N. 217 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 ottobre 2024
Ordinanza del 23 ottobre 2024 del Tribunale di Milano nel
procedimento civile promosso da Associazione Avvocati Per Niente
Onlus e altri contro Istituto nazionale della previdenza sociale -
INPS .
Previdenza - Lavoro - Rapporto di lavoro a tempo indeterminato -
Riconoscimento dell'esonero contributivo, per i periodi di paga dal
1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026, alle lavoratrici madri di tre
o piu' figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo
indeterminato e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31
dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli, con il
medesimo rapporto di lavoro - Previsione che non riconosce
l'esonero contributivo anche alle lavoratrici madri di tre o piu'
figli (e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre
2024, anche alle lavoratrici madri di due figli) con rapporto di
lavoro dipendente a tempo determinato - Previsione che esclude
l'esonero contributivo per i rapporti di lavoro domestico.
- Legge 30 dicembre 2023, n. 213 (Bilancio di previsione dello Stato
per l'anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio
2024-2026), art. 1, commi 180 e 181.
(GU n. 48 del 27-11-2024)
TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO
Sezione lavoro
In persona del Giudice Franco Caroleo, a scioglimento della
riserva, ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta al
n. 6446 del Ruolo Generale per l'anno 2024
tra:
APN - Avvocati Per Niente ONLUS, in persona del legale
rappresentante p.t., e ASGI - Associazione degli Studi Giuridici
sull'immigrazione, Maria Nicolai, Caterina Cottatellucci, Federica
Bernard ed Elena Belotti, con gli avv.ti Alberto Guariso, Livio Neri
e Mara Marzolla - parti attrici;
e
INPS, in persona del legale rappresentante p.t., con l'avv.
Giulio Pecco - parte convenuta.
1. L'oggetto del ricorso.
Con ricorso ex art. 28, decreto legislativo n. 150/2011 le parti
attrici hanno chiesto:
«Voglia il Tribunale, disattesa ogni contraria istanza in
accoglimento delle domande delle signore Maria Nicolai, Caterina
Cottatellucci, Federica Bernard, Elena Belotti:
a) accertare dichiarare il carattere discriminatorio della
condotta tenuta dall'INPS consistente nell'aver omesso di applicare
alle ricorrenti il medesimo esonero contributivo applicato, ai sensi
dell'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023, alle lavoratrici in
identiche condizioni con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e
pertanto nell'aver richiesto/ricevuto/trattenuto per contributi IVS
una quota della retribuzione che non viene invece
richiesta/ricevuta/trattenuta dalle lavoratrici con rapporto a temo
indeterminato. E, conseguentemente, adottare ogni provvedimento
necessario al fine di rimuovere la predetta discriminazione e farne
cessare gli effetti; e pertanto, occorrendo nell'ambito del piano di
rimozione di cui all'art. 28, decreto legislativo n. 150/2011;
b) ordinare all'INPS di restituire alle ricorrenti sopra
indicate gli importi trattenuti sulle retribuzioni maturate da
gennaio 2024 per il titolo di cui sopra e di comunicare ai datori di
lavoro delle stesse che detti importi non devono essere versati
neppure per le mensilita' necessarie alla sentenza, fino a che
sussistano le condizioni prevista dall'art. 1, comma 180, legge n.
213/2023; in accoglimento delle domande proposte da ASGI aps e APN
Onlus;
c) ove ritenuto necessario, dichiarare rilevante e non
manifestatamente infondata la questione di costituzionalita'
dell'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 181/2023 nella parte in cui
limitano l'esonero contributivo ivi previsto alle sole lavoratrici
madri con contratto a tempo indeterminato e escludendo in ogni caso
le lavoratrici con contratto di lavoro domestico, per violazione
degli articoli 3, 31, 117 della Costituzione, quest'ultimo in
relazione alla clausola 4 dell'accordo allegato alla direttiva
1999/70, all'art. 24, direttiva 2004/38, all'art. 11, par. 1, lettera
a), direttiva 2003/109, art. 12, par. 1, lettera a), direttiva
2011/98, all'art. 16, par. 1, direttiva 2021/1883, nonche' all'art.
10 Convenzione OIL 143/75; e all'esito del giudizio di
costituzionalita';
d) accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della
condotta tenuta dall'INPS consistente nell'aver omesso di applicare a
tutte le lavoratrici con contratto di lavoro a tempo determinato e
alle lavoratrici domestiche il medesimo esonero contributivo previsto
dall'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 e applicato alle
lavoratrici in identiche condizioni soggettive con rapporto di lavoro
a tempo indeterminato e non domestico; e pertanto nell'aver
richiesto/ricevuto/trattenuto da dette lavoratrici una quota per
contributi IVS che non viene invece richiesta/ricevuta/trattenuta
alle lavoratrici con rapporto lavoro a tempo indeterminato e non
domestico. E conseguentemente, adottare ogni provvedimento necessario
al fine di rimuovere la predetta discriminazione e farne cessare gli
effetti e, pertanto, occorrendo nell'ambito del piano di rimozione di
cu all'art. 28, decreto legislativo n. 150/2011;
e) ordinare all'INPS:
di restituire a tutte le lavoratrici con rapporto di lavoro
a tempo determinato e con rapporto di lavoro domestico che si trovino
nelle condizioni soggettive di cui all'art. 1, commi 180 e 181, legge
n. 213/2023 gli importi trattenuti per contributi IVS sulle
retribuzioni maturate da gennaio 2024 per il titolo di cui sopra;
di modificare sul punto sopra indicato la circolare n. 27
del 31 gennaio 2024 e ogni altra circolare o messaggio pertinente,
comunicando al pubblico sul proprio sito istituzionale e a mezzo
apposita circolare che l'esenzione contributiva prevista dai predetti
commi deve trovare applicazione anche per le lavoratrici con
contratto a tempo determinato e con contratto di lavoro domestico che
si trovino nelle condizioni soggettive previste da detti commi;
f) dato atto che statuizioni richieste sub e) attengono a
obblighi di fare infungibili, condannare l'amministrazione convenuta
a pagare alle associazioni ricorrenti, ai sensi dell'art. 614-bis del
codice di procedura civile, euro 100,00 per ogni giorno di ritardo
nell'adempimento del predetto obbligo, a decorrere dal novantesimo
giorno successivo alla notifica della emananda sentenza;
g) disporre la pubblicazione dell'emananda sentenza sulla
home page del sito istituzionale dell'amministrazione per minimo di
giorni trenta e/o o su uno o piu' quotidiani a tiratura nazionale che
il Tribunale vorra' indicare.
h) condannare l'INPS a rifondere alle ricorrenti spese
diritti del presente procedimento (ivi compreso il rimborso del
contributo unificato) spese da distrarsi in favore dei procuratori
che si dichiarano antistatari».
In particolare, le attrici hanno denunciato il carattere
discriminatorio della condotta tenuta dall'INPS consistente nell'aver
omesso di applicare alle lavoratrici attrici (tutte madri con due o
tre figli e assunte con contratti a tempo determinato) e, in
generale, a tutte le lavoratrici con contratto di lavoro a tempo
determinato e alle lavoratrici domestiche l'esonero contributivo di
cui ai commi 180 e 181, dell'art. 1, legge n. 213/2023.
Per questo, hanno chiesto l'accertamento dell'illegittimita' di
tale norma nella parte in cui esclude dall'esenzione contributiva le
lavoratrici madri con contratto a termine e quelle con rapporto di
lavoro domestico.
A parere della difesa attorea, la discriminazione si
sostanzierebbe sotto le seguenti concorrenti prospettive:
a) per violazione dell'obbligo di parita' di trattamento nelle
condizioni di lavoro tra lavoratrici a tempo determinato e
lavoratrici a tempo indeterminato sancito dalla clausola 4, punto 1,
dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE;
b) per una discriminazione indiretta in danno delle lavoratrici
straniere (titolari di permessi di lavoro) che sono statisticamente
presenti tra le lavoratrici a tempo determinato in percentuale
notevolmente piu' alta delle lavoratrici di cittadinanza italiana;
c) perche', escludendo le lavoratrici domestiche, si avrebbe
una ulteriore discriminazione indiretta in danno delle lavoratrici
straniere (titolari di permessi di lavoro), che sono statisticamente
presenti tra le lavoratrici di detto settore in percentuale
notevolmente piu' alta rispetto alle lavoratrici della cittadinanza
italiana;
d) perche', in ogni caso, vi sarebbe un contrasto con gli
articoli 3 e 31 della Costituzione.
