N. 150 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 maggio 2024
Ordinanza del 29 maggio 2024 della Corte di cassazione nel
procedimento civile promosso da Angelini Pharma spa contro Maurizio
Paone.
Lavoro - Licenziamento individuale - Emergenza epidemiologica da
COVID-19 - Divieto temporaneo di licenziamento - Preclusione, a
determinate condizioni, indipendentemente dal numero dei
dipendenti, della facolta' del datore di lavoro di recedere dal
contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3
della legge n. 604 del 1966 - Ambito applicativo - Omessa
previsione del divieto temporaneo di licenziamento del dirigente
per ragioni oggettive.
- Decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104 (Misure urgenti per il
sostegno e il rilancio dell'economia), convertito, con
modificazioni, nella legge 13 ottobre 2020, n. 126, art. 14, comma
2.
(GU n. 35 del 28-08-2024)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione Lavoro
Composta dagli ill.mi sigg.ri Magistrati:
dott. Antonio Manna - Presidente;
dott.ssa Carla Ponterio - consigliere;
dott. Francescopaolo Panariello - consigliere relatore;
dott. Gualtiero Michelini - consigliere relatore;
dott.ssa Elena Boghetich - consigliere;
ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso
iscritto al n. 5677/2023 r.g., proposto da Angelini Pharma spa, in
persona del legale rappresentante pro tempore, elett. dom.to in Via
F. Denza n. 15, Roma, presso avv. Nicola Pagnotta, rappresentato e
difeso dagli avv.ti Cesare Andrea Pozzoli, Angelo Chiello e Francesco
Sibani - ricorrente;
contro Paone Maurizio, elett. dom.to in Viale Gorizia n. 52,
Roma, presso avv. Giorgio Condemi, rappresentato e difeso dall'avv.
Mario Paone - controricorrente;
avverso la sentenza della Corte d'Appello di Roma n. 339/2023
pubblicata in data 31 gennaio 2023, n.r.g. 3008/2022.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del giorno 14
maggio 2024 dal consigliere dott. Francescopaolo Panariello;
Viste la memoria scritta depositata dal P.M., in persona
dell'avvocata generale dott.ssa Rita Sanlorenzo, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.
Rilevato che
1. Maurizio Paone, all'epoca dei fatti dirigente dell'odierna
societa' ricorrente, era stato licenziato in data 31 agosto 2020
nell'ambito di un complessivo disegno di ridimensionamento del
personale, che aveva coinvolto vari dipendenti.
Adiva il Tribunale di Roma per ottenere la declaratoria di
nullita' del licenziamento sia per violazione del divieto di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo e del divieto di
avviare procedure di licenziamento collettivo in pendenza
dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 introdotto dall'art. 46
decreto-legge n. 18/2020 (convertito in legge n. 27/2020), prorogato
poi dalla legge n. 178/2020 fino al 31 marzo 2021; sia per la sua
natura discriminatoria e/o perche' sorretto da motivo illecito
determinante.
2. Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale, all'esito della
fase c.d. sommaria di cui al rito previsto dalla legge n. 92/2012,
esclusa la configurabilita' di un licenziamento collettivo,
accoglieva la domanda di impugnazione del licenziamento individuale,
ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro,
condannava la societa' al risarcimento del danno pari all'ultima
retribuzione globale di fatto dal licenziamento fino all'effettiva
reintegrazione.
3. All'esito della fase a cognizione piena il Tribunale
accoglieva l'opposizione della societa' e rigettava le domande del
Paone.
4. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte territoriale
accoglieva il reclamo proposto dal Paone e per l'effetto dichiarava
la nullita' del licenziamento individuale del 31 agosto 2020 per
contrasto con norma imperativa, condannava la societa' al
risarcimento del danno, pari all'ultima retribuzione globale di fatto
dal licenziamento fino al successivo licenziamento del 30 luglio 2021
(escludendo il diritto alla reintegrazione in conseguenza del
sopravvenuto secondo licenziamento).
I giudici del reclamo ritenevano, all'esito di un'interpretazione
costituzionalmente orientata, che il divieto di licenziamenti
individuali «per giustificato motivo oggettivo» previsto in
conseguenza della pandemia da COVID-19 - previsto segnatamente
dall'art. 14, comma 2, decreto-legge n. 104/2020, convertito in legge
n. 126/2020 - si applicasse anche ai dirigenti.
