulla possibilità di qualificare come «beni utilizzati per commettere il reato» di ostacolo alle funzioni di vigilanza di cui all’art. 2638 cod. civ. le somme corrispondenti ai finanziamenti erogati a terzi dalla banca – nell’arco di svariati anni precedenti alle date in cui i quattro episodi delittuosi sono collocati dalla stessa pubblica accusa – per l’acquisto di azioni od obbligazioni dello stesso istituto. Ciò, in particolare, in relazione alla difficoltà di ritenere – già sul piano linguistico, determinante ai fini del rispetto del principio di legalità in materia penale (sentenza n. 98 del 2021, punto 2.4. del Considerato in diritto) – che la condotta esecutiva di una qualsiasi delle fattispecie descritte dall’art. 2638 cod. civ. (compresa quella di “occultamento” di circostanze che la banca avrebbe dovuto comunicare) sia stata compiuta “utilizzando” le somme di denaro in parola, come richiesto dal censurato art. 2641, primo comma, cod. civ.
Poiché, tuttavia, la soluzione affermativa si fonda su un orientamento conforme della giurisprudenza di legittimità (sentenze n. 1991 del 2019 e n. 42778 del 2017, citate dalla Sezione rimettente, nonché – più di recente – sezione quinta penale, sentenza 4-18 febbraio 2021, n. 6391), la cui legittimità costituzionale non è qui in discussione, deve ritenersi che la motivazione su tale presupposto interpretativo raggiunga la soglia di non implausibilità, costantemente indicata dalla giurisprudenza di questa Corte come sufficiente ai fini della rilevanza di una questione (ex multis, da ultime, sentenze n. 211 del 2024, punto 2.1. del Considerato in diritto, e precedenti ivi citati; n. 200 del 2024, punto 4 del Considerato in diritto, e precedenti ivi citati).
2.2.– La rilevanza delle questioni prospettate sussiste, altresì, sotto il profilo della possibilità per la Sezione rimettente di sollevare questioni di legittimità costituzionale indipendentemente dall’applicabilità, nel caso in esame, dell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, cui la Corte di giustizia ha attribuito recentemente effetto diretto nell’ordinamento degli Stati membri (Corte di giustizia UE, grande sezione, sentenza 8 marzo 2022, in causa C.205/20, NE). Effetto diretto che implica, in particolare, il potere del giudice nazionale di disapplicare, anche solo parzialmente, eventuali disposizioni statali che, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, lo vincolino a risultati sanzionatori sproporzionati rispetto alla gravità del reato.
2.2.1.– Come poc’anzi rammentato, la statuizione della Corte d’appello, che ha disapplicato la disposizione penale in questa sede censurata, è stata impugnata dal ricorso del Procuratore generale, che lamenta proprio l’erronea applicazione dell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE. Conseguentemente, alla Corte di cassazione è ora devoluta la questione se effettivamente l’art. 2641 cod. civ. si ponga in contrasto con il principio di proporzionalità della pena, così come sancito dall’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
Per altro verso, la proporzionalità della pena costituisce principio di rango costituzionale che una cospicua giurisprudenza di questa Corte ha gradatamente enucleato attraverso una lettura congiunta, in particolare, degli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. (per un quadro d’assieme, sentenza n. 112 del 2019, punti 8.1.2. e seguenti del Considerato in diritto). Parimenti, è pacifico che ogni limitazione al diritto di proprietà – tra cui quelle derivanti dai provvedimenti di confisca – deve soggiacere al limite della proporzionalità rispetto alle finalità della misura, onde non violare la garanzia di cui all’art. 42 Cost. e quella corrispondente stabilita dall’art. 1 Prot. add. CEDU, quest’ultima rilevante nell’ordinamento nazionale in forza dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 5 del 2023, punto 6.2.3. del Considerato in diritto).
La Sezione rimettente si è dunque trovata di fronte al bivio se decidere direttamente sulla contrarietà dell’art. 2641 cod. civ. all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE – e, conseguentemente, confermare o annullare la statuizione della Corte d’appello in proposito –, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (come suggerito dallo stesso Procuratore generale ricorrente); ovvero se investire questa Corte della valutazione sulla legittimità costituzionale del medesimo art. 2641 cod. civ., alla stregua tanto dei parametri nazionali sui quali si fonda il principio di proporzionalità della pena, quanto dello stesso art. 49, paragrafo 3, CDFUE (oltre che dell’art. 17 CDFUE, che tutela a livello unionale il diritto di proprietà), per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
2.2.2.– La decisione della Sezione rimettente di procedere in questo secondo senso è conforme ai principi ormai ripetutamente enunciati dalla giurisprudenza costituzionale (a partire dalla sentenza n. 269 del 2017, punto 5.2. del Considerato in diritto) per l’ipotesi in cui il giudice rilevi una incompatibilità tra una legge nazionale e una norma di diritto dell’Unione dotata di effetto diretto.