Su questa linea, l'illegittimita' delle disposizioni censurate e'
stata fatta valere sotto due differenti profili:
1) quello della discriminazione individuale, in relazione alle
attrici persone fisiche, in quanto «Costoro sono legittimate a
contestare la predetta norma in quanto si trovano (a parita' di ogni
altra condizione, ivi compresi gli ditti sulla futura pensione) a
percepire una retribuzione netta inferiore di almeno il 2% rispetto a
quella percepita da una lavoratrice a tempo indeterminato» (cfr. pag.
7 del ricorso);
2) quello della discriminazione collettiva, «in quanto i
requisiti che vengono dedotti come discriminatoti pongono
indirettamente in una posizione di particolare svantaggio la
collettivita' indeterminata delle lavoratrici madri straniere con
almeno 2 figli (o 3 dal gennaio prossimo) che si trovano a percepire
una retribuzione netta inferiore del 2,19% o del 3,19% (a seconda del
livello retributivo5 ) rispetto a quella percepita da una lavoratrice
a tempo indeterminato per il solo 2024; e inferiore del 9,19% per i l
2025 e 2026» (cfr. pag. 7 del ricorso).
In tal senso, le parti attrici hanno sollevato questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 180 e 181, legge n.
213/2023:
per violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione,
poiche' la norma contestata, nel prevedere un trattamento meno
favorevole per le lavoratrici madri titolari di un rapporto di lavoro
a tempo determinato o di un contratto di lavoro domestico rispetto
alle lavoratrici madri con rapporto di lavoro a tempo indeterminato,
si porrebbe in contrasto con la clausola 4, punto 1, dell'accordo
quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, e, nell'implicare una
discriminazione indiretta in ragione della nazionalita' consistente
nell'esclusione delle lavoratrici a tempo determinato e delle
lavoratrici domestiche (essendo ambiti lavorativi occupati da una
percentuale di lavoratrici straniere notevolmente piu' alta rispetto
alle lavoratrici di cittadinanza italiana), si porrebbe in contrasto
con le direttive dell'Unione europea nn. 2004/38, 2003/109, 2011/98,
2021/1883;
per violazione dell'art. 3 della Costituzione, per
l'irragionevolezza dell'esclusione dall'esonero contributivo delle
lavoratrici madri con due figli titolari di un rapporto di lavoro a
tempo determinato o di un contratto di lavoro domestico
per violazione dell'art. 31 della Costituzione, posto che,
una volta che l'ordinamento abbia valutato come opportuno un
determinato intervento a sostegno della famiglia e della maternita',
non puo' irragionevolmente escludere famiglie e madri che si trovino
nella medesima condizione personale e familiare oggetto di tutela.
2. Le difese dell'INPS.
L'INPS si e' costituito in giudizio ed ha contestato le pretese
avversarie, eccependo in via preliminare il difetto di legittimazione
attiva delle associazioni attrici e l'inammissibilita' del ricorso.
Con riferimento ai paventati dubbi di costituzionalita', a parere
dell'INPS:
la norma oggetto di denuncia non crea alcuna disparita', non
avendo peraltro ne' finalita' sociale ne' finalita' di incentivo alla
maternita' ne' finalita' d'incentivo alla partecipazione femminile
generica al lavoro;
essendo l'assenza di stabilita' la caratteristica comune al
lavoro a tempo determinato e al lavoro domestico, dovrebbe ritenersi
che il legislatore abbia inteso incentivare la partecipazione
femminile al lavoro, ma non genericamente a qualsiasi lavoro, bensi'
al lavoro stabile;
la misura prevista dichiaratamente non e' eccezionale ed e'
collegata alla maternita', in quanto evento tipicamente femminile e
che, tipicamente, costituisce una delle principali cause di
discriminazione femminile sul lavoro;
la non eccezionalita' della misura e il collegamento con la
maternita' sono volti a consolidare nelle donne e nei datori di
lavoro l'affidamento sulla serieta' della previsione e sulla sua non
caducita'.
3. Sull'eccezione di difetto di legittimazione attiva.
Preliminarmente va disattesa l'eccezione, sollevata dall'INPS, in
ordine al difetto di legittimazione attiva delle associazioni APN -
Avvocati Per Niente ONLUS e ASGI - Associazione degli Studi Giuridici
sull'immigrazione.
Ed invero, l'art. 4, comma 3, 1egge n. 67/2006 prevede che: «le
associazioni e gli enti di cui al comma 1 sono altresi' legittimati
ad agire, in relazione ai comportamenti discriminatoti di cui ai
commi 2 e 3 dell'art. 2, quando questi assumano carattere
collettivo».
Orbene, la controversia in esame, nella parte azionata dalle
associazioni attrici, ha proprio ad oggetto una fattispecie volta
all'accertamento di una discriminazione collettiva nei confronti di
soggetti non direttamente e immediatamente individuabili (la
generalita' delle lavoratrici straniere) ed e' stata promossa da
associazioni iscritte nell'apposito elenco di cui all'art. 5, decreto
legislativo n. 215/2003 (all. n. 11 al ricorso), tenuto peraltro
conto delle loro previsioni statutarie (all. nn. 12-13 al ricorso) e
delle finalita' perseguite da esse.
Del resto, secondo formai consolidato orientamento
giurisprudenziale «nella materia della tutela contro le
discriminazioni collettive, la legittimazione ad agire in capo ad un
sonetto collettivo non rappresenta un'eccezione ma una regola
funzionale all'esigenza di apprestare tutela, attraverso un rimedio
di natura inibitoria, ad una serie indeterminata di soggetti per
contrastare il rischio di una lesione avente natura diffusiva e che
percio' deve essere, per quanto possibile, prevenuta o circoscritta
nella propria portata offensiva (voci fazione prevista dal decreto
legislativo n. 215 del 2003, art. 5 per la repressione di
comportamenti discriminatori per ragioni di razza o di origine
etnica; quella di cui al decreto legislativo n. 9 luglio 2003, n.
216, art. 4 recante l'attuazione della dir. 2000/78/CE per la parita'
di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro;
fazione di cui all'art. 4 per la repressione di comportamenti
discriminatori in danno di persone con disabilita', di cui alla legge
1° marzo 2006, n. 6, recante misure per la tutela giudiziaria delle
persone con disabilita' vittime di discriminazioni; fazione per
contrastare le discriminazioni per ragioni di sesso nell'accesso a
beni e servizi e loro fornitura, di cui al decreto legislativo 11
aprile 2006, n. 198, art. 55-quinquies, recante il codice delle pari
opportunita' tra uomo e donna, a norma della legge 28 novembre 2005,
n. 246, art. 6); e) costituirebbe percio' una vistosa eccezione il
mancato conferimento della legittimazione ad agire in capo ad un ente
esponenziale in caso di discriminazione collettiva per il fattore
nazionalita', non giustificabile, alla luce del fatto che esso
risulta, come si e' visto, fattore discriminatorio parimenti vietato
in ogni campo della vita sociale (lavorativa ed extra-lavorativa) ai
sensi dell'art. 43 TU immigrazione. 10. Anche la giurisprudenza della
CGUE, ha gia' sostenuto (Corte di Giustizia CE, Sez. 2, 10 luglio
2008 - C-54/07) la rilevanza della discriminazione collettiva, sia
pure alla luce della Direttiva 2000/43/CE (che attua il principio
della parita' di trattamento fra le persone indipendentemente dalla
razza e dall'origine etnica); riconoscendo, da una parte, che
l'esistenza di una discriminazione diretta «non presuppone un
denunciante identificabile che asserisca di essere stato vittima di
tale discriminazione» (e pertanto riconoscendo che essa potesse
essere fatta valere in giudizio alla luce del diritto nazionale da
una associazione collettiva), ed affermando, dall'altra, che allo
scopo sia sufficiente considerare la potenzialita' lesiva della
condotta denunciata) (Cass. n. 28745/2019).
L'eccezione va comunque respinta.
4. Sull'eccezione di inammissibilita' del ricorso.
Neppure sembra cogliere nel segno l'eccezione dell'INPS in
relazione all'asserita inammissibilita' del ricorso in quanto la
contribuzione non rientrerebbe tra le materie per cui e' azionabile
il rimedio di cui all'art. 28 decreto legislativo n. 150/2011.
Ed invero, l'art. 44, decreto legislativo n. 286/1998,
espressamente menzionato dall'art. 28, decreto legislativo n.
150/2011, attiene a qualsiasi comportamento discriminatorio adottato
da un privato o da una pubblica amministrazione. Inoltre, l'art. 3,
decreto legislativo n. 216/2003, anch'esso espressamente menzionato
dall'art. 28, decreto legislativo n. 150/2011, prevede tra le aree di
pertinenza anche «occupazione e condizioni di lavoro», in cui puo'
farsi rientrare una misura come quella di causa che, pur riconoscendo
un esonero contributivo, incide sulla retribuzione netta percepita.
Tanto basta a respingere anche questa eccezione.
