Reg. ord. n. 150 del 2024 pubbl. su G.U. del 28/08/2024 n. 35

Ordinanza del Corte suprema di cassazione  del 29/05/2024

Tra: Angelini Pharma spa C/ Maurizio Paone



Oggetto:

Lavoro – Licenziamento individuale – Emergenza epidemiologica da COVID-19 – Divieto temporaneo di licenziamento - Preclusione, a determinate condizioni, indipendentemente dal numero dei dipendenti, della facoltà del datore di lavoro di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 – Ambito applicativo – Omessa previsione del divieto temporaneo di licenziamento del dirigente per ragioni oggettive – Denunciata asimmetria di tutela dei dirigenti, garantiti solo dal divieto (temporaneo) di licenziamento collettivo e non anche dal divieto di licenziamento individuale, rispetto ai lavoratori dipendenti non dirigenti – Irragionevolezza rispetto alla finalità perseguita dal legislatore.



Norme impugnate:

decreto-legge  del 14/08/2020  Num. 104  Art. 14   Co.  convertito con modificazioni in

legge  del 13/10/2020  Num. 126



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art.



Udienza Pubblica del 10 giugno 2025 rel. SAN GIORGIO


Testo dell'ordinanza

N. 150 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 maggio 2024

Ordinanza  del  29  maggio  2024  della  Corte  di   cassazione   nel
procedimento civile promosso da Angelini Pharma spa  contro  Maurizio
Paone. 
 
Lavoro - Licenziamento  individuale  -  Emergenza  epidemiologica  da
  COVID-19 - Divieto temporaneo di  licenziamento  -  Preclusione,  a
  determinate   condizioni,   indipendentemente   dal   numero    dei
  dipendenti, della facolta' del datore di  lavoro  di  recedere  dal
  contratto per giustificato motivo oggettivo ai  sensi  dell'art.  3
  della  legge  n.  604  del  1966  -  Ambito  applicativo  -  Omessa
  previsione del divieto temporaneo di  licenziamento  del  dirigente
  per ragioni oggettive. 
- Decreto-legge 14  agosto  2020,  n.  104  (Misure  urgenti  per  il
  sostegno   e   il   rilancio   dell'economia),   convertito,    con
  modificazioni, nella legge 13 ottobre 2020, n. 126, art. 14,  comma
  2. 


(GU n. 35 del 28-08-2024)

 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
                           Sezione Lavoro 
 
Composta dagli ill.mi sigg.ri Magistrati: 
      dott. Antonio Manna - Presidente; 
      dott.ssa Carla Ponterio - consigliere; 
      dott. Francescopaolo Panariello - consigliere relatore; 
      dott. Gualtiero Michelini - consigliere relatore; 
      dott.ssa Elena Boghetich - consigliere; 
    ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
iscritto al n. 5677/2023 r.g., proposto da Angelini  Pharma  spa,  in
persona del legale rappresentante pro tempore, elett. dom.to  in  Via
F. Denza n. 15, Roma, presso avv. Nicola  Pagnotta,  rappresentato  e
difeso dagli avv.ti Cesare Andrea Pozzoli, Angelo Chiello e Francesco
Sibani - ricorrente; 
    contro Paone Maurizio, elett. dom.to  in  Viale  Gorizia  n.  52,
Roma, presso avv. Giorgio Condemi, rappresentato e  difeso  dall'avv.
Mario Paone - controricorrente; 
    avverso la sentenza della Corte d'Appello  di  Roma  n.  339/2023
pubblicata in data 31 gennaio 2023, n.r.g. 3008/2022. 
    Udita la relazione svolta nella pubblica udienza  del  giorno  14
maggio 2024 dal consigliere dott. Francescopaolo Panariello; 
    Viste  la  memoria  scritta  depositata  dal  P.M.,  in   persona
dell'avvocata generale dott.ssa Rita Sanlorenzo, che ha concluso  per
il rigetto del ricorso. 
 