Ove la questione abbia altresì «un “tono costituzionale”, per il nesso con interessi o principi di rilievo costituzionale» (sentenza n. 181 del 2024, punto 6.3. del Considerato in diritto), il giudice italiano ha sempre – accanto alla possibilità di disapplicare, nel caso concreto, la legge nazionale, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in caso di dubbio sull’interpretazione o sulla validità della norma rilevante dell’Unione – l’ulteriore possibilità di sollecitare l’intervento di questa Corte, affinché rimuova la legge nazionale ritenuta incompatibile con il diritto dell’Unione (nello stesso senso, recentemente, sentenza n. 1 del 2025, punto 3.1. del Considerato in diritto).
Le due possibilità – configuranti un «concorso di rimedi giurisdizionali [che] arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione» (sentenza n. 20 del 2019, punto 2.3. del Considerato in diritto) – si fondano entrambe sul principio del primato del diritto dell’Unione, la cui tutela può essere assicurata, in modo «sempre più integrato» (sentenza n. 15 del 2024, punto 7.3.3. del Considerato in diritto), sia da ciascun giudice attraverso il rimedio della disapplicazione della legge nazionale incompatibile nel caso concreto, sia da questa Corte attraverso la dichiarazione della sua illegittimità costituzionale per contrasto con la norma unionale.
Quest’ultimo rimedio, come già sottolineato nella sentenza n. 20 del 2019, ha – anzi – particolare rilievo proprio nella materia della tutela dei diritti fondamentali, dove è essenziale che le corti costituzionali e supreme nazionali possano «contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE) […] che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti» (punto 2.3. del Considerato in diritto).
Al giudice comune spetta, dunque, il compito di individuare il rimedio di volta in volta più appropriato.
2.2.3.– Nel caso ora all’esame, la Sezione rimettente ha ampiamente motivato le ragioni della propria scelta di rivolgersi a questa Corte. Essa ha in particolare evidenziato che la disapplicazione (totale o parziale) di una pena prevista dalla legge italiana sarebbe foriera di «incertezze e disparità di trattamento», con conseguente pregiudizio per i principi di eguaglianza, di certezza del diritto (quest’ultimo, «parte viva e integrante del patrimonio costituzionale europeo»: sentenza n. 146 del 2024, punto 8 del Considerato in diritto) e prevedibilità delle decisioni giudiziarie.
Inoltre, la Sezione rimettente ha sottolineato come il rimedio della disapplicazione si ponga in tensione rispetto al principio di legalità in materia penale.
Ed in effetti, quest’ultimo principio esige che le norme penali – anche nella parte in cui prevedono sanzioni per la violazione dei relativi precetti – siano formulate in modo chiaro e preciso, non solo (a) per consentire ai singoli di formulare previsioni ragionevolmente affidabili sulla loro applicazione e (b) per garantire la corretta separazione dei poteri tra legislatore e giudice, specialmente importante in materia penale (ordinanza n. 24 del 2017, punto 5), ma anche (c) per assicurare il più possibile la parità di trattamento tra i condannati. Quest’ultima esigenza rischierebbe di risultare compromessa, laddove il potere discrezionale del giudice di determinare la pena appropriata (art. 132 cod. pen.) non fosse adeguatamente delimitato da precise indicazioni fornite dal legislatore ovvero da una pronuncia di questa Corte in grado di sostituire, con effetto erga omnes, prescrizioni legislative giudicate incompatibili con i principi costituzionali e unionali.
Proprio questi rischi sono evidenziati da una situazione come quella verificatasi nel processo a quo, in cui sulla base del solo principio di proporzionalità di cui all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE il giudice di merito potrebbe decidere se applicare o non applicare, ovvero applicare soltanto in parte, una confisca di importo pari a quasi un miliardo di euro a carico di quattro persone fisiche.
Infine, l’intervento di questa Corte in materia di controllo della proporzionalità della pena risulta necessario al fine di assicurare che di tali valutazioni possano giovarsi anche coloro che abbiano subito condanne definitive. E ciò in quanto, allo stato attuale del diritto vivente (ritenuto non costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 230 del 2012), a consentire la revisione di sentenze di condanna passate in giudicato non è sufficiente un mutamento giurisprudenziale favorevole, ma occorre una pronuncia di illegittimità costituzionale della legge penale, ai sensi degli artt. 673, comma 1, del codice di procedura penale e 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).
2.3.– La questione formulata dalla Sezione rimettente in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE (per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) è, infine, ammissibile anche con riguardo alla condizione – stabilita dall’art. 51 CDFUE, e costantemente rammentata dalla stessa giurisprudenza di questa Corte (ex multis, da ultime, sentenze n. 85 del 2024, punto 2 del Considerato in diritto, e n. 183 del 2023, punto 7 del Considerato in diritto) – che la controversia all’esame ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.
