Reg. ord. n. 232 del 2024 pubbl. su G.U. del 27/12/2024 n. 52

Ordinanza del Tribunale di Busto Arsizio  del 21/10/2024

Tra: M.D.M.E.M.P.E.B.



Oggetto:

Reati e pene – Abrogazione dell’art. 323 del codice penale (Abuso d'ufficio) – Inosservanza degli obblighi internazionali, in relazione agli artt. 7, paragrafo 4, 19 e 65 della Convenzione ONU contro la corruzione del 2003 (cosiddetta Convenzione di Merida).




Norme impugnate:

legge  del 09/08/2024  Num. 114  Art.  Co. 1 lett. b)



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art. 11 

Costituzione  Art. 117   Co.

Convenzione ONU contro la corruzione del 2003  Art. 7 paragrafo 4

Convenzione ONU contro la corruzione del 2003  Art. 19 

Convenzione ONU contro la corruzione del 2003  Art. 65 



Udienza Pubblica del 7 maggio 2025 rel. VIGANÒ


Testo dell'ordinanza

N. 232 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 ottobre 2024

Ordinanza del 21 ottobre 2024 del  Tribunale  di  Busto  Arsizio  nel
procedimento penale a carico di M. D.M. e altri. 
 
Reati e pene - Abrogazione dell'art. 323  del  codice  penale  (Abuso
  d'ufficio). 
- Legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al  codice
  di  procedura  penale,  all'ordinamento  giudiziario  e  al  codice
  dell'ordinamento militare), art. 1, comma 1, lettera b). 


(GU n. 52 del 27-12-2024)

 
                     TRIBUNALE DI BUSTO ARSIZIO 
                          (Sezione Penale) 
 