                            Rilevato che 
 
    1. Maurizio Paone, all'epoca  dei  fatti  dirigente  dell'odierna
societa' ricorrente, era stato licenziato  in  data  31  agosto  2020
nell'ambito  di  un  complessivo  disegno  di  ridimensionamento  del
personale, che aveva coinvolto vari dipendenti. 
    Adiva il Tribunale  di  Roma  per  ottenere  la  declaratoria  di
nullita'  del  licenziamento  sia  per  violazione  del  divieto   di
licenziamento per giustificato motivo  oggettivo  e  del  divieto  di
avviare   procedure   di   licenziamento   collettivo   in   pendenza
dell'emergenza epidemiologica da  COVID-19  introdotto  dall'art.  46
decreto-legge n. 18/2020 (convertito in legge n. 27/2020),  prorogato
poi dalla legge n. 178/2020 fino al 31 marzo 2021;  sia  per  la  sua
natura  discriminatoria  e/o  perche'  sorretto  da  motivo  illecito
determinante. 
    2. Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale, all'esito della
fase c.d. sommaria di cui al rito previsto dalla  legge  n.  92/2012,
esclusa  la  configurabilita'   di   un   licenziamento   collettivo,
accoglieva la domanda di impugnazione del licenziamento  individuale,
ordinava la  reintegrazione  del  ricorrente  nel  posto  di  lavoro,
condannava la societa' al  risarcimento  del  danno  pari  all'ultima
retribuzione globale di fatto dal  licenziamento  fino  all'effettiva
reintegrazione. 
    3.  All'esito  della  fase  a  cognizione  piena   il   Tribunale
accoglieva l'opposizione della societa' e rigettava  le  domande  del
Paone. 
    4. Con la sentenza indicata in  epigrafe  la  Corte  territoriale
accoglieva il reclamo proposto dal Paone e per  l'effetto  dichiarava
la nullita' del licenziamento individuale  del  31  agosto  2020  per
contrasto  con  norma   imperativa,   condannava   la   societa'   al
risarcimento del danno, pari all'ultima retribuzione globale di fatto
dal licenziamento fino al successivo licenziamento del 30 luglio 2021
(escludendo  il  diritto  alla  reintegrazione  in  conseguenza   del
sopravvenuto secondo licenziamento). 
    I giudici del reclamo ritenevano, all'esito di un'interpretazione
costituzionalmente  orientata,  che  il  divieto   di   licenziamenti
individuali  «per  giustificato   motivo   oggettivo»   previsto   in
conseguenza  della  pandemia  da  COVID-19  -  previsto  segnatamente
dall'art. 14, comma 2, decreto-legge n. 104/2020, convertito in legge
n. 126/2020 - si applicasse anche ai dirigenti. 
    5. Con il primo motivo del ricorso per  cassazione,  proposto  ai
sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), codice di  procedura  civile  la
societa' ricorrente lamenta «violazione e falsa  applicazione»  degli
artt. 14, comma 2, decreto-legge n. 104/2020, 12 e 14 disp. prel. del
codice  civile  per  avere  la  Corte  territoriale   incluso   nella
disciplina  del  «blocco  dei  licenziamenti  individuali»  anche   i
rapporti di lavoro dirigenziali, soggetti - invece - al regime legale
del licenziamento ad nutum. In particolare, parte ricorrente addebita
ai giudici del  reclamo  di  aver  violato  il  criterio  ermeneutico
letterale, stabilito dall'art. 12 disp. prel. del codice civile, e di
aver finito per applicare in via analogica una norma eccezionale come
quella del c.d. blocco dei  licenziamenti,  malgrado  il  divieto  di
analogia per le norme eccezionali posto dall'art. 14 disp. prel.  del
codice civile. 
    In via subordinata chiede a questa Corte di  sollevare  questione
di  legittimita'  costituzionale  della  citata  norma  per  sospetta
violazione degli  artt.  3,  comma  1,  e  41,  comma  1,  Cost.  ove
interpretato nel significato ritenuto dalla Corte territoriale. 
 