Ciò può predicarsi non tanto in forza degli strumenti unionali, citati dal giudice a quo, di mutuo riconoscimento dei provvedimenti di confisca, che non stabiliscono a carico degli Stati membri obblighi di armonizzazione sostanziale delle relative discipline; e neppure in forza degli obblighi discendenti dalla direttiva 2014/42/UE relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, nonché dalla direttiva 2024/1260 riguardante il recupero e la confisca dei beni che oggi la sostituisce. Questi ultimi due strumenti, infatti, impongono sì agli Stati obblighi di armonizzazione sostanziale delle relative discipline, ma limitatamente ai reati da essi specificamente menzionati, che non comprendono quelli di natura societaria cui si riferisce la disposizione in questa sede censurata.
Piuttosto, che nel caso di specie si versi nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione è attestato, quanto meno, dalle due considerazioni seguenti.
Da un lato, le condotte contestate agli imputati – costitutive, secondo la pubblica accusa, anche del delitto di ostacolo alle funzioni di vigilanza – costituiscono violazioni di specifici obblighi di fonte unionale, come nel caso del divieto di considerare parte del patrimonio di vigilanza della banca come capitale di classe 1 le azioni proprie acquistate con un finanziamento erogato dalla banca medesima ex art. 28, comma 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012.
Dall’altro, gli obblighi di cooperazione con la BCE a carico delle banche sottoposte all’attività di vigilanza di quest’ultima – obblighi la cui violazione è considerata dalla pubblica accusa costitutiva, nel caso in esame, del delitto di cui all’art. 2638 cod. civ. – sono essi stessi stabiliti dagli strumenti di diritto derivato del diritto dell’Unione che hanno istituito il cosiddetto Meccanismo di vigilanza unico o MVU, quali, segnatamente, il regolamento (UE) n. 1024/2013 del Consiglio, del 15 ottobre 2013, che attribuisce alla Banca centrale europea compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi, nonché il regolamento (UE) n. 468/2014 della Banca centrale europea del 16 aprile 2014, che istituisce il quadro di cooperazione nell’ambito del Meccanismo di vigilanza unico tra la BCE e le autorità nazionali competenti e con le autorità nazionali designate.
Tanto basta per concludere che il caso in esame ricade in una materia interessata da obblighi discendenti dal diritto dell’Unione: con conseguente applicabilità – ai sensi dell’art. 51 CDFUE – di tutte le restanti disposizioni della Carta medesima, tra cui l’art. 49, paragrafo 3.
Il che comporta la possibilità di evocare anche questo parametro a sostegno dei prospettati dubbi di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.
3.– Nel merito, le questioni sono fondate in riferimento al principio di proporzionalità della pena di cui agli artt. 3, 27, terzo comma, nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, restando assorbiti gli ulteriori parametri evocati dal giudice a quo.
Ciò per le ragioni di seguito sintetizzate, e più distesamente chiarite nei paragrafi successivi.
La confisca, diretta e per equivalente, dei beni utilizzati per commettere uno dei reati disciplinati dal Titolo XI del Libro V del codice civile, prevista dalla disposizione censurata, ha natura di vera e propria pena di carattere patrimoniale, e in quanto tale deve rispettare il principio di proporzionalità della pena (infra, 3.1.).
Tale principio, applicato alle pene di carattere patrimoniale, vieta che l’entità dell’ablazione patrimoniale risulti sproporzionata tanto rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato, quanto alle condizioni economiche e patrimoniali dell’interessato (infra, 3.2.).
La confisca dei beni strumentali e di somme di denaro o beni di valore ad essi equivalenti prevista dalla disposizione censurata è strutturalmente indifferente a tali condizioni; pertanto, la sua previsione in termini di obbligatorietà vincola il giudice ad applicarla anche quando, nel caso concreto, essa risulti manifestamente sproporzionata, ponendosi così in contrasto con il principio di proporzionalità (infra, 3.3.).
Questa conclusione trova conferma nel diritto comparato e nel diritto dell’Unione europea, in cui la previsione della confisca dei beni strumentali è di regola subordinata a una valutazione di compatibilità della sua inflizione, nel caso concreto, con il principio di proporzionalità (infra, 3.4.).
L’accertata fondatezza delle censure formulate in riferimento al principio della proporzionalità della pena rende superfluo l’esame delle ulteriori censure relative alla violazione dei principi costituzionali, convenzionali e unionali in materia di tutela del diritto di proprietà (infra, 3.5.).
3.1.– Nel motivare i propri dubbi circa la violazione del principio di proporzionalità della pena da parte della disposizione censurata, il giudice a quo muove dall’ascrizione di una «natura sanzionatoria punitiva» alla confisca dei beni utilizzati per commettere il reato (i cosiddetti “beni strumentali”, o instrumenta sceleris), ivi prevista come obbligatoria; natura punitiva che si estenderebbe anche alla previsione, contenuta nel secondo comma della disposizione censurata della cui applicazione si discute nel procedimento a quo, dell’obbligatoria confisca di denaro o beni di valore equivalente ai beni strumentali menzionati nel primo comma, allorché non sia possibile l’individuazione o l’apprensione di questi ultimi.