    Il Tribunale,  in  composizione  collegiale,  nelle  persone  dei
signori Magistrati: 
      Giuseppe Fazio - Presidente; 
      Rossella Ferrazzi - Giudice; 
      Marco Montanari - Giudice; 
    all'udienza del  21  ottobre  2024  ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza di sospensione del processo e trasmissione degli atti  alla
Corte costituzionale (articoli 134 della Costituzione e 23 ss., legge
11 marzo 1953, n. 87). 
    Nel corso del  dibattimento  celebrato  dal  Tribunale  di  Busto
Arsizio composizione monocratica nei confronti di M. D.M., E...  M...
P... ed E... B... per il delitto previsto dagli articoli  61,  n.  9,
110, 353 c.p., di P. P. e C. O... in ordine al delitto  di  cui  agli
articoli 61, n. 9, 110, 353-bis c.p., di L. G. per il  reato  di  cui
all'art. 86, primo e secondo comma, del decreto del Presidente  della
Repubblica n. 570/60 e  di  F.  A.  per  il  delitto  previsto  dagli
articoli 61,  n.  9,  110,  353  c.p.,  gli  atti,  a  seguito  della
contestazione suppletiva del delitto punito dagli articoli 56, 110  e
323 c.p. operata all'udienza dibattimentale del 4 aprile 2024 ex art.
516 del codice di procedura penale dal  Pubblico  Ministero,  in  via
alternativa, nei confronti dei soli imputati D.M., P., B., P. ed  O.,
sono  stati  rimessi  per  competenza  a  questo  Collegio,  per   il
prosieguo. 
    All'udienza  del  15  luglio  2024  il  Tribunale  ha   rigettato
l'eccezione di nullita' dell'ordinanza ex art. 33-septies del  codice
di procedura  penale  adottata  dal  Giudice  monocratico,  frattanto
avanzata con memoria dal difensore dell'imputata O...;  al  contempo,
ha rigettato l'eccezione di indeterminatezza del capo d'imputazione a
seguito  della  contestazione  alternativa  formulata  dal  difensore
dell'imputato  P...  e  la  sua  richiesta  di  immediata   pronuncia
assolutoria «perche' il fatto non e' piu' previsto dalla  legge  come
reato», avanzata sulla  base  della  solo  preannunciata  -  in  quel
momento - abrogazione dell'art. 323 cit. 
    Alla successiva udienza del 27 settembre 2024, dopo l'entrata  in
vigore della legge 9 agosto 2024, no 114 - il cui art. 1, al comma 1,
lettera b), ha abrogato l'art. 323 del codice penale e, al  comma  1,
lettera a), ha eliminato  dal  catalogo  dell'art.  322-bis  c.p.  il
riferimento al predetto art. 323 -  il  Pubblico  Ministero,  facendo
esplicito rimando ad analoghe questioni sollevate dalla Procura della
Repubblica di  Reggio  Emilia  e  da  una  parte  civile  davanti  al
Tribunale di  Firenze,  ha  sottoposto  con  memoria  al  Collegio  e
illustrato oralmente  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1 cit., sostenendone la incompatibilita' con  gli  articoli
3, 97 e, soprattutto, 11 e 117 - in relazione agli articoli 7,  comma
4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite  del  2003
contro la corruzione (cd. Convenzione di Merida) ed all'art. 31 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati -  della  Costituzione
della Repubblica (secondo quanto piu' in  dettaglio  sara'  preso  in
esame infra). 
    La rilevanza e la non  manifesta  infondatezza  della  questione,
sostenute  dal  rappresentante  della  Pubblica  Accusa,  sono  state
contestate  e  negate  dalle  difese,  che  hanno  insistito  per  la
declaratoria di inammissibilita' della questione di costituzionalita'
e per  la  pronuncia  immediata  di  sentenza  assolutoria  ai  sensi
dell'art. 129 del codice di rito penale. 
    Il Tribunale si e'  riservato  di  decidere  ed  oggi,  lette  le
ulteriori  argomentazioni  esposte   dalle   difese   nella   memoria
depositata l'11 ottobre scorso, di tenore analogo a quelle utilizzate
il 7 ottobre 2024 dal Tribunale di Reggio  Emilia  per  rigettare  la
questione di costituzionalita' posta dalla Procura  della  Repubblica
reggiana, sciogliendo la riserva assunta, osserva quanto segue. 
  1. La rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. 
    Deve anzitutto essere valutata la rilevanza  della  questione  di
costituzionalita'. 
    A tal fine, merita di essere ricordato che essa. riguarda solo la
posizione degli imputati D.M., P.., B., P. e O giacche': 
      M. D.M. e'  accusato  sub  1-bis  del  delitto  previsto  dagli
articoli 56, 110 e 323 c.p. per la ritenuta  violazione  dell'obbligo
di astensione normativamente impostogli  quale  RUP  della  procedura
selettiva finalizzata al conferimento di  incarico  professionale  di
consulenza per la municipalizzata... s.r.l. e, in via alternativa, di
quello previsto dagli articoli  61,  n.  9,  110  e  353  c.p.,  gia'
contestatogli  al  capo  1  in  concorso   con   M.   C.   (giudicato
separatamente e assolto  in  secondo  grado  «perche'  il  fatto  non
sussiste» con sentenza della Corte d'Appello di Milano n. 440/24  del
19 gennaio 2024); 
      E. M. P. ed E. B. sono accusati sub 2-bis del  delitto  di  cui
agli articoli 110 e 323 c.p. per via  della  ritenuta  violazione  da
parte del primo dell'obbligo di astensione normativamente  impostogli
quale componente del Nucleo valutativo della procedura selettiva  per
il  conferimento  dell'incarico  di   Dirigente   per   lo   sviluppo
organizzativo del Comune di..., conclusasi in favore del secondo,  e,
in via alternativa, di quello previsto dagli articoli 61, n. 9, 110 e
353 c.p., gia' contestato loro al capo 2 in concorso con G. F.  e  M.
C. (giudicati separatamente e assolti in secondo  grado  «perche'  il
fatto non sussiste» con sentenza della Corte d'Appello di  Milano  n.
440/24 del 19 gennaio 2024); 
      P. P. e C. O. sono accusati sub 4-bis del delitto di  cui  agli
articoli 56, 110 e 323 c.p. per via della violazione da  parte  della
donna  dell'obbligo  di  astensione  normativamente  impostole  quale
componente della commissione preposta alla  procedura  selettiva  per
l'affidamento   dell'incarico    di    Direttore    Generale    della
municipalizzata... s.p.a. e, in via alternativa, di  quello  previsto
dagli articoli 61, n. 9, 110 e 353-bis c.p., gia' contestato loro  al
capo 4 in concorso con G. F., C. L. e M. C. (giudicati  separatamente
e assolti in secondo  grado  «perche'  il  fatto  non  sussiste»  con
sentenza della Corte d'Appello di Milano n. 40/24 del 19 gennaio 2024
(1) ), mentre: 
        L. G. e' accusato del reato  di  cui  all'art.  86,  primo  e
secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica  n  570/60
e; 
        F. A. e' accusato del delitto previsto dagli articoli 61,  n.
9, 110, 353 c.p. 
    Fa presente poi il  Collegio  che  secondo  l'insegnamento  della
giurisprudenza  costituzionale  «il  giudizio  di   rilevanza   esige
soltanto la dimostrazione della necessita', da parte del  remittente,
di fare applicazione della norma censurata nel processo a quo  e  non
richiede invece la dimostrazione che l'accoglimento  della  questione
sia effettivamente suscettibile di incidere sull'esito  del  processo
medesimo. Cio' che e' essenziale e', piuttosto, la dimostrazione  che
un  eventuale  accoglimento   inciderebbe   quanto   meno   sull'iter
motivazionale della decisione  (n.  25/2024  della  Costituzione);  i
Giudici delle leggi hanno poi  insegnato  che  «basta  a  fondare  la
rilevanza della questione il fatto che la pronuncia della Corte sulla
disposizione censurata possa incidere sia percorso argomentativo  che
sosterra' la decisione del giudizio a quo»: Corte della  Costituzione
n. 80/2024. 
    I Giudici della Consulta, peraltro, con riguardo al  giudizio  di
rilevanza della questione di costituzionalita' nel processo di merito
ed all'impatto della eventuale pronuncia di incostituzionalita' sulla
formula di proscioglimento in concreto adattabile, avevano gia' avuto
modo  di  affermare  (sentenza  n.  28  del  2010)  che  «l'eventuale
accoglimento  delle  questioni  relative  a  norme  piu'   favorevoli
verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno,
sui dispositivi delle sentenze penali; peraltro, la  pronuncia  della
Corte non potrebbe non riflettersi sullo schema  argomentativo  della
sentenza  penale  assolutoria,  modificandone  la  ratio   decidendi:
poiche'  in  tal  caso  ne  risulterebbe   alterato...il   fondamento
normativa della decisione, pur fermi restando i  pratici  effetti  di
essa...»: in sintesi, la sola possibilita' che  l'accoglimento  della
questione di costituzionalita' comporti un diverso iter motivazionale
o l'adozione di formula assolutoria  di  tenore  diverso  implica  la
rilevanza della questione. 
    Applicando tali condivise regole di  giudizio,  questo  Tribunale
non dubita della rilevanza della questione sottoposta al suo vaglio. 
    Impregiudicata, ovviamente, ogni  valutazione  del  merito  delle
accuse alternativamente  mosse  dal  Pubblico  Ministero,  che  sara'
operata all'esito della discussione, infatti, evidenzia  il  Collegio
come nel processo che ci occupa sia contestato anche, seppure in  via
alternativa, il delitto previsto dall'art. 323  c.p.  ancora  vigente
all'epoca della contestazione suppletiva;  tale  reato,  nella  forma
consumata  o  meramente  tentata,  in  caso  di  accoglimento   della
questione  di  costituzionalita'   proposta   e   della   conseguente
reviviscenza della fattispecie di reato abrogata, potrebbe, ad  esito
della prosecuzione del dibattimento, essere ritenuto sussistente  (ad
esempio, secondo quanto «suggerito» dalla Corte d'Appello  di  Milano
nella sua sentenza n. 440/2024, ritualmente sottoposta al Collegio  e
la  cui  acquisizione  ai  sensi  dell'art.  238-bis  e'  gia'  stata
richiesta, in vista del suo prossimo passaggio in giudicato). 
    Ove  anche,  tuttavia,  si  dovesse,  al   contrario,   pervenire
all'assoluzione,   l'accoglimento   della   questione   implicherebbe
l'adozione della formula assolutoria «perche' il fatto non e'  (piu')
previsto dalla legge come reato» - come, peraltro, gia' espressamente
richiesto ai fini di cui all'art. 129 del codice di procedura  penale
della difesa - e non di quella fondata sull'insussistenza del fatto. 
    La depenalizzazione operata dall'art. 1 cit., quindi, incide  con
tutta evidenza  nel  presente  giudizio  e  la  questione  della  sua
compatibilita' costituzionale e' pertanto certamente rilevante. 
    Ne' potrebbe fondatamente ritenersi che tale  questione  non  sia
rilevante in questa fase «iniziale» del dibattimento. 
    Le parti hanno richiesto sentenza di assoluzione perche' il fatto
non e' piu' previsto dalla legge come reato ex art. 129 del codice di
procedura penale a seguito di abrogazione del delitto di cui all'art.
323 c.p. 
    A tal proposito, deve innanzitutto evidenziarsi  che  secondo  la
giurisprudenza piu'. recente in caso di contestazione alternativa (2)
ben potrebbe il  Giudice  pronunciarsi  -  evidentemente  nell'ambito
dello stesso processo - sulla insussistenza di una delle  imputazioni
e poi, nel prosieguo, in merito all'altra. (3) 
    Secondo  questo  orientamento,  la  questione   di   legittimita'
costituzionale diventerebbe, all'evidenza,  assolutamente  rilevante,
in  quanto   sarebbe   necessario   sapere   se   il   reato   seppur
alternativamente contestato sia stato legittimamente abrogato. 
    Qualora invece si ritenesse  che  la  contestazione  alternativa,
riguardando  il  medesimo  fatto  storico,  impedisse  una  decisione
autonoma su  ognuna  delle  due  imputazioni,  la  questione  sarebbe
ugualmente rilevante. 
    Infatti, nel caso in cui permanesse  nel  nostro  ordinamento  il
delitto di cui all'art. 323 c.p. l'istanza ex art. 129 del codice  di
procedura  penale  andrebbe  rigettata  in  quanto,   nonostante   la
produzione da parte delle  difese  della  menzionata  sentenza  della
Corte d'Appello di Milano n. 40/24 del 19 gennaio 2024,  non  essendo
ancora iniziata l'attivita' istruttoria, questo Collegio non potrebbe
addivenire  ad   una   pronuncia   che   attesti   l'evidenza   della
insussistenza del fatto o della sua irrilevanza penale. 
    Al  contrario,  nel  caso  in   cui   venisse   riconosciuta   la
legittimita'  costituzionale  dell'abrogazione,  la   richiesta   non
potrebbe trovare accoglimento  immediato,  poiche',  a  fronte  della
contestazione  alternativa,  la  sussistenza   di   uno   dei   reati
escluderebbe  la  sussistenza  dell'altro:  non   sarebbe   possibile
giudicare   immediatamente   soltanto   la   parte   dell'imputazione
riguardante l'art.  323  c.p.  senza  valutare  in  contemporanea  la
sussistenza alternativa dell'altro reato contestato. 
    Senza dire che la decisione sulla  compatibilita'  costituzionale
dell'art. 1 cit. e dunque della avvenuta  abrogazione  dell'art.  323
c.p. avrebbe un impatto immediato e  diretto  sul  dibattimento,  del
quale orienterebbe con tutta evidenza lo svolgimento, sin dalla  fase
dell'ammissione  delle  prove  (la  rilevanza  delle  quali   sarebbe
condizionata dal perimetro, piu' o meno ampio, dell'imputazione). 
    Per  tali  ragioni,  quindi,   la   questione   di   legittimita'
costituzionale della norma  che  ha  abrogato  il  delitto  di  abuso
d'ufficio, sottoposta all'esame di questo Collegio, e'  assolutamente
rilevante nel processo. 
  2. La possibilita'  di  sollevare  una  questione  di  legittimita'
costituzionale che possa produrre potenziali effetti in malam  partem
nei confronti degli imputati. 
