N. 151 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 maggio 2024
Ordinanza del 29 maggio 2024 della Corte di cassazione nel
procedimento civile promosso da Gruppo PSC Spa contro Giuseppe Di
Giovine.
Lavoro - Licenziamento individuale - Emergenza epidemiologica da
COVID-19 - Divieto temporaneo di licenziamento - Preclusione, a
determinate condizioni, indipendentemente dal numero dei
dipendenti, della facolta' del datore di lavoro di recedere dal
contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3
della legge n. 604 del 1966 - Ambito applicativo - Omessa
previsione del divieto temporaneo di licenziamento del dirigente
per ragioni oggettive.
- Decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del
Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie,
lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da
COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile
2020, n. 27, art. 46.
(GU n. 35 del 28-08-2024)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione lavoro
Composta dagli ill.mi signori magistrati:
dott. Antonio Manna - Presidente;
dott.ssa Carla Ponterio - consigliere;
dott. Francescopaolo Panariello - consigliere;
dott. Gualtiero Michelini - consigliere;
dott. Elena Boghetich - consigliere - relatore;
ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso
iscritto al n. 22910/2022 r.g., proposto da:
Gruppo PSC S.p.a., in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in via Po n. 25/b, Roma, presso lo
studio degli avvocati Roberto Pessi e Raffaele Fabozzi che la
rappresentano e difendono come da procura speciale in calce al
ricorso - ricorrente;
contro:
Giuseppe Di Giovine, elettivamente domiciliato in via Germanico
n. 172, Roma, presso lo studio dell'avv. Pier Luigi Panici che lo
rappresenta e difende come da procura speciale in calce al
controricorso - contro-ricorrente;
avverso la sentenza della Corte d'Appello di Roma n. 2712/2022
pubblicata in data 27 luglio 2022, n.r.g. 2923/2021.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del giorno 14
maggio 2024 dal Consigliere dott.ssa Elena Boghetich;
vista la memoria scritta depositata dal P.M., in persona del
Procuratore generale dott.ssa Olga Pirone, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.
Rilevato che
1. - Giuseppe Di Giovine, all'epoca dei fatti dirigente
dell'odierna societa' ricorrente, era stato licenziato in data 29
aprile-6 maggio 2020 nell'ambito di un processo di riorganizzazione
aziendale, nell'ottica del contenimento dei costi e di una piu' utile
gestione dell'impresa, volta alla soppressione della posizione
lavorativa del dirigente e alla ridistribuzione e/o accorpamento
delle funzioni in capo ad altri responsabili aziendali.
Adiva il Tribunale di Roma per ottenere la declaratoria di
nullita' del licenziamento per violazione del divieto di avviare
procedure di licenziamento collettivo in pendenza dell'emergenza
epidemiologica da COVID-19 introdotto dall'art. 46 del decreto-legge
17 marzo 2020, n. 18 (convertito con modificazioni dalla legge 24
aprile 2020, n. 27) e, comunque, la declaratoria di illegittimita'
per insussistenza del giustificato motivo oggettivo e della
giustificatezza, mancata soppressione della posizione, violazione
dell'obbligo di repêchage.
2. - Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale, considerato
il chiaro tenore testuale dell'art. 46 del decreto-legge 17 marzo
2020, n. 18 e la simmetria tra blocco dei licenziamenti e ricorso
agli ammortizzatori sociali, rigettava la domanda di impugnazione del
licenziamento individuale.
3. - Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte territoriale
accoglieva l'appello proposto dal Di Giovine e per l'effetto
dichiarava la nullita' del licenziamento individuale del 29 aprile
2020 per contrasto con norma imperativa, ordinava la reintegrazione
nel posto di lavoro e condannava la societa' al risarcimento del
danno, pari all'ultima retribuzione globale di fatto dal
licenziamento fino all'effettiva reintegra, sulla base di euro
16.538,47 mensili.