                           Considerato che 
 
    1.  L'art.  14,  decreto-legge  n.   104/2020   (convertito   con
modificazioni dalla legge  n.  126/2020),  rubricato  «Proroga  delle
disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per
giustificato motivo oggettivo», dispone: 
      «1. Ai datori di lavoro che non  abbiano  integralmente  fruito
dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all'emergenza
epidemiologica da COVID-19 di cui all'articolo 1 ovvero  dell'esonero
dal versamento dei contributi previdenziali di cui all'articolo 3 del
presente decreto resta precluso l'avvio delle procedure di  cui  agli
articoli 4, 5 e 24 della legge 23  luglio  1991,  n.  223  e  restano
altresi' sospese le procedure pendenti avviate  successivamente  alla
data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale
interessato dal recesso, gia' impiegato nell'appalto, sia riassunto a
seguito di subentro di  nuovo  appaltatore  in  forza  di  legge,  di
contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto
di appalto. 
      2. Alle condizioni di cui al comma 1, resta, altresi', preclusa
al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti,  la
facolta' di recedere dal contratto per giustificato motivo  oggettivo
ai sensi dell'articolo 3 della  legge  15  luglio  1966,  n.  604,  e
restano altresi' sospese le procedure in corso di cui all'articolo  7
della medesima legge. 
      3. Le preclusioni e le sospensioni di cui ai commi 1 e 2 non si
applicano nelle ipotesi di licenziamenti  motivati  dalla  cessazione
definitiva dell'attivita' dell'impresa,  conseguenti  alla  messa  in
liquidazione della  societa'  senza  continuazione,  anche  parziale,
dell'attivita', nei casi in cui nel corso della liquidazione  non  si
configuri la cessione di  un  complesso  di  beni  od  attivita'  che
possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo  di  essa
ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile,  o  nelle  ipotesi  di
accordo  collettivo   aziendale,   stipulato   dalle   organizzazioni
sindacali comparativamente piu' rappresentative a livello  nazionale,
di incentivo alla risoluzione del rapporto di  lavoro,  limitatamente
ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti  lavoratori
e' comunque riconosciuto il trattamento di  cui  all'articolo  1  del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22. Sono  altresi'  esclusi  dal
divieto i licenziamenti intimati in caso di  fallimento,  quando  non
sia previsto l'esercizio  provvisorio  dell'impresa,  ovvero  ne  sia
disposta la cessazione. Nel caso in cui l'esercizio  provvisorio  sia
disposto per  uno  specifico  ramo  dell'azienda,  sono  esclusi  dal
divieto i licenziamenti riguardanti  i  settori  non  compresi  nello
stesso». 
    2. La sussistenza, in fatto, della condizione  negativa  prevista
dalla norma (id est non  avere  il  datore  di  lavoro  integralmente
fruito  dei  trattamenti  di  integrazione  salariale   riconducibili
all'emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all'articolo 1 ovvero
dell'esonero dal  versamento  dei  contributi  previdenziali  di  cui
all'articolo 3 del decreto legge n. 104 cit.) non e' controversa  fra
le parti ed e' stata data per presupposta dai giudici  di  merito  in
entrambi i gradi di giudizio. 
    Parimenti non controversa in fatto e' la circostanza per  cui  il
licenziamento del Paone e' stato formalmente intimato per una ragione
economico-organizzativa    (soppressione    della    posizione     di
«responsabile risorse umane» dei siti di Santa Palomba e  di  Aprilia
ricoperta dal Paone) e non ad nutum. 
    3. Ai fini della  decisione  del  primo  motivo  di  ricorso  per
cassazione viene in rilievo il divieto  temporaneo  di  licenziamento
individuale previsto dall'art. 14, comma 2, decreto-legge n. 104 cit. 
    4. La societa' ricorrente assume che, intesa la norma  nel  senso
ritenuto dalla Corte territoriale,  essa  sarebbe  in  contrasto  con
l'art. 3, comma 1, Cost. sotto due profili: 
      a) finirebbe per mantenere ai dirigenti,  ossia  ai  dipendenti
economicamente  piu'  forti,  il   diritto   all'intero   trattamento
retributivo, mentre per tutte le altre categorie sarebbe prevista  la
CIG e, quindi, soltanto il diritto  al  trattamento  di  integrazione
salariale; 
      b) finirebbe per trattare diversamente  datori  di  lavoro  che
hanno molti rapporti di lavoro dirigenziali rispetto a quelli che non
ne hanno o hanno pochi dirigenti alle proprie dipendenze. 
