Sentenza 8/2025 (ECLI:IT:COST:2025:8)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: AMOROSO - Redattore: PETITTI
Camera di Consiglio del 14/01/2025;    Decisione  del 14/01/2025
Deposito del 04/02/2025;   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 28, c. 5° bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22/09/1988, n. 448, aggiunto dall'art. 6, c. 1°, lett. c-bis), del decreto-legge 15/09/2023, n. 123, convertito, con modificazioni, nella legge 13/11/2023, n. 159.
Massime: 
Massime: 
Atti decisi: ordd. 76 e 104/2024


Pronuncia

SENTENZA N. 8

ANNO 2025


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 5-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), aggiunto dall’art. 6, comma 1, lettera c-bis), del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159, promossi dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Bari, nei procedimenti penali a carico di M. P. e C. A. con due ordinanze del 25 marzo 2024, rispettivamente iscritte ai numeri 76 e 104 del registro ordinanze 2024 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, numeri 20 e 24, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 2025 il Giudice relatore Stefano Petitti;

deliberato nella camera di consiglio del 14 gennaio 2025.


Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 25 marzo 2024, iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2024, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Bari ha sollevato, in riferimento all’art. 31, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 5-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), aggiunto dall’art. 6, comma 1, lettera c-bis), del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159, nella parte in cui prevede che le disposizioni del comma 1 dello stesso art. 28, in tema di sospensione del processo con messa alla prova, non si applicano al delitto previsto dall’art. 609-octies del codice penale (violenza sessuale di gruppo), limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 609-ter del medesimo codice.

1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di M. P., imputato del delitto di cui agli artt. 609-octies, commi primo, secondo e terzo (violenza sessuale di gruppo), e 609-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., per aver partecipato – unitamente a P. A. e R. V., nei cui confronti si è proceduto separatamente – ad atti di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una minore infraquattordicenne: fatto commesso il 18 giugno 2019 (quando l’imputato era quindicenne).

All’udienza del 22 maggio 2022, l’imputato aveva ammesso l’addebito, chiedendo la sospensione del processo con messa alla prova. Preso atto del parere favorevole del pubblico ministero, il Collegio aveva quindi rinviato il processo all’udienza dell’11 dicembre 2023, incaricando i competenti Servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia (USSM) della verifica preliminare in ordine alla fattibilità della messa alla prova.

Nelle more, era entrata in vigore la legge 13 novembre 2023, n. 159 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123, recante misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), che, nel convertire, con modificazioni, il d.l. n. 123 del 2023, ha escluso, con la disposizione oggetto di censura, la messa alla prova per alcune tipologie di reato, tra cui la violenza sessuale di gruppo aggravata ai sensi dell’art. 609-ter cod. pen.: innovazione normativa della quale il difensore dell’imputato ha eccepito l’illegittimità costituzionale, con l’adesione del pubblico ministero.

1.2.– Ad avviso del giudice a quo, la questione sarebbe rilevante.

Allo stato, infatti, la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova non potrebbe essere accolta, in quanto il comma 5-bis dell’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988, aggiunto dall’art. 6, comma 1, lettera c-bis), del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, stabilisce che tale istituto non si applica a determinati delitti, tra i quali la violenza sessuale di gruppo commessa in danno di persona minorenne, e dunque aggravata ai sensi dell’art. 609-ter cod. pen.

Il rimettente ritiene di dover fare applicazione della nuova disposizione, in considerazione del fatto che, diversamente da quanto sostenuto dal pubblico ministero, l’istituto della sospensione del processo minorile con messa alla prova, pur avendo effetti sostanziali – posto che l’esito positivo della prova determina l’estinzione del reato –, sarebbe «intrinsecamente caratterizzato da una dimensione processuale». Opererebbe quindi, in relazione ad esso, il principio tempus regit actum, e non già il «principio della lex mitior riferibile esclusivamente alla fattispecie incriminatrice e al trattamento sanzionatorio». La legge processuale applicabile andrebbe individuata segnatamente in quella vigente al momento della pronuncia dell’ordinanza di cui all’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988, e non in quella vigente al momento della richiesta di sospensione del processo. Quest’ultima costituirebbe, infatti, «una mera dichiarazione di disponibilità al programma trattamentale», alla quale consegue una verifica di fattibilità da parte dei servizi minorili, l’elaborazione del relativo progetto, la verifica, nel contraddittorio delle parti, della rispondenza del progetto alle esigenze di recupero del minore imputato, sino alla decisione del Collegio, momento conclusivo dell’iter preliminare, al quale occorrerebbe fare dunque riferimento per individuare la norma applicabile.

1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rileva che il neointrodotto comma 5-bis dell’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 prevede che «[l]e disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai delitti previsti dall’articolo 575 del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 576, dagli articoli 609-bis e 609-octies del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 609-ter, e dall’articolo 628, terzo comma, numeri 2), 3) e 3-quinquies), del codice penale».

Secondo il rimettente, tale disposizione, nella parte in cui esclude l’accesso all’istituto della messa alla prova in relazione al delitto di violenza di gruppo in danno di minorenne, si porrebbe in contasto con l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale «[l]a Repubblica protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo».