Il presupposto argomentativo da cui muove la sezione rimettente deve essere condiviso, sostanzialmente per le medesime ragioni già espresse in sintesi – in relazione a un’ipotesi di confisca amministrativa, diretta e per equivalente, di beni strumentali – dalla sentenza n. 112 del 2019 (in particolare, punto 8.3.4. del Considerato in diritto).
La circostanza, peraltro, che la confisca oggi all’esame sia applicabile non da un’autorità amministrativa, ma dallo stesso giudice penale in conseguenza della condanna per un reato, esige qualche ulteriore precisazione rispetto agli argomenti utilizzati in quella pronuncia.
3.1.1.– Come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare nella sentenza n. 5 del 2023 (punto 5.3.1. del Considerato in diritto), non tutte le misure che rientrano nella competenza del giudice penale sono soggette al medesimo statuto di garanzia. La Costituzione prevede, al secondo e al terzo comma dell’art. 25, una diversa estensione del principio di legalità in materia, rispettivamente, di pene e di misure di sicurezza. E persino il principio di proporzionalità – che pure è «requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo» (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.3. del Considerato in diritto) – si declina in modo necessariamente differente laddove sia riferito a misure orientate primariamente a punire l’interessato per un fatto da questi colpevolmente commesso, oppure a prevenire un pericolo (come nel caso delle misure di sicurezza e delle misure cautelari), o ancora a ripristinare semplicemente la situazione, fattuale e giuridica, preesistente al reato (come nel caso dell’ordine di demolizione di un immobile abusivamente costruito).
Ciò vale anche rispetto alle diverse forme di confisca affidate alla competenza del giudice penale, la cui natura deve «essere valutata in relazione alla specifica finalità e allo specifico oggetto di ciascuna di esse, nella consapevolezza – emersa già in pronunce assai risalenti di questa Corte (sentenze n. 46 del 1964 e n. 29 del 1961) – della estrema varietà di disciplina e funzioni delle confische previste nell’ordinamento italiano» (ancora, sentenza n. 5 del 2023, punto 5.3.1. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).
3.1.2.– Ora, come già sottolineato nella sentenza n. 112 del 2019, la confisca del “profitto” di un illecito ha «mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente» alla commissione del fatto in capo all’autore (nello stesso senso, ora, Corte EDU, sentenza 19 dicembre 2024, Episcopo e Bassani contro Italia, paragrafo 74). Una tale osservazione vale, allo stesso modo, per le confische disposte dall’autorità amministrativa e per quelle disposte dal giudice penale. Anche in relazione a queste ultime, infatti, la finalità essenziale della misura risiede nel sottrarre al reo l’utilità economica acquisita mediante la violazione della legge penale, e che egli non ha il diritto di trattenere, proprio in ragione della sua origine radicalmente illecita. Ciò che esclude quell’effetto peggiorativo della sua situazione patrimoniale preesistente, che necessariamente inerisce alle sanzioni dal contenuto “punitivo”.
Al contrario, la confisca dei “beni utilizzati per commettere l’illecito” (o semplicemente “beni strumentali”) incide su beni non ottenuti attraverso un’attività criminosa, e che dunque, di regola, erano legittimamente posseduti dall’autore del reato al momento del fatto; sicché la loro ablazione ad opera del giudice penale determina un peggioramento della sua situazione patrimoniale preesistente al reato. Il che senz’altro esclude che tale misura possa avere una natura meramente “ripristinatoria” dello status quo ante.
Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza e nella discussione orale, la difesa della parte costituita in giudizio ha sostenuto la tesi secondo cui la confisca dei beni strumentali avrebbe natura “preventiva”, sub specie di misura di sicurezza, essendo finalizzata a sottrarre al reo occasioni per tornare a delinquere. In questa prospettiva, la sua funzione sarebbe quella di neutralizzare la possibile fonte di pericolo rappresentata dalla persistente disponibilità della cosa in capo al reo, che potrebbe nuovamente utilizzarla per commettere altri reati: similmente, dunque, alla confisca dell’arma non regolarmente denunciata, cui questa Corte – nella poc’anzi citata sentenza n. 5 del 2023 – ha ascritto la finalità, essenzialmente preventiva, di neutralizzare i pericoli (legislativamente presunti, data l’intrinseca pericolosità della cosa) connessi alla sua circolazione (punto 5.3.2. del Considerato in diritto).