5. Con il primo motivo del ricorso per cassazione, proposto ai
sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), codice di procedura civile la
societa' ricorrente lamenta «violazione e falsa applicazione» degli
artt. 14, comma 2, decreto-legge n. 104/2020, 12 e 14 disp. prel. del
codice civile per avere la Corte territoriale incluso nella
disciplina del «blocco dei licenziamenti individuali» anche i
rapporti di lavoro dirigenziali, soggetti - invece - al regime legale
del licenziamento ad nutum. In particolare, parte ricorrente addebita
ai giudici del reclamo di aver violato il criterio ermeneutico
letterale, stabilito dall'art. 12 disp. prel. del codice civile, e di
aver finito per applicare in via analogica una norma eccezionale come
quella del c.d. blocco dei licenziamenti, malgrado il divieto di
analogia per le norme eccezionali posto dall'art. 14 disp. prel. del
codice civile.
In via subordinata chiede a questa Corte di sollevare questione
di legittimita' costituzionale della citata norma per sospetta
violazione degli artt. 3, comma 1, e 41, comma 1, Cost. ove
interpretato nel significato ritenuto dalla Corte territoriale.
Considerato che
1. L'art. 14, decreto-legge n. 104/2020 (convertito con
modificazioni dalla legge n. 126/2020), rubricato «Proroga delle
disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per
giustificato motivo oggettivo», dispone:
«1. Ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito
dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all'emergenza
epidemiologica da COVID-19 di cui all'articolo 1 ovvero dell'esonero
dal versamento dei contributi previdenziali di cui all'articolo 3 del
presente decreto resta precluso l'avvio delle procedure di cui agli
articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e restano
altresi' sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla
data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale
interessato dal recesso, gia' impiegato nell'appalto, sia riassunto a
seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di
contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto
di appalto.
2. Alle condizioni di cui al comma 1, resta, altresi', preclusa
al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la
facolta' di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo
ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e
restano altresi' sospese le procedure in corso di cui all'articolo 7
della medesima legge.
3. Le preclusioni e le sospensioni di cui ai commi 1 e 2 non si
applicano nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione
definitiva dell'attivita' dell'impresa, conseguenti alla messa in
liquidazione della societa' senza continuazione, anche parziale,
dell'attivita', nei casi in cui nel corso della liquidazione non si
configuri la cessione di un complesso di beni od attivita' che
possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa
ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile, o nelle ipotesi di
accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni
sindacali comparativamente piu' rappresentative a livello nazionale,
di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente
ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori
e' comunque riconosciuto il trattamento di cui all'articolo 1 del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22. Sono altresi' esclusi dal
divieto i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non
sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa, ovvero ne sia
disposta la cessazione. Nel caso in cui l'esercizio provvisorio sia
disposto per uno specifico ramo dell'azienda, sono esclusi dal
divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello
stesso».
2. La sussistenza, in fatto, della condizione negativa prevista
dalla norma (id est non avere il datore di lavoro integralmente
fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili
all'emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all'articolo 1 ovvero
dell'esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui
all'articolo 3 del decreto legge n. 104 cit.) non e' controversa fra
le parti ed e' stata data per presupposta dai giudici di merito in
entrambi i gradi di giudizio.
Parimenti non controversa in fatto e' la circostanza per cui il
licenziamento del Paone e' stato formalmente intimato per una ragione
economico-organizzativa (soppressione della posizione di
«responsabile risorse umane» dei siti di Santa Palomba e di Aprilia
ricoperta dal Paone) e non ad nutum.
3. Ai fini della decisione del primo motivo di ricorso per
cassazione viene in rilievo il divieto temporaneo di licenziamento
individuale previsto dall'art. 14, comma 2, decreto-legge n. 104 cit.
4. La societa' ricorrente assume che, intesa la norma nel senso
ritenuto dalla Corte territoriale, essa sarebbe in contrasto con
l'art. 3, comma 1, Cost. sotto due profili:
a) finirebbe per mantenere ai dirigenti, ossia ai dipendenti
economicamente piu' forti, il diritto all'intero trattamento
retributivo, mentre per tutte le altre categorie sarebbe prevista la
CIG e, quindi, soltanto il diritto al trattamento di integrazione
salariale;
b) finirebbe per trattare diversamente datori di lavoro che
hanno molti rapporti di lavoro dirigenziali rispetto a quelli che non
ne hanno o hanno pochi dirigenti alle proprie dipendenze.