5. La questione di legittimita' costituzionale.
Avuto riguardo alle domande attoree, il Tribunale ritiene
rilevante e non manifestamente infondata la sollevata questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 180 e 181, legge n.
213/2023 per le ragioni che si espongono di seguito.
5.1. Con riferimento alla rilevanza della questione di legittimita'
costituzionale.
L'art. 1, legge 30 dicembre 2023, n. 213, ai commi 180, 181 e 182
dispone:
«180. Fermo restando quanto previsto al comma 15, per i periodi
di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026 alle lavoratrici
madri di tre o piu' figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo
indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, e'
riconosciuto un esonero del 100 per cento della quota dei contributi
previdenziali per l'invalidita', la vecchiaia e i superstiti a carico
del lavoratore fino al mese di compimento del diciottesimo anno di
eta' de/figlio piu' piccolo, nel limite massimo annuo di 3.000 euro
riparametrato su base mensile.
181. L'esonero di cui al comma 180 e' riconosciuto, in via
sperimentale, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31
dicembre 2024 anche alle lavoratrici madri di due figli con rapporto
di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esclusione dei
rapporti di lavoro domestico, fino al mese del compimento del decimo
anno di eta' de/figlio piu' piccolo.
182. Per gli esoneri di cui ai commi 180 e 181 resta ferma
l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche».
Con circolare n. 27 del 31 gennaio 2024 (all. n. 2 al ricorso)
l'INPS ha. fornito chiarimenti e adottato istruzioni operative in
relazione alle citate disposizioni, confermando tra l'altro che le
lavoratrici a tempo determinato e le lavoratrici domestiche sono
escluse dal beneficio.
Quanto alla situazione delle lavoratrici attrici, e' pacifico
che:
Maria Nicolai, assunta con contratto a tempo determinato alle
dipendenze di Azione Solidale soc. coop. e madre di tre figli, nel
2024 ha subito mensilmente una trattenuta del 9,19% della sua
retribuzione a titolo di contributi INPS e, al contempo, una
«restituzione» del 7% a titolo di «esonero contributi IVS»,
percependo mediamente una retribuzione inferiore di euro 21,00
rispetto a quella percepita, a parita' di ogni altra condizione, da
una lavoratrice a tempo indeterminato;
Caterina Cottatellucci, Federica Bernard ed Elena Belotti,
tutte assunte con contratto a tempo determinato alle dipendenze del
Ministero dell'Istruzione e madri di due figli, hanno subito
mensilmente una trattenuta dell'8,8% su 118 della loro retribuzione a
titolo di contributi INPS-ex INPDAP e, al contempo, la «restituzione»
del 6% a titolo di «esonero contributi IVS», percependo cosi' una
retribuzione inferiore del 2,8% (quindi mediamente euro 46,99 per
ciascuna) rispetto a quella percepita, a parita' di ogni altra
condizione, da una lavoratrice a tempo indeterminato.
Con il ricorso introduttivo del presente procedimento le parti
attrici, tra le altre cose, hanno chiesto al Tribunale di ordinare
all'INPS:
a) di restituire a tutte le lavoratrici con rapporto di lavoro
a tempo determinato e con rapporto di lavoro domestico che si trovino
nelle condizioni soggettive di cui all'art. 1, commi 180 e 181, legge
n. 213/2023 gli importi trattenuti per contributi IVS sulle
retribuzioni maturate da gennaio 2024;
b) di modificare la circolare n. 27 del 31 gennaio 2024 e ogni
altra circolare o messaggio pertinente, nella parte in cui escludono
l'applicazione dell'esonero contributivo per le lavoratrici con
rapporto di lavoro a tempo determinato e con rapporto di lavoro
domestico, comunicando al pubblico sul proprio sito istituzionale e a
mezzo apposita circolare che l'esenzione contributiva deve trovare
applicazione anche per le lavoratrici con contratto a tempo
determinato e con contratto di lavoro domestico che si trovino nelle
condizioni soggettive previste dall'art. 1, commi 180 e 181, legge n.
213/2023.
Le domande cosi' formulate appaiono quindi tese a impedire il
ripetersi de futuro di discriminazioni che possano coinvolgere
qualsiasi lavoratrice madre con rapporto di lavoro a tempo
determinato o con rapporto di lavoro domestico, attraverso la
rimozione delle disposizioni contenute nella circolare INPS n. 27 del
31 gennaio 2024, che sono sostanzialmente riproduttive della norma
legislativa oggetto di censura.
Proprio in ragione di cio', il presente giudizio non puo' essere
definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di
legittimita' costituzionale, tenuto conto che, in presenza di un
contrasto con norme del diritto dell'Unione europea aventi efficacia
diretta, non risulta percorribile la via della disapplicazione della
norma interna.
Infatti, come chiarito nella sentenza della Corte costituzionale
n. 1512024, nell'ambito di un giudizio ex art. 28 del decreto
legislativo n. 150 del 2011 in cui si discuta di norme legislative e
regolamentari in contrasto (anche) con norme del diritto dell'Unione
europea dotate di efficacia diretta: da un lato, il giudice ordinario
puo' impartire un ordine di rimozione delle discriminazioni accertate
a tutela del bene della vita delle parti attrici, dando piena e
immediata attuazione al diritto dell'Unione europea; dall'altro lato,
pero', se il giudice ordinario intende impedire il ripetersi de
futuro di discriminazioni identiche o analoghe che possano
coinvolgere qualsiasi altro soggetto che si trovi nelle medesime
condizioni, deve sollevare questione di legittimita' costituzionale
sulle norme legislative ritenute incompatibili con le norme di
diritto dell'Unione europea aventi efficacia diretta.
In tal senso, la Corte costituzionale ha affermato che, laddove
la norma regolamentare sia sostanzialmente riproduttiva di norma
legislativa, ordinarne la rimozione, con effetti che travalicano il
caso che ha originato il giudizio antidiscriminatorio, implica che
sia sollevata questione di legittimita' costituzionale sulla seconda
(cfr. Corte costituzionale n. 1512024: «In particolare, nell'ambito
del giudizio ex art. 28 del decreto legislativo n. 150 del 2011, la
primaute' e' garantita dal giudice ordinario innanzitutto allorche'
e' chiamato ad accertare l'esistenza dell'asserita discriminazione.
E' in questo momento del giudizio che egli, ove accerti che la
condotta per cui e' causa trova fondamento in atti normativi
incompatibili con normativa dell'Unione europea a efficacia diretta,
da' immediata applicazione a quest'ultima e ordina la cessazione
della discriminazione.
Nel giudizio dinanzi al Tribunale di Udine, il giudice ha
ritenuto, per l'appunto, che fosse discriminatoria e in contrasto con
l'art. 11 della direttiva 2003/109/CE l'impossibilita' per i
ricorrenti di avvalersi, per attestare l'impossidenza di immobili, di
una dichiarazione sostitutiva ai sensi del decreto del Presidente
della Repubblica n. 445 del 2000. Conseguentemente, e correttamente,
non ha applicato la normativa legislativa e regolamentare che prevede
detta impossibilita' e, in diretta applicazione della richiamata
normativa europea, ha ordinato di valutare la domanda dei ricorrenti
- volta a ottenere il contributo per l'acquisto dell'alloggio da
destinare a prima casa - «come se la documentazione attestante
l'impossidenza di altri immobili fosse stata regolarmente prodotta in
base agli stessi criteri valevoli per i cittadini comunitari». E' in
questo momento del giudizio che il Tribunale di Udine, adottando il
predetto ordine, ha a pieno garantito i principi del primato e
dell'effetto diretto del diritto dell'Unione europea.
L'impartito ordine di rimuovere l'art. 12, comma 3-bis, del
regolamento regionale n. 0144 del 2016, che sostanzialmente riproduce
l'art. 29, comma 1-bis, della legge regionale Friuli-Venezia Giulia
n. 1 del 2016, costituisce, invece, il piano di rimozione delle
discriminazioni accertate che il Tribunale di Udine ha ritenuto di
dover adottare. Una volta attribuito il bene della vita ai
ricorrenti, dando piena e immediata attuazione al diritto dell'Unione
europea, il giudice ha inteso poi impedire il ripetersi di
discriminazioni identiche o analoghe che possano coinvolgere non
tanto i ricorrenti, ma qualsiasi altro soggetto che si trovi nelle
medesime condizioni.
In quest'ambito del giudizio non viene piu' in rilievo l'esigenza
che il diritto dell'Unione europea dotato di efficacia diretta trovi
immediata applicazione (Corte di giustizia, sentenza 22 giugno 2010,
in cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli), perche' tale esigenza
e' stata, appunto, gia' pienamente soddisfatta. Qui viene in gioco,
invece, una logica interna all'ordinamento nazionale che, con una
forma rimediale peculiare e aggiuntiva, e' funzionale a garantire
un'efficace rimozione, anche pro futuro, della discriminazione: il
che peraltro, quando sia stata rilevata un'incompatibilita' con il
diritto dell'Unione europea, fa dell'art. 28 del decreto legislativo
n. 150 del 2011 uno strumento che garantisce anche l'uniforme
applicazione di tale diritto e che contribuisce alla «costruzione di
tutele sempre piu' integrate» (sentenza n. 67 del 2022).
