Reg. ord. n. 151 del 2024 pubbl. su G.U. del 28/08/2024 n. 35

Ordinanza del Corte suprema di cassazione  del 29/05/2024

Tra: Gruppo PSC spa C/ Giuseppe Di Giovine



Oggetto:

Lavoro – Licenziamento individuale – Emergenza epidemiologica da COVID-19 – Divieto temporaneo di licenziamento - Preclusione, a determinate condizioni, indipendentemente dal numero dei dipendenti, della facoltà del datore di lavoro di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 – Ambito applicativo – Omessa previsione del divieto temporaneo di licenziamento del dirigente per ragioni oggettive – Denunciata asimmetria di tutela dei dirigenti, garantiti solo dal divieto (temporaneo) di licenziamento collettivo e non anche dal divieto di licenziamento individuale, rispetto ai lavoratori dipendenti non dirigenti – Irragionevolezza rispetto alla finalità perseguita dal legislatore.



Norme impugnate:

decreto-legge  del 17/03/2020  Num. 18  Art. 46   convertito con modificazioni in

legge  del 24/04/2020  Num. 27



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art.



Udienza Pubblica del 10 giugno 2025 rel. SAN GIORGIO


Testo dell'ordinanza

N. 151 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 maggio 2024

Ordinanza  del  29  maggio  2024  della  Corte  di   cassazione   nel
procedimento civile promosso da Gruppo PSC  Spa  contro  Giuseppe  Di
Giovine. 
 
Lavoro - Licenziamento  individuale  -  Emergenza  epidemiologica  da
  COVID-19 - Divieto temporaneo di  licenziamento  -  Preclusione,  a
  determinate   condizioni,   indipendentemente   dal   numero    dei
  dipendenti, della facolta' del datore di  lavoro  di  recedere  dal
  contratto per giustificato motivo oggettivo ai  sensi  dell'art.  3
  della  legge  n.  604  del  1966  -  Ambito  applicativo  -  Omessa
  previsione del divieto temporaneo di  licenziamento  del  dirigente
  per ragioni oggettive. 
- Decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18  (Misure  di  potenziamento  del
  Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per  famiglie,
  lavoratori  e  imprese  connesse  all'emergenza  epidemiologica  da
  COVID-19), convertito, con modificazioni,  nella  legge  24  aprile
  2020, n. 27, art. 46. 


(GU n. 35 del 28-08-2024)

 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                           Sezione lavoro 
 
    Composta dagli ill.mi signori magistrati: 
      dott. Antonio Manna - Presidente; 
      dott.ssa Carla Ponterio - consigliere; 
      dott. Francescopaolo Panariello - consigliere; 
      dott. Gualtiero Michelini - consigliere; 
      dott. Elena Boghetich - consigliere - relatore; 
    ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
iscritto al n. 22910/2022 r.g., proposto da: 
      Gruppo PSC S.p.a., in persona  del  legale  rappresentante  pro
tempore, elettivamente domiciliata in via Po n. 25/b, Roma, presso lo
studio degli  avvocati  Roberto  Pessi  e  Raffaele  Fabozzi  che  la
rappresentano e difendono  come  da  procura  speciale  in  calce  al
ricorso - ricorrente; 
    contro: 
      Giuseppe Di Giovine, elettivamente domiciliato in via Germanico
n. 172, Roma, presso lo studio dell'avv. Pier  Luigi  Panici  che  lo
rappresenta  e  difende  come  da  procura  speciale  in   calce   al
controricorso - contro-ricorrente; 
    avverso la sentenza della Corte d'Appello di  Roma  n.  2712/2022
pubblicata in data 27 luglio 2022, n.r.g. 2923/2021. 
    Udita la relazione svolta nella pubblica udienza  del  giorno  14
maggio 2024 dal Consigliere dott.ssa Elena Boghetich; 
    vista la memoria scritta depositata  dal  P.M.,  in  persona  del
Procuratore generale dott.ssa Olga Pirone, che  ha  concluso  per  il
rigetto del ricorso. 
 