    Le  due  questioni  di  legittimita'  costituzionale  cosi'  come
prospettate dalla societa' ricorrente sono manifestamente infondate. 
    Sub a), va evidenziato che la  collocazione  in  CIG,  anche  nel
periodo  interessato  dal  c.d.  blocco  dei  licenziamenti,  non  e'
automatica, ma pur sempre volontaria, ossia dipendente da una  scelta
- tecnica, economica, o di strategia imprenditoriale - del datore  di
lavoro in concreto. Sicche' nulla esclude che anche  altre  categorie
di dipendenti abbiano mantenuto il  diritto  al  normale  trattamento
retributivo, qualora il datore di lavoro  abbia  deciso  di  non  far
ricorso (o almeno non per tutti) alla CIG. 
    In secondo  luogo,  nel  senso  della  ragionevolezza  di  questa
differente (solo  possibile)  conseguenza  milita  anche  il  profilo
quantitativo:   secondo   massime   di   comune   esperienza,   nelle
organizzazioni produttive il numero dei dirigenti e' manifestamente e
di gran lunga inferiore  al  numero  dei  dipendenti  non  dirigenti,
sicche' il peso economico delle retribuzioni dirigenziali e' comunque
inferiore a quello delle retribuzioni complessivamente  spettanti  ai
non  dirigenti.  Ne  consegue  la  ragionevolezza  della  scelta  del
legislatore di  escludere  soltanto  per  i  dirigenti  il  possibile
ricorso alla CIG (nel periodo  rilevante  nel  presente  giudizio)  e
comunque la sua irrilevanza ai fini della decisione. 
    Sub b), la prospettata violazione  e'  insussistente,  in  quanto
attiene a mere evenienze fattuali, come tali non idonee  ad  incidere
sulla portata astratta della norma oggetto di interpretazione. 
    5. Al fine di individuare l'ambito applicativo  del  divieto  dei
licenziamenti individuali  il  legislatore  dell'emergenza  ha  fatto
testuale ed espresso riferimento al recesso «per giustificato  motivo
oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge  15  luglio  1966,  n.
604» e,  coerentemente,  ha  disposto  altresi'  la  sospensione  del
«procedure in corso di  cui  all'articolo  7  della  medesima  legge»
(ossia della  procedura  dinanzi  alla  commissione  provinciale  del
lavoro  di  cui  all'art.  410  codice  di  procedura  civile,  volta
all'esperimento del tentativo  di  conciliazione  per  rinvenire  una
possibile alternativa al licenziamento con il  consenso  delle  parti
coinvolte). 
    Nel disciplinare l'ambito applicativo della legge n. 604/1966, il
suo art. 10 non menziona i dirigenti. Tale silenzio  e'  unanimemente
ritenuto significativo della volonta' di escludere i  dirigenti  (ubi
tacuit, noluit) e, dunque, di mantenerli in un regime di  recesso  ad
nutum (art. 2118 del codice civile). Proprio  sulla  base  di  questo
regime  legale  la  contrattazione  collettiva  ha   progressivamente
introdotto una forma di tutela «convenzionale»,  in  termini  sia  di
necessaria «giustificatezza» del licenziamento del dirigente, sia  di
obbligo per il datore di  lavoro  di  corrispondere  una  determinata
indennita'  (c.d.  supplementare)  nel  caso  di  licenziamento  «non
giustificato». 
    Il consolidato orientamento di questa Corte  di  legittimita'  e'
nel senso  della  non  coincidenza  delle  nozioni  di  «giustificato
motivo» (di cui all'art. 3, legge n. 604/1966) e di «giustificatezza»
(di cui alle previsioni dei contratti  collettivi  dei  dirigenti  di
vari settori produttivi). In particolare questa  Corte  ha  affermato
che «La disciplina limitativa del potere  di  licenziamento,  di  cui
alla legge n. 604 del 1966 e st.lav., non e'  applicabile,  ai  sensi
dell'art. 10 della legge n.  604  del  1966,  ai  dirigenti,  neppure
convenzionali; ne consegue che, ai fini dell'eventuale riconoscimento
dell'indennita' supplementare prevista per la categoria dirigenziale,
occorre far riferimento alla nozione contrattuale di  giustificatezza
della risoluzione, che si discosta,  sia  sul  piano  soggettivo  che
oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la  sua  ragion
d'essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega  il  dirigente
al datore di lavoro in virtu' delle  mansioni  affidate,  dall'altro,
nello stesso sviluppo delle strategie  di  impresa  che  rendano  nel
tempo non pienamente adeguata  la  concreta  posizione  assegnata  al
dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell'azienda»
(Cass. ord. n. 27199/2018; Cass. n. 23894/2018). 
    Ne consegue che i dirigenti sono esclusi dall'ambito  applicativo