Le due questioni di legittimita' costituzionale cosi' come
prospettate dalla societa' ricorrente sono manifestamente infondate.
Sub a), va evidenziato che la collocazione in CIG, anche nel
periodo interessato dal c.d. blocco dei licenziamenti, non e'
automatica, ma pur sempre volontaria, ossia dipendente da una scelta
- tecnica, economica, o di strategia imprenditoriale - del datore di
lavoro in concreto. Sicche' nulla esclude che anche altre categorie
di dipendenti abbiano mantenuto il diritto al normale trattamento
retributivo, qualora il datore di lavoro abbia deciso di non far
ricorso (o almeno non per tutti) alla CIG.
In secondo luogo, nel senso della ragionevolezza di questa
differente (solo possibile) conseguenza milita anche il profilo
quantitativo: secondo massime di comune esperienza, nelle
organizzazioni produttive il numero dei dirigenti e' manifestamente e
di gran lunga inferiore al numero dei dipendenti non dirigenti,
sicche' il peso economico delle retribuzioni dirigenziali e' comunque
inferiore a quello delle retribuzioni complessivamente spettanti ai
non dirigenti. Ne consegue la ragionevolezza della scelta del
legislatore di escludere soltanto per i dirigenti il possibile
ricorso alla CIG (nel periodo rilevante nel presente giudizio) e
comunque la sua irrilevanza ai fini della decisione.
Sub b), la prospettata violazione e' insussistente, in quanto
attiene a mere evenienze fattuali, come tali non idonee ad incidere
sulla portata astratta della norma oggetto di interpretazione.
5. Al fine di individuare l'ambito applicativo del divieto dei
licenziamenti individuali il legislatore dell'emergenza ha fatto
testuale ed espresso riferimento al recesso «per giustificato motivo
oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n.
604» e, coerentemente, ha disposto altresi' la sospensione del
«procedure in corso di cui all'articolo 7 della medesima legge»
(ossia della procedura dinanzi alla commissione provinciale del
lavoro di cui all'art. 410 codice di procedura civile, volta
all'esperimento del tentativo di conciliazione per rinvenire una
possibile alternativa al licenziamento con il consenso delle parti
coinvolte).
Nel disciplinare l'ambito applicativo della legge n. 604/1966, il
suo art. 10 non menziona i dirigenti. Tale silenzio e' unanimemente
ritenuto significativo della volonta' di escludere i dirigenti (ubi
tacuit, noluit) e, dunque, di mantenerli in un regime di recesso ad
nutum (art. 2118 del codice civile). Proprio sulla base di questo
regime legale la contrattazione collettiva ha progressivamente
introdotto una forma di tutela «convenzionale», in termini sia di
necessaria «giustificatezza» del licenziamento del dirigente, sia di
obbligo per il datore di lavoro di corrispondere una determinata
indennita' (c.d. supplementare) nel caso di licenziamento «non
giustificato».
Il consolidato orientamento di questa Corte di legittimita' e'
nel senso della non coincidenza delle nozioni di «giustificato
motivo» (di cui all'art. 3, legge n. 604/1966) e di «giustificatezza»
(di cui alle previsioni dei contratti collettivi dei dirigenti di
vari settori produttivi). In particolare questa Corte ha affermato
che «La disciplina limitativa del potere di licenziamento, di cui
alla legge n. 604 del 1966 e st.lav., non e' applicabile, ai sensi
dell'art. 10 della legge n. 604 del 1966, ai dirigenti, neppure
convenzionali; ne consegue che, ai fini dell'eventuale riconoscimento
dell'indennita' supplementare prevista per la categoria dirigenziale,
occorre far riferimento alla nozione contrattuale di giustificatezza
della risoluzione, che si discosta, sia sul piano soggettivo che
oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la sua ragion
d'essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente
al datore di lavoro in virtu' delle mansioni affidate, dall'altro,
nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel
tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al
dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell'azienda»
(Cass. ord. n. 27199/2018; Cass. n. 23894/2018).