                            Rilevato che 
 
    1.  -  Giuseppe  Di  Giovine,  all'epoca  dei   fatti   dirigente
dell'odierna societa' ricorrente, era stato  licenziato  in  data  29
aprile-6 maggio 2020 nell'ambito di un processo  di  riorganizzazione
aziendale, nell'ottica del contenimento dei costi e di una piu' utile
gestione  dell'impresa,  volta  alla  soppressione  della   posizione
lavorativa del dirigente  e  alla  ridistribuzione  e/o  accorpamento
delle funzioni in capo ad altri responsabili aziendali. 
    Adiva il Tribunale  di  Roma  per  ottenere  la  declaratoria  di
nullita' del licenziamento per  violazione  del  divieto  di  avviare
procedure di  licenziamento  collettivo  in  pendenza  dell'emergenza
epidemiologica da COVID-19 introdotto dall'art. 46 del  decreto-legge
17 marzo 2020, n. 18 (convertito con  modificazioni  dalla  legge  24
aprile 2020, n. 27) e, comunque, la  declaratoria  di  illegittimita'
per  insussistenza  del  giustificato  motivo   oggettivo   e   della
giustificatezza, mancata  soppressione  della  posizione,  violazione
dell'obbligo di repêchage. 
    2. - Instauratosi il contraddittorio, il  Tribunale,  considerato
il chiaro tenore testuale dell'art. 46  del  decreto-legge  17  marzo
2020, n. 18 e la simmetria tra blocco  dei  licenziamenti  e  ricorso
agli ammortizzatori sociali, rigettava la domanda di impugnazione del
licenziamento individuale. 
    3. - Con la sentenza indicata in epigrafe la  Corte  territoriale
accoglieva  l'appello  proposto  dal  Di  Giovine  e  per   l'effetto
dichiarava la nullita' del licenziamento individuale  del  29  aprile
2020 per contrasto con norma imperativa, ordinava  la  reintegrazione
nel posto di lavoro e condannava  la  societa'  al  risarcimento  del
danno,  pari   all'ultima   retribuzione   globale   di   fatto   dal
licenziamento  fino  all'effettiva  reintegra,  sulla  base  di  euro
16.538,47 mensili. 
    I giudici d'appello ritenevano che il  divieto  di  licenziamenti
individuali «per giustificato motivo oggettivo» in conseguenza  della
pandemia  da  COVID-19,  previsto  segnatamente  dall'art.   46   del
decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 - trovasse applicazione  anche  ai
dirigenti,   all'esito   di   un'interpretazione   costituzionalmente
orientata, confortata, altresi', dalla previsione dell'art. 1,  comma
305, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 che ha consentito ai datori
di lavoro di ottenere i trattamenti di  cassa  integrazione  guadagni
per i lavoratori che risultavano alle loro dipendenze alla  data  del
1° gennaio 2021, senza alcuna delimitazione di carattere soggettivo. 
    4. - Con il primo motivo del ricorso per cassazione, proposto  ai
sensi  dell'art.  360,  primo  comma,  n.  3),  c.p.c.  la   societa'
ricorrente lamenta «violazione e falsa applicazione» dell'art. 46 del
decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 per avere  la  Corte  territoriale
incluso nella disciplina del «blocco dei  licenziamenti  individuali»
anche i rapporti  di  lavoro  dirigenziali,  ai  quali  invece  trova
applicazione  il  regime  legale  del  licenziamento  ad  nutum.   In
particolare addebita ai giudici d'appello la violazione del  criterio
ermeneutico letterale,  stabilito  dall'art.  12  disp.  prel.  c.c.,
avendo, la Corte territoriale, trascurato lo  specifico  richiamo  al
dato testuale dell'art. 3 della  legge  n.  604  del  1966  (che  per
costante insegnamento della Corte di Cassazione  non  si  applica  ai
dirigenti, anche per espressa previsione dell'art. 10 della  medesima
legge). 
    Con il secondo motivo la societa'  denunzia  violazione  e  falsa
applicazione dell'art. 1, comma 305, della legge 30 dicembre 2020, n.
178 (ex art. 360,  primo  comma,  n.  3,  c.p.c.)  avendo,  la  Corte
territoriale, errato  nell'interpretare  questo  parametro  normativo
come elemento idoneo a corroborare la  tesi  dell'applicabilita'  del
blocco  dei  licenziamenti  ai  dirigenti,  posto  che  la   suddetta
previsione normativa (di  supposta  inclusione  dei  dirigenti  nella
disciplina degli ammortizzatori sociali) e' entrata in vigore  in  un
momento (dicembre 2020) successivo a quello in cui licenziamento  del
lavoratore e' stato disposto,  con  cio'  confermando  l'esclusione -
quantomeno  nell'anno  2020  -   dei   dirigenti   dal   blocco   dei
licenziamenti. 
    Con il terzo ed il quarto motivo di ricorso  la  societa'  deduce
nullita'  della  sentenza,  ex  art.  112  c.p.c.,   per   vizio   di
ultrapetizione, nonche' violazione e falsa applicazione dell'art.  18
della legge 20 maggio 1970, n. 300, avendo,  la  Corte  territoriale,
del tutto arbitrariamente disposto l'applicazione della tutela di cui
all'art. 18,  primo  comma,  della  legge  20  maggio  1970,  n.  300
nonostante detta tutela non sia mai  stata  oggetto  di  domanda  del
lavoratore  e  nonostante  la  locuzione  «e'   precluso»   contenuta
nell'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18  non  consentisse
di rinvenire una fattispecie di nullita' del provvedimento espulsivo,
ex art. 1418 del codice civile. 
    In  via  subordinata,  la  societa'  chiede  a  questa  Corte  di
sollevare questione di legittimita' costituzionale della citata norma
per sospetta violazione degli articoli  3  e  41  della  Costituzione
laddove   interpretato   nel   significato   ritenuto   dalla   Corte
territoriale. 
 