del divieto dei licenziamenti individuali, perche' nei loro confronti
il recesso non viene intimato ne' puo' giuridicamente essere intimato
«per giustificato motivo oggettivo ai  sensi  dell'articolo  3  della
legge 15 luglio 1966, n. 604». L'espressione «ai sensi»  e'  riferita
alla nozione di recesso  per  «giustificato  motivo  oggettivo»,  che
assume giuridica rilevanza soltanto in tema  di  rapporti  di  lavoro
subordinato non dirigenziali. Per i  dirigenti,  infatti,  sul  piano
legale - come s'e' detto - il recesso e'  ad  nutum  (art.  2118  del
codice civile) e,  sul  piano  della  contrattazione  collettiva,  e'
sufficiente che sia assistito da «giustificatezza», da  intendere  in
termini di non pretestuosita' e/o non arbitrarieta'. 
    6. E' invece diverso  il  regime  del  licenziamento  collettivo:
quest'ultimo riguarda anche i dirigenti, in termini  di  computo  nel
numero dei licenziandi ai fini dell'applicazione della disciplina  di
cui alla legge n. 223/1991 e in termini di diritto di informazione  e
consultazione sindacale e, quindi, di obblighi procedurali  a  carico
del datore di lavoro. 
    Va infatti  rammentata  la  sentenza  della  Corte  di  Giustizia
dell'Unione Europea del 13 febbraio 2014 (in  causa  596/12  promossa
dalla Commissione Europea), con cui la Repubblica Italiana  e'  stata
condannata per essersi resa inadempiente agli obblighi previsti dalla
direttiva n. 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio  1998,  perche'  la
normativa  italiana  di  riferimento  (Legge   n.   223/1991)   aveva
originariamente escluso i dirigenti dall'ambito di applicazione della
procedura di licenziamento  collettivo  prevista  dall'art.  2  dalla
direttiva. Il Parlamento Italiano  e'  pertanto  intervenuto  con  la
Legge n. 161/2014 (pubblicata sulla  G.U.  n.  261  del  10  novembre
2014), con la quale la  procedura  dei  licenziamenti  collettivi  e'
stata estesa anche ai  dirigenti,  attraverso  una  modifica  ed  una
riformulazione dell'art. 24 della legge n.  223/1991,  sia  pure  nei
limiti sopra sinteticamente esposti. 
    La conseguenza di cio' e' immediatamente apprezzabile rispetto al
c.d. blocco dei licenziamenti collettivi disposto dall'art. 14, comma
1, decreto-legge n. 104 cit. (e gia' prima dall'art. 46 decreto-legge
n. 18/2020 conv. in legge n. 27/2020): esso riguarda certamente anche
i dirigenti, perche' ormai pure a costoro  si  applica  la  legge  n.
223/1991, le cui procedure, da parte del  legislatore  dell'emergenza
pandemica, sono state temporaneamente  vietate  (o  sospese  se  gia'
iniziate ad una certa data). 
    7.  Ne  consegue  che  sul  piano  della  disciplina  legale  dei
licenziamenti individuali e  di  quelli  collettivi,  il  difetto  di
simmetria che sussiste per i dirigenti (ai quali non  si  applica  la
prima,  mentre  si  applica  in  parte  la   seconda)   si   riflette
puntualmente sul regime  del  c.d.  blocco  dei  licenziamenti:  tale
blocco e' applicabile solo se si tratta di licenziamento  collettivo,
mentre resta escluso se si tratta di  licenziamento  individuale  per
ragioni oggettive. 
    8. Tale conclusione non e' superabile in via  di  interpretazione
costituzionalmente conforme  della  norma  emergenziale,  ispirata  a
criteri di solidarieta' sociale e di equa distribuzione  degli  oneri
derivanti dalla crisi. In particolare  deve  osservarsi  che  con  il
suddetto  blocco  dei  licenziamenti  individuali  la  collettivita',
attraverso  la  CIGS,  ha  assunto  il  peso  economico  del   lavoro
dipendente non dirigenziale (assolutamente preponderante  in  termini
economici)  ed  il  peso  di  altri  benefici  erogati  alle  imprese
(sospensione temporanea di oneri fiscali e previdenziali),  a  fronte
dei quali i datori di lavoro hanno subito una temporanea  restrizione
della  facolta'  di  licenziamento,  estesa   secondo   la   sentenza
impugnata,  anche  ai   dirigenti.   Il   riferimento   testuale   al
giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3, legge n. 604/1966  -
secondo i giudici del reclamo  -  rappresenterebbe  solo  la  tecnica
normativa  per  alludere  alle  motivazioni  economiche,  ossia   per
identificare la natura della ragione posta a fondamento  del  recesso
datoriale e non per delimitare la platea soggettiva  di  applicazione
del divieto e, dunque, dei relativi beneficiari. 
    9. Orbene, va ricordato che l'interpretazione  costituzionalmente
conforme di una norma di legge si fonda sul principio  di  supremazia