La preclusione posta dalla norma censurata contrasterebbe con l’intero impianto del processo minorile, il quale – come affermato in più occasioni da questa Corte – ha come precipua finalità, in ossequio al citato precetto costituzionale, il recupero del minore deviante mediante la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, con rapida fuoriuscita dal circuito penale.

La messa alla prova costituirebbe uno dei principali strumenti di valutazione della personalità del minore, anche sul piano dell’apprezzamento dei risultati degli interventi di sostegno disposti. Se, infatti, all’esito dello svolgimento del programma trattamentale di messa alla prova, il minorenne mostra di aver superato le situazioni che hanno condotto alla commissione del reato, il giudice può dichiarare estinto il reato, essendo venuto meno l’interesse all’applicazione della pena, per l’avvenuto raggiungimento della finalità di recupero del minore. Apparirebbe, in effetti, «sommamente ingiusto» punire un soggetto che, a seguito di un positivo percorso di messa alla prova, «abbia conseguito un totale mutamento di vita e sia divenuto “altro” rispetto a quello che ha commesso il reato».

La durata della messa alla prova (sino a tre anni, per i delitti più gravi), la possibilità di verifiche intermedie del percorso e la revocabilità della sospensione costituirebbero, d’altro canto, elementi idonei alla verifica della serietà dell’impegno dell’imputato, scongiurando così eventuali strumentalizzazioni dell’istituto. In proposito, il rimettente ricorda la sentenza n. 125 del 1995 di questa Corte, nella quale si è chiarito che la messa alla prova costituisce «uno strumento particolarmente qualificante, rispondendo, forse più di ogni altro, alle indicate finalità della giustizia minorile».

Prevedere un catalogo di reati (tra cui la violenza sessuale di gruppo aggravata) in relazione ai quali l’imputato minorenne resta privo della possibilità di accesso a questo importante istituto di reinserimento sociale, comporterebbe un vulnus non soltanto delle esigenze di protezione dell’autore del reato, ma anche di quelle di protezione della collettività contro il rischio della recidiva.

Al riguardo, il rimettente ricorda come questa Corte, sia pure nella diversa materia dell’esecuzione della pena detentiva, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 659, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale per violazione dell’art. 31, secondo comma, Cost., nella parte in cui non consentiva la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minorenni condannati per i delitti ivi indicati, abbia escluso la possibilità di prevedere nei confronti dei minori «un rigido automatismo, fondato su una presunzione di pericolosità legata al titolo del reato commesso, che esclude la valutazione del caso concreto e delle specifiche esigenze del minore» (è citata la sentenza n. 90 del 2017).

Nel caso di specie, sussisterebbero tutti i presupposti per la sospensione del processo e l’avvio della messa alla prova. Dalle relazioni del servizio minorile emergerebbe, infatti, una evoluzione positiva della personalità dell’imputato – soggetto incensurato e senza altre pendenze penali –, il quale, con l’adeguato supporto della famiglia, ha mostrato un atteggiamento collaborativo caratterizzato da una riflessione critica sul disvalore del fatto compiuto, aderendo di sua iniziativa a tutte le attività proposte dal servizio.

La disposizione censurata non consente, tuttavia, di tener conto di tale percorso, con grave pregiudizio per le esigenze di recupero e reinserimento sociale del minore. Essa, introdotta a seguito di gravi fatti di cronaca, se pure mossa da comprensibili esigenze di sicurezza e di ordine pubblico, impedirebbe il necessario bilanciamento tra tali esigenze e quelle di «protezione dell’infanzia e della gioventù», facendo prevalere automaticamente le prime.

Il divieto assoluto di messa alla prova, nei casi di violenza sessuale di gruppo aggravata, violerebbe pertanto l’art. 31, secondo comma, Cost., sottraendo al vaglio di un giudice specializzato la possibilità di valutare, caso per caso, le condizioni contingenti, per rendere la risposta del processo minorile aderente alla personalità del minore.

2.– Con ulteriore ordinanza, emessa anch’essa il 25 marzo 2024 e iscritta al n. 104 del registro ordinanze 2024, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Bari ha sollevato altra questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988, nella parte in cui prevede che le disposizioni del precedente comma 1 non si applicano al delitto di cui all’art. 609-bis cod. pen. (violenza sessuale), limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 609-ter cod. pen.

2.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del processo nei confronti di C. A., minorenne all’epoca dei fatti, imputato del delitto di violenza sessuale aggravata in danno di una minorenne (ex artt. 609-bis e 609-ter, primo comma, numero 2, cod. pen.), nonché – in concorso con altre due persone, per le quali si è proceduto separatamente – del delitto di omissione di soccorso (art. 593, secondo comma, cod. pen.), per aver omesso di soccorrere adeguatamente la minore, dopo che ella aveva accusato un malore: fatti commessi nella notte tra il 27 e il 28 novembre 2021.

Anche in questo caso, l’imputato, all’udienza del 9 ottobre 2023, aveva ammesso gli addebiti, chiedendo la sospensione del processo con messa alla prova, sicché il Collegio, su parere favorevole del pubblico ministero, aveva demandato ai competenti servizi minorili i necessari approfondimenti istruttori, rinviando il processo all’udienza dell’11 marzo 2024.