                           Considerato che 
 
    1. - L'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito
con modificazioni dalla legge  24  aprile  2020,  n.  27),  rubricato
«Disposizioni in materia di licenziamenti  collettivi  e  individuali
per giustificato motivo oggettivo» prevede:  «1.  A  decorrere  dalla
data  di  entrata  in  vigore  del  presente  decreto  l'avvio  delle
procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991,
n. 223 e' precluso per sessanta giorni e nel  medesimo  periodo  sono
sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla  data  del
23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il  datore
di lavoro, indipendentemente dal  numero  dei  dipendenti,  non  puo'
recedere dal contratto per giustificato  motivo  oggettivo  ai  sensi
dell'art. 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604». 
    2. - La sussistenza, in fatto, di  un  licenziamento  individuale
formalmente  intimato   per   una   ragione   economico-organizzativa
(soppressione  della  posizione  dirigenziale  di  «Chief   Operating
Officer»)  non  e'  controversa  tra  le  parti;  del  pari,  non  e'
controverso tra le parti che la societa' non  abbia  fruito,  per  il
dirigente, dei trattamenti di  integrazione  salariale  riconducibili
all'emergenza epidemiologica da COVID-19. 
    3. - Ai fini della decisione dei primi due motivi di ricorso  per
cassazione viene in rilievo il divieto  temporaneo  di  licenziamento
individuale previsto dall'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n.
18. 
    4.- La societa' ricorrente assume che, intesa la norma nel  senso
ritenuto dalla Corte territoriale, essa sarebbe in contrasto con  gli
articoli  3,  primo  comma,  e  41,  primo  e  terzo   comma,   della
Costituzione sotto tre profili: 
      i) violerebbe la  liberta'  di  iniziativa  economica  privata,
derivando una compressione  significativa  della  liberta'  economica
senza alcun preventivo «bilanciamento» costituzionale; 
      ii) finirebbe per mantenere ai dirigenti, ossia  ai  dipendenti
economicamente  piu'  forti,  il   diritto   all'intero   trattamento
retributivo, mentre per tutte le altre categorie sarebbe prevista  la
cassa  integrazione  guadagni  e  quindi  soltanto  il   diritto   al
trattamento  di   integrazione   salariale   nonche'   per   trattare
diversamente datori di lavoro che hanno numerosi rapporti  di  lavoro
dirigenziali rispetto a  quelli  che  non  ne  hanno  o  hanno  pochi
dirigenti alle proprie dipendenze; 
      iii) finirebbe per  tutelare  maggiormente  i  lavoratori  piu'
«forti» e per trascurare la  varieta'  di  situazioni  riferite  alla
sfera datoriale, lasciando ai datori di lavoro il carico enorme degli
oneri economici di una disposizione assistenziale,  peraltro  per  un
periodo di tempo enormemente ampio. 
    Le  questioni   di   legittimita'   costituzionale   cosi'   come
prospettate dalla societa' ricorrente sono manifestamente infondate. 
    Va  evidenziato  che  la  collocazione  in   cassa   integrazione
guadagni,  anche  nel  periodo  interessato  dal  c.d.   blocco   dei
licenziamenti, non e' automatica, ma  pur  sempre  volontaria,  ossia
dipendente  da  una  scelta -  tecnica,  economica,  o  di  strategia
imprenditoriale - del datore di lavoro  in  concreto.  Sicche'  nulla
esclude che anche altre categorie di dipendenti abbiano mantenuto  il
diritto al normale trattamento  retributivo,  qualora  il  datore  di
lavoro abbia deciso di non far ricorso (o almeno non per tutti)  agli
ammortizzatori sociali. 
    In secondo  luogo,  nel  senso  della  ragionevolezza  di  questa
differente (solo  possibile)  conseguenza  milita  anche  il  profilo
quantitativo:   secondo   massime   di   comune   esperienza,   nelle
organizzazioni produttive il numero dei dirigenti e' manifestamente e
di gran lunga inferiore  al  numero  dei  dipendenti  non  dirigenti,
sicche' il peso economico delle retribuzioni dirigenziali e' comunque
inferiore a quello delle retribuzioni complessivamente  spettanti  ai
non  dirigenti.  Ne  consegue  la  ragionevolezza  della  scelta  del
legislatore di  escludere  soltanto  per  i  dirigenti  il  possibile
ricorso alla cassa integrazione guadagni (nel periodo  rilevante  nel
presente giudizio) e  comunque  la  sua  irrilevanza  ai  fini  della
decisione. 
    La prospettata violazione e' insussistente, in quanto  attiene  a
mere evenienze fattuali, come  tali  non  idonee  ad  incidere  sulla