I giudici d'appello ritenevano che il divieto di licenziamenti
individuali «per giustificato motivo oggettivo» in conseguenza della
pandemia da COVID-19, previsto segnatamente dall'art. 46 del
decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 - trovasse applicazione anche ai
dirigenti, all'esito di un'interpretazione costituzionalmente
orientata, confortata, altresi', dalla previsione dell'art. 1, comma
305, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 che ha consentito ai datori
di lavoro di ottenere i trattamenti di cassa integrazione guadagni
per i lavoratori che risultavano alle loro dipendenze alla data del
1° gennaio 2021, senza alcuna delimitazione di carattere soggettivo.
4. - Con il primo motivo del ricorso per cassazione, proposto ai
sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c. la societa'
ricorrente lamenta «violazione e falsa applicazione» dell'art. 46 del
decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 per avere la Corte territoriale
incluso nella disciplina del «blocco dei licenziamenti individuali»
anche i rapporti di lavoro dirigenziali, ai quali invece trova
applicazione il regime legale del licenziamento ad nutum. In
particolare addebita ai giudici d'appello la violazione del criterio
ermeneutico letterale, stabilito dall'art. 12 disp. prel. c.c.,
avendo, la Corte territoriale, trascurato lo specifico richiamo al
dato testuale dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966 (che per
costante insegnamento della Corte di Cassazione non si applica ai
dirigenti, anche per espressa previsione dell'art. 10 della medesima
legge).
Con il secondo motivo la societa' denunzia violazione e falsa
applicazione dell'art. 1, comma 305, della legge 30 dicembre 2020, n.
178 (ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo, la Corte
territoriale, errato nell'interpretare questo parametro normativo
come elemento idoneo a corroborare la tesi dell'applicabilita' del
blocco dei licenziamenti ai dirigenti, posto che la suddetta
previsione normativa (di supposta inclusione dei dirigenti nella
disciplina degli ammortizzatori sociali) e' entrata in vigore in un
momento (dicembre 2020) successivo a quello in cui licenziamento del
lavoratore e' stato disposto, con cio' confermando l'esclusione -
quantomeno nell'anno 2020 - dei dirigenti dal blocco dei
licenziamenti.
Con il terzo ed il quarto motivo di ricorso la societa' deduce
nullita' della sentenza, ex art. 112 c.p.c., per vizio di
ultrapetizione, nonche' violazione e falsa applicazione dell'art. 18
della legge 20 maggio 1970, n. 300, avendo, la Corte territoriale,
del tutto arbitrariamente disposto l'applicazione della tutela di cui
all'art. 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300
nonostante detta tutela non sia mai stata oggetto di domanda del
lavoratore e nonostante la locuzione «e' precluso» contenuta
nell'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 non consentisse
di rinvenire una fattispecie di nullita' del provvedimento espulsivo,
ex art. 1418 del codice civile.
In via subordinata, la societa' chiede a questa Corte di
sollevare questione di legittimita' costituzionale della citata norma
per sospetta violazione degli articoli 3 e 41 della Costituzione
laddove interpretato nel significato ritenuto dalla Corte
territoriale.
Considerato che
1. - L'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito
con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27), rubricato
«Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali
per giustificato motivo oggettivo» prevede: «1. A decorrere dalla
data di entrata in vigore del presente decreto l'avvio delle
procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991,
n. 223 e' precluso per sessanta giorni e nel medesimo periodo sono
sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del
23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore
di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non puo'
recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi
dell'art. 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604».
2. - La sussistenza, in fatto, di un licenziamento individuale
formalmente intimato per una ragione economico-organizzativa
(soppressione della posizione dirigenziale di «Chief Operating
Officer») non e' controversa tra le parti; del pari, non e'
controverso tra le parti che la societa' non abbia fruito, per il
dirigente, dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili
all'emergenza epidemiologica da COVID-19.