Nelle more, era intervenuta la legge n. 159 del 2023, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 123 del 2023, che, aggiungendo all’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 il nuovo comma 5-bis, ha escluso la messa alla prova, tra l’altro, per la violenza sessuale aggravata ai sensi dell’art. 609-ter cod. pen.: disposizione della quale il difensore dell’imputato ha parimenti eccepito l’illegittimità costituzionale, con l’adesione del pubblico ministero.

2.2.– Il giudice a quo ritiene di nuovo la questione rilevante.

Sulla base delle medesime considerazioni svolte nell’altra ordinanza di rimessione, il rimettente reputa di dover applicare, alla luce del principio tempus regit actum, la disposizione sopravvenuta, che imporrebbe il rigetto della richiesta dell’imputato di sospensione del processo con messa alla prova, essendo questa divenuta possibile solo per il reato di omissione di soccorso. Ciò, sebbene nel caso di specie ricorrano tutti i presupposti per l’accesso all’istituto, essendo emersa dalle relazioni dei servizi minorili una evoluzione positiva della personalità dell’imputato, il quale si è sempre mostrato collaborativo con i medesimi servizi, aderendo di sua iniziativa alle attività da questi proposti.

2.3.– Il rimettente motiva, altresì, la non manifesta infondatezza della questione con argomenti identici a quelli svolti nell’ordinanza iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2024.

3.– È intervenuto, in entrambi i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.

3.1.– In via preliminare, l’Avvocatura generale eccepisce l’inammissibilità delle questioni sotto due distinti profili.

3.1.1.– Emergerebbe anzitutto, dalle ordinanze di rimessione, il difetto di rilevanza delle questioni, in conseguenza dell’errata ricostruzione della natura giuridica della messa alla prova del minore, ritenuta dal rimettente istituto processuale regolato, quanto ai problemi di diritto intertemporale, esclusivamente dal principio tempus regit actum.

Tale ricostruzione non sarebbe avvalorata, ma al contrario smentita dalla sentenza n. 91 del 2018 [recte: n. 240 del 2015], con la quale questa Corte ha scrutinato la legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), concernente i termini di decadenza per la proposizione della richiesta di messa alla prova dell’adulto, nella parte in cui precludeva l’accesso al nuovo istituto agli imputati nei processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento fosse stata effettuata prima dell’entrata in vigore della citata legge.

Questa Corte ha ritenuto non fondate le questioni sollevate nell’occasione affermando che «[i]l nuovo istituto ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova». Tale affermazione non condurrebbe affatto, peraltro, alle conclusioni cui perviene il rimettente, ovvero che l’istituto sia governato solo dal principio tempus regit actum. Sarebbe vero semmai il contrario, giacché questa Corte ha pure precisato – nel disattendere la censura di violazione del principio di retroattività della lex mitior – che la preclusione di cui il rimettente lamentava gli effetti era «conseguenza non della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale regime temporale della norma processuale». Il principio di retroattività si riferisce al rapporto tra un fatto e una norma sopravvenuta, di cui viene in questione l’applicabilità, e nella specie la retroattività della sospensione del processo con messa alla prova non era esclusa, dato che la nuova normativa si applicava anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore.

A contrario, quindi, la modifica peggiorativa dell’istituto della messa alla prova dei minori non potrebbe applicarsi ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., laddove, come nei casi oggetto dei giudizi a quibus, anche l’istanza di messa alla prova sia stata presentata prima della modifica stessa.

Peraltro, anche volendo accedere all’impostazione del rimettente circa la natura solo processuale della norma de qua, non si perverrebbe a una diversa soluzione. Nell’applicare il principio tempus regit actum, occorrerebbe infatti interpretare correttamente il concetto di actus.

Quest’ultimo, infatti, allorché il procedimento sia stato attivato su istanza di parte – come avvenuto nel caso di specie –, andrebbe propriamente individuato nell’istanza dell’imputato di sospensione del procedimento e non già nel provvedimento finale del giudice.

Diversamente opinando, si farebbe dipendere da una variabile del tutto casuale (la durata dell’istruttoria preliminare) la possibilità per l’imputato di avvalersi non solo della norma processuale, ma anche dell’istituto sostanziale correlato.

Le questioni sarebbero dunque inammissibili per difetto di rilevanza, in quanto il giudice a quo avrebbe potuto (e potrebbe) ammettere l’imputato alla messa alla prova.

3.1.2.– Secondo la difesa dello Stato, le questioni sarebbero, altresì, inammissibili «per mancata individuazione dei parametri costituzionali da porre necessariamente a riferimento».

Il ragionamento del giudice a quo, circa l’asserita incompatibilità della disposizione censurata con il principio costituzionale di protezione dell’infanzia e della gioventù, sotto il profilo dell’individualizzazione della pena nel processo minorile, risulterebbe infatti svolto in modo adeguato soltanto se posto in correlazione con i principi della finalità rieducativa della pena e di inviolabilità del diritto di difesa, di cui agli artt. 27, terzo comma, e 24 Cost.