portata astratta della norma oggetto di interpretazione. 
    5. - Al fine di individuare l'ambito applicativo del divieto  dei
licenziamenti individuali  il  legislatore  dell'emergenza  ha  fatto
testuale ed espresso riferimento al recesso «per giustificato  motivo
oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604». 
    Nel disciplinare l'ambito applicativo della legge 15 luglio 1966,
n. 604, il suo art. 10 non menziona i  dirigenti.  Tale  silenzio  e'
unanimemente ritenuto significativo della  volonta'  di  escludere  i
dirigenti (ubi tacuit, noluit) e, dunque, di mantenerli in un  regime
di recesso ad nutum (art. 2118 c.c.). Proprio sulla  base  di  questo
regime  legale  la  contrattazione  collettiva  ha   progressivamente
introdotto una forma di tutela «convenzionale»,  in  termini  sia  di
necessaria «giustificatezza» del licenziamento del dirigente, sia  di
obbligo per il datore di  lavoro  di  corrispondere  una  determinata
indennita'  (c.d.  supplementare)  nel  caso  di  licenziamento  «non
giustificato». 
    Il consolidato orientamento di questa Corte  di  legittimita'  e'
nel senso  della  non  coincidenza  delle  nozioni  di  «giustificato
motivo» (di cui all'art. 3, legge n. 604/1966) e di «giustificatezza»
(di cui alle previsioni dei contratti  collettivi  dei  dirigenti  di
vari settori produttivi). In particolare questa  Corte  ha  affermato
che «La disciplina limitativa del potere  di  licenziamento,  di  cui
alla legge n. 604 del 1966 e st.lav., non e'  applicabile,  ai  sensi
dell'art. 10 della legge n.  604  del  1966,  ai  dirigenti,  neppure
convenzionali; ne consegue che, ai fini dell'eventuale riconoscimento
dell'indennita' supplementare prevista per la categoria dirigenziale,
occorre far riferimento alla nozione contrattuale di  giustificatezza
della risoluzione, che si discosta,  sia  sul  piano  soggettivo  che
oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la  sua  ragion
d'essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega  il  dirigente
al datore di lavoro in virtu' delle  mansioni  affidate,  dall'altro,
nello stesso sviluppo delle strategie  di  impresa  che  rendano  nel
tempo non pienamente adeguata  la  concreta  posizione  assegnata  al
dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell'azienda»
(Cass. ord. n. 27199 del 2018; Cass. n. 23894 del 2018). 
    Ne consegue che i dirigenti sono esclusi dall'ambito  applicativo
del divieto dei licenziamenti individuali, perche' nei loro confronti
il recesso non viene intimato ne' puo' giuridicamente essere intimato
«per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3  della  legge
15 luglio 1966, n. 604». L'espressione «ai sensi»  e'  riferita  alla
nozione di recesso per «giustificato motivo  oggettivo»,  che  assume
giuridica  rilevanza  soltanto  in  tema  di   rapporti   di   lavoro
subordinato non dirigenziali. Per i  dirigenti,  infatti,  sul  piano
legale il recesso e' ad nutum (art. 2118 del codice civile.)  e,  sul
piano  della  contrattazione  collettiva,  e'  sufficiente  che   sia
assistito da  «giustificatezza»,  da  intendere  in  termini  di  non
pretestuosita' e/o non arbitrarieta'. 
    6. - E' invece diverso il regime  del  licenziamento  collettivo:
quest'ultimo riguarda anche i dirigenti, in termini  di  computo  nel
numero dei licenziandi ai fini dell'applicazione della disciplina  di
cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223 e  in  termini  di  diritto  di
informazione  e  consultazione  sindacale  e,  quindi,  di   obblighi
procedurali a carico del datore di lavoro. 
    Va infatti  rammentata  la  sentenza  della  Corte  di  Giustizia
dell'Unione europea del 13 febbraio 2014 (in causa C-596/12  promossa
dalla Commissione Europea), con cui la Repubblica Italiana  e'  stata
condannata per essersi resa inadempiente agli obblighi previsti dalla
direttiva n. 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio  1998,  perche'  la
normativa italiana di riferimento (legge  23  luglio  1991,  n.  223)
aveva originariamente escluso i dirigenti dall'ambito di applicazione
della procedura di  licenziamento  collettivo  prevista  dall'art.  2
dalla direttiva. Il Parlamento Italiano e' pertanto  intervenuto  con
la legge 30 ottobre 2014, n. 161 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
n. 261  del  10  novembre  2014),  con  la  quale  la  procedura  dei
licenziamenti  collettivi  e'  stata  estesa  anche   ai   dirigenti,