3. - Ai fini della decisione dei primi due motivi di ricorso per
cassazione viene in rilievo il divieto temporaneo di licenziamento
individuale previsto dall'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n.
18.
4.- La societa' ricorrente assume che, intesa la norma nel senso
ritenuto dalla Corte territoriale, essa sarebbe in contrasto con gli
articoli 3, primo comma, e 41, primo e terzo comma, della
Costituzione sotto tre profili:
i) violerebbe la liberta' di iniziativa economica privata,
derivando una compressione significativa della liberta' economica
senza alcun preventivo «bilanciamento» costituzionale;
ii) finirebbe per mantenere ai dirigenti, ossia ai dipendenti
economicamente piu' forti, il diritto all'intero trattamento
retributivo, mentre per tutte le altre categorie sarebbe prevista la
cassa integrazione guadagni e quindi soltanto il diritto al
trattamento di integrazione salariale nonche' per trattare
diversamente datori di lavoro che hanno numerosi rapporti di lavoro
dirigenziali rispetto a quelli che non ne hanno o hanno pochi
dirigenti alle proprie dipendenze;
iii) finirebbe per tutelare maggiormente i lavoratori piu'
«forti» e per trascurare la varieta' di situazioni riferite alla
sfera datoriale, lasciando ai datori di lavoro il carico enorme degli
oneri economici di una disposizione assistenziale, peraltro per un
periodo di tempo enormemente ampio.
Le questioni di legittimita' costituzionale cosi' come
prospettate dalla societa' ricorrente sono manifestamente infondate.
Va evidenziato che la collocazione in cassa integrazione
guadagni, anche nel periodo interessato dal c.d. blocco dei
licenziamenti, non e' automatica, ma pur sempre volontaria, ossia
dipendente da una scelta - tecnica, economica, o di strategia
imprenditoriale - del datore di lavoro in concreto. Sicche' nulla
esclude che anche altre categorie di dipendenti abbiano mantenuto il
diritto al normale trattamento retributivo, qualora il datore di
lavoro abbia deciso di non far ricorso (o almeno non per tutti) agli
ammortizzatori sociali.
In secondo luogo, nel senso della ragionevolezza di questa
differente (solo possibile) conseguenza milita anche il profilo
quantitativo: secondo massime di comune esperienza, nelle
organizzazioni produttive il numero dei dirigenti e' manifestamente e
di gran lunga inferiore al numero dei dipendenti non dirigenti,
sicche' il peso economico delle retribuzioni dirigenziali e' comunque
inferiore a quello delle retribuzioni complessivamente spettanti ai
non dirigenti. Ne consegue la ragionevolezza della scelta del
legislatore di escludere soltanto per i dirigenti il possibile
ricorso alla cassa integrazione guadagni (nel periodo rilevante nel
presente giudizio) e comunque la sua irrilevanza ai fini della
decisione.
La prospettata violazione e' insussistente, in quanto attiene a
mere evenienze fattuali, come tali non idonee ad incidere sulla
portata astratta della norma oggetto di interpretazione.
5. - Al fine di individuare l'ambito applicativo del divieto dei
licenziamenti individuali il legislatore dell'emergenza ha fatto
testuale ed espresso riferimento al recesso «per giustificato motivo
oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604».
Nel disciplinare l'ambito applicativo della legge 15 luglio 1966,
n. 604, il suo art. 10 non menziona i dirigenti. Tale silenzio e'
unanimemente ritenuto significativo della volonta' di escludere i
dirigenti (ubi tacuit, noluit) e, dunque, di mantenerli in un regime
di recesso ad nutum (art. 2118 c.c.). Proprio sulla base di questo
regime legale la contrattazione collettiva ha progressivamente
introdotto una forma di tutela «convenzionale», in termini sia di
necessaria «giustificatezza» del licenziamento del dirigente, sia di
obbligo per il datore di lavoro di corrispondere una determinata
indennita' (c.d. supplementare) nel caso di licenziamento «non
giustificato».