costituzionale  che  impone  all'interprete  di  optare,   fra   piu'
soluzioni astrattamente possibili, per  quella  che  renda  la  norma
conforme a Costituzione (C. Cost. n. 456/1989). In tal  senso  questa
Corte ne ha fatto applicazione in  molteplici  occasioni  (ex  multis
Cass. 17 luglio 2015, n. 15083; Cass. 17 gennaio 2020, n. 823)  sulla
scorta del consolidato insegnamento, secondo cui  «le  leggi  non  si
dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile  darne
interpretazioni  incostituzionali  (e  qualche  giudice  ritenga   di
darne),   ma   perche'   e'   impossibile    darne    interpretazioni
costituzionali» (C. Cost. 22 ottobre 1996, n. 356). 
    10.  Ad  avviso  di  questa  Corte,  tuttavia,  l'interpretazione
offerta dai giudici del reclamo non puo' essere condivisa, in  quanto
l'interpretazione costituzionalmente orientata postula piu' soluzioni
astrattamente possibili. Invece, nel caso in esame  quella  affermata
dalla  Corte  territoriale  non  rientra   fra   le   interpretazioni
astrattamente possibili. 
    Vi osta il dato letterale  assolutamente  univoco,  rappresentato
dal testuale ed espresso richiamo al recesso «per giustificato motivo
oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge  15  luglio  1966,  n.
604». 
    Trattasi di un elemento dal quale non  e'  possibile  prescindere
(art. 12 disp. prel. del codice civile), atteso il c.d.  primato  del
criterio  ermeneutico  letterale  che,  per  il  suo   carattere   di
oggettivita' e per il suo naturale obiettivo  di  ricerca  del  senso
normativo  maggiormente  riconoscibile  e  palese,   rappresenta   il
criterio cardine nella interpretazione della legge  e  concorre  alla
definizione in termini di certezza della fattispecie regolata  (Cass.
sez. un. n. 23051/2022 in tema  di  fattispecie  tributaria,  ma  con
affermazioni di principio di valenza generale). D'altronde,  come  ha
sottolineato anche parte della dottrina, non si puo'  «leggere  nella
disposizione quello  che  non  c'e',  anche  quando  la  Costituzione
vorrebbe che vi fosse». 
    Quel richiamo al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art.
3 della  legge  n.  604  cit.  non  ha  valenza  polisemica.  Il  suo
significato e' infatti riferito da concorde  dottrina  e  pluriennale
giurisprudenza di  questa  Corte  di  legittimita'  al  licenziamento
individuale del dipendente non dirigente, in coerenza con l'art.  10,
legge n. 604/1966, interpretato dal «diritto vivente» come norma  che
esclude i dirigenti dall'ambito applicativo del regime legale di  cui
alla stessa legge. Ne consegue che la nozione di «giustificato motivo
oggettivo» e' una soltanto e postula la natura non  dirigenziale  del
rapporto di lavoro in cui e' intervenuto il  licenziamento:  pertanto
non si presta ad un'interpretazione estensiva. 
    Dunque la funzione  e  gli  effetti  di  quel  testuale  richiamo
(compiuto dal legislatore nella norma emergenziale) non si limitano -
come invece ritenuto dai giudici del  reclamo  -  all'identificazione
della natura della ragione giustificatrice del  recesso  individuale,
ma  si  estendono  all'individuazione  delle  categorie  (legali)  di
dipendenti ai quali quella ragione e' riferibile nel regime giuridico
legale del loro rapporto di lavoro. E fra tali categorie  non  vi  e'
quella dei dirigenti. 
    11.  L'ulteriore  conseguenza  e'  che,   per   i   licenziamenti
individuali  di  questi  ultimi,   la   legislazione   dell'emergenza
pandemica presenta una vera e propria lacuna normativa, che  tuttavia
non e' possibile colmare mediante applicazione analogica. 
    Va infatti considerato  che  il  c.d.  blocco  dei  licenziamenti
rappresenta un'eccezione - sia pure temporanea -  ai  normali  poteri
datoriali (art. 3, legge n. 604/1966; art. 2118 del  codice  civile),
che trovano fondamento e giustificazione nel c.d. rischio di  impresa
e, in ultima analisi, nell'art. 41, comma 1 Cost. 
    Ne  consegue  che  e'  inammissibile  l'applicazione   analogica,
espressamente vietata per le norme  eccezionali  dall'art.  14  disp.
prel. del codice civile. 
    12.  Nondimeno  e'  da  considerare  che  ai  fini  del   divieto
temporaneo dei licenziamenti non sussiste alcuna  diversita'  fra  il
licenziamento collettivo e quello individuale,  dal  momento  che  la
differente procedura non ha  alcun  rilievo  rispetto  ad  una  norma
eccezionale emanata per  fronteggiare  un  momento  di  straordinaria
crisi  sociale  ed  economica  causata  da  un  fattore   del   tutto