Ne consegue che i dirigenti sono esclusi dall'ambito applicativo
del divieto dei licenziamenti individuali, perche' nei loro confronti
il recesso non viene intimato ne' puo' giuridicamente essere intimato
«per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della
legge 15 luglio 1966, n. 604». L'espressione «ai sensi» e' riferita
alla nozione di recesso per «giustificato motivo oggettivo», che
assume giuridica rilevanza soltanto in tema di rapporti di lavoro
subordinato non dirigenziali. Per i dirigenti, infatti, sul piano
legale - come s'e' detto - il recesso e' ad nutum (art. 2118 del
codice civile) e, sul piano della contrattazione collettiva, e'
sufficiente che sia assistito da «giustificatezza», da intendere in
termini di non pretestuosita' e/o non arbitrarieta'.
6. E' invece diverso il regime del licenziamento collettivo:
quest'ultimo riguarda anche i dirigenti, in termini di computo nel
numero dei licenziandi ai fini dell'applicazione della disciplina di
cui alla legge n. 223/1991 e in termini di diritto di informazione e
consultazione sindacale e, quindi, di obblighi procedurali a carico
del datore di lavoro.
Va infatti rammentata la sentenza della Corte di Giustizia
dell'Unione Europea del 13 febbraio 2014 (in causa 596/12 promossa
dalla Commissione Europea), con cui la Repubblica Italiana e' stata
condannata per essersi resa inadempiente agli obblighi previsti dalla
direttiva n. 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998, perche' la
normativa italiana di riferimento (Legge n. 223/1991) aveva
originariamente escluso i dirigenti dall'ambito di applicazione della
procedura di licenziamento collettivo prevista dall'art. 2 dalla
direttiva. Il Parlamento Italiano e' pertanto intervenuto con la
Legge n. 161/2014 (pubblicata sulla G.U. n. 261 del 10 novembre
2014), con la quale la procedura dei licenziamenti collettivi e'
stata estesa anche ai dirigenti, attraverso una modifica ed una
riformulazione dell'art. 24 della legge n. 223/1991, sia pure nei
limiti sopra sinteticamente esposti.
La conseguenza di cio' e' immediatamente apprezzabile rispetto al
c.d. blocco dei licenziamenti collettivi disposto dall'art. 14, comma
1, decreto-legge n. 104 cit. (e gia' prima dall'art. 46 decreto-legge
n. 18/2020 conv. in legge n. 27/2020): esso riguarda certamente anche
i dirigenti, perche' ormai pure a costoro si applica la legge n.
223/1991, le cui procedure, da parte del legislatore dell'emergenza
pandemica, sono state temporaneamente vietate (o sospese se gia'
iniziate ad una certa data).
7. Ne consegue che sul piano della disciplina legale dei
licenziamenti individuali e di quelli collettivi, il difetto di
simmetria che sussiste per i dirigenti (ai quali non si applica la
prima, mentre si applica in parte la seconda) si riflette
puntualmente sul regime del c.d. blocco dei licenziamenti: tale
blocco e' applicabile solo se si tratta di licenziamento collettivo,
mentre resta escluso se si tratta di licenziamento individuale per
ragioni oggettive.
8. Tale conclusione non e' superabile in via di interpretazione
costituzionalmente conforme della norma emergenziale, ispirata a
criteri di solidarieta' sociale e di equa distribuzione degli oneri
derivanti dalla crisi. In particolare deve osservarsi che con il
suddetto blocco dei licenziamenti individuali la collettivita',
attraverso la CIGS, ha assunto il peso economico del lavoro
dipendente non dirigenziale (assolutamente preponderante in termini
economici) ed il peso di altri benefici erogati alle imprese
(sospensione temporanea di oneri fiscali e previdenziali), a fronte
dei quali i datori di lavoro hanno subito una temporanea restrizione
della facolta' di licenziamento, estesa secondo la sentenza
impugnata, anche ai dirigenti. Il riferimento testuale al
giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3, legge n. 604/1966 -
secondo i giudici del reclamo - rappresenterebbe solo la tecnica
normativa per alludere alle motivazioni economiche, ossia per
identificare la natura della ragione posta a fondamento del recesso
datoriale e non per delimitare la platea soggettiva di applicazione
del divieto e, dunque, dei relativi beneficiari.