Il consolidato orientamento di questa Corte di legittimita' e'
nel senso della non coincidenza delle nozioni di «giustificato
motivo» (di cui all'art. 3, legge n. 604/1966) e di «giustificatezza»
(di cui alle previsioni dei contratti collettivi dei dirigenti di
vari settori produttivi). In particolare questa Corte ha affermato
che «La disciplina limitativa del potere di licenziamento, di cui
alla legge n. 604 del 1966 e st.lav., non e' applicabile, ai sensi
dell'art. 10 della legge n. 604 del 1966, ai dirigenti, neppure
convenzionali; ne consegue che, ai fini dell'eventuale riconoscimento
dell'indennita' supplementare prevista per la categoria dirigenziale,
occorre far riferimento alla nozione contrattuale di giustificatezza
della risoluzione, che si discosta, sia sul piano soggettivo che
oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la sua ragion
d'essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente
al datore di lavoro in virtu' delle mansioni affidate, dall'altro,
nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel
tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al
dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell'azienda»
(Cass. ord. n. 27199 del 2018; Cass. n. 23894 del 2018).
Ne consegue che i dirigenti sono esclusi dall'ambito applicativo
del divieto dei licenziamenti individuali, perche' nei loro confronti
il recesso non viene intimato ne' puo' giuridicamente essere intimato
«per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge
15 luglio 1966, n. 604». L'espressione «ai sensi» e' riferita alla
nozione di recesso per «giustificato motivo oggettivo», che assume
giuridica rilevanza soltanto in tema di rapporti di lavoro
subordinato non dirigenziali. Per i dirigenti, infatti, sul piano
legale il recesso e' ad nutum (art. 2118 del codice civile.) e, sul
piano della contrattazione collettiva, e' sufficiente che sia
assistito da «giustificatezza», da intendere in termini di non
pretestuosita' e/o non arbitrarieta'.
6. - E' invece diverso il regime del licenziamento collettivo:
quest'ultimo riguarda anche i dirigenti, in termini di computo nel
numero dei licenziandi ai fini dell'applicazione della disciplina di
cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223 e in termini di diritto di
informazione e consultazione sindacale e, quindi, di obblighi
procedurali a carico del datore di lavoro.
Va infatti rammentata la sentenza della Corte di Giustizia
dell'Unione europea del 13 febbraio 2014 (in causa C-596/12 promossa
dalla Commissione Europea), con cui la Repubblica Italiana e' stata
condannata per essersi resa inadempiente agli obblighi previsti dalla
direttiva n. 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998, perche' la
normativa italiana di riferimento (legge 23 luglio 1991, n. 223)
aveva originariamente escluso i dirigenti dall'ambito di applicazione
della procedura di licenziamento collettivo prevista dall'art. 2
dalla direttiva. Il Parlamento Italiano e' pertanto intervenuto con
la legge 30 ottobre 2014, n. 161 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
n. 261 del 10 novembre 2014), con la quale la procedura dei
licenziamenti collettivi e' stata estesa anche ai dirigenti,
attraverso una modifica ed una riformulazione dell'art. 24 della
legge 23 luglio 1991, n. 223, sia pure nei limiti sopra
sinteticamente esposti.
La conseguenza di cio' e' immediatamente apprezzabile con
riguardo al c.d. blocco dei licenziamenti collettivi disposto
dall'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18: esso riguarda
certamente anche i dirigenti, perche' anche a costoro trova
applicazione la legge 23 luglio 1991, n. 223, le cui procedure, da
parte del legislatore dell'emergenza pandemica, sono state
temporaneamente vietate (o sospese se gia' iniziate ad una certa
data).