attraverso una modifica ed  una  riformulazione  dell'art.  24  della
legge  23  luglio  1991,  n.  223,  sia   pure   nei   limiti   sopra
sinteticamente esposti. 
    La  conseguenza  di  cio'  e'  immediatamente  apprezzabile   con
riguardo  al  c.d.  blocco  dei  licenziamenti  collettivi   disposto
dall'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n.  18:  esso  riguarda
certamente  anche  i  dirigenti,  perche'  anche  a   costoro   trova
applicazione la legge 23 luglio 1991, n. 223, le  cui  procedure,  da
parte  del   legislatore   dell'emergenza   pandemica,   sono   state
temporaneamente vietate (o sospese se  gia'  iniziate  ad  una  certa
data). 
    7. - Ne consegue  che  sul  piano  della  disciplina  legale  dei
licenziamenti individuali e  di  quelli  collettivi,  il  difetto  di
simmetria che sussiste per i dirigenti (ai quali non  si  applica  la
prima,  mentre  si  applica  in  parte  la   seconda)   si   riflette
puntualmente sul regime del c.d. blocco dei licenziamenti: questo  e'
applicabile solo se si tratta di licenziamento collettivo,  non  pure
se si tratti di licenziamento individuale per ragioni oggettive. 
    8. - Tale conclusione non e' superabile in via di interpretazione
costituzionalmente conforme  della  norma  emergenziale,  ispirata  a
criteri di solidarieta' sociale e di equa distribuzione  degli  oneri
derivanti dalla crisi. In particolare  deve  osservarsi  che  con  il
suddetto  blocco  dei  licenziamenti  individuali  la  collettivita',
attraverso la cassa integrazione guadagni straordinaria,  ha  assunto
il  peso   economico   del   lavoro   dipendente   non   dirigenziale
(assolutamente preponderante in termini  economici)  ed  il  peso  di
altri benefici erogati alle imprese (sospensione temporanea di  oneri
fiscali e previdenziali), a fronte dei quali i datori di lavoro hanno
subito una temporanea restrizione della  facolta'  di  licenziamento,
estesa  secondo  la  sentenza  impugnata,  anche  ai  dirigenti.   Il
riferimento testuale al giustificato motivo oggettivo di cui all'art.
3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 - secondo i giudici d'appello  -
rappresenterebbe  solo  la  tecnica  normativa  per   alludere   alle
motivazioni  economiche,  ossia  per  identificare  la  natura  della
ragione posta a fondamento del recesso datoriale e non per delimitare
la platea soggettiva di  applicazione  del  divieto  e,  dunque,  dei
relativi beneficiari. 
    9.    -    Orbene,    va    ricordato    che    l'interpretazione
costituzionalmente orientata di una  norma  di  legge  si  fonda  sul
principio di supremazia costituzionale che impone  all'interprete  di
optare, fra piu' soluzioni astrattamente possibili,  per  quella  che
renda la norma conforme alla Costituzione (Corte costituzione n.  456
del 1989). 
    In tal senso questa Corte ne ha fatto applicazione in  molteplici
occasioni (ex multis Cass. 17 luglio 2015, n. 15083; Cass. 17 gennaio
2020, n. 823) sulla scorta dell'ormai risalente insegnamento, secondo
cui  «le  leggi  non  si  dichiarano  costituzionalmente  illegittime
perche'  e'  possibile  darne  interpretazioni  incostituzionali   (e
qualche giudice ritenga di darne), ma perche'  e'  impossibile  darne
interpretazioni costituzionali» (Corte costituzione 22 ottobre  1996,
n. 356). 
    10. - Ad avviso  di  questa  Corte,  tuttavia,  l'interpretazione
offerta dai giudici d'appello,  per  quanto  apprezzabile,  non  puo'
essere confermata,  in  quanto  l'interpretazione  costituzionalmente
orientata postula piu' soluzioni astrattamente possibili. Invece, nel
caso in esame quella affermata dalla Corte territoriale  non  rientra
fra le interpretazioni astrattamente possibili. 
    Vi osta il dato letterale  assolutamente  univoco,  rappresentato
dal testuale ed espresso richiamo al recesso «per giustificato motivo
oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604». 
    Trattasi di un elemento  testuale  dal  quale  non  e'  possibile
prescindere (art. 12 disp. prel. c.c.), atteso il  c.d.  primato  del
criterio  ermeneutico  letterale  che,  per  il  suo   carattere   di
oggettivita' e per il suo naturale obiettivo  di  ricerca  del  senso
normativo  maggiormente  riconoscibile  e  palese,   rappresenta   il
criterio cardine nella interpretazione della legge  e  concorre  alla
definizione in termini di certezza della fattispecie regolata  (Cass.