    L'art. l della legge 9 agosto 2024 n. 114, con la lettera h),  ha
abrogato - come detto - l'art. 323 c.p.,  con  conseguente  abrogatio
sine integrale abolitione del reato di abuso d'ufficio, tenuto  conto
dell'antecedente  introduzione,  con  l'art.  9,   decreto-legge   n.
92/2024, convertito con legge n. 112/2024, dell'art. 314-bis c.p. che
sanziona le condotte di peculato per distrazione  aventi  ad  oggetto
denaro o cose mobili, prima riconducibili  alla  fattispecie  di  cui
all'art. 323 c.p. 
    A fronte delle modifiche richiamate, peraltro, i fatti  di  abuso
(di vantaggio, di  danno  e  le  omesse  astensioni  in  presenza  di
conflitti  di  interessi)  -  come  le  condotte  contestate  in  via
alternativa nel presente processo - e  di  peculato  per  distrazione
relativo  a  beni  immobili  hanno  perso   rilevanza   penale,   con
conseguente abolitio criminis. 
    Deve, anzitutto, in via preliminare, essere affrontata e  risolta
la problematica della ammissibilita' della questione di  legittimita'
costituzionale, tenuto conto che  si  dubita  di  una  norma  che  ha
abrogato una fattispecie  penale  incriminatrice  nei  termini  sopra
ricordati. 
    In linea  di  principio,  la  Corte  costituzionale  ha  ritenuto
inammissibili  le  questioni  di  legittimita'   costituzionale   che
riguardino disposizioni abrogative di una previgente incriminazione e
che mirino al ripristino nell'ordinamento della norma  incriminatrice
abrogata, con conseguenti effetti in malam partem (cfr.  sentenza  n.
330/1996; ordinanza n. 413/2008), contrastando a tale ripristino,  di
regola, il  principio  di  cui  all'art.  25,  secondo  comma,  della
Costituzione, che riserva al solo legislatore  (riserva  assoluta  di
legge),  la  definizione  dell'area  di  cio'  che  e'  da  ritenersi
penalmente rilevante. 
    Secondo la Corte, le norme penali piu' favorevoli (come nel  caso
che qui ci riguarda)  sono  sottratte  al  giudizio  di  legittimita'
costituzionale   perche',   secondo    la    stessa    giurisprudenza
costituzionale,  in  forza  dell'art.   25,   secondo   comma   della
Costituzione,  l'eventuale  sentenza  di  accoglimento  non  potrebbe
produrre alcun effetto sul giudizio principale, stante il divieto  di
retroattivita' delle norme penali sfavorevoli. 
    Con il tempo, tuttavia, la Corte costituzionale ha elaborato  una
serie, via via sempre piu' consistente, di  deroghe  ed  eccezioni  a
tale principio, sino a giungere  all'affermazione  che  le  anzidette
preclusioni non hanno  e  non  possono  avere  carattere  assoluto  e
generalizzato. 
    Ad opera del Giudice delle leggi, piu' in particolare,  e'  stata
negata l'esistenza di zone  franche  dell'ordinamento,  sottratte  al
controllo di costituzionalita' delle leggi (cfr. Corte costituzionale
n. 37/2019) e, con un percorso  di  difficile  bilanciamento  tra  la
discrezionalita' del legislatore (sovrano nelle  scelte  di  politica
criminale) e il rispetto dei principi cardine della Costituzione,  la
Corte ha esteso il proprio sindacato anche alle ci  nonne  penali  di
favore, circoscrivendo un confine ben preciso all'interno  del  quale
la stessa Corte puo' operare il suo giudizio. 
    Con la  sentenza  n.  394/2006,  la  Corte  ha  chiarito  che  il
principio   di   legalita'   non    preclude    lo    scrutinio    di
costituzionalita', anche in malam partem, delle c.d. norme penali  di
favore,  definite  quali  norme  che  stabiliscano,  per  determinati
soggetti o ipotesi, un trattamento  penalistico  piu'  favorevole  di
quello che risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni;
secondo  la  Corte,  e'  ammissibile  il   vaglio   di   legittimita'
costituzionale, laddove il legislatore introduca, in  violazione  del
principio di eguaglianza, norme penali di  favore,  che  sottraggano,
irragionevolmente,  un  determinato  sottoinsieme  di  condotte  alla
regola della generale rilevanza penale di una piu'  ampia  classe  di
comportamenti, stabilita da una disposizione incriminatrice  vigente,
ovvero   prevedano   per    detto    sottoinsieme    -    altrettanto
irragionevolmente -  un  trattamento  sanzionatorio  piu'  favorevole
(cfr. sentenza n. 394 del 2006). 
    Secondo  la  Corte,  «l'effetto  in  malam  partem  non  discende
dall'introduzione di nuore  norme  o  dalla  manipolazione  di  norme
esistenti da parte della Corte, la quale si  limita  a  rimuovere  la
disposizione giudicata  lesiva  dei  parametri  costituzionali;  esso
rappresenta, invece, Unti  conseguenza  dell'automatica  riespansione
della norma generale o comune, dettata dallo stesso  legislatore,  al
caso gia' oggetto di  una  incostituzionale  disciplina  derogatoria.
Tale riespansione costituisce una reazione naturale  dell'ordinamento
- conseguente alla sua  unitarieta'  -  alla  scomparsa  della  norma
incostituzionale: reazione che si verificherebbe in ugual modo  anche
qualora la fattispecie derogatoria rimossa fosse piu' grave; nel qual
caso a riespandersi sarebbe la  norma  penale  generale  meno  grave,
senza che in siffatto  fenomeno  possa  ravvisarsi  alcun  intervento
creativo o additivo della Corte in materia punitiva». in questo caso,
l'effetto in malam partem e' solo la conseguenza della  rimozione  di
una situazione antigiuridica creata da una norma lesiva dei parametri
costituzionali. 
    Un controllar di legittimita' con potenziali effetti in  inalarti
portela  deve,  altresi',  ritenersi  ammissibile  quando  ad  essere
censurato sia lo scorretto esercizio del potere legislativo: da parte
dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare  le  scelte
di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza  n.
46 del 2014,  e  ulteriori  precedenti  ivi  citati);  da  parte  del
Governo,  che  abbia  abrogato  mediante  decreto   legislativo   una
disposizione penale, senza a  cio'  essere  autorizzato  dalla  legge
delega (sentenza  n.  5  del  2014);  anche  da  parte  dello  stesso
Parlamento, che non  abbia  rispettato  i  principi  stabiliti  dalla
Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n.
32 del 2014). In tali ipotesi,  qualora  la  disposizione  dichiarata
incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogasse una
norma incriminatrice preesistente, la dichiarazione di illegittimita'
costituzionale della prima non potra' che  comportare  il  ripristino
della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata. 
    Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia
penale conseguente alla pronuncia di illegittimita' costituzionale e'
stato, ancora, ritenuto ammissibile allorche' esso si configuri  come
«mera conseguenza indiretta della reductio ad  legitimitatem  di  una
norma processuale», derivante «dall'eliminazione di una previsione  a
carattere derogatorio di una disciplina generale» (cfr.  sentenza  n.
236 del 2018);  ed  infine,  ove  si  assuma  la  contrarieta'  della
disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti  ai  sensi
dell'art. 11 o dell'art. 117, primo comma, della  Costituzione  (cfr.
sentenza n. 28 del 2010 e n. 32 del 2014, ove l'effetto di ripristino
della vigenza delle disposizioni penali  illegittimamente  sostituite
in sede di conversione di un  decreto-legge,  con  effetti  in  parte
peggiorativi rispetto  alla  disciplina  dichiarata  illegittima,  fu
motivato anche  con  riferimento  alla  necessita'  di  non  lasciare
impunite "«alcune tipologie di condotte  per  le  quali  sussiste  un
obbligo  sovranazionale  di  penalizzazione,   con   la   conseguente
violazione del diritto dell'Unione europea, che l'Italia e' tenuta  a
rispettare in virtu' degli articoli 11  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione)». 
    Deriva   da   quanto   costantemente   affermato   dalla    Corte
Costituzionale che il potere legislativo non sia affatto  illimitato,
dovendo rispettare anch'esso dei principi superiori che trovino nella
Costituzione e nel diritto sovranazionale il  loro  fondamento  e  la
loro salvaguardia. 
    Tali principi trovano piena espressione nella sentenza n. 37  del
2019, in cui la  Corte  Costituzionale  ha  ricostruito,  in  maniera
esaustiva e nel dettaglio, l'intera materia, partendo  dal  principio
generale di esclusione di intervento con effetti in  malam  partem  e
indicando, di contro ed  in  deroga,  i  precisi  ambiti  in  cui  il
sindacato costituzionale risulta  invece  pienamente  ammissibile,  a
fronte della necessita' di evitare la  sussistenza  di  zone  franche
rispetto  alla  vigenza  dei  principi  costituzionali  (cfr.   anche
sentenza n. 40/2019). 
    Nella sentenza n. 8/2022 - con la  quale  sono  state  dichiarate
infondate   ed   inammissibili   le   questioni    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 323 c.p. sollevate in ordine all'art. 77  ed
agli articoli 3 e 97 della Costituzione  rispetto  alla  novella  del
2020 che, in tema di abuso d'ufficio, ne aveva  limitato  la  portata
applicativa - la Corte costituzionale, analizzate la genesi dell'art.
323 c.p. e le modifiche apportate  nel  tempo  alla  fattispecie  dal
legislatore, ha ribadito la preclusione di  un  intervento  in  malam
partem, tenuto conto  del  principio  di  riserva  di  legge  di  cui
all'art. 25 della Costituzione, ed ha  escluso  la  natura  di  norma
penale di favore dell'art. 323 c.p. 
    Come chiarito dalla Corte, la qualificazione come norma penale di
favore non puo' discendere dal raffronto tra una norma vigente e  una
norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento
dell'area  di  rilevanza  penale:  si  tratta  di  una  richiesta  di
sindacato in malam partem che non mira a far  riespandere  una  norma
tuttora  presente  nell'ordinamento,  ma  a  ripristinare  la   norma
abrogata, espressiva di una  scelta  di  criminalizzazione  non  piu'
attuale, operazione preclusa alla Corte. 
    Nella sentenza in esame, sono  poi  dichiarate  condivisibilmente
inammissibili le questioni sollevate in riferimento agli articoli 3 e
97   della   Costituzione,   evidenziando   come   una   censura   di
illegittimita' costituzionale non possa basarsi sul  pregiudizio  che
la  formulazione,  in  assunto  troppo  restrittiva,  di  una   norma
incriminatrice, recherebbe a valori di rilievo costituzionale, quali,
nella specie, l'imparzialita' e  il  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione.  Le  esigenze  costituzionali  di  tutela   non   si
esauriscono,  infatti,  nella  tutela  penale,  ben  potendo   essere
soddisfatte con altri precetti e sanzioni: come chiarito dalla Corte,
l'incriminazione costituisce anzi un'extrema ratio cui il legislatore
ricorre quando,  nel  suo  discrezionale  apprezzamento,  lo  ritenga
necessario per l'assenza o l'inadeguatezza di altri mezzi di tutela. 
    Come osservato dalla Corte nella medesima pronuncia, neppure puo'
tradursi in una questione di legittimita' costituzionale della  norma
incriminatrice il rilievo  che  altre  condotte,  diverse  da  quelle
individuate come fatti di reato  dal  legislatore,  avrebbero  dovuto
essere a loro volta incriminate per ragioni di parita' di trattamento
o in nome di esigenze di  ragionevolezza.  «La  mancanza  della  base
legale -  costituzionalmente  necessaria  dell'incriminazione,  cioe'
della  scelta  legislativa  di  considerare   certe   condotte   come
penalmente perseguibili, preclude  radicalmente  la  possibilita'  di
prospettare una estensione ad esse delle  fattispecie  incriminatrici
attraverso una  pronuncia  di  illegittimita'  costituzionale»  (cfr.
sentenza n. 447 del 1998). 
    Anche qualora la norma  incriminatrice  (non  qualificabile  come
norma penale di  favore)  determinasse  intollerabili  disparita'  di
trattamento o esiti irragionevoli, il  riequilibrio  potrebbe  essere
operato dalla Corte solo «verso il basso» (ossia  in  bonam  partem),
non gia' in malam partem, e in particolare  con  interventi  tali  da
ampliare il perimetro di rilevanza penale. (4) 
    Nel caso in esame, come si argomentera', ritenuto che l'art.  323
c.p. non sia una norma penale  di  favore  e  condivisi  i'  principi
richiamati,  si  rientra  proprio  in  uno  dei  casi  di   esercizio
irragionevole del potere legislativo  e  di  violazione  del  diritto
sovranazionale, quindi di scorretto esercizio di tale potere da parte
del  Parlamento,  ipotesi  che,  quindi,  consente  il  sindacato  di
legittimita' costituzionale della Corte. 
    Costituisce,   infatti,   principio   cardine    dell'ordinamento
giuridico italiano il rispetto dei vincoli derivanti  dagli  obblighi
internazionali previsti da trattati e dalla generalita'  del  diritto
internazionale pattizio, che ai sensi e nei limiti  di  cui  all'art.
117,  primo  comma,  della  Costituzione  vincola  lo  stesso  potere
legislativo, statale e regionale. Piu' in particolare,  conte  emerge
dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la Corte  Costituzionale  ha
fissato il principio per cui l'esercizio della  potesta'  legislativa
dello Stato deve intendersi condizionato al rispetto  degli  obblighi
internazionali. 
    Ancora, nella sentenza  n.  37/2019,  la  Corte,  analizzando  le
diverse ipotesi nelle quali sarebbe possibile un  suo  intervento  in
materia penale sostanziale in malam partem, ricorda che «un controllo