7. - Ne consegue che sul piano della disciplina legale dei
licenziamenti individuali e di quelli collettivi, il difetto di
simmetria che sussiste per i dirigenti (ai quali non si applica la
prima, mentre si applica in parte la seconda) si riflette
puntualmente sul regime del c.d. blocco dei licenziamenti: questo e'
applicabile solo se si tratta di licenziamento collettivo, non pure
se si tratti di licenziamento individuale per ragioni oggettive.
8. - Tale conclusione non e' superabile in via di interpretazione
costituzionalmente conforme della norma emergenziale, ispirata a
criteri di solidarieta' sociale e di equa distribuzione degli oneri
derivanti dalla crisi. In particolare deve osservarsi che con il
suddetto blocco dei licenziamenti individuali la collettivita',
attraverso la cassa integrazione guadagni straordinaria, ha assunto
il peso economico del lavoro dipendente non dirigenziale
(assolutamente preponderante in termini economici) ed il peso di
altri benefici erogati alle imprese (sospensione temporanea di oneri
fiscali e previdenziali), a fronte dei quali i datori di lavoro hanno
subito una temporanea restrizione della facolta' di licenziamento,
estesa secondo la sentenza impugnata, anche ai dirigenti. Il
riferimento testuale al giustificato motivo oggettivo di cui all'art.
3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 - secondo i giudici d'appello -
rappresenterebbe solo la tecnica normativa per alludere alle
motivazioni economiche, ossia per identificare la natura della
ragione posta a fondamento del recesso datoriale e non per delimitare
la platea soggettiva di applicazione del divieto e, dunque, dei
relativi beneficiari.
9. - Orbene, va ricordato che l'interpretazione
costituzionalmente orientata di una norma di legge si fonda sul
principio di supremazia costituzionale che impone all'interprete di
optare, fra piu' soluzioni astrattamente possibili, per quella che
renda la norma conforme alla Costituzione (Corte costituzione n. 456
del 1989).
In tal senso questa Corte ne ha fatto applicazione in molteplici
occasioni (ex multis Cass. 17 luglio 2015, n. 15083; Cass. 17 gennaio
2020, n. 823) sulla scorta dell'ormai risalente insegnamento, secondo
cui «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime
perche' e' possibile darne interpretazioni incostituzionali (e
qualche giudice ritenga di darne), ma perche' e' impossibile darne
interpretazioni costituzionali» (Corte costituzione 22 ottobre 1996,
n. 356).
10. - Ad avviso di questa Corte, tuttavia, l'interpretazione
offerta dai giudici d'appello, per quanto apprezzabile, non puo'
essere confermata, in quanto l'interpretazione costituzionalmente
orientata postula piu' soluzioni astrattamente possibili. Invece, nel
caso in esame quella affermata dalla Corte territoriale non rientra
fra le interpretazioni astrattamente possibili.
Vi osta il dato letterale assolutamente univoco, rappresentato
dal testuale ed espresso richiamo al recesso «per giustificato motivo
oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604».
Trattasi di un elemento testuale dal quale non e' possibile
prescindere (art. 12 disp. prel. c.c.), atteso il c.d. primato del
criterio ermeneutico letterale che, per il suo carattere di
oggettivita' e per il suo naturale obiettivo di ricerca del senso
normativo maggiormente riconoscibile e palese, rappresenta il
criterio cardine nella interpretazione della legge e concorre alla
definizione in termini di certezza della fattispecie regolata (Cass.
sez. un. n. 23051 del 2022 in tema di fattispecie tributaria, ma con
affermazioni di principio di valenza generale).
D'altronde, come ha sottolineato anche parte della dottrina, non
si puo' «leggere nella disposizione quello che non c'e', anche quando
la Costituzione vorrebbe che vi fosse».
Secondo costante giurisprudenza costituzionale, «l'univoco tenore
della disposizione segna il confine in presenza del quale il
tentativo di interpretazione conforme deve cedere il passo al
sindacato di legittimita' costituzionale (sentenze n. 150 del 2022,
n. 118 del 2020, n. 221 del 2019 e n. 83 del 2017)» (sentenze nn. 203
del 2022 e 44 del 2024).