sez. un. n. 23051 del 2022 in tema di fattispecie tributaria, ma  con
affermazioni di principio di valenza generale). 
    D'altronde, come ha sottolineato anche parte della dottrina,  non
si puo' «leggere nella disposizione quello che non c'e', anche quando
la Costituzione vorrebbe che vi fosse». 
    Secondo costante giurisprudenza costituzionale, «l'univoco tenore
della  disposizione  segna  il  confine  in  presenza  del  quale  il
tentativo  di  interpretazione  conforme  deve  cedere  il  passo  al
sindacato di legittimita' costituzionale (sentenze n. 150  del  2022,
n. 118 del 2020, n. 221 del 2019 e n. 83 del 2017)» (sentenze nn. 203
del 2022 e 44 del 2024). 
    Quel richiamo al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art.
3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 non ha  valenza  polisemica.  Il
suo  significato  e'  infatti  riferito  da  tutta   la   pluriennale
giurisprudenza di  questa  Corte  di  legittimita'  al  licenziamento
individuale del dipendente non dirigente, in coerenza con  l'art.  10
della legge  15  luglio  1966,  n.  604,  interpretato  dal  «diritto
vivente» come norma che esclude i dirigenti  dall'ambito  applicativo
del regime legale di cui  alla  stessa  legge.  Ne  consegue  che  la
nozione di «giustificato motivo oggettivo» e' una  soltanto,  postula
la  natura  non  dirigenziale  del  rapporto  di  lavoro  in  cui  e'
intervenuto  il  licenziamento  e   pertanto   non   si   presta   ad
un'interpretazione estensiva. 
    Dunque la funzione  e  gli  effetti  di  quel  testuale  richiamo
(compiuto dal legislatore nella norma emergenziale) non si limitano -
come invece  ritenuto  dai  giudici  d'appello -  all'identificazione
della natura della ragione giustificatrice del  recesso  individuale,
ma  si  estendono  all'individuazione  delle  categorie  (legali)  di
dipendenti ai quali quella ragione e' riferibile nel regime giuridico
legale del loro rapporto di lavoro. E fra tali categorie  non  vi  e'
quella dei dirigenti. 
    11.  -  L'ulteriore  conseguenza  e'  che,  per  i  licenziamenti
individuali  di  questi  ultimi,   la   legislazione   dell'emergenza
pandemica presenta una vera e propria lacuna normativa, che  tuttavia
non e' possibile colmare mediante l'applicazione analogica. 
    Va infatti considerato  che  il  c.d.  blocco  dei  licenziamenti
rappresenta un'eccezione - sia pure temporanea -  ai  normali  poteri
datoriali (art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604; art.  2118  del
codice  civile),  che  trovano  il  loro   fondamento   e   la   loro
giustificazione nel c.d. rischio di impresa  e,  in  ultima  analisi,
nell'art. 41, comma 1 della Costituzione 
    Ne  consegue  che  e'  inammissibile  l'applicazione   analogica,
espressamente vietata per le norme  eccezionali  dall'art.  14  disp.
prel. c.c. 
    12. - Nondimeno, e'  da  considerare  che  ai  fini  del  divieto
temporaneo dei  licenziamenti  non  sussiste  alcuna  diversita'  fra
licenziamento  collettivo  e  quello  individuale  (fattispecie   che
mostrano, come evidenziato da Corte della Costituzione n. 7 del 2024,
un simmetria tra loro), dal momento che la differente  procedura  non
ha alcun rilievo rispetto  ad  una  norma  eccezionale,  emanata  per
fronteggiare un momento di straordinaria crisi sociale  ed  economica
causata da un fattore del tutto imprevedibile  come  la  pandemia  da
COVID-19. La ratio di  ordine  pubblico  e'  agevolmente  individuale
nell'esigenza di evitare in  via  provvisoria  che  le  generalizzate
conseguenze  economiche  della   pandemia   si   traducessero   nella
soppressione immediata di posti  di  lavoro,  con  immediata  perdita
della  capacita'  reddituale  dei  dipendenti  ed  impossibilita'  di
reimpiego. 
    Alla luce di questa ratio del divieto di licenziamento, comune  a
tutte le sue forme, sia esso  collettivo  o  individuale,  va  allora
valutata la ragionevolezza  di  una  vera  e  propria  asimmetria  di
tutela: mentre per i dipendenti non dirigenti la tutela e' «globale»,
in quanto il divieto investe  sia  i  licenziamenti  individuali  per
giustificato  motivo  oggettivo,  sia  quelli   collettivi,   per   i
dipendenti dirigenti la tutela e' soltanto  parziale,  in  quanto  il
divieto investe solo i licenziamenti collettivi. 
    Questa Corte dubita della ragionevolezza di  tale  asimmetria  e,
dunque, ritiene che la norma violi l'art.  3  della  Costituzione  in