imprevedibile come la  pandemia  da  COVID-19.  La  ratio  di  ordine
pubblico e' agevolmente individuale nell'esigenza di evitare  in  via
provvisoria  che  le  generalizzate  conseguenze   economiche   della
pandemia si traducessero nella soppressione  immediata  di  posti  di
lavoro,  con  immediata  perdita  della  capacita'   reddituale   dei
dipendenti ed impossibilita' di reimpiego. 
    Alla luce di questa ratio del divieto di licenziamento, comune  a
tutte le sue forme, sia esso  collettivo  o  individuale,  va  allora
valutata la ragionevolezza  di  una  vera  e  propria  asimmetria  di
tutela: mentre per i dipendenti non dirigenti la tutela e' «globale»,
in quanto il divieto investe  sia  i  licenziamenti  individuali  per
giustificato  motivo  oggettivo,  sia  quelli   collettivi,   per   i
dipendenti dirigenti la tutela e' soltanto  parziale,  in  quanto  il
divieto investe solo i licenziamenti collettivi. 
    Questa Corte dubita della ragionevolezza di  tale  asimmetria  e,
dunque, ritiene che la norma violi l'art. 3 Cost. 
    13. Va premesso che la discrezionalita' del legislatore  e',  per
definizione libera e, pertanto, insindacabile a  condizione  che  sia
ragionevole, ovvero, che la norma sia adeguata e congruente  rispetto
alla finalita' perseguita dal legislatore medesimo. 
    Nel caso di specie tale condizione non sembra sussistere. 
    14. Non puo' condividersi la tesi - pure da taluni prospettata  -
secondo  cui  il  divieto   di   licenziamento   si   accompagnerebbe
indissolubilmente al costo del lavoro a  carico  della  collettivita'
mediante la CIGS,  non  applicabile  ai  dirigenti.  Questo  asserito
binomio «divieto di licenziamento / costo del lavoro a  carico  della
collettivita'» e' smentito dallo stesso legislatore, che, con  l'art.
14, comma 1, decreto-legge n. 104 cit. (e ancor prima con l'art.  46,
decreto-legge n. 18/2020), ha vietato e/o «bloccato»  temporaneamente
il licenziamento collettivo, che puo' riguardare anche  i  dirigenti.
In tal caso e' dunque da riconoscere l'operativita' del  c.d.  blocco
senza possibilita' di ricorrere  alla  CIGS,  sicche'  il  costo  del
dirigente o dei dirigenti - altrimenti  licenziabili  -  finisce  per
restare a carico del datore di lavoro. 
    In corrispondenza con questo «sacrificio» imposto  ai  datori  di
lavoro il  legislatore  ha  riconosciuto  una  pluralita'  di  misure
economiche (introduzione di una fattispecie tipizzata di  CIG:  artt.
19 e 22-quinquies decreto-legge n. 18/2020  convertito  in  legge  n.
27/2020; sospensione temporanea di  oneri  fiscali  e  previdenziali:
decreto-legge n. 18/2020 convertito in legge n. 27/2020; contributi a
fondo perduto: decreto-legge  n.  137/2020  convertito  in  legge  n.
176/2020  e  successivi  «decreti  ristori»;  credito  d'imposta   su
locazione di immobili ad uso non abitativo: art. 28, decreto-legge n.
34/2020 «decreto  rilancio»  convertito  in  legge  n.  77/2020)  che
presuppongono tutte - sul piano  logico  e  giuridico  -  la  portata
generalizzata  del  c.d.  blocco  dei  licenziamenti   collettivi   e
individuali per ragioni  oggettive,  a  prescindere  dalla  categoria
legale di inquadramento dei dipendenti altrimenti licenziabili. 
    Ne consegue che a fronte di questo bilanciamento si presenta  del
tutto eclettica la scelta del legislatore di vietare  temporaneamente
i licenziamenti collettivi  (per  loro  stessa  natura  derivanti  da
ragioni oggettive, cioe' riguardanti  l'organizzazione  dell'impresa)
di dirigenti e non anche quelli individuali  dei  dirigenti  medesimi
per ragioni del pari oggettive. 
    L'irragionevolezza di questa scelta si manifesta in  modo  ancora
piu' evidente, ove si consideri che  il  «sacrificio»  a  carico  dei
datori di lavoro  e'  certamente  piu'  gravoso  in  presenza  di  un
possibile licenziamento collettivo, sia perche' questo coinvolgerebbe
per definizione piu' dipendenti, sia perche' gli oneri  datoriali  in
tal caso sarebbero soltanto di tipo procedurale. Ne consegue che, nei
confronti del datore di lavoro, il sacrificio «piu' grave» (ossia  il
c.d.  blocco  del  licenziamento  collettivo,  che  altrimenti   puo'
coinvolgere anche dirigenti)  viene  disposto  dal  legislatore,  che
invece esclude, nel contempo, quello  «meno  grave»  (ossia  il  c.d.
blocco  del   licenziamento   individuale   per   ragioni   oggettive
concernenti la posizione del singolo  dirigente).  Questa  scelta  e'