In quest'ottica, laddove la norma regolamentare sia
sostanzialmente riproduttiva di norma legislativa, ordinarne la
rimozione implica che sia sollevata questione di legittimita'
costituzionale sulla seconda. La non applicazione per contrasto con
il diritto dell'Unione europea a efficacia diretta - necessaria per
l'attribuzione immediata del bene della vita negato sulla base
dell'accertata discriminazione - non rimuove, infatti, la legge
dall'ordinamento con immediata efficacia erga omnes, ma impedisce
soltanto «che tale norma venga in rilievo per la definizione della
controversia innanzi al giudice nazionale» (sentenza n. 170 del
1984). L'ordine di rimozione della norma regolamentare - che proietta
i suoi effetti, per espressa scelta del legislatore compiuta con
l'art. 28 del decreto legislativo n. 150 del 2011, oltre il caso che
ha originato il giudizio antidiscriminatorio - richiede, allora, che
sia dichiarata l'illegittimita' costituzionale della legge, la quale,
ancorche' non applicata nel caso concreto, e' ancora vigente,
efficace e, sia pure in ipotesi erroneamente, suscettibile di
applicazione da parte della pubblica amministrazione o anche di altri
giudici che ne valutino diversamente la compatibilita' con il diritto
dell'Unione europea.
Sono, dunque, tanto l'ordinato funzionamento del sistema delle
fonti interne - e, nello specifico, i rapporti tra legge e
regolamento regionali anche in relazione al diritto dell'Unione
europea - quanto l'esigenza che i piani di rimozione della
discriminazione siano efficaci a richiedere che il giudice ordinario,
se correttamente intenda ordinare la rimozione di una norma
regolamentare al fine di evitare il riprodursi della discriminazione
de futuro, sollevi questione di legittimita' costituzionale sulla
norma legislativa sostanzialmente riprodotta dall'atto regolamentare,
anche dopo che si sia accertata l'incompatibilita' di dette norme
interne con norme di diritto dell'Unione europea aventi efficacia
diretta.
E lo stesso discorso non puo' che valere in una fattispecie, come
quella di causa, afferente ad una circolare di un ente pubblico
riproduttiva di norma legislativa (in contrasto con la normativa
europea) e al comportamento dell'ente che si e' conformato a tale
norma.
Infatti, solo una pronuncia di illegittimita' costituzionale
consentirebbe di rimuovere la norma dall'ordinamento con immediata
efficacia erga omnes ed evitare cosi' il riprodursi della
discriminazione de futuro (finalita', questa, evidentemente collegata
alle pretese azionate nel presente giudizio).
5.2. Con riferimento alla non manifesta infondatezza della questione
di legittimita' costituzionale.
L'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 pone dubbi di
legittimita' costituzionale in due parti:
1) nella parte in cui non riconosce l'esonero contributivo
anche alle lavoratrici madri di tre o piu' figli (e, per i periodi di
paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, anche alle lavoratrici
madri di due figli) con rapporto di lavoro dipendente a tempo
determinato;
2) nella parte in cui esclude l'esonero contributivo per i
rapporti di lavoro domestico. Il Tribunale non ritiene che la
questione di legittimita' costituzionale sia manifestamente infondata
con riguardo ad entrambe le parti.
Deve allora procedersi ad un esame distinto delle due parti della
norma impugnata, si da evidenziare le disposizioni della Costituzione
che si assumono violate.
5.2.1. In relazione al mancato riconoscimento dell'esonero
contributivo alle lavoratrici madri a tempo determinato.
5.2.1.1. Violazione dell'art. 3 della Costituzione
Con riferimento alla parte della norma impugnata che limita
l'esonero contributivo alle lavoratrici con rapporto di lavoro a
tempo indeterminato e non lo estende anche a quelle con rapporto di
lavoro a tempo determinato, si ritiene che il parametro di
riferimento debba essere individuato anzitutto nell'art. 3 della
Costituzione, per l'ingiustificata e irragionevole disparita' di
trattamento.
Non sembra infatti potersi giustificare, alla stregua dell'art. 3
della Costituzione, che le lavoratrici madri a tempo determinato
siano trattate in modo deteriore rispetto alle lavoratrici madri a
tempo indeterminato, tenuto conto che si tratta di due categorie, sul
piano contributivo, sostanzialmente omogenee.
Del resto, come rilevato in ricorso, il beneficio previsto dalla
norma non ha alcuna incidenza sul regime legale di previdenza sociale
(che rimane identico per le due tipologie di contratto qui
considerate), ma incide esclusivamente sulla retribuzione netta
percepita, a parita' di ogni altra condizione, «sottraendo» alla sola
lavoratrice a tempo determinato una quota della retribuzione stessa,
che viene invece lasciata nella retribuzione della lavoratrice a
tempo indeterminato.
Peraltro, il beneficio, diversamente da quello previsto dal comma
15 del medesimo art. 1 («In via eccezionale, per i periodi di paga
dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, per i rapporti di lavoro
dipendente, con esclusione dei rapporti di lavoro domestico, e'
riconosciuto un esonero, senza effetti sul rateo di tredicesima,
sulla quota dei contributi previdenziali per l'invalidita', la
vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore di 6 punti
percentuali, a condizione che la retribuzione imponibile, parametrata
su base mensile per tredici mensilita', non ecceda l'importo mensile
di 2.692 euro, al netto del rateo di tredicesima, opera per qualsiasi
retribuzione (anche una retribuzione elevata gode dello sconto
contributivo, se pure solo fino al limite di 3.000,00 euro).
Inoltre, non puo' dirsi (come pure confermato dall'INPS) che la
finalita' della norma sia quella di incentivo all'assunzione a tempo
indeterminato, dacche' il beneficio e' riconosciuto anche alle
lavoratrici a tempo indeterminato gia' assunte.
Ne' il carattere di stabilita' dei contratti di lavoro a tempo
indeterminato potrebbe valere ex se a giustificare la previsione in
esame: al contrario, sembrerebbe piu' ragionevole attribuire il
beneficio contributivo (con effetti diretti di natura retributiva)
alle lavoratrici precarie, che hanno minori certezze lavorative e
dispongono mediamente di retribuzioni piu' basse rispetto alle
lavoratrici a tempo indeterminato.
5.2.1.2. Violazione dell'art. 31 della Costituzione
Neppure sembra manifestamente infondata la deduzione relativa
alla paventata violazione dell'art. 31 della Costituzione, per come
prospettato dalla difesa attorea.
Ed invero, la norma impugnata risulterebbe garantire alla
maternita' e alla famiglia numerosa di una donna, con contratto di
lavoro a tempo indeterminato una protezione diversa (e migliore)
rispetto a quelle di una donna con contratto di lavoro a tempo
determinato.
L'irragionevolezza dell'esclusione dal beneficio delle
lavoratrici madri a tempo determinato finisce quindi per incidere
negativamente sul piano delle tutele della maternita' e della
famiglia, implicando cosi' anche la violazione dell'art. 31 della
Costituzione.
5.2.1.3. Violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione
per contrasto con la clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro
allegato alla direttiva 1999/70/CE
Oltre alla violazione degli articoli 3 e 31 della Costituzione,
sembra poi venire in rilievo anche la violazione dell'art. 117, comma
1, della Costituzione in relazione ai vincoli derivanti
dall'ordinamento dell'Unione europea.
Ed invero, la clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro allegato
alla direttiva 1999/70/CE prevede che «Per quanto riguarda le
condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono
essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo
indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o
rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano
ragioni oggettive».
Detta clausola, dunque, sancisce il divieto, per quanto riguarda
le condizioni di impiego, di trattare i lavoratori a tempo
determinato in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo
indeterminato che si trovano in una situazione comparabile, per il
solo fatto che essi lavorano a tempo determinato, a meno che non
sussistano ragioni oggettive.
Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione
europea, la direttiva 1999/70 e l'accordo quadro trovano applicazione
nei confronti di tutti i lavoratori che forniscono prestazioni
retribuite nell'ambito di un rapporto di impiego a tempo determinato
che li vincola al loro datore di lavoro (cfr. CGUE ordinanza del 22
marzo 2018, Centeno Melendez, C-315/17, EU:C:2018:207, punto 38 e
giurisprudenza ivi citata).