di legittimita' costituzionale con potenziali effetti in malam partem
puo', infine, risultare ammissibile ove  si  assuma  la  contrarieta'
della disposizione censurata a obblighi sovranazionali  rilevanti  ai
sensi dell'art. 11 o dell'art. 117, primo comma,  della  Costituzione
(sentenza n. 28 del 2010;  nonche'  sentenza  n.  32  del  2014,  ove
l'effetto di  ripristino  della  vigenza  delle  disposizioni  penali
illegittimamente  sostituite   in   sede   di   conversione   di   un
decreto-legge,  con  effetti  in  parte  peggiorativi  rispetto  alla
disciplina dichiarata illegittima., fu motivato anche con riferimento
alla  necessita'  di  non  lasciare  impunite  «alcune  tipologie  di
condotte  per  le  quali  sussiste  un  obbligo   sovranazionale   di
penalizzazione. Il che  determinerebbe  una  violazione  del  diritto
dell'Unione europea, che l'Italia e' tenuta a  rispettare  in  virtu'
degli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione»... 
    Tali principi sono ribaditi anche nella sentenza  n.  40/2019  in
cui la Corte osserva che «la giurisprudenza di questa Corte, ribadita
anche recentemente (sentenze n. 236 del 2018  e  n.  143  del  2018),
ammette in particolari situazioni interventi con possibili effetti in
malam partem in materia penale (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014, n. 28
del 2010, n. 394 del 2006), restando semmai verificare l'ampiezza e i
limiti dell'ammissibilita'  di  tali  interventi  nei  singoli  casi.
Certamente il principio della riserva di legge  di  cui  all'art.  25
della Costituzione rimette al legislatore «la  scelta  dei  fatti  da
sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare» (sentenza n.  5  del
2014), ma non esclude che questa Corte possa  assumere  decisioni  il
cui effetto in malam partem non discende dall'introduzione  di  nuove
nonne o dalla manipolazione di norme  esistenti,  ma  dalla  semplice
rimozione di  disposizioni  costituzionalmente  illegittime.  in  tal
caso, l'effetto in malam partem e' ammissibile in quanto esso e'  una
mera conseguenza indiretta della reductio  ad  legitimitatem  di  una
norma costituzionalmente illegittima, la  cui  caducazione  determina
l'automatica  riespansione  di  altra  norma  dettata  dallo   stesso
legislatore (sentenza n. 236 del 2018)». 
    Alla luce dei principi invocati, pertanto, non vi e' dubbio sulla
possibilita' per la Corte Costituzionale di intervenire con  sentenza
in malam partem nell'ipotesi in cui la disposizione penale favorevole
sospettata di illegittimita' costituzionale si ponga in  contrasto  -
come nel caso di specie - con il parametro costituzionale di cui agli
articoli 11 e 117 della Costituzione 
    Al  contrario,  non  si  ritiene  ammissibile  la  questione   di
legittimita' costituzionale in relazione agli articoli 3 e  97  della
Costituzione,  facendo  rimando   senza   ipocrite   parafrasi   alle
argomentazioni  espresse  dalla  sentenza   n.   8/22   della   Corte
costituzionale. 
  3. La non manifesta infondatezza della  questione  di  legittimita'
costituzionale  con  riferimento  agli  articoli  11  e   117   della
Costituzione. 
    Nel momento in cui si deposita la presente ordinanza risulta  che
diversi  altri  giudici  si  siano  occupati   della   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera  b),  legge
n. 114/2024 nella parte in cui abroga l'art. 323 c.p. per  violazione
degli articoli 11 e 117, comma 1 della Costituzione 
    In particolare, la predetta  questione  e'  stata  sollevata  con
ordinanza  del  24  settembre  2024  dal  Tribunale  di  Firenze   in
composizione collegiale, con ordinanza  del  30  settembre  2024  dal
G.U.P. di Locri e con ordinanza del 3  ottobre  2024  dal  G.u.p.  di
Firenze; al contrario, risulta che la questione sia stata  dichiarata
ammissibile, ma manifestamente  infondata  dal  Tribunale  di  Reggio
Emilia in composizione collegiale con ordinanza del 7  ottobre  2024;
in un procedimento pendente presso il Tribunale di Catania,  il  P.M.
ha poi  chiesto  di  sollevare  la  medesima  questione  in  data  30
settembre 2024, con decisione del Giudice non ancora nota. 
    Questo Collegio e' quindi inevitabilmente chiamato a confrontarsi
con le  argomentazioni  gia'  sviluppate  dai  Giudici  che  si  sono
occupati della questione, le quali si sommano ai  contributi  che  la
dottrina ha offerto sia prima che dopo l'abrogazione del  delitto  di
abuso d'ufficio, posto che il tema della legittimita'  costituzionale
della novella legislativa e'  stato,  fin  dai  lavori  parlamentari,
oggetto di vivace dibattito. 
    Ovviamente  si  dovranno  poi   considerare   le   argomentazioni
sostenute dalle parti sia all'udienza  del  27  settembre  2024,  sia
nelle memorie depositate dal P.M.  nella  medesima  udienza  e  dalle
difese congiuntamente in data 11 ottobre 2024. 
    In questo quadro, e' ormai noto che l'attenzione degli interpreti
si debba concentrare sull'art. 19 della Convenzione ONU di Merida del
2003 (rubricato «Abuse of  functions»  -  «Abuso  d'ufficio»),  unica
fonte normativa di rango internazionale, cogente  per  l'Italia,  che
contempli in termini espressi il reato di abuso d'ufficio. 
    E' poi pacifico che il vero problema giuridico da affrontare  non
consista nel valutare se tale fonte internazionale preveda un obbligo
positivo di introdurreex novo negli ordinamenti nazionali il reato di
abuso d'ufficio (interrogativo al  quale  giurisprudenza  e  dottrina
forniscono  in  modo  concorde  una  risposta  negativa),  bensi'  di
comprendere se a livello internazionale sussista un obbligo c.d.  «di
stand still» o un «divieto di regresso» che precluda a uno Stato come
l'Italia - che abbia sottoscritto la Convenzione di Merida e che gia'
prevedesse nel suo ordinamento il  reato  di  abuso  d'ufficio  prima
della ratifica della predetta Convenzione - di abrogare il menzionato
delitto. 
    La tematica deve essere affrontata con ordine. 
    In primo luogo, non vi e' dubbio che l'art. 19 della  Convenzione
di Merida - alla quale e' stata data  esecuzione  in  Italia  con  la
legge n. 116/09 - faccia  riferimento  proprio  alla  fattispecie  di
abuso d'ufficio. 
    La norma, infatti, nella  sua  versione  italiana  allegata  alla
legge n. 116/09 e rubricata proprio «abuso  d'ufficio»,  dispone  che
«ciascuno Stato Parte esamina l'adozione delle misure  legislative  e
delle altre misure necessarie per conferire il carattere di  illecito
penale, quando l'atto e' stato commesso  intenzionalmente,  al  fatto
per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni  o  della
sua posizione,  ossia  di  compiere  o  di  astenersi  dal  compiere,
nell'esercizio delle proprie funzioni, un atto  in  violazione  delle
leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un'altra
persona o entita'» (5) 
    Evidente e' quindi la sovrapponibilita' con  la  fattispecie  che
era prevista dall'art. 323 c.p. Il fatto che la Convenzione di Merida
contempli proprio il reato di  abuso  d'ufficio  e'  questione  sulla
quale tutti gli interpreti paiono concordare e che non vi  e'  motivo
di  porre  in  dubbio,  attesi  il  tenore  letterale   della   norma
convenzionale e di quella nazionale. 
    Come noto, il principale problema ermeneutico che rileva nel caso
di specie e' costituito dal grado di  cogenza  che  l'art.  19  della
Convenzione di  Merida  ha  per  gli  Stati  firmatari  del  trattato
internazionale. 
    Il  quesito  si  pone   a   causa   dell'utilizzo   nella   norma
dell'espressione «esamina l'adozione delle misure legislative e delle
altre misure necessarie per  con  ferire  il  carattere  di  illecito
penale» (nel testo inglese: «shall consider adopting such legislative
and other measures as may be necessary to  establish  as  a  criminal
offence»), espressione indubbiamente di non facile interpretazione. 
    Il  primo  strumento  ermeneutico   cui   fare   riferimento   e'
sicuramente quello offerto dai paragrafi 11 e  12  delle  Legislative
Guide for the implementation of the United Nations Convention against
Corruption, che si riportano di seguito: 
      «11. Nello stabilire le loro priorita', i redattori legislativi
nazionali e gli altri decisori politici  dovrebbero  tenere  presente
che le disposizioni della  Convenzione  non  hanno  tutte  lo  stesso
livello di obblighi. In  generale,  le  disposizioni  possono  essere
raggruppate nelle seguenti tre categorie: 
        (a) disposizioni obbligatorie, che consistono in obblighi  di
legiferare (in modo assoluto o  quando  sono  soddisfate  determinate
condizioni); 
        (b)  Misure  che  gli  Stati  parti  devono  considerare   di
applicare o tentare di adottare; 
        (c) Misure facoltative. 
      12. Ogni volta che  viene  utilizzata  l'espressione  «ciascuno
Stato Parte adotta», si fa riferimento a una disposizione imperativa.
Altrimenti, il linguaggio utilizzato  nella  guida  e'  «considerera'
l'adozione» o «si adopera per», il che significa che gli  Stati  sono
invitati a prendere in considerazione l'adozione di  una  determinata
misura  e  a  compiere  uno  sforzo  reale  per  vedere  se   sarebbe
compatibile con il loro ordinamento giuridico.  Per  le  disposizioni
del tutto facoltative la guida utilizza il  termine  «puo'  adottare»
(6) 
    Dunque, tali paragrafi delle Legislative Guide - che si collocano
nella parte  introduttiva  delle  stesse  e  pertanto  devono  essere
considerati fondamentali strumenti interpretativi di tutte  le  norme
della Convenzione - prevedono tre  diversi  gradi  di  cogenza  delle
disposizioni del trattato internazionale. 
    Come evidente, l'art. 19 della Convenzione di Merida, utilizzando
l'espressione «esamina l'adozione/shall consider  adopting»,  propone
un grado di cogenza definibile come «intermedio»: non pone dunque ne'
un obbligo assoluto di  legiferare  (caratteristico  dell'espressione
«ciascuno Stato Parte adotta/each State Party shall adopt»), ne'  una
mera facolta' di legiferare  (caratteristica  dell'espressione  «puo'
adottare/may adopt»). Sono le stesse Legislative Guide  a  provare  a
spiegare in cosa consista questo obbligo di livello intermedio:  «Gli
Stati sono invitati a prendere in considerazione  l'adozione  di  una
determinata misura e a  compiere  uno  sforzo  reale  per  vedere  se
sarebbe compatibile con il loro ordinamento giuridico». 
    Il mero tenore  letterale  di  questa  norma  di  interpretazione
autentica porta a una immediata conclusione, che  e'  incontestabile:
prima  della  legge  n.  114/2024,  abrogativa  del  reato  di  abuso
d'ufficio, lo Stato italiano era perfettamente adempiente all'obbligo
«intermedio» posto dall'art. 19 della Convenzione di Merida, avendo -
prima ancora della stessa sottoscrizione del Trattato  internazionale
- introdotto il reato di abuso d'ufficio  (fattispecie  presente  nel
nostro ordinamento  fin  dall'adozione  del  vigente  codice  penale,
seppure piu' volte modificata nel corso degli anni  con  il  fine  di
restringere la sua portata applicativa). 
    Si puo' quindi sostenere che lo Stato  Italiano  -  prima  ancora
della ratifica della Convenzione di Merida e, quindi,  a  prescindere
dalla stessa - aveva «preso in considerazione»  la  criminalizzazione
della fattispecie di abuso  d'ufficio,  la  quale  era  indubbiamente
compatibile con  il  suo  ordinamento  giuridico  (conclusione  anche
quest'ultima inconfutabile, posto che l'abrogazione  del  delitto  e'
stata motivata da una scelta  di  politica  criminale  e  non  da  un
possibile contrasto del reato con la Costituzione). 
    Si tratta allora di  comprendere  se  l'abrogazione  della  norma
incriminatrice di cui all'art.  323  c.p.  possa.  modificare  questo
(certo) giudizio di compatibilita'  del  nostro  ordinamento  con  la
Convenzione di Merida. 
    La risposta a tale interrogativo non puo' fondarsi esclusivamente
sul  dato  letterale  dei  menzionati  paragrafi.  11  e   12   delle
Legislative Guide (utilizzati come canoni ermeneutici  delle  singole
norme relative alla  criminalizzazione  poste  nella  Convenzione  di
Merida), considerato che gli stessi - seppure forniscano utili chiavi
interpretative in prospettiva sistematica e teleologica  -  nel  loro
tenore  lessicale  sembrano  riferirsi   essenzialmente   alla   fase
dell'adozione, ex novo, delle norme incriminatrici. 
    A. tal proposito si consideri  innanzitutto  che  l'utilizzo  del
verbo  «adottare/adopt»,  unitamente  alle  espressioni  «deve,  deve
considerare di, puo'/shall, shall consider, may» profila  un  obbligo
futuro per gli Stati, nel senso che gli stessi «dovranno» (con  verbo
che deve essere declinato a seconda dei  casi  nei  vari  significati
prima ricordati) introdurre le differenti fattispecie  penali  (o  le
altre misure) enucleate dalla Convenzione dopo la sua ratifica. 
    Questa lettura e' confermata dal par. 6 delle Legislative  Guide,
il quale costituisce la  vera  e  propria  norma  di  interpretazione
autentica di tutto il sistema di criminalizzazione della  Convenzione
di  Merida:  esso  e'  infatti  l'unico   paragrafo   della   sezione
introduttiva delle Legislative Guide inserito  nella  parte  relativa
alla «Criminalization». 
    Ebbene, tale norma chiarisce nella sua prima parte quale  sia  lo