Il rimettente si è limitato, tuttavia, a dedurre la violazione dell’art. 31, secondo comma, Cost., senza richiamare i parametri ora indicati, non ricavabili neppure dal tenore delle ordinanze di rimessione: il che renderebbe le questioni sollevate «del tutto monc[he]».

3.2.– Nel merito, le questioni risulterebbero comunque manifestamente infondate.

In via preliminare, la difesa dello Stato pone in evidenza come l’intervento sul processo minorile operato dal d.l. n. 123 del 2023, come convertito, non sia limitato all’introduzione della disposizione censurata dal giudice a quo, ma risulti «composito e ben più vasto». L’art. 8, comma 1, lettera b), del citato decreto-legge ha, infatti, inserito nel d.P.R. n. 448 del 1988 il nuovo art. 27-bis, che prevede un ulteriore istituto, oltre a quello della messa alla prova, volto ad assicurare la rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale, laddove si proceda per reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o con pena pecuniaria.

Ciò posto, la modifica legislativa censurata dal rimettente – che esclude la possibilità di messa alla prova del minore imputato per i delitti di omicidio aggravato e di violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo aggravate – mira a contenere la montante onda di gravissimi reati commessi da “gang giovanili”: fenomeno attestato dai dati statistici e del quale i fatti di cronaca avvenuti a Caivano, che hanno dato origine alla suddetta modifica, fornirebbero eloquente testimonianza.

Secondo il giudice a quo, la preclusione della messa alla prova minorile, ancorché solo per due gravissimi titoli di reato, quali la violenza sessuale e la violenza sessuale di gruppo aggravate, si porrebbe in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost., in quanto il processo minorile dovrebbe sempre basarsi sulle finalità, oltre che di recupero del minore, di rapida fuoriuscita del medesimo dal circuito penale.

La tesi, nella sua radicalità, non sarebbe condivisibile. Che il processo minorile debba tendere al massimo alla rapida fuoriuscita dei minori devianti dal circuito penale sarebbe assunto pacifico, testimoniato dalla stessa introduzione del citato art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988. Tale linea generale di politica criminale dovrebbe, tuttavia, necessariamente accordarsi con il rispetto degli altri valori costituzionali (quali la vita, l’integrità fisica e la salute dei cittadini), in modo equilibrato con le esigenze, special preventive e general preventive, nei confronti di minori che commettono reati gravissimi, quali quelli contemplati dalla disposizione modificata.

In questa prospettiva, la manifesta infondatezza delle questioni sollevate si apprezzerebbe sotto due distinti profili.

Il primo atterrebbe alla circostanza che il rimettente censura il divieto assoluto ex lege di accesso alla messa alla prova per i reati in questione senza nemmeno limitare la sua doglianza ai casi di lieve entità. Un asserto «così estremo» renderebbe il diritto del minore ad ottenere la messa alla prova, che conduce all’estinzione del reato, «diritto tiranno» rispetto ai beni costituzionali lesi dall’attività delittuosa e alle connesse esigenze di contenere la commissione di delitti gravissimi, con esiti spesso irreversibili per le persone offese.

Sotto altro profilo, il giudice a quo avrebbe omesso di considerare le ulteriori «valvole di sfogo» offerte dal processo minorile pure nei casi in cui la messa alla prova risulti preclusa, tra cui le pene sostitutive di cui all’art. 30 del d.P.R. n. 448 del 1988, applicabili ove la pena da irrogare non superi i quattro o i tre anni di reclusione.

In conclusione, quindi, la preclusione censurata, lungi dal ledere il parametro costituzionale evocato, rappresenterebbe un equilibrato (e necessario) contemperamento di tutti i valori costituzionali in gioco, espressivo di non sindacabile esercizio della discrezionalità legislativa.

4.– Nel giudizio relativo all’ordinanza iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2024, l’Unione camere penali italiane (UCPI) ha depositato un’opinione scritta in veste di amicus curiae, ammessa con decreto presidenziale del 25 novembre 2024.

L’UCPI condivide le censure del giudice a quo, rilevando come le misure introdotte dal d.l. n. 123 del 2023, come convertito, abbiano ricevuto critiche concordi da parte dell’avvocatura e della magistratura, le quali hanno posto in evidenza come le nuove discipline sostanziali e processuali, più che puntare a politiche di sostegno e a carattere educativo, siano rivolte quasi esclusivamente al versante repressivo. Una simile strategia si contrapporrebbe alle idee ispiratrici del cosiddetto codice del processo per i minorenni, di cui al d.P.R. n. 448 del 1988, il quale avrebbe contribuito a far sì che l’Italia, fino al 2023, fosse uno dei Paesi europei con il minor tasso di criminalità e di carcerizzazione minorile, centrando così l’obiettivo di relegare ad effettiva extrema ratio la risposta carceraria e di affermare «un modello (ri-)educativo capace di ricondurre i giovani all’interno della società».