Per quanto riguarda la nozione di «condizioni di impiego» ai
sensi della citata clausola 4, punto 1, dalla giurisprudenza della
Corte di giustizia risulta che il criterio decisivo per determinare
se una misura rientri in tale nozione e' proprio quello dell'impiego,
vale a dire il rapporto di lavoro sussistente tra un lavoratore e il
suo datore di lavoro (cfr. CGUE sentenza del 5 giugno 2018, Grupo
Norte Facility, C-574/16, EU:C:2018:390, punto 41 e giurisprudenza
ivi citata; sentenza del 20 giugno 2019, Ustariz Arostegui, C-72/18,
EU:C:2019:516, punto 25 e giurisprudenza ivi citata).
La CGUE ha pertanto ritenuto che rientrino in detta nozione, tra
l'altro, le indennita' triennali per anzianita' di servizio (v., in
tal senso, sentenza del 22 dicembre 2010, Gavieiro Gavieiro e
Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 50, e
ordinanza del 18 marzo 2011, Montoya Medina, C-273/10, non
pubblicata, EU:C:2011:167, punto 32), le indennita' sessennali per
formazione continua (v., in tal senso, ordinanza del 9 febbraio 2012,
Lorenzo Martinez, C-556/11, non pubblicata, EU:C:2012:67, punto 38),
la partecipazione a un piano di valutazione professionale e
l'incentivo economico che ne consegue in caso di valutazione positiva
(ordinanza del 21 settembre 2016, Alvarez Santirso, C-631/15,
EU:C:2016:725, punto 36), nonche' la partecipazione a una carriera
professionale orizzontale che da' luogo a un'integrazione salariale
(ordinanza del 22 marzo 2018, Centeno Melendez, C-315/17, non
pubblicata, EU:C:2018:207, punto 47).
Peraltro, «la clausola 4 dell'accordo quadro dev'essere intesa
nel senso che esprime un principio di diritto sociale comunitario che
non puo' essere intepretato in modo restrittivo (v. citata sentenza
Del Cerro Alonso, punto 38).
Come hanno fatto valere sia l'Impact sia la Commissione,
un'interpretazione della clausola 4 dell'accordo quadro che
escludesse categoricamente dalla nozione di "condizioni di impiego"
ai sensi di quest'ultima le condizioni finanziarie come quelle
relative alle retribuzioni ed alle pensioni equivarrebbe a ridurre,
in spregio dell'obiettivo assegnato alla suddetta clausola, l'ambito
della protezione accordata ai lavoratori interessati contro le
discriminazioni, introducendo una distinzione, fondata sulla natura
delle condizioni di impiego, che i termini di tale clausola non
suggeriscono affatto.
Del resto, come ha rilevato l'avvocato generale al paragrafo 161
delle sue conclusioni, un'interpretazione siffatta condurrebbe a
privare di senso il riferimento, operato alla clausola 4, punto 2,
dell'accordo quadro, al principio del pro rata temporis, la cui
applicabilita' e' concepibile per definizione solo in presenza di
prestazioni divisibili come quelle derivanti da condizioni di impiego
finanziarie, connesse, ad esempio, alle retribuzioni ed alle
pensioni» (cfr. CGUE sentenza Impact 15 aprile 2008 C-268/06).
Inoltre, si deve ricordare che, secondo la giurisprudenza
costante della Corte di giustizia dell'Unione europea, il principio
di non discriminazione, di cui la clausola 4, punto 1, dell'accordo
quadro costituisce un'espressione specifica, richiede che situazioni
paragonabili non siano trattate in maniera diversa e che situazioni
diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale
trattamento non sia oggettivamente giustificato (cfr. CGUE sentenza
del 5 giugno 2018, Grupo Norte Facility, C-574/16, EU:C:2018:390,
punto 46 e giurisprudenza ivi citata).
In tal senso, al fine di valutare se le persone interessate
esercitino un lavoro identico o simile nel senso dell'accordo quadro,
occorre stabilire, conformemente alla clausola 3, punto 2, e alla
clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro, se, tenuto conto di un
insieme di fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di
formazione e le condizioni di impiego, si possa ritenere che tali
persone si trovino in una situazione comparabile (cfr. CGUE sentenza
del 5 giugno 2018, Grupo Norte Facility, C-574/16, EU:C:2018:390,
punto 48 e giurisprudenza ivi citata).
Tanto evidenziato, occorre rilevare che, nel caso di specie, le
lavoratrici attrici e i soggetti per cui le associazioni attrici
invocano tutela, in quanto titolari di rapporti contrattuali a tempo
determinato, rientrano certamente nella nozione di «lavoratore a
tempo determinato».
Allo stesso modo, non pare potersi dubitare del fatto che
l'esonero contributivo di cui ai commi 180 e 181 dell'art. 1 della
legge n. 213/2023 sia riconosciuto proprio in ragione del rapporto di
lavoro, cosicche' la sua previsione deve essere considerata una
«condizione di impiego», ai sensi della clausola 4, punto 1,
dell'accordo quadro.
Del resto, come condivisibilmente evidenziato dalla difesa
attorea, il beneficio previsto dalla norma non ha alcuna incidenza
sul regime legale di previdenza sociale (che rimane identico per le
due tipologie di contratto qui considerate), ma incide esclusivamente
sulla retribuzione netta percepita, a parita' di ogni altra
condizione, «sottraendo» alla sola lavoratrice a tempo determinato
una quota della retribuzione stessa, che viene invece lasciata nella
retribuzione della lavoratrice a tempo indeterminato.
Lo sgravio contributivo e' poi connesso alla sussistenza di un
rapporto di lavoro dipendente (a tempo indeterminato) e la
sussistenza di tale rapporto di impiego costituisce la «condizione
oggettiva» per l'accesso alla misura di miglior favore: in assenza di
impiego, lo sgravio non e' applicabile e, in costanza di impiego,
risulta parametrato (entro certi limiti) alla retribuzione percepita
dalle lavoratrici.
Sussistono dunque i caratteri richiesti dalla giurisprudenza
europea al fine della qualificazione quale «condizioni di impiego»
(cfr. CGUE sentenza 20 giugno 2019, n. C-72/18, Arostegui).
Quanto poi alla comparabilita' tra lavoratrici assunte con
contratti di lavoro a tempo determinato e lavoratrici assunte con
contratti di lavoro a tempo indeterminato, la stessa non puo' che
essere convalidata, tenuto conto che non vi sono fattori di
diversita' sul piano della natura del lavoro o delle condizioni
impiego, esistendo invece una differenza di trattamento in quanto le
lavoratrici a tempo determinato non beneficiano dell'esonero di
causa.
Ne', tantomeno, si rinvengono ragioni oggettive, ai sensi della
clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro, che giustifichino questa
differenza di trattamento.
Tali elementi potrebbero risultare, segnatamente, dalla
particolare natura delle funzioni per l'espletamento delle quali sono
stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche
inerenti alle medesime o, eventualmente, dal perseguimento di una
legittima finalita' di politica sociale di uno Stato membro (cfr.
CGUE sentenza del 20 giugno 2019, Ustariz Arostegui, C-72/18,
EU:C:2019:516, punto 40 e giurisprudenza ivi citata).
Tuttavia, nel caso in esame, si scorge esclusivamente il
riferimento alla mera natura temporanea della prestazione delle
lavoratrici con contratto a tempo determinato.
E tale riferimento non e' conforme ai menzionati requisiti e non
puo' costituire di per se' una ragione oggettiva, ai sensi della
clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro: «Infatti, ammettere che la
mera natura temporanea di un rapporto di lavoro basti a giustificare
una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e
lavoratori a tempo indeterminato priverebbe del loro contenuto gli
scopi della direttiva n. 1999/70 e dell'accordo quadro ed
equivarrebbe a perpetuare ,ma situazione svantaggiosa per i
lavoratori a tempo determinato» (CGUE sentenza dell'8 settembre 2011,
Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punto 74 e giurisprudenza
ivi citata; confermata successivamente da sentenza del 20 giugno
2019, Ustariz Arostegui, C-72/18, EU:C:2019:516).
E' allora evidente che l'avere riferito l'esonero contributivo
solamente alla durata del rapporto contrattuale non consente di
escludere da un'identica applicazione di esso quelle lavoratrici a
tempo determinato il cui lavoro, secondo l'ordinamento, abbia analoga
taratura.
L'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023, nella parte in cui
non riconosce l'esonero contributivo anche alle lavoratrici madri di
tre o piu' figli (e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31
dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli) con
rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato, sembra dunque
porsi in contrasto con il principio di parita' di trattamento di cui
alla clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro allegato alla direttiva
1999/70/CE, cosi' da comportare una violazione dell'art. 117, comma
1, della Costituzione.