considerazione dell'eccezionalita' della situazione  determinata  dal
rapido  diffondersi  dalla  pandemia  da  COVID-19,  che  ha   creato
un'inedita condizione di  grave  pericolo  per  la  salute  pubblica,
costituendo  essa  «un'emergenza  sanitaria  dai  tratti  del   tutto
peculiari» (sentenza n. 198 del 2021). Come gia'  sottolineato  dalla
Corte costituzionale, per effetto delle misure di contenimento  della
pandemia, nel periodo dell'emergenza sanitaria vi e' stato  l'arresto
di fatto di numerose attivita' economiche con conseguente difficolta'
di ampi strati della popolazione, per fronteggiare le quali e'  stata
posta in essere un'ampia e  reiterata  normativa  dell'emergenza  con
l'impiego  di  consistenti  risorse  economiche  nella  logica  della
solidarieta' collettiva (sentenza n. 213 del 2021). 
    13. - Va premesso che la discrezionalita' del legislatore e', per
definizione libera e, pertanto, insindacabile  a  condizione  che  la
scelta  normativa  operata  non  sia  manifestamente   irragionevole,
ovvero,  che  la  norma  sia  adeguata  e  congruente  rispetto  alla
finalita' perseguita dal legislatore medesimo. 
    Nel caso di specie tale condizione non sembra sussistere. 
    14. - Non puo' condividersi la tesi - pure da taluni  prospettata
-  secondo  cui  il  divieto  di  licenziamento  si   accompagnerebbe
indissolubilmente al costo del lavoro a  carico  della  collettivita'
mediante  la   cassa   integrazione   guadagni   straordinaria,   non
applicabile  ai  dirigenti.  Questo  asserito  binomio  «divieto   di
licenziamento / costo del lavoro a  carico  della  collettivita'»  e'
smentito dal legislatore, che, con l'art.  46  del  decreto-legge  17
marzo 2020, n. 18,  ha  vietato  e/o  «bloccato»  temporaneamente  il
licenziamento collettivo che puo' riguardare anche  i  dirigenti.  In
tal caso e' dunque da  riconoscere  l'operativita'  del  c.d.  blocco
senza possibilita' di  ricorrere  alla  cassa  integrazione  guadagni
straordinaria, sicche' il costo  del  dirigente  o  dei  dirigenti  -
altrimenti licenziabili - finisce per restare a carico del datore  di
lavoro. 
    In corrispondenza con questo «sacrificio» imposto  ai  datori  di
lavoro il  legislatore  ha  riconosciuto  una  pluralita'  di  misure
economiche  (introduzione  di  una  fattispecie  tipizzata  di  cassa
integrazione guadagni: articoli 19 e 22-quinquies  del  decreto-legge
17 marzo 2020, n. 18 (convertito con  modificazioni  dalla  legge  24
aprile 2020, n.  27);  sospensione  temporanea  di  oneri  fiscali  e
previdenziali: decreto-legge 17 marzo 2020,  n.  18  (convertito  con
modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27); contributi a  fondo
perduto: decreto-legge  28  ottobre  2020,  n.  137  (convertito  con
modificazioni dalla legge 18 dicembre  2020,  n.  176)  e  successivi
«decreti ristori»; credito d'imposta su locazione di immobili ad  uso
non abitativo: art. 28  del  decreto-legge  19  maggio  2020,  n.  34
«decreto rilancio» convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio
2020, n. 77) che presuppongono tutte - sul piano logico e giuridico -
la portata generalizzata del c.d. blocco dei licenziamenti collettivi
e individuali per ragioni oggettive, a  prescindere  dalla  categoria
legale di inquadramento dei dipendenti altrimenti licenziabili. 
    Ne consegue che a fronte di questo bilanciamento si presenta  del
tutto eclettica la scelta del legislatore di escludere dal divieto  i
licenziamenti individuali per ragioni oggettive del dirigente. 
    L'irragionevolezza di questa scelta si manifesta in  modo  ancora
piu' evidente, laddove si consideri che il «sacrificio» a carico  dei
datori di lavoro si presenta certamente piu' gravoso in  presenza  di
un   possibile   licenziamento   collettivo,   sia   perche'   questo
coinvolgerebbe per definizione piu' dipendenti, sia perche' gli oneri
datoriali in tal caso sarebbero  soltanto  di  tipo  procedurale.  Ne
consegue che, nei confronti del datore di lavoro, il sacrificio «piu'
grave» (ossia  il  c.d.  blocco  del  licenziamento  collettivo,  che
altrimenti puo' coinvolgere anche dirigenti) viene disposto ed invece
viene  escluso  quello  «meno  grave»  (ossia  il  c.d.  blocco   del
licenziamento  individuale  per   ragioni   oggettive   del   singolo
dirigente). Questa scelta e' irragionevole, perche' «nel piu' sta  il
meno»: se nel bilanciamento dei contrapposti interessi il legislatore
ha ritenuto di  poter  sacrificare  (per  un  tempo  determinato)  la