L’introduzione di preclusioni assolute all’accesso alla messa alla prova basate sui titoli di reato per cui si procede tradirebbe lo spirito dell’istituto così come delineato anche dalla giurisprudenza di questa Corte (sono richiamate le sentenze n. 139 del 2020 e n. 68 del 2019), ponendosi in una direzione essenzialmente retributiva e punitiva ispirata alla logica della “irrecuperabilità” del minore se non attraverso la sanzione e il carcere: ciò, pur essendo ben note le criticità del contatto con il carcere per la formazione della personalità del minorenne.


Considerato in diritto

1.– Con le due ordinanze indicate in epigrafe, emesse il 25 marzo 2024, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Bari ha sollevato, in riferimento all’art. 31, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988, aggiunto dall’art. 6, comma 1, lettera c-bis), del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, nella parte in cui prevede che le disposizioni del comma 1 dello stesso art. 28, in tema di sospensione del processo con messa alla prova, non si applicano al delitto previsto dall’art. 609-octies cod. pen. (violenza sessuale di gruppo), limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 609-ter del medesimo codice (reg. ord. n. 76 del 2024), ovvero al delitto di cui all’art. 609-bis cod. pen. (violenza sessuale), limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 609-ter cod. pen. (reg. ord. n. 104 del 2024).

1.1.– L’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988 prevede che le disposizioni relative all’accesso al beneficio della sospensione del processo e della messa alla prova del minore contenute nel comma 1 dello stesso art. 28 «non si applicano ai delitti previsti dall’articolo 575 del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 576, dagli articoli 609-bis e 609-octies del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 609-ter, e dall’articolo 628, terzo comma, numeri 2), 3) e 3-quinquies), del codice penale».

Il rimettente deve giudicare della responsabilità di due imputati minorenni, chiamati a rispondere, l’uno, del reato di cui agli artt. 609-octies, commi primo, secondo e terzo, e 609-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., e, l’altro, del reato di cui agli artt. 609-bis e 609-ter, primo comma, numero 2), cod. pen.

Il giudice a quo ritiene che la questione sollevata in entrambi i giudizi sia rilevante in quanto, dovendo trovare applicazione il comma 5-bis dell’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988, i rispettivi imputati non possono accedere alla messa alla prova.

La necessità di applicare il comma 5-bis deriverebbe dalla constatazione per cui l’istituto della messa alla prova, «pur avendo effetti sostanziali, determinando l’estinzione del reato, è intrinsecamente caratterizzato da una dimensione processuale», da cui discenderebbe l’operatività della regola tempus regit actum e la correlativa esclusione dell’operatività del principio di irretroattività della legge sfavorevole al reo. Pertanto, la disciplina applicabile in entrambi i giudizi a quibus sarebbe quella vigente al momento della pronuncia dell’ordinanza di cui all’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 e non al momento della richiesta di sospensione (formulata, in entrambi i giudizi, prima del 15 novembre 2023, data di entrata in vigore della legge n. 159 del 2023, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 123 del 2023), la quale costituirebbe una «mera dichiarazione di disponibilità al programma trattamentale».

Nel merito, la scelta del legislatore di precludere l’accesso alla messa alla prova del minore per i soggetti imputati di determinati reati, tra i quali quelli di cui sono chiamati a rispondere gli imputati nei giudizi a quibus, sarebbe in contrasto con il richiamato precetto costituzionale di cui all’art. 31, secondo comma, Cost.

Per il fatto di prevedere un divieto assoluto di messa alla prova legato al titolo del reato, l’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988 impedirebbe a un giudice specializzato di individuare, sulla base delle circostanze del singolo caso, la risposta più aderente alla personalità del minore, ponendosi con ciò in contrasto con l’intero impianto del processo minorile, che ha come precipua finalità, in ossequio al citato precetto costituzionale, il recupero del minore deviante mediante la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, con rapida fuoriuscita dal circuito penale: finalità che trova nell’istituto considerato uno dei suoi più qualificanti strumenti di realizzazione.

1.2.– In considerazione dell’identità della disposizione censurata e delle ragioni addotte a sostegno della sua illegittimità costituzionale, i giudizi devono essere riuniti.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, sostenendo che il giudice rimettente non debba fare applicazione della disposizione censurata.

Ad avviso dell’interveniente, la valutazione compiuta dal rimettente quanto alla rilevanza delle questioni sarebbe errata, poiché l’istituto della messa alla prova del minorenne avrebbe una prevalente portata sostanziale, con la conseguenza che la sua applicabilità non sarebbe governata dalla regola tempus regit actum, ma dal generale principio di irretroattività della norma penale sostanziale meno favorevole al reo.

Nei casi di specie, la modifica peggiorativa introdotta dalla disposizione censurata non potrebbe ritenersi applicabile ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della stessa, laddove anche la domanda di messa alla prova sia stata presentata dagli imputati prima di dette modifiche.

In ogni caso, anche accedendo alla prospettazione del rimettente secondo cui l’istituto ha prevalente portata processuale e la sua applicabilità dipende dalla regola tempus regit actum, l’actus da prendere a riferimento per verificare la normativa applicabile non dovrebbe essere il provvedimento finale del giudice circa l’ammissibilità del beneficio, ma – ove questa sia stata presentata, come nei casi di specie – la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova avanzata dall’imputato. Diversamente, si farebbe dipendere da una variabile del tutto casuale (la durata dell’istruttoria) la possibilità per il minorenne imputato di avvalersi o meno «non soltanto della norma processuale ma anche dell’istituto sostanziale correlato».