9. Orbene, va ricordato che l'interpretazione costituzionalmente
conforme di una norma di legge si fonda sul principio di supremazia
costituzionale che impone all'interprete di optare, fra piu'
soluzioni astrattamente possibili, per quella che renda la norma
conforme a Costituzione (C. Cost. n. 456/1989). In tal senso questa
Corte ne ha fatto applicazione in molteplici occasioni (ex multis
Cass. 17 luglio 2015, n. 15083; Cass. 17 gennaio 2020, n. 823) sulla
scorta del consolidato insegnamento, secondo cui «le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne
interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di
darne), ma perche' e' impossibile darne interpretazioni
costituzionali» (C. Cost. 22 ottobre 1996, n. 356).
10. Ad avviso di questa Corte, tuttavia, l'interpretazione
offerta dai giudici del reclamo non puo' essere condivisa, in quanto
l'interpretazione costituzionalmente orientata postula piu' soluzioni
astrattamente possibili. Invece, nel caso in esame quella affermata
dalla Corte territoriale non rientra fra le interpretazioni
astrattamente possibili.
Vi osta il dato letterale assolutamente univoco, rappresentato
dal testuale ed espresso richiamo al recesso «per giustificato motivo
oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n.
604».
Trattasi di un elemento dal quale non e' possibile prescindere
(art. 12 disp. prel. del codice civile), atteso il c.d. primato del
criterio ermeneutico letterale che, per il suo carattere di
oggettivita' e per il suo naturale obiettivo di ricerca del senso
normativo maggiormente riconoscibile e palese, rappresenta il
criterio cardine nella interpretazione della legge e concorre alla
definizione in termini di certezza della fattispecie regolata (Cass.
sez. un. n. 23051/2022 in tema di fattispecie tributaria, ma con
affermazioni di principio di valenza generale). D'altronde, come ha
sottolineato anche parte della dottrina, non si puo' «leggere nella
disposizione quello che non c'e', anche quando la Costituzione
vorrebbe che vi fosse».
Quel richiamo al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art.
3 della legge n. 604 cit. non ha valenza polisemica. Il suo
significato e' infatti riferito da concorde dottrina e pluriennale
giurisprudenza di questa Corte di legittimita' al licenziamento
individuale del dipendente non dirigente, in coerenza con l'art. 10,
legge n. 604/1966, interpretato dal «diritto vivente» come norma che
esclude i dirigenti dall'ambito applicativo del regime legale di cui
alla stessa legge. Ne consegue che la nozione di «giustificato motivo
oggettivo» e' una soltanto e postula la natura non dirigenziale del
rapporto di lavoro in cui e' intervenuto il licenziamento: pertanto
non si presta ad un'interpretazione estensiva.
Dunque la funzione e gli effetti di quel testuale richiamo
(compiuto dal legislatore nella norma emergenziale) non si limitano -
come invece ritenuto dai giudici del reclamo - all'identificazione
della natura della ragione giustificatrice del recesso individuale,
ma si estendono all'individuazione delle categorie (legali) di
dipendenti ai quali quella ragione e' riferibile nel regime giuridico
legale del loro rapporto di lavoro. E fra tali categorie non vi e'
quella dei dirigenti.
11. L'ulteriore conseguenza e' che, per i licenziamenti
individuali di questi ultimi, la legislazione dell'emergenza
pandemica presenta una vera e propria lacuna normativa, che tuttavia
non e' possibile colmare mediante applicazione analogica.
Va infatti considerato che il c.d. blocco dei licenziamenti
rappresenta un'eccezione - sia pure temporanea - ai normali poteri
datoriali (art. 3, legge n. 604/1966; art. 2118 del codice civile),
che trovano fondamento e giustificazione nel c.d. rischio di impresa
e, in ultima analisi, nell'art. 41, comma 1 Cost.
Ne consegue che e' inammissibile l'applicazione analogica,
espressamente vietata per le norme eccezionali dall'art. 14 disp.
prel. del codice civile.