Quel richiamo al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art.
3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 non ha valenza polisemica. Il
suo significato e' infatti riferito da tutta la pluriennale
giurisprudenza di questa Corte di legittimita' al licenziamento
individuale del dipendente non dirigente, in coerenza con l'art. 10
della legge 15 luglio 1966, n. 604, interpretato dal «diritto
vivente» come norma che esclude i dirigenti dall'ambito applicativo
del regime legale di cui alla stessa legge. Ne consegue che la
nozione di «giustificato motivo oggettivo» e' una soltanto, postula
la natura non dirigenziale del rapporto di lavoro in cui e'
intervenuto il licenziamento e pertanto non si presta ad
un'interpretazione estensiva.
Dunque la funzione e gli effetti di quel testuale richiamo
(compiuto dal legislatore nella norma emergenziale) non si limitano -
come invece ritenuto dai giudici d'appello - all'identificazione
della natura della ragione giustificatrice del recesso individuale,
ma si estendono all'individuazione delle categorie (legali) di
dipendenti ai quali quella ragione e' riferibile nel regime giuridico
legale del loro rapporto di lavoro. E fra tali categorie non vi e'
quella dei dirigenti.
11. - L'ulteriore conseguenza e' che, per i licenziamenti
individuali di questi ultimi, la legislazione dell'emergenza
pandemica presenta una vera e propria lacuna normativa, che tuttavia
non e' possibile colmare mediante l'applicazione analogica.
Va infatti considerato che il c.d. blocco dei licenziamenti
rappresenta un'eccezione - sia pure temporanea - ai normali poteri
datoriali (art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604; art. 2118 del
codice civile), che trovano il loro fondamento e la loro
giustificazione nel c.d. rischio di impresa e, in ultima analisi,
nell'art. 41, comma 1 della Costituzione
Ne consegue che e' inammissibile l'applicazione analogica,
espressamente vietata per le norme eccezionali dall'art. 14 disp.
prel. c.c.
12. - Nondimeno, e' da considerare che ai fini del divieto
temporaneo dei licenziamenti non sussiste alcuna diversita' fra
licenziamento collettivo e quello individuale (fattispecie che
mostrano, come evidenziato da Corte della Costituzione n. 7 del 2024,
un simmetria tra loro), dal momento che la differente procedura non
ha alcun rilievo rispetto ad una norma eccezionale, emanata per
fronteggiare un momento di straordinaria crisi sociale ed economica
causata da un fattore del tutto imprevedibile come la pandemia da
COVID-19. La ratio di ordine pubblico e' agevolmente individuale
nell'esigenza di evitare in via provvisoria che le generalizzate
conseguenze economiche della pandemia si traducessero nella
soppressione immediata di posti di lavoro, con immediata perdita
della capacita' reddituale dei dipendenti ed impossibilita' di
reimpiego.
Alla luce di questa ratio del divieto di licenziamento, comune a
tutte le sue forme, sia esso collettivo o individuale, va allora
valutata la ragionevolezza di una vera e propria asimmetria di
tutela: mentre per i dipendenti non dirigenti la tutela e' «globale»,
in quanto il divieto investe sia i licenziamenti individuali per
giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi, per i
dipendenti dirigenti la tutela e' soltanto parziale, in quanto il
divieto investe solo i licenziamenti collettivi.