5.2.1.4. Violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione
per contrasto con il principio di parita' di trattamento del
cittadino straniero nelle condizioni di lavoro (discriminazione
indiretta)
La violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione sembra
ravvisabile anche in relazione ad un altro parametro di matrice
europea.
Ed invero, l'ordinamento europeo riconosce da tempo il principio
di parita' di trattamento del cittadino straniero nelle condizioni di
lavoro.
Cio' emerge:
dall'art. 24 direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio del 29 aprile 2004 per i cittadini dell'Unione europea
(«1. Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste
dal trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino dell'Unione che
risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato
membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di
tale Stato nel campo di applicazione del trattato»);
dall'art. 11, lettera a), direttiva 2003/109 /CE del
Consiglio del 25 novembre 2003 per i cittadini di paesi terzi che
siano soggiornanti di lungo periodo («1. Il soggiornante di lungo
periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per
quanto riguarda: a) l'esercizio di un'attivita' lavorativa
subordinata o autonoma, purche' questa non implichi nemmeno in via
occasionale la partecipazione all'esercizio di pubblici poteri,
nonche' le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di
licenziamento e di retribuzioni»);
dall'art. 12, lettera a), direttiva 2011 /98/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 per i
titolari di permesso unico lavoro («1. I lavoratori dei paesi terzi
di cui all'art. 3, paragrafo 1, lettere b e c), beneficiano dello
stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui
soggiornano per quanto concerne: a) le condizioni di lavoro, tra cui
la retribuzione e il licenziamento nonche' la salute e la sicurezza
sul luogo di lavoro»);
dall'art. 16, lettera a), direttiva 2021/1883/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2021 per i titolari
di Carta blu UE («1. I titolari di Carta blu UE beneficiano di un
trattamento uguale a quello riservato ai cittadini dello Stato membro
che ha rilasciato la Carta blu UE per quanto concerne: a) le
condizioni di impiego, compresa l'eta' minima di ammissione al
lavoro, e le condizioni di lavoro, tra cui la retribuzione e il
licenziamento, l'orario di lavoro, le ferie e i giorni festivi,
nonche' le prescrizioni relative alla salute e alla sicurezza sul
luogo di lavoro»).
Con particolare riferimento alla direttiva 2011/98/UE, vale la
pena ricordare quanto evidenziato dalla Corte costituzionale nella
recente sentenza n. 54/2022: «Nel sistema delineato dalla direttiva
2011/98/UE, il diritto alla parita' di trattamento rappresenta la
regola generale, cui gli Stati membri possono apportare deroghe solo
entro limiti rigorosi. All'interpretazione restrittiva delle
possibili deroghe fa riscontro la necessita' che gli Stati membri
manifestino in modo inequivocabile la volonta' di limitare
l'applicazione della parita' di trattamento (Corte di giustizia
dell'Unione europea, sentenze 25 novembre 2020, nella causa C-302/19,
Istituto nazionale della previdenza sociale, punto 27, e 21 giugno
2017, nella causa C449/16, Kerly Del Rosario Martinez Silva, punto
29).
L'onere di dichiarazione espressa di eventuali deroghe, nel corso
dell'attivita' di trasposizione, emerge dal sistema normativo,
considerato nel suo insieme e nelle finalita' che lo ispirano. Esso
si correla non soltanto alla salvaguardia dell'effetto utile della
direttiva, ma anche a una fruttuosa e trasparente fase di
recepimento, che lo stesso legislatore: dell'Unione europea vuole
contraddistinta dall'impegno degli Stati membri a una costante
interlocuzione con la Commissione e alla «modifica delle loro misure
di recepimento con uno o piu' documenti intesi a chiarire il rapporto
tra gli elementi di una direttiva e le parti corrispondenti degli
strumenti nazionali di recepimento» (considerando n. 32 della
direttiva 2011/98/UE).
La Corte di giustizia dell'Unione europea, nella piu' volte
richiamata sentenza del 2 settembre 2021, ha ricordato che la
Repubblica italiana non si e' avvalsa in alcun modo della facolta' di
limitare la parita' di trattamento (punto 64)».
Quanto alla vicenda oggetto del presente giudizio, e' indiscusso
che l'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 non comporti una
discriminazione diretta fondata sulla nazionalita', dal momento che
si applica indistintamente alle lavoratrici di nazionalita' italiana
e alle lavoratrici di nazionalita' straniera con contratti a tempo
determinato.
Cio' che invece occorre approfondire in questa sede e' se, come
sostenuto dalla difesa attorea, la disposizione legislativa comporti
una discriminazione indiretta fondata sulla nazionalita': ossia se la
disposizione, apparentemente neutra, possa porre in una situazione di
particolare svantaggio le persone di nazionalita' straniera rispetto
alle persone di nazionalita' italiana, a meno che detta disposizione
sia oggettivamente giustificata da una finalita' legittima e i mezzi
impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Sul punto, nella sentenza 24 febbraio 2022, causa C-389/20, la
Corte di Giustizia dell'Unione europea (Sezione Terza), decidendo su
un caso di discriminazione indiretta fondata sul sesso, ha affermato
che l'esistenza del particolare svantaggio per le persone
asseritamente discriminate «potrebbe essere dimostrata, segnatamente,
se fosse provato che detta disposizione, detto criterio o detta
prassi colpiscono negativamente in proporzione significativamente
maggiore le persone di un determinato sesso rispetto a quelle
dell'altro sesso. Spetta al giudice nazionale verificare se cio'
avvenga nel procedimento principale (v., in tal senso, sentenze
dell'8 maggio 2019, Villar Laiz C-161/18, EU:C:2019:382, punto 38, e
del 21 gennaio 2021, INSS, C-843/19, EU:C:2021:55, punto 25).
42. Nell'ipotesi in cui il giudice nazionale disponga di dati
statistici, la Corte ha affermato che quest'ultimo deve, da un lato,
prendere in considerazione l'insieme dei lavoratori assoggettati alla
normativa nazionale da cui ha origine la disparita' di trattamento e,
dall'altro, comparare le proporzioni rispettive dei lavoratori che
sono e che non sono colpiti dall'asserita disparita' di trattamento
nell'ambito della mano d'opera femminile rientrante nel campo di
applicazione di tale normativa e le medesime proporzioni nell'ambito
della mano d'opera maschile ivi rientrante [v., in tal senso,
sentenze del 24 settembre 2020, YS (Pensioni aziendali del personale
dirigente), C-223/19, EU:C:2020:753, punto 52 e giurisprudenza ivi
citata, e del 21 gennaio 2021, INSS, C-843/19, EU:C:2021:55, punto
26].
43. A tal proposito, spetta al giudice nazionale valutare in qual
misura i dati statistici prodotti dinanzi ad esso siano affidabili e
se possano essere presi in considerazione, vale a dire se, in
particolare, non riflettano fenomeni puramente fortuiti o
congiunturali e se siano sufficientemente significativi [sentenze del
24 settembre 2020, YS (Pensioni aziendali del personale dirigente),
C-223/19, EU:C:2020:753, punto 51 e giurisprudenza ivi citata, e del
21 gennaio 2021, INSS, C-843/19, EU:C·2021:55, punto 27]» (si veda
sulla stessa linea CGUE - Prima Sezione, 29 luglio 2024, cause
riunite C-184/22 e C-185/22, secondo cui: «... la valutazione dei
fatti che consentono di presumere l'esistenza di una discriminazione
indiretta e' una questione di competenza dell'organo giurisdizionale
nazionale, secondo il diritto o la prassi nazionale, che possono
prevedere, in particolare, che la discriminazione indiretta sia
accertata con qualsiasi mezzo, compresa l'evidenza statistica
(sentenza del 3 ottobre 2019, Schuch-Ghannadan, C-274/18,
EU:C:2019:828, punto 46 e giurisprudenza citata).
59. Per quanto riguarda i dati statistici, occorre ricordare,
anzitutto, che spetta ai giudice nazionale valutare in quale misura
tali dati prodotti dinanzi ad esso, che caratterizzano la situazione
della mano d'opera, siano validi e se possano essere presi in
considerazione, vale a dire se, in particolare, non riflettano
fenomeni puramente fortuiti o congiunturali e se, in generale,
appaiano significativi (sentenza del 3 ottobre 2019,
Schuch-Ghannadan, C-274/18, EU:C:2019:828, punto 48 e giurisprudenza
citata).
60. Poi, qualora ii giudice nazionale disponga di tali dati,
secondo costante giurisprudenza, da un lato, esso e' tenuto a
prendere in considerazione l'insieme dei lavoratori assoggettati alla
normativa nazionale da cui ha origine la disparita' di trattamento e,
dall'altro, il miglior metodo di comparazione consiste nel comparare
le proporzioni rispettive dei lavoratori che sono e che non sono
colpiti dalla norma in questione nell'ambito della mano d'opera
maschile e le medesime proporzioni nell'ambito della mano d'opera
femminile (sentenze del 6 dicembre 2007, Voß, C-300/06,
EU:C:2007:757, punto 41 e giurisprudenza citata, nonche' del 3
ottobre 2019, Schuch-Ghannadan, C-274/18, EU:C:2019:828, punto 47 e
giurisprudenza citata) ...