12. Nondimeno e' da considerare che ai fini del divieto
temporaneo dei licenziamenti non sussiste alcuna diversita' fra il
licenziamento collettivo e quello individuale, dal momento che la
differente procedura non ha alcun rilievo rispetto ad una norma
eccezionale emanata per fronteggiare un momento di straordinaria
crisi sociale ed economica causata da un fattore del tutto
imprevedibile come la pandemia da COVID-19. La ratio di ordine
pubblico e' agevolmente individuale nell'esigenza di evitare in via
provvisoria che le generalizzate conseguenze economiche della
pandemia si traducessero nella soppressione immediata di posti di
lavoro, con immediata perdita della capacita' reddituale dei
dipendenti ed impossibilita' di reimpiego.
Alla luce di questa ratio del divieto di licenziamento, comune a
tutte le sue forme, sia esso collettivo o individuale, va allora
valutata la ragionevolezza di una vera e propria asimmetria di
tutela: mentre per i dipendenti non dirigenti la tutela e' «globale»,
in quanto il divieto investe sia i licenziamenti individuali per
giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi, per i
dipendenti dirigenti la tutela e' soltanto parziale, in quanto il
divieto investe solo i licenziamenti collettivi.
Questa Corte dubita della ragionevolezza di tale asimmetria e,
dunque, ritiene che la norma violi l'art. 3 Cost.
13. Va premesso che la discrezionalita' del legislatore e', per
definizione libera e, pertanto, insindacabile a condizione che sia
ragionevole, ovvero, che la norma sia adeguata e congruente rispetto
alla finalita' perseguita dal legislatore medesimo.
Nel caso di specie tale condizione non sembra sussistere.
14. Non puo' condividersi la tesi - pure da taluni prospettata -
secondo cui il divieto di licenziamento si accompagnerebbe
indissolubilmente al costo del lavoro a carico della collettivita'
mediante la CIGS, non applicabile ai dirigenti. Questo asserito
binomio «divieto di licenziamento / costo del lavoro a carico della
collettivita'» e' smentito dallo stesso legislatore, che, con l'art.
14, comma 1, decreto-legge n. 104 cit. (e ancor prima con l'art. 46,
decreto-legge n. 18/2020), ha vietato e/o «bloccato» temporaneamente
il licenziamento collettivo, che puo' riguardare anche i dirigenti.
In tal caso e' dunque da riconoscere l'operativita' del c.d. blocco
senza possibilita' di ricorrere alla CIGS, sicche' il costo del
dirigente o dei dirigenti - altrimenti licenziabili - finisce per
restare a carico del datore di lavoro.
In corrispondenza con questo «sacrificio» imposto ai datori di
lavoro il legislatore ha riconosciuto una pluralita' di misure
economiche (introduzione di una fattispecie tipizzata di CIG: artt.
19 e 22-quinquies decreto-legge n. 18/2020 convertito in legge n.
27/2020; sospensione temporanea di oneri fiscali e previdenziali:
decreto-legge n. 18/2020 convertito in legge n. 27/2020; contributi a
fondo perduto: decreto-legge n. 137/2020 convertito in legge n.
176/2020 e successivi «decreti ristori»; credito d'imposta su
locazione di immobili ad uso non abitativo: art. 28, decreto-legge n.
34/2020 «decreto rilancio» convertito in legge n. 77/2020) che
presuppongono tutte - sul piano logico e giuridico - la portata
generalizzata del c.d. blocco dei licenziamenti collettivi e
individuali per ragioni oggettive, a prescindere dalla categoria
legale di inquadramento dei dipendenti altrimenti licenziabili.
Ne consegue che a fronte di questo bilanciamento si presenta del
tutto eclettica la scelta del legislatore di vietare temporaneamente
i licenziamenti collettivi (per loro stessa natura derivanti da
ragioni oggettive, cioe' riguardanti l'organizzazione dell'impresa)
di dirigenti e non anche quelli individuali dei dirigenti medesimi
per ragioni del pari oggettive.