scopo, sotto il profilo strettamente penalistico,  della  Convenzione
di  Merida:  «La  Convenzione  richiede  poi  agli  Stati  parti   di
introdurre reati penali e altri reati per coprire un'ampia  gamma  di
atti di corruzione,  nella  misura  in  cui  questi  non  siano  gia'
definiti come tali dal diritto interno». (7) 
    La norma continua poi, da un  lato,  anticipando  la  gia'  vista
differenziazione, meglio dettagliata nei  paragrafi  11  e  12  delle
Legislative Guide, tra reati da introdurre obbligatoriamente e  reati
la cui introduzione deve  essere  obbligatoriamente  considerata,  e,
dall'altro lato, elencando una serie di condotte penalmente rilevanti
prese in considerazione dalla Convenzione. 
    Il tenore letterale del par. 6 delle  Legislative  Guide  -  che,
come evidenziato,  costituisce  norma  di  interpretazione  autentica
della Convenzione di Merida - e' chiaro nel voler evidenziare che gli
obblighi di criminalizzazione posti dalla Convenzione e  interpretati
alla luce dei paragrafi 11 e  12  delle  Legislative  Guide  facciano
riferimento a nuove introduzioni (ex novo) di reati:  infatti,  nella
norma  in  esame  si   parla   espressamente,   per   l'appunto,   di
«introdurre/introduce» reati (verbo che, da suo significato testuale,
fa proprio riferimento all'inserimento di qualcosa che non c'e') e si
evidenzia che il sistema di «introduzione di reati» predisposto dalla
Convenzione rileva  «nella  misura  in  cui  questi  non  siano  gia'
definiti come tali dal diritto interno/to the extent  these  are  not
already defined as such under domestic law». 
    Anche il par. 170 delle Legislative Guide, norma  inserita  nella
terza parte delle) strumento di  interpretazione  autentica  dedicato
proprio alla «Criminalization»,  esprime  lo  stesso  concetto:  «Gli
Stati contraenti devono stabilire  un  certo  numero  di  reati  come
crimini nel loro diritto interno, se non esistono gia'. Gli Stati che
hanno gia' una legislazione in materia in vigore  devono  assicurarsi
che le disposizioni  esistenti  siano  conformi  ai  requisiti  della
Convenzione e modificare le loro leggi, se necessario». (8) 
    Anche in questo caso emerge una  chiara  distinzione  tra  «Stati
contraenti che devono  stabilire  un  certo  numero  di  reati/States
parties must establish a number of offences» e «Stati che hanno  gia'
una legislazione in materia/States with relevant legislation  already
in place»: i primi  devono  introdurre  i  reati,  i  secondi  devono
«assicurarsi  che  le  disposizioni  esistenti  siano   conformi   ai
requisiti  della  Convenzione/ensure  that  the  existing  provisions
conform to the Convention requirements». 
    Del resto, che il rispetto della  Convenzione  possa  attuarsi  a
prescindere dalla introduzione di nuovi reati si comprende anche  dal
par.  19  delle  Legislative   Guide,   il   quale   stabilisce   che
«l'attuazione puo' avvenire attraverso nuove  leggi  o  modifiche  di
quelle esistenti. Le parti di  altre  convenzioni  correlate  possono
essere gia' parzialmente conformi almeno per quanto  riguarda  alcune
disposizioni della Convenzione contro la corruzione.  (9) 
    Dunque,  sono  nuovamente  le   stesse   Legislative   Guide   ad
evidenziare che uno Stato contraente poteva  essere  adempiente  alla
Convenzione di Merida a prescindere dalla  introduzione  di'  (nuovi)
reati,  nel  caso  in  cui  il  suo  ordinamento  nazionale  gia'  li
contemplasse. 
    In questa prospettiva, perde allora rilevanza uno degli argomenti
principali sostenuti dal Tribunale di Reggio Emilia a sostegno  della
propria tesi negativa. 
    Il Giudice emiliano ha correttamente evidenziato che il par.  292
delle  Legislative  Guide   -   in   coerenza   con   l'impianto   di
criminalizzazione dell'art. 19  della  Convenzione  di  Merida,  come
dettagliato dai paragrafi 11, 12, 177, 178 e  179  delle  Legislative
Guide -dispone che  «Questa  norma  (art.  19  della  Convenzione  di
Merida) incoraggia la criminalizzazione/This provision (art. 19 della
Convenzione di Merida) encourages the criminalization of»  dell'abuso
d'ufficio. «Incoraggia», dunque, la criminalizzazione (non  la  rende
obbligatoria). 
    Tuttavia, la norma di interpretazione autentica, in realta',  non
fa altro che ribadire quanto  gia'  evidenziato:  la  Convenzione  di
Merida non obbliga gli Stati membri a introdurre ex novo il reato  di
abuso d'ufficio, ma rende. obbligatorio per gli stessi di prendere in
considerazione la. sua adozione. Ma attenzione.  Il  par.  292  delle
Legislative Guide non si limita a ribadire  (implicitamente)  la  non
obbligatorieta'  dell'introduzione  ex  novo   del   reato:   lo   fa
evidenziando  (espressamente)  che  l'introduzione  del   reato   e',
nell'ottica  del  trattato  internazionale,  il  migliore   strumento
possibile per contrastare il fenomeno  criminale  (inequivoco  a  tal
proposito e' l'utilizzo dell'espressione «incoraggia/encourages»). 
    Il tema sara' ripreso successivamente. 
    Cio' detto - se il tenore letterale dei menzionati paragrafi 11 e
12 delle Legislative Guide (utilizzati come canoni ermeneutici  delle
singole  norme  relative  alla   criminalizzazione   previste   nella
Convenzione di Merida e, in particolare, dell'art. 19)  non  consente
di comprendere se l'abrogazione della  norma  incriminatrice  di  cui
all'art.  323  c.p.  possa  causare  un  contrasto   dell'ordinamento
nazionale con il diritto internazionale  -  reputa  il  Collegio  che
debba essere verificato attraverso ulteriore attivita' ermeneutica Se
una diversa conclusione sia autorizzata dall'utilizzo  di  diversi  e
ulteriori strumenti interpretativi. 
    Strumenti   interpretativi   che   in   materia    di    trattati
internazionali  sono  enucleati  dagli  articoli  31   e   32   della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969,  di  cui  si
riporta di seguito il testo: 
      «Art. 31 (Regola generale di interpretazione). 
    1. Un trattato deve essere interpretato in buona fede in base  al
senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro  contesto
ed alla luce del suo oggetto e del suo scopo. 
    2. Ai fini  dell'interpretazione  di  un  trattato,  il  contesto
comprende, oltre al testo, preambolo e allegati inclusi: 
      a) ogni accordo relativo al trattato e che sia intervenuto  tra
tutte le parti in occasione della sua conclusione; 
    b) ogni strumento disposto da una o piu' parti in occasione della
conclusione del trattato ed accettato dalle altre  parti'  in  quanto
strumento relativo al trattato. 
    3. Verra' tenuto conto, oltre che del contesto: 
      a) di ogni accordo ulteriore intervenuto  tra  le  parti  circa
l'interpretazione del trattatato l'attuazione delle  disposizioni  in
esso contenute; 
      b) di ogni  ulteriore  pratica  seguita  nell'applicazione  del
trattato  con  la  quale  venga  accertato  l'accordo   delle   parti
relativamente all'interpretazione del trattato; 
      c)  di  ogni  norma  di  diritto   internazionale   pertinente,
applicabile alle relazioni fra le parti. 
    4. Si ritiene  che  un  termine  o  una  espressione  abbiano  un
significato particolare se verra' accertato che tale era l'intenzione
delle parti. 
      Art. 32 (Mezzi complementari di interpretazione). 
    Si potra' ricorrere a mezzi complementari  d'interpretazione,  ed
in particolare ai lavori preparatori ed alle circostanze nelle  quali
il trattato e' stato concluso,  allo  scopo,  sia  di  confermare  il
significato risultante  dalla  applicazione  dell'art.  31,  che  di'
definire  un  significato  quando  l'interpretazione  data  in   base
all'art. 31: 
      a) lasci il significato ambiguo od oscuro; o 
      b) porti ad un risultato chiaramente assurdo od illogico». 
    Dunque, in sintesi, la Convenzione di Vienna prevede le  seguenti
regole interpretative: a) la buona fede; b) il criterio letterale; c)
il  criterio  sistematico  (che  non   puo'   limitarsi   solo   alla
valorizzazione delle norme del  singolo  trattato,  bensi'  di  «ogni
norma  di  diritto  internazionale  pertinente»);  d)   il   criterio
teleologico. 
    Come visto, il criterio meramente letterale  non  e'  sufficiente
per comprendere quali siano gli obblighi imposti  agli  Stati  membri
nel caso gli stessi contemplassero gia' nel loro  ordinamento,  prima
della ratifica della Convenzione di Merida, uno dei reati di  cui  la
predetta Convenzione rendeva obbligatorio prendere in  considerazione
l'introduzione. 
    A tal proposito, soccorrono i criteri sistematico e teleologico. 
    La prima norma  da  considerare  e'  l'art.  65,  comma  2  della
Convenzione, che dispone che  «ciascuno  Stato  Parte  puo'  adottare
misure piu' strette  o  severe  di  quelle  previste  dalla  presente
Convenzione al fine di prevenire e combattere la corruzione». (10) 
    Negli stessi termini - e ancora piu' esplicito - e' il tenore del
par.  179  delle  Legislative  Guide,  il  quale  dispone   che   «la
Convenzione introduce degli standard minimi, ma gli Stati parte  sono
liberi di andare oltre. E' infatti riconosciuto che gli Stati possono
criminalizzare o hanno gia' criminalizzato condotte diverse dai reati
elencati in questo capitolo come condotte di corruzione». (11) 
    Anche il par. 21 delle Legislative Guide  ribadisce  il  medesimo
principio: «Si sottolinea  che  le  disposizioni  obbligatorie  della
Convenzione servono come soglia che gli Stati  devono  rispettare  ai
fini della conformita'. Purche' gli standard minimi siano rispettati,
gli Stati parti sono liberi di superarli e, in diverse  disposizioni,
sono espressamente incoraggiali a farlo. In alcuni  tirsi  specifici,
requisiti piu' onerosi possono essere trovati  in  altre  convenzioni
di' cui gli Stati sono o desiderano diventare parti. (12) 
    In sostanza queste norme chiariscono che la Convenzione di Merida
stabilisce degli standard minimi di tutela del  cittadino  contro  le
condotte corruttive lato sensu intese, che non possono essere violati
da alcuno Stato contraente. 
    Si tratta di un principio ulteriormente affermato anche dal  piu'
volte menzionato in dottrina e giurisprudenza art. 7, comma  4  della
Convenzione di Merida che, seppur dedicato  alle  misure  preventive,
stabilisce un principio che per la sua ampiezza e trasversalita' puo'
essere considerato di portata generale: «Ciascuno stato  si  adopera,
conformemente ai principi fondamentali dei proprio  diritto  interno,
al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono
la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse. (13) 
    Peraltro, non si condivide  l'osservazione  sostenuta  da  alcuni
secondo la quale tale norma, proprio  perche'  inserita  nella  parte
della Convenzione dedicata alle misure preventive,  non  possa  avere
alcun rilievo anche in materia stricto  sensu  penalistica.  Infatti,
deve considerarsi-che la sanzione penale ovviamente  ha,  oltre  alla
fondamentale funzione rieducativa, anche quella special-preventiva  e
general-preventiva:  dunque,  tra  i  sistemi   che   devono   essere
«mantenuti e rafforzati per favorire la  trasparenza  e  prevenire  i
conflitti di interesse» (formulazione estremamente ampia, come detto,
che non puo' non avere per la sua essenza una portata sistematica  e,
addirittura, una capacita' di assurgere a vero  e  proprio  principio
generale della Convenzione) non si  vede  perche'  non  possa  essere
ricompresa anche la  criminalizzazione  di  un  fatto  (come  l'abuso
d'ufficio) che tipicamente  fonda  il  suo  disvalore  proprio  sulla
lesione  della  trasparenza  e  sulla  sussistenza  di  conflitti  di
interesse. 
    Questa  conclusione  e'  del  resto  confermata   definitivamente
addirittura dall'art. 1 della Convenzione di Merida, il quale dispone
che «la presente Convenzione ha per oggetto: a) La promozione  ed  il
rafforzamento  delle  misure  volte  a  prevenire  e  combattere   la
corruzione in modo piu' efficace» (14)  (formulazione,  tra  l'altro,
similare a  quella  del  gia'  richiamato  art.  65,  comma  2  della
Convenzione).  In  questa  norma,  che,  vista  la  sua  collocazione
sistematica, ha la portata applicativa piu' ampia possibilem,  si  fa
espresso riferimento al fatto che tutto il  tessuto  normativo  della
Convenzione di Merida ha lo scopo di «rafforzare le  misure  volte  a
combattere la corruzione»,  misure  tra  le  quali  non  possono  non
annoverarsi anche quelle di carattere penalistico, le quali  -  quasi
per essenza, sono volte a «combattere/combat» un fenomeno criminale. 
    In questa sede merita poi di essere effettuata  una  precisazione
con riferimento al tenore testuale del gia' menzionato par. 21  delle
Legislative Guide. 
    Lo stesso infatti dispone che le «disposizioni obbligatorie della
Convenzione / mandatory provisions of the  Convention»  costituiscano
uno standard minimo di tutela  per  il  cittadino,  che  non  possono
essere derogate dagli Stati contraenti. 
    A tal proposito, si e'  sostenuto  che  gli  standard  minimi  di
tutela posti dalla Convenzione siano solamente quelli derivanti dalle
sue  «disposizioni  obbligatorie»,  con   la   conseguenza   che   la
criminalizzazione dell'abuso  d'ufficio  di  cui  all'art.  19  della
Convenzione di Merida, che come  piu'  volte  detto  non  prevede  un