irragionevole, perche' «nel piu' sta il meno»: se  nel  bilanciamento
dei contrapposti  interessi  il  legislatore  ha  ritenuto  di  poter
sacrificare  (per  un  tempo  determinato)  la  facolta'  di  recesso
collettivo del datore di lavoro anche nei confronti dei dirigenti,  a
maggior  ragione  avrebbe  dovuto  sacrificare  quella   di   recesso
individuale. In definitiva, se - nell'ottica del bilanciamento  -  il
complesso delle misure di sostegno economico alle  imprese  e'  stato
ritenuto  dal  legislatore  idoneo  a  «compensare»   il   sacrificio
rappresentato dal blocco  dei  licenziamenti  collettivi,  anche  dei
dirigenti, a maggior ragione quelle stesse misure di sostegno sono da
considerare ampiamente (e ancor di piu') idonee a compensare il minor
sacrificio del  blocco  dei  licenziamenti  individuali  per  ragioni
oggettive dei dirigenti. 
    L'omessa previsione di questo sacrificio «minore», da un lato,  e
- dall'altro - l'impossibilita' letterale di interpretare la norma in
discorso (art. 14, comma 2, decreto-legge n. 104/2020, convertito  in
legge n. 126/2020) in modo  da  ricomprendere  nel  blocco  anche  il
licenziamento individuale del singolo dirigente intimato per  ragioni
oggettive, impongono a questa Corte di  sollevare  rispetto  a  detta
norma la questione di legittimita' costituzionale per  contrasto  con
l'art. 3 Cost.: in nessun  modo  l'omessa  previsione  denunziata  si
presta ad essere giustificata sul piano costituzionale,  ne'  -  come
s'e' detto - e' risolvibile mediante il  canone  dell'interpretazione
costituzionalmente  orientata  o  adeguatrice,  ostandovi  il  tenore
letterale. Dunque, non resta che prendere atto della irragionevolezza
della scelta legislativa di «bloccare», rispetto ai dirigenti, i soli
licenziamenti collettivi e non  anche  quelli  individuali  dovuti  a
ragioni oggettive. 
    15.  Alla  luce  delle  considerazioni  svolte  e  del  principio
metodologico ribadito da C. Cost. n.  42/2017  (secondo  cui  «...  A
fronte   di   adeguata    motivazione    circa    l'impedimento    ad
un'interpretazione     costituzionalmente     compatibile,     dovuto
specificamente al «tenore letterale della disposizione», questa Corte
ha gia' avuto modo di affermare che «la possibilita' di  un'ulteriore
interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto  di
fare propria, non riveste alcun significativo  rilievo  ai  fini  del
rispetto delle regole  del  processo  costituzionale,  in  quanto  la
verifica  dell'esistenza  e  della  legittimita'  di  tale  ulteriore
interpretazione  e'   questione   che   attiene   al   merito   della
controversia, e non alla sua ammissibilita'»  (sentenza  n.  221  del
2015 ... sentenze nn. 95 e 45 del 2016, n. 262 del 2015; nonche', nel
medesimo senso, sentenza n. 204 del 2016) ... »), la questione  della
legittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 2, decreto-legge cit.
nella  parte  in  cui  non  prevede  il   divieto   (temporaneo)   di
licenziamento del dirigente per ragioni oggettive,  oltre  ad  essere
rilevante ai fini della decisione del primo motivo  del  ricorso  per
cassazione proposto dalla datrice  di  lavoro  del  dirigente  (tutto
incentrato sull'inapplicabilita' del  «blocco»  dei  licenziamenti  a
quelli individuali di dirigenti intimati per ragioni  oggettive),  si
presenta non manifestamente infondata in relazione all'art. 3  Cost.,
parametro  che  da  lungo  tempo  la   giurisprudenza   della   Corte
costituzionale ritiene coinvolto ogni qual volta la norma di legge si
presenti irragionevole, ossia non adeguata o congruente rispetto alla
finalita' perseguita dal legislatore. 

 
                              P. Q. M. 
 
    La Corte, visto l'art. 23 della legge n. 83/1957, 
      a)  dichiara  rilevante  e  non  manifestamente  infondata   la
questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  14,  comma  2,
decreto-legge  n.  104/2020  convertito  in  legge  n.  126/2020  per
contrasto con l'art. 3 Cost.; 
      b) dispone l'immediata trasmissione di tutti gli atti di  causa
alla Corte Costituzionale; 
      c) sospende il giudizio in corso; 
      d) dispone che a cura della cancelleria la  presente  ordinanza
sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio  dei
Ministri, nonche' comunicata  ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
Parlamento. 
    Cosi' deciso in Roma, nella camera  di  consiglio  della  sezione
lavoro, in data 14 maggio 2024 
 
                        II Presidente: Manna