Questa Corte dubita della ragionevolezza di tale asimmetria e,
dunque, ritiene che la norma violi l'art. 3 della Costituzione in
considerazione dell'eccezionalita' della situazione determinata dal
rapido diffondersi dalla pandemia da COVID-19, che ha creato
un'inedita condizione di grave pericolo per la salute pubblica,
costituendo essa «un'emergenza sanitaria dai tratti del tutto
peculiari» (sentenza n. 198 del 2021). Come gia' sottolineato dalla
Corte costituzionale, per effetto delle misure di contenimento della
pandemia, nel periodo dell'emergenza sanitaria vi e' stato l'arresto
di fatto di numerose attivita' economiche con conseguente difficolta'
di ampi strati della popolazione, per fronteggiare le quali e' stata
posta in essere un'ampia e reiterata normativa dell'emergenza con
l'impiego di consistenti risorse economiche nella logica della
solidarieta' collettiva (sentenza n. 213 del 2021).
13. - Va premesso che la discrezionalita' del legislatore e', per
definizione libera e, pertanto, insindacabile a condizione che la
scelta normativa operata non sia manifestamente irragionevole,
ovvero, che la norma sia adeguata e congruente rispetto alla
finalita' perseguita dal legislatore medesimo.
Nel caso di specie tale condizione non sembra sussistere.
14. - Non puo' condividersi la tesi - pure da taluni prospettata
- secondo cui il divieto di licenziamento si accompagnerebbe
indissolubilmente al costo del lavoro a carico della collettivita'
mediante la cassa integrazione guadagni straordinaria, non
applicabile ai dirigenti. Questo asserito binomio «divieto di
licenziamento / costo del lavoro a carico della collettivita'» e'
smentito dal legislatore, che, con l'art. 46 del decreto-legge 17
marzo 2020, n. 18, ha vietato e/o «bloccato» temporaneamente il
licenziamento collettivo che puo' riguardare anche i dirigenti. In
tal caso e' dunque da riconoscere l'operativita' del c.d. blocco
senza possibilita' di ricorrere alla cassa integrazione guadagni
straordinaria, sicche' il costo del dirigente o dei dirigenti -
altrimenti licenziabili - finisce per restare a carico del datore di
lavoro.
In corrispondenza con questo «sacrificio» imposto ai datori di
lavoro il legislatore ha riconosciuto una pluralita' di misure
economiche (introduzione di una fattispecie tipizzata di cassa
integrazione guadagni: articoli 19 e 22-quinquies del decreto-legge
17 marzo 2020, n. 18 (convertito con modificazioni dalla legge 24
aprile 2020, n. 27); sospensione temporanea di oneri fiscali e
previdenziali: decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito con
modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27); contributi a fondo
perduto: decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (convertito con
modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176) e successivi
«decreti ristori»; credito d'imposta su locazione di immobili ad uso
non abitativo: art. 28 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34
«decreto rilancio» convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio
2020, n. 77) che presuppongono tutte - sul piano logico e giuridico -
la portata generalizzata del c.d. blocco dei licenziamenti collettivi
e individuali per ragioni oggettive, a prescindere dalla categoria
legale di inquadramento dei dipendenti altrimenti licenziabili.
Ne consegue che a fronte di questo bilanciamento si presenta del
tutto eclettica la scelta del legislatore di escludere dal divieto i
licenziamenti individuali per ragioni oggettive del dirigente.
L'irragionevolezza di questa scelta si manifesta in modo ancora
piu' evidente, laddove si consideri che il «sacrificio» a carico dei
datori di lavoro si presenta certamente piu' gravoso in presenza di
un possibile licenziamento collettivo, sia perche' questo
coinvolgerebbe per definizione piu' dipendenti, sia perche' gli oneri
datoriali in tal caso sarebbero soltanto di tipo procedurale. Ne
consegue che, nei confronti del datore di lavoro, il sacrificio «piu'
grave» (ossia il c.d. blocco del licenziamento collettivo, che
altrimenti puo' coinvolgere anche dirigenti) viene disposto ed invece
viene escluso quello «meno grave» (ossia il c.d. blocco del
licenziamento individuale per ragioni oggettive del singolo
dirigente). Questa scelta e' irragionevole, perche' «nel piu' sta il
meno»: se nel bilanciamento dei contrapposti interessi il legislatore
ha ritenuto di poter sacrificare (per un tempo determinato) la
facolta' di recesso collettivo del datore di lavoro anche nei
confronti dei dirigenti, a maggior ragione avrebbe potuto (e quindi
dovuto) sacrificare quella di recesso individuale. In definitiva, se
- nell'ottica del bilanciamento - il complesso delle misure di
sostegno economico alle imprese e' stato ritenuto dal legislatore
idoneo a «compensare» il sacrificio rappresentato dal blocco dei
licenziamenti collettivi, anche dei dirigenti, a maggior ragione
quelle stesse misure di sostegno sono da considerare ampiamente (e
ancor di piu') idonee a compensare il minor sacrificio del blocco dei
licenziamenti individuali per ragioni oggettive dei dirigenti.