espresso obbligo  di  incriminazione,  ma  solamente  un  obbligo  di
considerare l'incriminazione, non costituirebbe un  vincolo  per  gli
Stati membri derivante dalla necessita'  di  garantire  gli  standard
minimi di tutela del cittadino previsti dalla Convenzione. 
    L'argomentazione non convince. 
    Infatti, non si  comprende  per  quale  motivo  le  «disposizioni
obbligatorie  della  Convenzione/   mandatory   provisions   of   the
Convention» debbano essere considerate, nella  sostanza,  perche'  e'
questa l'interpretazione che e' stata data  -  esclusivamente  quelle
creanti un obbligo di criminalizzazione ai sensi del par. 11, lettera
a) delle Legislative  Guide  (cioe'  le  disposizioni  caratterizzate
dall'espressione «ciascuno Stato Parte adotta/each State Party  shall
adopt»). 
    Invero, innanzitutto  il  par.  21  delle  Legislative  Guide  si
colloca  sistematicamente  nella  prima  parte  dello  strumento   di
interpretazione autentica, parte dedicata  all'implementazione  della
Convenzione, che non ha alcuna correlazione espressa e'  immediata  o
esclusiva con gli obblighi di criminalizzazione. 
    In secondo luogo, nella stessa norma non vi e' alcun  riferimento
alla criminalizzazione. 
    Dunque, non si  comprende  per  quale  ragione  le  «disposizioni
obbligatorie  della  Convenzione/   mandatory   provisions   of   the
Convention»  dovrebbero  essere  soltanto  quelle  che  prevedono  un
obbligo di  criminalizzazione;  al  contrario,  tra  le  disposizioni
obbligatorie della Convenzione deve potersi annoverare anche quella -
enucleabile dai menzionati articoli 65 commi 2, 7, comma 4 e 1  della
Convenzione, nonche' dal par. 179 (e  dallo  stesso  par.  21)  delle
Legislative Guide  -  secondo  la  quale  la  Convenzione  di  Merida
stabilisce degli standard minimi di tutela del  cittadino  contro  le
condotte corruttive lato sensu intese, che non possono essere violati
da alcuno Stato contraente. 
    Del resto, che il rispetto di tali standard  minimi  sia  cogente
per gli Stati membri si evince dall'interpretazione a contrario delle
norme richiamate: se il legislatore convenzionale ha esplicitato  che
gli standard minimi  di  tutela  «possono»  essere  migliorati,  cio'
significa che gli stessi non possono essere peggiorati. 
    Si tratta peraltro di una interpretazione  assolutamente  logica,
ispirata al buon senso o, volendo utilizzare un criterio  ermeneutico
proposto dalla Convenzione di Vienna - alla «buona fede» degli  Stati
che hanno scelto di sottoscrivere e ratificare ima Convenzione contro
il fenomeno lato sensu corruttivo. 
    Tale conclusione non puo' che  essere  confermata  anche  da  una
interpretazione teleologica delle norme richiamate. 
    Come gia' visto,  l'obiettivo  della  Convenzione  di  Merida  e'
quello di «promuovere e rafforzare le  misure  volte  a  prevenire  e
combattere la  corruzione  in  modo  piu'  efficace»  (art.  1  della
Convenzione), principio  che  risulta  ampiamente,  oltre  che  dalle
singole norme del trattato internazionale, anche  dal  suo  preambolo
(cosi' come anche da tutto l'impianto delle Legislative Guide). 
    Dunque,   qualunque   norma   della   Convenzione   deve   essere
interpretata  nel  senso  che  la  sua  attuazione  deve  aver   come
conseguenza  quella  di  migliorare  -  e  non  certo  di  peggiorare
(rectius, indebolire), i sistemi nazionali di contrasto  ai  fenomeni
corruttivi. 
    Rimane a questo punto da chiedersi, e si tratta di  interrogativo
doveroso, in quanto  espressione  del  tentativo  di  interpretazione
costituzionalmente conforme della norma  abrogativa  del  delitto  di
abuso d'ufficio,  volto  a  provare  a  riconoscere  la  legittimita'
costituzionale  della  novella  legislativa  -  se  in  concreto   la
depenalizzazione del reato di  cui  all'art.  323  c.p.  comporti  un
indebolimento della tutela  del  cittadino  rispetto  agli  abusi  di
potere dei funzionari pubblici e, piu' nello specifico, se cio' violi
il rispetto degli standard  minimi  di  tutela  posti  proprio  dalla
Convenzione di Merida. 
    A tal proposito, e' necessario confrontarsi con la giurisprudenza
della Corte costituzionale, la quale, nella gia' richiamata  sentenza
n.  8/2022,  ha  evidenziato  che  «una  censura  di   illegittimita'
costituzionale non possa basarsi sul pregiudizio che la formulazione,
in  assunto  troppo  restrittiva,  di   una   norma   incriminatrice,
recherebbe a valori di rilievo costituzionale, quali,  nella  specie,
l'imparzialita' e il buon andamento della  pubblica  amministrazione.
Le esigenze costituzionali di tutela  non  si  esauriscono,  infatti,
nella  tutela  penale,  ben  potendo  essere  soddisfatte  con  altri
precetti e sanzioni:  l'incriminazione  costituisce  anzi  un'extrema
ratio, cui il  legislatore  ricorre  quando,  nel  suo  discrezionale
apprezzamento, lo ritenga necessario per l'assenza o  l'inadeguatezza
di altri mezzi di tutela (sentenza n. 447 del 1998; in senso analogo,
con riferimento all'abrogazione del reato di ingiuria, sentenza n. 37
del 2019; si vedano pure la sentenza n. 273 del 2010 e l'ordinanza n.
317 del 1996)». 
    Cio' premesso, deve immediatamente evidenziarsi, come  noto,  che
altre Autorita' Giudiziarie hanno ampiamente sostenuto che la novella
legislativa violi anche gli articoli 3 e  -  soprattutto  per  quanto
interessa  i  nostri  fini  -  97  della  Costituzione,  argomentando
diffusamente il loro pensiero. 
    Come gia' detto, questo Tribunale non ritiene vi siano margini di
ammissibilita' per sollevare la questione di legittimita'  anche  con
riferimento  a  tali   parametri   costituzionali,   in   quando   si
produrrebbero effetti in malam partem, senza che possa operare alcuna
delle deroghe previste dalla giurisprudenza costituzionale per  poter
sollevare una simile questione di legittimita'. 
    Tuttavia,  le  argomentazioni   spese   dalle   varie   Autorita'
giudiziarie, condivisibili nel merito, dimostrano come effettivamente
la novella legislativa abrogativa del delitto  di  cui  all'art.  323
c.p. arrechi un concreto indebolimento degli standard di  tutela  del
cittadino contro i fenomeni corruttivi  (e,  piu'  in  generale,  una
lesione dei principi di buon andamento e imparzialita' della Pubblica
amministrazione). Sul  punto,  non  puo'  che  rinviarsi  alle  varie
ordinanze di rimessione alla Corte  costituzionale  gia'  richiamate.
(15) 
    In questa sede, nella quale si analizza  il  possibile  contrasto
della riforma nazionale con gli obblighi internazionali -  rimane  da
valutare  se,  nell'impostazione  complessiva  della  Convenzione  di
Merida, la  criminalizzazione  dell'abuso  d'ufficio  costituisca  lo
strumento  ritenuto  piu'  efficace  per  contrastare   il   fenomeno
criminale, 
    La risposta a tale interrogativo non puo' che essere affermativa,
per le seguenti ragioni. 
    In primo luogo, e' lo stesso art. 19 della Convenzione a indicare
che l'obbligo (e quindi l'obiettivo) degli Stati membri sia quello di
(considerare di)  introdurre  norme  nazionali  che  conferiscano  il
carattere di «illecito penale/criminal offence»  ai  fatti  di  abuso
d'ufficio. 
    In secondo luogo, la norma  di  interpretazione  autentica  dello
stesso  art.  19  della  Convenzione,  e  cioe'  il  par.  292  delle
Legislative Guide, «incoraggia la criminalizzazione / encourages  the
criminalization». 
    Pertanto, non avrebbe senso obbligare gli Stati a considerare  di
introdurre un reato o incoraggiarli a farlo se non si  ritenesse  che
lo strumento penale sia il piu' adatto per  contrastare  il  fenomeno
criminale. 
    Deve  quindi  ritenersi  che  la   criminalizzazione   dell'abuso
d'ufficio rappresenti uno degli standard minimi di tutela posti dalla
Convenzione di Merida a tutela dei cittadini, uno degli standard  che
non puo' essere  derogato,  uno  degli  standard  la  cui  violazione
comporta un vulnus in relazione allo spirito della stessa Convenzione
di Merida. 
    A conclusione di tale ragionamento pare utile tornare, ancora una
volta, ma si tratta di scrupolo che non pare vano,  essendo  il  vero
cuore  del  problema  giuridico   che   si   sottopone   alla   Corte
costituzionale, sul fatto che l'art. 19 della Convenzione  di  Merida
preveda  esclusivamente  un  obbligo  per  gli  Stati  contraenti  di
considerare l'introduzione del reato di abuso  d'ufficio  (e  non  li
obblighi direttamente a introdurre tale reato). 
    Innanzitutto, riassumendo, si e' gia' ampiamente visto  che  tale
obbligo di natura «intermedia» ha come destinatari gli Stati che,  al
momento della stipula della Convenzione, non avessero gia' introdotto
negli ordinamenti nazionali il reato di abuso d'ufficio. 
    Gli Stati (come l'Italia) che gia' avevano nel  loro  ordinamento
un simile illecito penale erano perfettamente adempienti  all'obbligo
convenzionale. 
    Per gli stessi, tuttavia, permane  l'obbligo  di  rispettare  gli
standard minimi di tutela - non derogabili - previsti  dal  combinato
disposto di cui agli articoli 65 comma  2,  7,  commi  4  e  1  della
Convenzione  di  Merida,  nonche'  dai  paragrafi  21  e  179   delle
Legislative Guide, standard minimi di tutela tra i quali e'  compreso
quello  di  mantenere  la  criminalizzazione  del  reato   di   abuso
d'ufficio. 
    La  violazione  di  tale  obbligo   convenzionale   comporta   la
violazione di quello che correttamente e' stato chiamato «divieto  di
regresso», da intendersi come violazione  di  uno  specifico  obbligo
convenzionale   posto   da   specifiche   norme   di   un    trattato
internazionale. 
    Pare il caso poi di sviluppare  una  ulteriore  riflessione,  che
coinvolge l'intero sistema della Convenzione di Merida. 
    Il fatto che nella Convenzione si siano previste tre tipologie di
modalita'   di   criminalizzazione   (obblighi   di   introdurre   il
reato/obbligo di considerare di  introdurre  il  reato/  facolta'  di
introdurre il reato) e' facilmente spiegabile se si considera che  il
predetto trattato internazionale e' stato sottoscritto  dalla  grande
maggioranza degli Stati del pianeta (ad oggi risultano sottoscrittori
140 Stati). 
    La necessita' di diversificare le modalita' di  criminalizzazione
si spiega sulla base del fatto  che  e'  obiettivo  dichiarato  della
stessa Convenzione di Merida quello di armonizzare le normative di un
cosa vasto numero di Stati, che tra loro presentano sistemi giuridici
completamenti diversi e che hanno  indici  di'  sviluppo  differenti,
anche considerato che tra gli stessi sono presenti  moltissimi  Paesi
che costantemente, ancora oggi, si trovano  negli  ultimi  posti  dei
rapporti  dei  sistemi  di  monitoraggio  del  WGB,  del  GRECO,   di
Transparency  International  e  per  i  quali   -   come   dichiarato
espressamente nella Convenzione  di  Merida  nel  prevedere  maggiori
strumenti  a  loro  vantaggio  (cfr.,  ad  esempio,  art.  60   della
Convenzione) - risulta piu' difficile attuare la Convenzione. 
    Detto in altri termini, la diversificazione  delle  modalita'  di
criminalizzazione - con la previsione di reati  la  cui  introduzione
deve essere considerata  o  e'  addirittura  facoltativa  -  ha  come
obiettivo quello  di'  facilitare  l'armonizzazione  delle  normative
nazionali di un vasto e variegato numero di Stati. 
    Non ha invece certamente lo scopo di consentire  agli  Stati  che
gia' presentavano un sistema anticorruzione piu' avanzato e  completo
di «fare un passo indietro». (16) 
    Tale «passo indietro» costituirebbe un'evidente violazione  dello
stesso scopo della Convenzione di Merida, le cui disposizioni  devono
essere interpretate (e attuate) secondo  «buona  fede»  e  guardando,
appunto, alla  funzione  stessa  del  trattato  internazionale,  come
previsto dall'art. 31 della Convenzione di Vienna. 
    In definitiva e riassumendo quanto sopra esposto: 
      - l'art. 19 della Convenzione di Merida prevede un obbligo, per
gli Stati contraenti che non  lo  avessero  gia'  previsto  nel  loro
ordinamento   interno   al   momento   della   sottoscrizione   della
Convenzione,  di  considerare  di  introdurre  il  reato   di   abuso
d'ufficio; 
      - il combinato disposto di cui agli  articoli  65  comma  2,  7
comma 4 e 1 della Convenzione di Merida, nonche' dai paragrafi  21  e
179 delle Legislative Guide,  stabilisce  degli  standard  minimi  di
tutela, non derogabili in senso riduttivo, tra i  quali  e'  compreso
quello di mantenere la criminalizzazione del reato di abuso d'ufficio
di cui all'art. 19 della Convenzione, con obbligo  che  vale  (anche)
per gli Stati che contemplassero tale reato nel loro  ordinamento  al
momento della sottoscrizione della Convenzione di Merida. 
    Alla luce di quanto sopra riportato si ritiene  rilevante  e  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 1, comma 1, lettera b), legge 9 agosto 2024, n.  114  nella
parte in cui abroga il reato di cui all'art. 323 c.p. per  violazione
degli articoli 11 e 117, comma 1  della  Costituzione,  in  relazione
agli articoli 1, 7 comma 4, 19 e 65 della Convenzione ONU  di  Merida
del 2003. 
    Come evidenziato, non e' possibile effettuare una interpretazione
costituzionalmente  conforme  della  norma   di   cui   si   sospetta
l'illegittimita'. 