3.– Preliminare all’esame di tale eccezione è una sintetica ricostruzione della normativa in materia di sospensione del processo con messa alla prova nel processo minorile, nella quale si inserisce la disposizione censurata.

3.1.– L’istituto della messa alla prova rappresenta, nell’ambito degli strumenti di adeguamento della risposta penale alle peculiari esigenze rieducative dell’imputato minore di età, «uno strumento particolarmente qualificante, rispondendo, forse più di ogni altro, alle […] finalità della giustizia minorile» (sentenza n. 125 del 1995).

La disciplina contenuta negli artt. 28 e 29 del d.P.R. n. 448 del 1988 prevede una particolare forma di probation, in forza della quale l’ordinamento rinuncia non solo all’esecuzione della pena, ma anche alla prosecuzione del processo e alla eventuale sentenza di condanna a fronte della partecipazione del minore imputato a un periodo di osservazione, trattamento e sostegno, stabilito nelle sue modalità dal giudice sulla base di un progetto predisposto dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, cui il minore stesso si sottopone volontariamente.

L’accesso all’istituto presuppone, al tempo stesso, un accertamento di responsabilità, sia pur provvisorio e allo stato degli atti, e la formulazione di un giudizio prognostico positivo sulla capacità del minore di avviare un percorso di rielaborazione critica dell’episodio criminoso, nonché di crescita e di reinserimento sociale.

Il tratto qualificante dell’istituto è rappresentato dall’adozione di un progetto di intervento che si traduce in una serie di prescrizioni individualizzate e a contenuto variabile perché tarate sul profilo personologico del minore e sul contesto socio-familiare in cui questi è inserito.

L’art. 27 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) stabilisce, tra l’altro, che il progetto di intervento debba prevedere «a) le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; b) gli impegni specifici che il minorenne assume; c) le modalità di partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell’ente locale; d) le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa».

Quanto ai presupposti applicativi, almeno fino all’adozione della disposizione censurata nei presenti giudizi, la messa alla prova nel processo minorile poteva essere astrattamente concessa per qualsiasi reato.

Il disvalore della condotta poteva (e può tuttora, fuori dei casi eccettuati) influire unicamente sulla durata massima del periodo di prova, che non può superare i tre anni quando si procede per reati puniti con la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni, restando limitato entro un anno negli altri casi (art. 28, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988).

Secondo quanto si ricava dall’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988, la messa alla prova minorile pertiene alla fase successiva all’esercizio dell’azione penale, ed elettivamente alla fase dell’udienza preliminare, in cui opera un giudice collegiale (composto da un magistrato togato e da due giudici onorari) particolarmente qualificato per l’indagine personologica sul minore deviante. Il relativo procedimento può essere avviato, pur in assenza di precise indicazioni normative, oltre che per iniziativa officiosa del giudice, su impulso delle parti (imputato e pubblico ministero) o anche dei genitori del minore o dei servizi minorili.

L’ordinanza con cui il giudice si pronuncia sull’opportunità della messa alla prova contiene anche l’indicazione delle prescrizioni di cui si compone il progetto, già predisposto dai servizi minorili ai quali il minore è affidato sin dall’avvio del procedimento.

L’esito positivo della messa alla prova conduce a una pronuncia di non luogo a procedere per estinzione del reato, mentre, in caso di mancato superamento della prova, il giudice provvede con ordinanza motivata, che determina la ripresa del processo dal momento in cui era stato sospeso (art. 29 del d.P.R. n. 448 del 1988).

3.2.– La messa alla prova nel processo minorile è caratterizzata, rispetto a quella introdotta nel 2014 per i procedimenti penali a carico degli adulti, da un significativo elemento differenziale: per gli adulti, infatti, la messa alla prova è ammessa solo per reati di ridotta gravità (individuati dall’art. 168-bis, primo comma, cod. pen.), postula la richiesta dell’imputato e, ove tale richiesta sia formulata nel corso delle indagini preliminari, il consenso del pubblico ministero (art. 464-ter cod. proc. pen.), con ciò rendendo evidente la sua natura negoziale e la sua finalità deflativa; nella messa alla prova minorile, al contrario, prevalgono nettamente la funzione officiosa del giudice (non avendo pari valore condizionante il consenso del minore imputato) e la finalità rieducativa.

Sintetizzando la differente portata dei due istituti, la sentenza n. 139 del 2020 di questa Corte ha chiarito, da ultimo, che, «[q]uale istituto ad applicazione officiosa e illimitata, non condizionata cioè dalla richiesta dell’imputato, né dal consenso del pubblico ministero, né sottoposta a limiti oggettivi di pena edittale, la messa alla prova del minore evidenzia caratteristiche specularmente opposte a quella dell’adulto, poiché l’essenziale finalità rieducativa ne plasma la disciplina in senso rigorosamente personologico, estraneo ogni obiettivo di deflazione giudiziaria».

4.– Alla luce di tale inquadramento dell’istituto, può essere ora presa in esame l’eccezione di inammissibilità della questione formulata dall’Avvocatura generale.