L'omessa previsione di questo sacrificio «minore», da un lato, e
l'impossibilita' di interpretare la norma in discorso (art. 46 del
decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 convertito con modificazioni dalla
legge 24 aprile 2020, n. 27) in modo da ricomprendere nel blocco
anche il licenziamento individuale del singolo dirigente intimato per
ragioni oggettive, impongono a questa Corte di sollevare rispetto a
detta norma la questione di legittimita' costituzionale per contrasto
con l'art. 3 della Costituzione: in nessun modo l'omessa previsione
denunziata si presta ad essere giustificata sul piano costituzionale,
ne' - come s'e' detto e' risolvibile mediante il canone
dell'interpretazione costituzionalmente orientata o adeguatrice,
ostandovi il tenore letterale. Dunque, non resta che prendere atto
della irragionevolezza della scelta legislativa di bloccare, rispetto
ai dirigenti, i soli licenziamenti collettivi e non anche quelli
individuali dovuti a ragioni oggettive.
15. - Alla luce delle considerazioni svolte e del principio
metodologico ribadito dalla Corte costituzionale n. 42/2017 (secondo
cui "... A fronte di adeguata motivazione circa l'impedimento ad
un'interpretazione costituzionalmente compatibile, dovuto
specificamente al «tenore letterale della disposizione», questa Corte
ha gia' avuto modo di affermare che «la possibilita' di un'ulteriore
interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di
fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del
rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la
verifica dell'esistenza e della legittimita' di tale ulteriore
interpretazione e' questione che attiene al merito della
controversia, e non alla sua ammissibilita'» (sentenza n. 221 del
2015 ... sentenze nn. 95 e 45 del 2016, n. 262 del 2015; nonche', nel
medesimo senso, sentenza n. 204 del 2016) ... "), la questione della
illegittimita' costituzionale dell'art. 46 nella parte in cui non
prevede il divieto di licenziamento del dirigente per ragioni
oggettive, oltre ad essere rilevante ai fini della decisione dei
primi due motivi del ricorso per cassazione proposto dalla datrice di
lavoro del dirigente (tutti incentrati sull'inapplicabilita' del
blocco dei licenziamenti a quelli individuali di dirigenti intimati
per ragioni oggettive), si presenta non manifestamente infondata in
relazione all'art. 3 della Costituzione, parametro che da lungo tempo
la giurisprudenza della Corte costituzionale ritiene coinvolto ogni
qual volta la norma di legge si presenti irragionevole, ossia non
adeguata o congruente rispetto alla finalita' perseguita dal
legislatore.
P. Q. M.
La Corte, visto l'art. 23 della legge n. 83/1957:
a) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 46 del
decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito con modificazioni
dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) per contrasto con l'art. 3 della
Costituzione;
b) dispone l'immediata trasmissione di tutti gli atti di causa
alla Corte costituzionale;
c) sospende il giudizio in corso;
d) dispone che a cura della cancelleria la presente ordinanza
sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei
ministri, nonche' comunicata ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento.
Cosi' deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione
lavoro, in data 14 maggio 2024.
Il Presidente: Antonio Manna