(1) Nella sua memoria depositata il 27  settembre  2024  il  Pubblico
    Ministero ha reso esplicito che la contestazione alternativa  del
    delitto previsto dall'abrogato art. 323  c.p.  «derivasse»  dalla
    motivazione  dei  Giudici  milanesi  di   secondo   grado,   che,
    assolvendo gli imputati di quel processo «perche'  il  fatto  non
    sussiste» dai contestati delitti di  cui  agli  articoli,  353  e
    353-bis c.p. hanno affermato che le condotte contestate potessero
    essere ritenute di rilievo penale ai sensi dell'art. 323  c.p.  e
    quindi configurare un  abuso  d'ufficio,  secondo  l'insegnamento
    della giurisprudenza di legittimita'. 

(2) Il Tribunale ha gia' avuto  modo  di  ricordare  la  legittimita'
    della contestazione  di  imputazioni  alternative.  La  Corte  di
    Cassazione, infatti, ha avuto modo di insegnare - con convincente
    ragionamento ermeneutico, che, ad avviso del Collegio, vale anche
    per le contestazioni  «suppletive» -  che  «in  presenza  di  una
    condotta dell'imputato  tale  da  richiedere  un  approfondimento
    dell'attivita' dibattimentale per  la  definitiva  qualificazione
    dei fatti contestati, e' legittima la contestazione, nel  decreto
    che dispone il giudizio, di imputazioni  alternatine,  costituite
    dall'indicazione di piu' reati o di fatti alternativi, in  quanto
    tale metodo, ponendo l'imputato  nella  condizione  di  conoscere
    esattamente le linee direttrici sulle  quali  si  sviluppera'  il
    dibattito processuale, risponde  ad  un'esigenza  della  difesa»:
    Cass. III. 11 luglio 2023, n. 46880, rv. n. 285378 - 01; conf. n.
    10109 del 2007, rv. 236107 - 01; n. 2112 del 2008, rv. n.  238636
    - 01; n. 38245 del 2004, rv. 230373 - 01; n. 51252 del 2014,  rv.
    n. 262121 - 01.  