L’eccezione è fondata.

4.1.– L’interpretazione proposta nelle ordinanze di rimessione in ordine al presupposto di rilevanza della questione, ovvero circa la sussistenza delle condizioni necessarie per l’applicazione della disposizione censurata nei giudizi a quibus, non può essere condivisa da questa Corte.

Contrariamente all’assunto da cui muove il rimettente, l’effetto sostanziale dell’istituto in questione, che opera come causa di estinzione del reato e perciò incide sulla punibilità della persona, comporta la sua inerenza all’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost., e dunque la necessaria applicabilità ad esso del regime temporale di irretroattività della legge penale sfavorevole di cui al medesimo articolo.

È ben vero che il rimettente, nel qualificare la messa alla prova come istituto processuale con effetti sostanziali, fa implicito riferimento a una qualificazione adottata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (sezione seconda penale, sentenza 9 marzo-25 giugno 2015, n. 26761; sezione quarta penale, sentenza 30 settembre-26 ottobre 2015, n. 43009; sezione sesta penale, sentenza 13 ottobre-27 novembre 2020, n. 33660) e nella giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 240 del 2015), in pronunce che hanno preso in esame il profilo della applicabilità della messa alla prova per gli adulti in procedimenti nei quali il limite temporale previsto per la formulazione della richiesta di accesso all’istituto era già stato superato al momento della entrata in vigore della legge n. 67 del 2014, che ha introdotto l’istituto stesso.

La sentenza n. 240 del 2015, in particolare, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, non prevede l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova ai processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della nuova norma. L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova – si è chiarito in tale sentenza – pur avendo effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, è connotato comunque da un’intrinseca dimensione processuale e in ragion di ciò si giustifica la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi. Questa Corte ha quindi ritenuto che l’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., attesa la sua prospettiva processuale, dovesse essere assoggettato al principio tempus regit actum, e non già al principio di retroattività della lex mitior, il quale, al contrario, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena.

Diverso è il caso della disposizione censurata.

Questa, invero, interviene sull’istituto della sospensione del processo minorile con messa alla prova – già operante con riconosciuta idoneità al perseguimento del recupero del minore sin dal 1988 e applicabile a tutti i reati, senza esclusione alcuna –, precludendone in radice, e con effetto retroattivo, la fruibilità da parte dell’imputato ove l’imputazione a suo carico riguardi i reati specificamente individuati.

Per il fatto di precludere, per taluni reati, la possibilità di un esito processuale alternativo all’eventuale riconoscimento di responsabilità e alla conseguente irrogazione della pena detentiva per il minore, detta disposizione incide direttamente sulla disciplina sostanziale di quelle fattispecie di reato, con la conseguenza che la stessa non può essere assoggettata al principio tempus regit actum, ma deve essere ricondotta nell’ambito di operatività dell’art. 25, secondo comma, Cost., che stabilisce il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole. Principio, quest’ultimo, che, a differenza di quello di retroattività della lex mitior, ha valore assoluto e non è soggetto a bilanciamento con eventuali controinteressi (sentenze n. 65 del 2019 e n. 236 del 2011).

4.2.– In tal senso depone, innanzi tutto, l’orientamento ormai da tempo consolidato della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

A partire dalle sentenze della Corte EDU, grande camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia e 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, si è affermata una linea interpretativa dell’art. 7 della Convezione europea dei diritti dell’uomo secondo cui i confini esterni del principio di irretroattività in materia penale devono essere estesi alle disposizioni processuali che mostrino di avere un carattere sostanzialmente afflittivo perché intimamente correlate alla natura e all’entità della pena da irrogare in concreto, e non semplicemente alle misure riguardanti l’esecuzione o l’applicazione di quest’ultima.

Nel caso di specie, attesa l’irrilevanza della collocazione della disposizione censurata all’interno di un provvedimento normativo mirante a disciplinare il processo minorile, assume valore dirimente la duplice circostanza per cui la sospensione del processo con messa alla prova del minore presuppone per la sua applicabilità, come anticipato, la commissione di un reato e, soprattutto, mira ad impedire, in caso di esito positivo, la prosecuzione del processo, con il relativo, eventuale, accertamento di responsabilità e la conseguente applicazione della pena.

In quanto misura volta non soltanto a scongiurare l’applicazione della pena, ma anche, alle condizioni dianzi riferite, a escludere lo stesso accertamento del reato, essa non può che essere ascritta al novero delle norme di diritto penale sostanziale cui si applica l’art. 7 CEDU e il connesso principio di non retroattività delle norme penali sfavorevoli.

4.3.– Questo orientamento interpretativo è stato, peraltro, fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte.

In particolare, a partire dalla sentenza n. 32 del 2020 – e, successivamente, nelle sentenze n. 193 del 2020 e n. 183 del 2021 – questa Corte, in sintonia con la riportata giurisprudenza maturata intorno all’art. 7 CEDU, ha messo in discussione la rigida linea di separazione tra le norme penali sostanziali e quelle di carattere processuale, al fine di innestare i contenuti di tutela del divieto di retroattività della norma penale sfavorevole (di cui all’art. 7 CEDU e all’art. 25, secondo comma, Cost.) anche in ambiti ritenuti sino ad allora governati dalla regola tempus regit actum.