Tuttavia, una simile ricostruzione potrebbe in ipotesi risultare persuasiva in relazione alla previsione, nell’art. 240 cod. pen., della confisca meramente facoltativa delle «cose che servirono o furono destinate a commettere il reato», in particolare laddove si assuma che il giudice debba esercitare la propria discrezionalità sull’an di questa confisca a seconda che ritenga o meno sussistente un pericolo di reiterazione del reato da parte del reo, mediante un nuovo uso delle cose già utilizzate o destinate a commettere il precedente reato. Allorché però il legislatore configuri quale obbligatoria la confisca di beni strumentali non intrinsecamente pericolosi, come avviene nella disposizione censurata, la qualificazione di una tale confisca in termini di misura di sicurezza diviene assai più ardua, non essendo previsto un accertamento caso per caso da parte del giudice circa l’effettiva sussistenza di un pericolo di reiterazione del reato, connesso al persistente possesso del bene da parte dell’autore.
Come ritenuto dalla sentenza n. 112 del 2019, alla confisca (obbligatoria) dei beni strumentali deve, piuttosto, riconoscersi natura autenticamente “punitiva”. Una tale confisca si risolve, infatti, nell’ablazione di beni di regola legittimamente acquistati e posseduti dal reo, ma dei quali egli abbia fatto un uso illegittimo, in tal modo perdendo – proprio in conseguenza della sua decisione di commettere il reato – la tutela che l’ordinamento normalmente assicura al diritto di proprietà su quegli stessi beni; senza che sia invece necessario accertare nel caso concreto la possibilità di un loro uso illecito futuro, quale condizione per poter disporne l’ablazione (per analoghe considerazioni, sentenza n. 196 del 2010, punto 5.1. del Considerato in diritto, in relazione alla confisca obbligatoria del veicolo stabilita a carico del responsabile del reato di guida in stato di ebbrezza, la quale va disposta, in base alla legge, anche quando il veicolo risulti ormai inutilizzabile e pertanto sia «privo di attuale pericolosità oggettiva»).
Laddove, dunque, la confisca in parola sia disposta dal giudice penale, come nel caso disciplinato dall’art. 2641, primo comma, cod. civ., nulla osta a riconoscere che essa debba essere qualificata come vera e propria “pena” di carattere patrimoniale, che si aggiunge alle altre sanzioni principali previste in conseguenza della commissione di ciascun reato.
3.1.3.– Alle medesime conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla confisca di beni o somme di valore equivalente ai beni utilizzati per commettere il reato.
In linea generale, infatti, la confisca per equivalente mira a far sì che il reo subisca, nel suo patrimonio complessivo, la medesima perdita – in termini economici – che avrebbe sofferto laddove fosse stato possibile eseguire, in via diretta, l’ablazione degli specifici beni dei quali la legge dispone la confisca; sì da evitare che egli possa continuare a godere delle utilità derivanti da tali beni, una volta che li abbia comunque messi al riparo dalla pretesa ablatoria statale.
Laddove, dunque, la confisca di un bene o di una somma di denaro abbia natura di pena, quella medesima natura dovrà essere ascritta anche alla corrispondente ipotesi di confisca per equivalente.
3.1.4.– Dalla riconosciuta natura di pena delle confische tanto dei «beni utilizzati per commettere il reato» (art. 2641, primo comma, cod. civ.), quanto del «denaro o beni di valore equivalente» a tali beni (art. 2641, secondo comma, cod. civ.), deriva il loro necessario assoggettamento all’insieme dei principi e delle garanzie che governano la previsione legislativa, l’applicazione e l’esecuzione delle pene.
Tra tali principi, viene qui in considerazione la necessità che la pena non costituisca una reazione sproporzionata rispetto alla gravità del reato: necessità che la giurisprudenza di questa Corte ha fatto discendere, in particolare, dagli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., ma che deriva, altresì, dagli obblighi unionali cui l’Italia è vincolata ai sensi degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., e in particolare dall’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, che sancisce espressamente il principio secondo cui «[l]e pene non devono essere sproporzionate rispetto al reato».
3.2.– Rispetto alle pene che, come le confische in parola, si risolvano nell’ablazione di una parte del patrimonio della persona interessata, la necessaria proporzionalità della pena ha come termine di relazione non soltanto la gravità oggettiva e soggettiva (sul punto, ex multis, sentenza n. 73 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto) del reato, ma anche le condizioni economiche e patrimoniali del soggetto colpito dalla pena.
Nella sentenza n. 28 del 2022, questa Corte ha richiamato quanto già affermato nella ormai risalente sentenza n. 131 del 1979: mentre la pena detentiva comprime la libertà personale, che è «bene primario posseduto da ogni essere vivente», la pena pecuniaria incide sul patrimonio, bene che «non inerisce naturalmente alla persona umana». Da ciò deriva che la pena pecuniaria strutturalmente «comporta l’inconveniente di una disuguale afflittività e al limite, dell’impossibilità di applicarla, in funzione delle diverse condizioni economiche dei soggetti condannati». Dunque, mentre l’impatto di pene detentive di eguale durata può in linea di principio ipotizzarsi come omogeneo per ciascun condannato, così non è per le pene pecuniarie: una multa del medesimo importo può risultare più o meno afflittiva secondo le disponibilità reddituali e patrimoniali del singolo condannato.