facolta' di  recesso  collettivo  del  datore  di  lavoro  anche  nei
confronti dei dirigenti, a maggior ragione avrebbe potuto  (e  quindi
dovuto) sacrificare quella di recesso individuale. In definitiva,  se
- nell'ottica del  bilanciamento  -  il  complesso  delle  misure  di
sostegno economico alle imprese e'  stato  ritenuto  dal  legislatore
idoneo a «compensare» il  sacrificio  rappresentato  dal  blocco  dei
licenziamenti collettivi, anche  dei  dirigenti,  a  maggior  ragione
quelle stesse misure di sostegno sono da  considerare  ampiamente  (e
ancor di piu') idonee a compensare il minor sacrificio del blocco dei
licenziamenti individuali per ragioni oggettive dei dirigenti. 
    L'omessa previsione di questo sacrificio «minore», da un lato,  e
l'impossibilita' di interpretare la norma in discorso  (art.  46  del
decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 convertito con modificazioni dalla
legge 24 aprile 2020, n. 27) in  modo  da  ricomprendere  nel  blocco
anche il licenziamento individuale del singolo dirigente intimato per
ragioni oggettive, impongono a questa Corte di sollevare  rispetto  a
detta norma la questione di legittimita' costituzionale per contrasto
con l'art. 3 della Costituzione: in nessun modo  l'omessa  previsione
denunziata si presta ad essere giustificata sul piano costituzionale,
ne'  -  come  s'e'  detto   e'   risolvibile   mediante   il   canone
dell'interpretazione  costituzionalmente  orientata  o   adeguatrice,
ostandovi il tenore letterale. Dunque, non resta  che  prendere  atto
della irragionevolezza della scelta legislativa di bloccare, rispetto
ai dirigenti, i soli licenziamenti  collettivi  e  non  anche  quelli
individuali dovuti a ragioni oggettive. 
    15. - Alla luce  delle  considerazioni  svolte  e  del  principio
metodologico ribadito dalla Corte costituzionale n. 42/2017  (secondo
cui "... A fronte di  adeguata  motivazione  circa  l'impedimento  ad
un'interpretazione     costituzionalmente     compatibile,     dovuto
specificamente al «tenore letterale della disposizione», questa Corte
ha gia' avuto modo di affermare che «la possibilita' di  un'ulteriore
interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto  di
fare propria, non riveste alcun significativo  rilievo  ai  fini  del
rispetto delle regole  del  processo  costituzionale,  in  quanto  la
verifica  dell'esistenza  e  della  legittimita'  di  tale  ulteriore
interpretazione  e'   questione   che   attiene   al   merito   della
controversia, e non alla sua ammissibilita'»  (sentenza  n.  221  del
2015 ... sentenze nn. 95 e 45 del 2016, n. 262 del 2015; nonche', nel
medesimo senso, sentenza n. 204 del 2016) ... "), la questione  della
illegittimita' costituzionale dell'art. 46 nella  parte  in  cui  non
prevede  il  divieto  di  licenziamento  del  dirigente  per  ragioni
oggettive, oltre ad essere rilevante  ai  fini  della  decisione  dei
primi due motivi del ricorso per cassazione proposto dalla datrice di
lavoro del  dirigente  (tutti  incentrati  sull'inapplicabilita'  del
blocco dei licenziamenti a quelli individuali di  dirigenti  intimati
per ragioni oggettive), si presenta non manifestamente  infondata  in
relazione all'art. 3 della Costituzione, parametro che da lungo tempo
la giurisprudenza della Corte costituzionale ritiene  coinvolto  ogni
qual volta la norma di legge si  presenti  irragionevole,  ossia  non
adeguata  o  congruente  rispetto  alla  finalita'   perseguita   dal
legislatore. 

 
                               P. Q. M. 
 
    La Corte, visto l'art. 23 della legge n. 83/1957: 
      a)  dichiara  rilevante  e  non  manifestamente  infondata   la
questione   di   legittimita'   costituzionale   dell'art.   46   del
decreto-legge 17 marzo 2020,  n.  18  (convertito  con  modificazioni
dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) per contrasto con l'art.  3  della
Costituzione; 
      b) dispone l'immediata trasmissione di tutti gli atti di  causa
alla Corte costituzionale; 
      c) sospende il giudizio in corso; 
      d) dispone che a cura della cancelleria la  presente  ordinanza
sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei
ministri, nonche' comunicata  ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
Parlamento. 
        Cosi' deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione
lavoro, in data 14 maggio 2024. 
 
                    Il Presidente: Antonio Manna