La citata sentenza n. 32 del 2020, infatti, ha inteso dare avvio a una «complessiva rimeditazione» della materia, affermando in linea generale che, «di regola, le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale».

Ogni qualvolta, pertanto, la normativa sopravvenuta – sia pur topograficamente afferente alla sfera processuale – «non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato», si deve ritenere che la successione di norme nel tempo sia soggetta al divieto di retroattività della norma sfavorevole di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., anziché alla regola, prima di allora applicata, del tempus regit actum. E ciò – precisa ancora la sentenza n. 32 del 2020 – vale allorché la successione normativa determini «l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto», come paradigmaticamente è dato riscontrare «allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, secondo comma, Cost. E ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo».

4.4.– Tali principi, affermati da questa Corte con riferimento alle modificazioni normative peggiorative che attengono alla fase di esecuzione della pena, devono valere anche per le modifiche inerenti alle condizioni di accesso alla sospensione del processo con messa alla prova del minore, in quanto istituto contrassegnato da una evidente implicazione sostanziale, con la conseguente, necessaria, applicazione ad esso, in sede di cognizione, del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole.

La conclusione cui è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte, per la quale le modifiche normative che incidono sulla “qualità” della pena ricadono nel cono di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., a prescindere dalla collocazione “topografica” della norma incisa, si impone in effetti a maggior ragione nel caso in esame.

La disposizione censurata, infatti, non determina un semplice mutamento in peius della “qualità” della pena da eseguire, ma un effetto negativo ancora più radicale, eliminando la possibilità di accedere a un istituto atto a determinare l’estinzione del reato e a escludere quindi l’applicazione di qualsiasi pena (tenuto conto anche del fatto che alle prescrizioni inerenti al programma cui il minorenne deve essere sottoposto non può essere ascritta alcuna funzione sanzionatoria, ma solo di promozione del percorso rieducativo del minore: sentenza n. 68 del 2019).

Non può dubitarsi, pertanto, che la preclusione all’accesso alla messa alla prova del minorenne comporti una radicale alterazione peggiorativa del trattamento riservato all’imputato di cui il giudice competente ritenga sussistente la responsabilità, perché esclude la possibilità di garantire la fuoriuscita del minore dal circuito processuale e di addivenire, in caso di esito positivo della messa alla prova, alla declaratoria dell’estinzione del reato e alla mancata irrogazione della pena detentiva.

4.5.– L’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988 configura pertanto, per i reati ivi considerati, una presunzione iuris et de iure di gravità delle condotte associate a detti reati, tale da impedire qualsiasi possibilità che il minore – al di là delle circostanze concrete delle condotte poste in essere e prescindendo dalla valutazione sulle sue effettive possibilità di recupero e di reinserimento sociale – venga sottratto al circuito processuale volto all’accertamento di responsabilità e, eventualmente, all’irrogazione della pena.

Le modifiche apportate dalla disposizione censurata alla disciplina della sospensione del processo minorile con messa alla prova, dunque, in quanto volte a precludere l’applicabilità dell’istituto in relazione a taluni reati, danno luogo a una disciplina sostanziale di contenuto deteriore rispetto a quella previgente e, pertanto, non possono essere applicate per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 159 del 2023, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 123 del 2023.

In effetti, nei casi oggetto dei giudizi a quibus, i reati sono stati commessi prima del 15 novembre 2023. Prima di tale data, gli imputati potevano quindi avere accesso, anche per quei reati, a un trattamento di risocializzazione che matura fuori dal carcere e che esclude anche l’accertamento di responsabilità penale; possibilità, invece, esclusa a seguito dell’entrata in vigore della disposizione censurata.

Dunque, nei giudizi a quibus, l’esclusione per i reati contestati, ai sensi dell’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988, della possibile estinzione del reato, seppur mediata dalla regola processuale che preclude l’ammissione alla sospensione del processo con messa alla prova, configura indubitabilmente un regime più gravoso di quello vigente al momento della commissione dei fatti, il che è dirimente ai fini della sfera di tutela garantita dall’art. 25, secondo comma, Cost. L’applicazione nei medesimi giudizi del regime legislativo sopravvenuto lederebbe altresì la tutela dell’affidamento legittimamente sorto negli imputati con riguardo al complessivo regime sanzionatorio applicabile ai reati commessi.

4.6.– Alla luce di tali considerazioni, contrariamente a quanto assume il giudice a quo, deve ritenersi che l’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 488 del 1988, non sia applicabile ai fatti commessi prima del 15 novembre 2023, in forza del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. e all’art. 7 CEDU.

5.– Le questioni sono pertanto inammissibili per difetto di rilevanza, con assorbimento di ogni altro profilo.


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 5-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), aggiunto dall’art. 6, comma 1, lettera c-bis), del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159, sollevate, in riferimento all’art. 31, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Bari, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 2025.

F.to:

Giovanni AMOROSO, Presidente

Stefano PETITTI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 4 febbraio 2025

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA


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