64. In tale contesto, i dati statistici costituiscono solo un
elemento tra gli altri al quale tale giudice puo' ricorrere e al
quale la Corte fa riferimento, quando esistono, al fine di accertare
l'esistenza di una discriminazione indiretta nell'ambito
dell'attuazione del principio della parita' di trattamento tra uomini
e donne. Pertanto, secondo costante giurisprudenza della Corte,
l'esistenza di un siffatto particolare svantaggio puo' essere
dimostrata, in particolare, se fosse provato che una normativa
nazionale colpisce negativamente in proporzione significativamente
maggiore le persone di un determinato sesso rispetto a quelle
dell'altro sesso (sentenza del 5 maggio 2022, BVAEB, C-405/20,
EU:C:2022:347, punto 49 e giurisprudenza citata)»).
In questo modo, la Corte di Giustizia ha invitato a tenere in
considerazione i dati statistici (ove ritenuti affidabili) al fine di
verificare se la proporzione dei lavoratori di sesso femminile
colpiti dalla disparita' di trattamento derivante dalla disposizione
nazionale censurata sia significativamente piu' elevata di quella
degli altri lavoratori di sesso maschile.
La Corte ha cosi' inteso valorizzare il dato statistico per
accertare se la categoria di lavoratori che si assume discriminata
sia proporzionalmente piu' colpita dalla disparita' di trattamento
rispetto all'altra categoria di lavoratori che, seppur incisa
anch'essa dalla disposizione, ne subisce una ricaduta statisticamente
meno rilevante.
Orbene, facendo applicazione dei criteri indicati dalla Corte di
Giustizia dell'Unione europea, si deve rilevare che le parti attrici
hanno fornito dati statistici che risultano piuttosto affidabili e
sufficientemente significativi, non apparendo incentrati su fenomeni
puramente fortuiti o congiunturali.
In particolare:
dal «Rapporto annuale 2024 - La situazione del paese» al cap.
2 «I cambiamenti del lavoro»
(https://www.istat.it/produzione-editoriale/rapporto-annuale-2024-la-
situazione-del-paese-2/) risulta che i contratti a termine incidono
molto di piu' sulle donne (17,7% delle occupate sono a termine contro
il 14,8% dei maschi); inoltre la recente dinamica di riduzione dei
contratti a termine e' «concentrata nella sola componente maschile
dell'occupazione, mentre in quella femminile si registra una leggera
crescita che ha riportato l'occupazione a termine delle donne ai
livelli pre-pandemia» (cfr. pag. 72);
secondo il Dossier statistico immigrazione - IDOS 2023 (all.
n. 9 al ricorso), nel 2022 la percentuale di stranieri con contratto
a termine rispetto alla totalita' dei lavoratori stranieri era del
22,5%, contro una percentuale nazionale del 12,6%; quest'ultima
percentuale riguarda sia italiani che stranieri ed e' dunque
influenzata anche dal 22,5% degli stranieri;
dal XIII Rapporto Gli Stranieri nel mercato del lavoro in
Italia del 2023 pubblicato dal Ministero del lavoro e delle politiche
sociali
(https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita-immigtazione/focus/xiii-ra
pporto-mdl-stranieri-2023) risulta una percentuale nazionale di
rapporti a termine e stagionali superiore a quella sopra indicata
(26,8%), ma una percentuale riferita ai cittadini extra UE del 36%
(31,1% a termine e 4,9% stagionali) (cfr. pag. 76 e ss.); in questo
quadro, i lavoratori extra UE sono sovrappresentati tra i lavoratori
stagionali (13,8% del totale) e a tempo determinato (14,7% del totale
dei lavoratori a termine) laddove invece la percentuale di lavoratori
extra UE rispetto al totale dei lavoratori e' del 10,8% (cfr. pag.
76);
secondo il rapporto Eurostat pubblicato in data 8 marzo 2022
(https://ec.europa.eu/eurostat/en/web/products-eurostat-news/-/edn-20
220308-2), nel 2020 in Europa la quota piu' alta di lavoratrici a
tempo determinato si presentava tra le donne nate fuori dai territori
extra-UE (21 %), rispetto alle donne nate in uno stato europeo
diverso da quello in cui lavorano (14%) e le donne nate nello stesso
stato europeo in cui lavorano (13%) («The highest share of temporary
employees was also among women born outside the EU (21%), compared
with women born elsewhere in the EU (14%) and native-born women
(13%)»);
il rapporto Eurostat pubblicato in data 26 maggio 2021
(https://ec.europa.eu/eurostat/en/web/products-eurostat-news/-/ddn-20
210526-1) reca un grafico (all. n. 10 al ricorso) che fornisce i
seguenti dati sul lavoro femminile: il 20,6% delle donne straniere
extra-UE (Non-EU born persons) e' occupato in lavori a termine
(temporary works), contro il 14% tra le donne nate in uno stato
europeo diverso da quello in cui lavorano (Persons born in another EU
Member State) e il 12,8% delle donne nate nello stesso stato europeo
in cui lavorano (Native-born persons).
Sulla base di questi dati statistici, si puo' allora desumere
che, tra le lavoratrici a tempo determinato, la percentuale delle
lavoratrici straniere e' maggiore rispetto alla percentuale delle
lavoratrici italiane.
In tal senso, la proporzione delle lavoratrici a tempo
determinato straniere colpite dalla disparita' di trattamento
derivante dall'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 di cui
trattasi si rivela piu' elevata di quella delle lavoratrici a tempo
determinato italiane.
Ne consegue che la norma impugnata pone in una situazione di
particolare svantaggio le lavoratrici a tempo determinato straniere
rispetto alle lavoratrici a tempo determinato italiane.
Peraltro, non si rinvengono elementi tali da far ritenere che la
disposizione in questione sia giustificata da fattori oggettivi ed
estranei a qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalita'.
Al riguardo, la Corte di Giustizia dell'Unione europea nella
citata sentenza del 24 febbraio 2022, causa C-389/20, ha chiarito che
puo' ravvisarsi una giustificazione se la disposizione «risponde a un
obiettivo legittimo di politica sociale, e' idonea a conseguire detto
obiettivo ed e' necessaria a tal fine, fermo restando che essa puo'
essere considerata idonea a garantire l'obiettivo invocato solo se
risponde realmente all'intento di raggiungerlo e se e' attuata in
maniera coerente e sistematica (v., in tal senso, sentenze del 20
ottobre 2011, Brachner, C-123/10, EU:C:2011:675, punti 70 e 71 e
giurisprudenza ivi citata, nonche' del 21 gennaio 2021, INSS, C-843
/19, EU:C:2021:55, punti 31 e 32 e giurisprudenza ivi citata)».
Tuttavia, come gia' si e' rilevato relativamente alla violazione
dell'art. 3 Cost., non sembra che vi siano effettive ragioni (nemmeno
di politica sociale) che sorreggano l'esclusione delle lavoratrici
madri a tempo determinato dall'esonero contributivo in controversia.
Del resto, come pure precisato dalla giurisprudenza europea,
neppure sarebbe sufficiente che la norma risponda a obiettivi
legittimi di politica sociale, dovendo pure sussistere l'idoneita'
della norma nazionale a realizzare tali obiettivi e, in particolare,
se venga attuata in maniera coerente e sistematica, occorrendo
dimostrare che la categoria di lavoratori che essa esclude dalla
tutela si distingue in modo pertinente da altre categorie di
lavoratori che non ne sono escluse (cfr. CGUE sentenza del 24
febbraio 2022, causa C-389/20, par. 62).
Ancora, nell'ipotesi in cui si dovesse constatare che la
disposizione nazionale risponde a obiettivi legittimi di politica
sociale e che essa e' idonea a realizzare tali obiettivi, dovrebbe
verificarsi se tale disposizione non ecceda quanto necessario alla
realizzazione di detti obiettivi (cfr. CGUE sentenza del 24 febbraio
2022, causa C-389/20, par. 68).
Nel presente giudizio, pero', questi due ultimi profili non sono
indagabili, a fronte del riscontro negativo circa la sussistenza di
obiettivi atti a giustificare la discriminazione indiretta fondata
sulla nazionalita' che la norma impugnata comporta.