La sentenza n. 28 del 2022 ha tratto da tali premesse la conclusione della necessità costituzionale di un meccanismo di adeguamento della pena pecuniaria alle diverse condizioni economiche dei condannati. «Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”», si è in quell’occasione osservato (punto 6.2. del Considerato in diritto), «il vaglio che questa Corte è chiamata a compiere sulla manifesta sproporzione della pena pecuniaria non potrà che confrontarsi con il dato di realtà del diverso impatto del medesimo quantum di una tale pena rispetto a ciascun destinatario» (nell’ambito del diritto comparato, sulla necessità di tenere in conto, nella valutazione relativa alla manifesta sproporzionalità di una pena pecuniaria stabilita da una legge, le considerazioni economiche e patrimoniali del reo, e comunque la sua effettiva capacità di far fronte al pagamento richiesto, si veda in particolare Corte Suprema del Canada, sentenza 14 dicembre 2018, Regina contro Boudreault, 3 SCR 599).
Condizione essenziale a garantire la compatibilità con i principi costituzionali delle pene pecuniarie è, allora, che l’autorità preposta alla loro applicazione disponga di un potere discrezionale rispetto alla loro applicazione, sì da evitare non solo che la sanzione pecuniaria risulti esorbitante rispetto alla capacità del condannato di farvi fronte, ma anche che essa possa determinare un effetto palesemente eccessivo sulle sue stesse condizioni di vita. Potere discrezionale che, del resto, la legge di regola attribuisce al giudice o all’autorità amministrativa competente in sede di commisurazione della sanzione, come attestato tra gli altri dall’art. 133-bis, cod. pen. in materia di pene pecuniarie, dall’art. 11 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) in materia di sanzioni amministrative e dall’art. 194-bis, comma 1, lettera c), t.u. finanza in materia di sanzioni per gli illeciti amministrativi ivi previsti.
3.3.– A tali principi non si conforma l’art. 2641 cod. civ., nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria dei beni strumentali, nonché del denaro o dei beni di valore equivalente agli stessi.
3.3.1.– Il vizio della disposizione censurata non sta – come sostenuto invece dalla difesa della parte, in particolare durante la discussione orale – nella illogicità della previsione della confisca per equivalente dei beni strumentali, in ragione dell’allegata natura di misura di sicurezza della confisca diretta di tali beni. Come poc’anzi osservato (supra, punto 3.1.3.), la confisca per equivalente in esame partecipa, in realtà, della stessa natura punitiva che caratterizza la confisca dei beni strumentali disciplinata dalla disposizione censurata; sicché non può ritenersi in linea di principio illogica l’ablazione, a carico di chi è soggetto a quest’ultima confisca, di beni o denaro di valore equivalente a quello dei beni strumentali soggetti in via diretta alla pretesa ablativa, ma che lo Stato non riesca ad apprendere.
Il vizio della confisca tanto dei beni strumentali, quanto dei beni o somme di denaro di valore ad essi equivalente, così come oggi disciplinata dall’art. 2641 cod. civ., risiede – semmai – nella sua obbligatorietà: la quale vincola il giudice ad applicare la misura anche quando, nel caso concreto, essa risulti sproporzionata.
Il primo e il secondo comma di tale disposizione, infatti, obbligano il giudice a imporre al soggetto un sacrificio patrimoniale, la cui entità dipende esclusivamente dal valore dei beni che, in concreto, sono stati utilizzati per commettere il reato. Ciò senza alcuna relazione con l’effettivo vantaggio patrimoniale conseguito mediante la commissione del reato; e senza alcun correttivo che consenta al giudice di valutare, in ciascun caso concreto, se il soggetto disponga effettivamente delle risorse per far fronte all’ablazione patrimoniale impostagli, né quale impatto tale ablazione possa avere sulla sua esistenza futura.
Un tale meccanismo è dunque strutturalmente suscettibile di produrre risultati sanzionatori in concreto sproporzionati.
3.3.2.– Queste incongruità si amplificano ove si consideri che il diritto vivente – la cui legittimità costituzionale non è, in questa sede, in discussione – considera applicabile la confisca per equivalente anche a carico di persone diverse da quelle che erano proprietarie del bene utilizzato per la commissione del reato, purché si tratti di persone penalmente responsabili (o corresponsabili) della sua commissione. Il che accade, in particolare, allorché la confisca per equivalente venga disposta a carico della persona fisica che ha agito per conto di una persona giuridica, utilizzando però beni o somme di cui quest’ultima era proprietaria, che sarebbero stati assoggettabili a confisca diretta in quanto strumenti del reato, ma che per qualsiasi ragione non sia più possibile apprendere da parte dello Stato. Ciò che rende – di fatto – la persona fisica garante dell’eventuale incapienza del patrimonio della persona giuridica rispetto alla pretesa ablativa dello Stato.