L'irragionevolezza di questa scelta si manifesta in modo ancora
piu' evidente, ove si consideri che il «sacrificio» a carico dei
datori di lavoro e' certamente piu' gravoso in presenza di un
possibile licenziamento collettivo, sia perche' questo coinvolgerebbe
per definizione piu' dipendenti, sia perche' gli oneri datoriali in
tal caso sarebbero soltanto di tipo procedurale. Ne consegue che, nei
confronti del datore di lavoro, il sacrificio «piu' grave» (ossia il
c.d. blocco del licenziamento collettivo, che altrimenti puo'
coinvolgere anche dirigenti) viene disposto dal legislatore, che
invece esclude, nel contempo, quello «meno grave» (ossia il c.d.
blocco del licenziamento individuale per ragioni oggettive
concernenti la posizione del singolo dirigente). Questa scelta e'
irragionevole, perche' «nel piu' sta il meno»: se nel bilanciamento
dei contrapposti interessi il legislatore ha ritenuto di poter
sacrificare (per un tempo determinato) la facolta' di recesso
collettivo del datore di lavoro anche nei confronti dei dirigenti, a
maggior ragione avrebbe dovuto sacrificare quella di recesso
individuale. In definitiva, se - nell'ottica del bilanciamento - il
complesso delle misure di sostegno economico alle imprese e' stato
ritenuto dal legislatore idoneo a «compensare» il sacrificio
rappresentato dal blocco dei licenziamenti collettivi, anche dei
dirigenti, a maggior ragione quelle stesse misure di sostegno sono da
considerare ampiamente (e ancor di piu') idonee a compensare il minor
sacrificio del blocco dei licenziamenti individuali per ragioni
oggettive dei dirigenti.
L'omessa previsione di questo sacrificio «minore», da un lato, e
- dall'altro - l'impossibilita' letterale di interpretare la norma in
discorso (art. 14, comma 2, decreto-legge n. 104/2020, convertito in
legge n. 126/2020) in modo da ricomprendere nel blocco anche il
licenziamento individuale del singolo dirigente intimato per ragioni
oggettive, impongono a questa Corte di sollevare rispetto a detta
norma la questione di legittimita' costituzionale per contrasto con
l'art. 3 Cost.: in nessun modo l'omessa previsione denunziata si
presta ad essere giustificata sul piano costituzionale, ne' - come
s'e' detto - e' risolvibile mediante il canone dell'interpretazione
costituzionalmente orientata o adeguatrice, ostandovi il tenore
letterale. Dunque, non resta che prendere atto della irragionevolezza
della scelta legislativa di «bloccare», rispetto ai dirigenti, i soli
licenziamenti collettivi e non anche quelli individuali dovuti a
ragioni oggettive.
15. Alla luce delle considerazioni svolte e del principio
metodologico ribadito da C. Cost. n. 42/2017 (secondo cui «... A
fronte di adeguata motivazione circa l'impedimento ad
un'interpretazione costituzionalmente compatibile, dovuto
specificamente al «tenore letterale della disposizione», questa Corte
ha gia' avuto modo di affermare che «la possibilita' di un'ulteriore
interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di
fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del
rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la
verifica dell'esistenza e della legittimita' di tale ulteriore
interpretazione e' questione che attiene al merito della
controversia, e non alla sua ammissibilita'» (sentenza n. 221 del
2015 ... sentenze nn. 95 e 45 del 2016, n. 262 del 2015; nonche', nel
medesimo senso, sentenza n. 204 del 2016) ... »), la questione della
legittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 2, decreto-legge cit.
nella parte in cui non prevede il divieto (temporaneo) di
licenziamento del dirigente per ragioni oggettive, oltre ad essere
rilevante ai fini della decisione del primo motivo del ricorso per
cassazione proposto dalla datrice di lavoro del dirigente (tutto
incentrato sull'inapplicabilita' del «blocco» dei licenziamenti a
quelli individuali di dirigenti intimati per ragioni oggettive), si
presenta non manifestamente infondata in relazione all'art. 3 Cost.,
parametro che da lungo tempo la giurisprudenza della Corte
costituzionale ritiene coinvolto ogni qual volta la norma di legge si
presenti irragionevole, ossia non adeguata o congruente rispetto alla
finalita' perseguita dal legislatore.
P. Q. M.
La Corte, visto l'art. 23 della legge n. 83/1957,
a) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 2,
decreto-legge n. 104/2020 convertito in legge n. 126/2020 per
contrasto con l'art. 3 Cost.;
b) dispone l'immediata trasmissione di tutti gli atti di causa
alla Corte Costituzionale;
c) sospende il giudizio in corso;
d) dispone che a cura della cancelleria la presente ordinanza
sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei
Ministri, nonche' comunicata ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento.
Cosi' deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione
lavoro, in data 14 maggio 2024
II Presidente: Manna