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, l'art. 1, commi
180 e 181, legge n. 213/2023, nella parte in cui non riconosce
l'esonero contributivo alle lavoratrici madri a tempo determinato,
sembra porsi in contrasto con il principio di parita' di trattamento
del cittadino straniero nelle condizioni di lavoro (cristallizzato
nelle citate direttive 2004/38/CE, 2003/109/CE, 2011/98/UE,
2021/1883/UE), cosi' da configurare un'altra violazione dell'art.
117, co. 1, Cost.
5.2.2. In relazione al mancato riconoscimento dell'esonero
contributivo alle lavoratrici madri con rapporti di lavoro domestico.
5.2.2.1. Violazione dell'art. 3 della Costituzione.
Con riferimento alla parte della norma censurata che esclude
dall'esonero contributivo le lavoratrici madri con rapporti di lavoro
domestico, sembra ravvisarsi una violazione dell'art. 3 della
Costituzione per motivi similari a quelli gia' rappresentati per la
prima parte della norma impugnata.
Non pare infatti giustificabile, alla stregua dell'art. 3 Cost.,
che le lavoratrici madri con rapporti di lavoro domestico siano
trattate in modo deteriore rispetto a tutte le altre lavoratrici
madri a tempo indeterminato.
Come gia' si e' detto, il beneficio previsto dalla nonna
impugnata opera per qualsiasi retribuzione.
Parimenti, non sembra potersi ammettere che il carattere di
stabilita' dei contratti di lavoro a tempo indeterminato diversi da
quello domestico possa valere ex se a giustificare le previsioni in
esame: al contrario, sembrerebbe piu' ragionevole attribuire il
beneficio contributivo (con effetti diretti di natura retributiva)
alle lavoratrici domestiche, che hanno minori certezze lavorative
(tenuto conto, tra le altre cose, del regime di recesso ad nutum) e
dispongono mediamente di retribuzioni piu' basse rispetto alle
lavoratrici a tempo indeterminato.
5.2.2.2. Violazione dell'art. 31 della Costituzione.
Anche per quanto concerne la paventata violazione dell'art. 31
Cost., possono riprendersi le considerazioni gia' svolte per la prima
parte della norma impugnata.
Ed invero, l'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023
risulterebbe garantire alla maternita' e alla famiglia numerosa di
una donna con contratto di lavoro a tempo indeterminato una
protezione diversa (e migliore) rispetto a quelle di una donna con
contratto di lavoro domestico, senza che cio' trovi ragione sul piano
delle tutele della maternita' e della famiglia.
5.2.2.3. Violazione dell'art. 117. co. 1, della Costituzione.
Infine, oltre alla violazione degli articoli 3 e 31 Cost., pare
prospettabile anche una violazione dell'art. 117, co. 1, Cost. in
relazione ai vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea.
Al riguardo, si deve ribadire quanto gia' detto (nel precedente
par. 5.2.1.4.) in relazione al principio di parita' di trattamento
del cittadino straniero nelle condizioni di lavoro, per come
riconosciuto dall'ordinamento europeo (cfr. articoli 24 direttiva
2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004,
11, lettera a), direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre
2003, 12, lettera a), direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e
del Consiglio del 13 dicembre 2011, 16, lettera a), direttiva
2021/1883/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre
2021).
Come gia' evidenziato in relazione alla prima parte della norma
impugnata, e' indiscusso che l'art. 1, commi 180 e 181, legge n.
213/2023 non comporti una discriminazione diretta fondata sulla
nazionalita', dal momento che si applica indistintamente alle
lavoratrici di nazionalita' italiana e alle lavoratrici di
nazionalita' straniera con rapporti di lavoro domestico.
Occorre pero' verificare se la norma possa porre in una
situazione di particolare svantaggio le persone di nazionalita'
straniera rispetto alle persone di nazionalita' italiana
(discriminazione indiretta), a meno che detta disposizione sia
oggettivamente giustificata da una finalita' legittima e i mezzi
impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Orbene, facendo applicazione dei criteri indicati dalla Corte di
Giustizia dell'Unione europea nella sentenza 24 febbraio 2022, causa
C-389/20, si deve rilevare che le parti attrici hanno fornito dati
statistici che risultano piuttosto affidabili e sufficientemente
significativi, non apparendo incentrati su fenomeni puramente
fortuiti o congiunturali.
In particolare:
dal XIII Rapporto Gli Stranieri nel mercato del lavoro in
Italia del 2023 pubblicato dal Ministero del lavoro e delle politiche
sociali
(https://www.layoro.gov.it/temi-e-priorita-immigrazione/focus/xiii-ra
pporto-mdl-stranieri-2023), i cui dati derivano dagli archivi delle
comunicazioni obbligatorie e dei versamenti contributivi effettuati
dai datori di lavoro, risulta che «Nel 2022 poco piu' della meta' dei
lavoratori domestici e' costituita da extracomunitari: se ne
osservano 449.636 su un totale di 894.299 (50,28%). Tale percentuale
e' in aumento rispetto a quelle del 2020 e del 2021, in cui
rispettivamente si riscontra il 48,69% e il 50,03% dei lavoratori
extracomunitari sul totale. In questa categoria di lavoratori nel
2022 si conforma, come gia' visto nel biennio precedente, la netta
prevalenza delle donne (86,4%)» (cfr. pag. 79);
secondo il rapporto DOMINA 2022
(https://www.osservatoriolavorodomestico.it/rapporto-annuale-lavoro-d
omestico-2022), nell'anno 2021, tra i lavoratori domestici
contribuenti all'INPS, le donne straniere rappresentavano il 57,5%
(le altre percentuali erano cosi' distribuite: donne italiane 27,4%;
uomini stranieri 12,4%; uomini italiani 2,6%);
secondo il rapporto IDOS «Le migrazioni femminili in Italia»
(https://www.integrazionemigranti.gov.it/AnteprimaPDF.aspx?id=3730),
nel 2021, l'87% delle lavoratrici straniere erano occupate nel
settore dei servizi e, di queste, il 50% era occupato nei soli
settori del lavoro domestico, di cura e di pulizia (cfr. grafico a
pag. 9).
Sulla base di questi dati statistici, si puo' allora desumere
che, tra le lavoratrici domestiche, la percentuale delle lavoratrici
straniere e' considerevolmente maggiore rispetto alla percentuale
delle lavoratrici italiane (secondo il rapporto DOMINA 2022, le
lavoratrici domestiche straniere contribuenti all'INPS nel 2021
erano, addirittura, piu' del doppio di quelle italiane).
In tal senso, la proporzione delle lavoratrici domestiche
straniere colpite dalla disparita' di trattamento derivante dall'art.
1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 di cui trattasi si rivela
significativamente piu' elevata di quella delle lavoratrici
domestiche italiane.
Ne consegue che la norma impugnata pone in una situazione di
particolare svantaggio le lavoratrici domestiche straniere rispetto
alle lavoratrici domestiche italiane.
Peraltro, non si rinvengono elementi tali da far ritenere che la
disposizione in questione sia giustificata da fattori oggettivi ed
estranei a qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalita'.
Infatti, come gia' si e' rilevato in relazione alla violazione
dell'art. 3 Cost., non sembra che vi siano effettive ragioni (nemmeno
di politica sociale) che sorreggano l'esclusione delle lavoratrici
madri con rapporti di lavoro domestico dall'esonero contributivo in
controversia.
Il riscontro negativo della sussistenza di obiettivi atti a
giustificare la discriminazione indiretta fondata sulla nazionalita'
che la norma impugnata esonera il Tribunale dalle ulteriori verifiche
(sull'idoneita' e la necessita' circa il conseguimento degli
obiettivi di politica sociale) menzionate dalla CGUE nella richiamata
sentenza 24 febbraio 2022, causa C-389/20.
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, l'art. 1, commi
180 e 181, legge n. 213/2023, nella parte in cui esclude l'esonero
contributivo per i rapporti di lavoro domestico, sembra porsi in
contrasto con il principio di parita' di trattamento del cittadino
straniero nelle condizioni di lavoro (cristallizzato nelle citate
direttive 2004/38/CE, 2003/109/CE, 2011/98/UE, 2021/1883/UE), cosi'
da configurare una violazione dell'art. 117, co. 1, Cost.
P.Q.M.
Visti gli articoli 134 della Costituzione e 23 della legge n.
87/1953, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per
violazione degli articoli 3, 31 e 117, comma 1, della Costituzione,
la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 180 e
181, della legge n. 213/2023 nella parte in cui non riconosce
l'esonero contributivo anche alle lavoratrici madri di tre o piu'
figli (e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre
2024, anche alle lavoratrici madri di due figli) con rapporto di
lavoro dipendente a tempo determinato e nella parte in cui esclude
l'esonero contributivo per i rapporti di lavoro domestico;
Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale;
Sospende il presente giudizio;
Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata alle parti in causa, al Presidente del Consiglio dei
ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Milano, 23 ottobre 2024
Il giudice: Caroleo