3.4.– La conclusione appena raggiunta è coerente con le soluzioni adottate in altri ordinamenti e nel diritto dell’Unione europea.
3.4.1.– In Germania, ad esempio, la confisca degli «oggetti utilizzati o destinati alla commissione o alla preparazione di un fatto doloso» è prevista quale facoltativa dal paragrafo 74 del codice penale. Il successivo paragrafo 74c disciplina poi la confisca, parimenti facoltativa, di beni o denaro di valore equivalente a tali oggetti, applicabile ogniqualvolta la loro confisca non sia possibile perché siano stati alienati, consumati o comunque sottratti alla confisca.
Il paragrafo 74f, primo comma, stabilisce peraltro che la generalità delle confische – tra cui le due forme menzionate – non possano essere disposte dal giudice quando la loro applicazione risulterebbe sproporzionata rispetto al fatto di reato commesso e al rimprovero che si possa muovere alla persona che verrebbe colpita dalla misura ablativa. Infine, il terzo comma dello stesso paragrafo 74f dispone che, in ogni ipotesi di confisca facoltativa, il giudice possa limitare la confisca a una parte degli oggetti confiscabili.
In ogni caso, dunque, nell’ordinamento tedesco è salvaguardata la discrezionalità del giudice nella determinazione dell’an e del quantum dei beni da confiscare, in applicazione del principio generale di proporzionalità.
Negli Stati Uniti, la Corte suprema federale ha, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ritenuto applicabile anche alla generalità delle confische il divieto di “pene pecuniarie eccessive” (“excessive fines”) sancito dall’ottavo emendamento alla Costituzione (Alexander contro United States, 509 U.S. 544 [1993], in riferimento a una confisca penale, e Austin contro United States, 509 U.S. 602 [1993] in riferimento a una confisca civile), recentemente ritenendolo vincolante anche rispetto ai singoli Stati in forza del quattordicesimo emendamento (Timbs contro Indiana, 586 U.S. 146 [2019]). Tale giurisprudenza si è, significativamente, formata proprio con riferimento a casi di confische di beni utilizzati per commettere un reato, per i quali è particolarmente frequente che la loro radicale ablazione possa risultare nel caso concreto sproporzionata. Spetta, di conseguenza, al giudice assicurare che la confisca non si risolva per l’interessato in un pregiudizio patrimoniale eccessivo in quanto «grossolanamente sproporzionato rispetto alla gravità del reato» (Bajakajian contro United States, 524 U.S. 321, 334 [1998]), come tale vietato dall’ottavo emendamento.
3.4.2.– Analoghe considerazioni devono svolgersi per il diritto dell’Unione europea.
L’art. 4, paragrafo 1, della direttiva 2014/42/UE relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea prevede che, con riferimento ai reati da essa elencati (tra i quali, peraltro, non figurano i reati cui si riferisce la disposizione in questa sede censurata), gli Stati membri debbano adottare le «misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale», dei beni strumentali (e cioè dei beni utilizzati o destinati a essere utilizzati per la commissione del reato), ovvero di beni di valore corrispondente. L’obbligo, dunque, ha per oggetto la predisposizione di un meccanismo normativo che consenta allo Stato di procedere alla confisca (totale o parziale) dei beni: non già la previsione di una tale confisca in termini di obbligatorietà.
Il considerando n. 17 della direttiva, inoltre, chiarisce che «[n]ell’attuazione della presente direttiva con riguardo alla confisca di beni di valore corrispondente ai beni strumentali al reato, le pertinenti disposizioni potrebbero essere applicate se, alla luce delle circostanze particolari del caso di specie, tale misura è proporzionata, considerato, in particolare, il valore dei beni strumentali interessati. Gli Stati membri possono anche considerare se, e in che misura, il condannato sia responsabile di rendere impossibile la confisca dei beni strumentali».
Indicazioni sovrapponibili sono rinvenibili, ora, nella direttiva 2024/1260 riguardante il recupero e la confisca dei beni, che sostituisce la direttiva 2014/42/UE e il cui termine di recepimento scadrà il 23 novembre 2026. L’art. 12 della nuova direttiva – applicabile anch’essa a reati diversi da quelli che in questa sede vengono in considerazione – impegna gli Stati, parimenti, ad adottare le «misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale», dei beni strumentali o di beni di valore corrispondente. Ma il considerando n. 27 ribadisce testualmente il caveat contenuto nel considerando n. 17 della precedente direttiva: le disposizioni in materia di confisca per equivalente possono essere applicate soltanto laddove la misura risulti proporzionata.
D’altra parte, l’esplicito riferimento al principio di proporzionalità nel considerando n. 27 è a rigore superfluo, a fronte della proclamazione di tale principio nell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, che ha portata generale e vincolante nell’intero ambito di attuazione del diritto dell’Unione, e come tale si applica a qualsiasi forma di confisca disciplinata dagli strumenti unionali.
3.5.– Da tutto ciò deriva che la disciplina specificamente censurata dal rimettente (la previsione in termini obbligatori, nell’art. 2641, secondo comma, cod. civ., della confisca di una somma di denaro o beni di valore equivalente ai beni utilizzati per commettere il reato) è incompatibile con tutti i parametri evocati dal rimettente sui quali si fonda il principio di proporzionalità della pena, nella sua dimensione interna e sovranazionale: e dunque con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nonché – per ciò che concerne il diritto dell’Unione – con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
Tale conclusione consente di considerare assorbite le restanti doglianze, concernenti l’allegata sproporzionata compressione del diritto di proprietà dell’interessato determinata dalla confisca in parola.
4.– Quanto all’individuazione del rimedio al vulnus riscontrato, occorre anzitutto evidenziare che la censura del rimettente, pur se testualmente formulata in relazione al primo e al secondo comma dell’art. 2641 cod. civ., investe in realtà soltanto la disposizione di cui al secondo comma concernente la confisca delle somme o dei beni di valore equivalente a quello dei beni (indicati nel primo comma) utilizzati per commettere il reato. La disposizione di cui al secondo comma è, del resto, la sola rilevante nel giudizio a quo.
Il vizio riscontrato risiede, come sopra osservato, nel carattere obbligatorio della confisca prevista da tale disposizione, che vincola il giudice ad applicare la misura ablativa anche quando, nel caso concreto, il suo impatto risulterebbe sproporzionato rispetto alla gravità del reato e alle condizioni economiche e patrimoniali dell’interessato.
Rispetto, tuttavia, alla possibilità di una pronuncia che sostituisca l’attuale previsione della confisca obbligatoria di denaro o cose di valore equivalenti ai beni strumentali con una corrispondente confisca meramente facoltativa, questa Corte ritiene doveroso cedere il passo alla valutazione del legislatore. Quest’ultimo è, infatti, nella migliore posizione per stabilire se conferire al giudice una discrezionalità nella scelta sull’an, o addirittura anche sul quantum del valore confiscabile, in modo da assicurare il pieno rispetto del principio di proporzionalità nell’applicazione concreta di questa confisca. Una simile innovativa soluzione, in ogni caso, non è oggi reperibile nell’ordinamento italiano, e costituirebbe anzi una «novità di sistema» (come già osservato dalle sentenze n. 146 del 2021, punto 5.2. del Considerato in diritto, e n. 252 del 2012, punto 4 del Considerato in diritto): non prestandosi, così, a essere assunta da questa Corte come soluzione costituzionalmente adeguata, in grado di sostituirsi a quella dichiarata costituzionalmente illegittima.
D’altra parte, come recentemente sottolineato, «[l]’esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, si pone imprescindibilmente solo allorché la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, si riveli foriera di “insostenibili vuoti di tutela” per gli interessi protetti dalla norma incisa (sentenza n. 222 del 2018): come, ad esempio, quando ne derivasse una menomata protezione di diritti fondamentali dell’individuo o di beni di particolare rilievo per l’intera collettività rispetto a gravi forme di aggressione, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali» (sentenza n. 185 del 2021, punto 3 del Considerato in diritto). In difetto di una simile situazione, l’intervento di questa Corte «ben può limitarsi all’ablazione, totale o parziale della disposizione censurata» (sentenza n. 46 del 2024, punto 4.2. del Considerato in diritto; in senso analogo, sentenza n. 51 del 2024, punto 4 del Considerato in diritto).
Nel caso ora all’esame, la mera ablazione del frammento di disposizione riferito alla confisca per equivalente dei beni strumentali non crea alcun intollerabile vuoto di tutela degli interessi protetti dalle norme penalmente sanzionate, giacché resta ferma, in particolare, la confisca obbligatoria del profitto, diretta o per equivalente, a carico di qualunque persona – fisica o giuridica – che risulti avere effettivamente conseguito le utilità derivanti dal reato.
Il censurato art. 2641, secondo comma, cod. civ. deve dunque essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria di una somma di denaro o beni di valore equivalente a quelli utilizzati per commettere il reato.
5.– Dal momento, poi, che il vulnus riscontrato investe allo stesso modo, ed esattamente per le medesime ragioni, la previsione della confisca diretta dei beni utilizzati per commettere il reato, disciplinata dal primo comma della medesima disposizione, la presente dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, alla previsione di cui all’art. 2641, primo comma, cod. civ., limitatamente alle parole «e dei beni utilizzati per commetterlo».
Resta inalterata invece la facoltà del giudice, nel rispetto del principio di proporzionalità, di disporre la confisca diretta delle «cose che servirono a commettere il reato» ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 240 cod. pen., richiamata dal terzo comma dell’art. 2641 cod. civ.: e dunque anche delle somme di denaro utilizzate per commettere il reato, a carico di chi risulti in concreto averne la disponibilità.