(3) Cfr. ex plurimis, Cassazione penale sez. V, 08/09/2023, n. 40990. 

(4) Sulla inammissibilita' di questioni in malam partem basate  sulla
    denuncia  di  violazione  dell'art.  3  della  Costituzione,   ex
    plurimis, sentenza n. 413 del 1995; ordinanze n. 437 del  2006  e
    n. 580 del 2000. 

(5) Si riporta la norma nella sua versione inglese: «Each State Party
    shall consider adopting such legislative and  other  measures  as
    may be  necessary  to  establish  as  a  criminal  offence,  when
    committed intentionally, the abuse of functions or position, that
    is, the performance of or failure to perform an act, in violation
    of laws, by a public official in the  discharge  of  his  or  her
    functions, for the purpose of obtaining an  undue  advantage  for
    himself or herself or for another person or entity». 

(6) Si riporta  la  versione  inglese:  «11.  In  establishing  their
    priorities, national legislative drafters and other  policymakers
    should bear in mind that the provisions of the Convention do  not
    all have the same level of obligation. In general, provisions can
    be grouped into the following  three  categories:  (a)  Mandatory
    provisions, which consist of  obligations  to  legislate  (either
    absolutely or where specified  conditions  have  been  met);  (b)
    Measures that States parties must consider applying or  endeavour
    to adopt: (c) Measures that are optional. 12. Whenever the phrase
    «each State Party shall adopt» is used, the  reference  is  to  a
    mandatory provision. Otherwise, the language used in the guide is
    «shall consider adopting» or «shall endeavor endeavour to», which
    means that States  are  urged  to  consider  adopting  a  certain
    measure and to make a genuine effort to see whether it  would  be
    compatible  with  their  legal  system.  For  entirely   optional
    provisions, the guide employs the term «may adopt». 

(7) Si riporta la  versione  inglese:  «The  Convention  goes  on  to
    require  the  State  parties  to  introduce  criminal  and  other
    offences to cover a wide range of  acts  of  corruption,  to  the
    extent these are not already defined as such under domestic law». 

(8) Si riporta la versione inglese: «States parties must establish  a
    number of offences as crimes in their domestic law, if  these  do
    not already exist. States with relevant  legislation  already  in
    place must ensure that the existing  provisions  conform  to  the
    Convention requirements and amend their laws, if necessary. 

(9) Si riporta la versione inglese: «Implementation  may  be  carried
    out through new laws or amendments of existing ones.  Parties  to
    other related conventions may be already in partial compliance et
    least with  respect  to  certain  provisions  of  the  Convention
    against Corruption». 

(10) Si riporta la versione inglese: «Each State Party may adopt more
     strict or severe  measures  than  those  provided  for  by  this
     Convention for preventing and combating corruption». 

(11) Si riporta  la  versione  inglese:  «The  Convention  introduces
     minimum standards, but States parties  are  free  to  go  beyond
     them. It is indeed recognized that  States  may  criminalize  or
     have already criminalized conduct other than the offences listed
     in this chapter as corrupt conduct». 

(12) Si riporta la versione  inglese:  «It  is  emphasized  that  the
     mandatory provisions of the Convention serve as a threshold that
     States must meet for the sake of conformity. Provided  that  the
     minimum standards are met, States parties  are  free  to  exceed
     those  standards  and,  in  several  provisions,  are  expressly
     encouraged to do so. In some specific  instances,  more  onerous
     requirements can be found in other conventions to  which  States
     are or wish to become parties». 

(13) Si riporta la versione inglese:  «Each  State  Party  shall,  in
     accordance with the fundamental principles of its domestic  law,
     endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that promote
     transparency and prevent conflicts of interest». 

(14) Si riporta la versione inglese: «The purposes of this Convention
     are: (a) To promote  and  strengthen  measures  to  prevent  and
     combat corruption more efficiently and effectively».  

(15) Cfr.,  in  particolare.  per  l'ampiezza  e  il   pregio   delle
     argomentazioni, Tribunale Firenze  in  composizione  collegiale,
     ordinanza del 24 settembre 2024, pp. 16 ss. 

(16) Si utilizza l'efficace espressione di uno dei principali  Autori
     italiani che ha ritenuto «tutt'altro che peregrina» la questione
     di legittimita' costituzionale che si solleva. 

 
                              P. Q. M. 
 
    Visti  gli  articoli  134  della  Costituzione,  1  della   legge
costituzionale n. 1/1948 e 23 e ss. della legge n. 87 del 1953, 
    solleva la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1.,
comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024,  n.  114  (pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 187 del 10 agosto 2024), nella  parte  in
cui abroga l'art. 323 del codice penale in violazione degli arti.  11
e 117, comma  1,  della  Costituzione  (in  relazione  agli  obblighi
derivanti dagli articoli 7, comma 4, 19 e 65, della Convenzione delle
Nazioni  Unite  contro  la  corruzione  (cosiddetta  Convenzione   di
Merida), adottata dall'Assemblea Generale dell'O.N.U. il  31  ottobre
2003 con risoluzione n. 58/4,  firmata  dallo  Stato  Italiano  il  9
dicembre 2003 e da esso ratificata e resa esecutiva in Italia con  la
legge 3 agosto 2009, n. 116); 
    sospende il giudizio in corso nei  confronti  degli  imputati  M.
D.M., E. M. P., E. B., P. P.  e  C.  O.  ed  i  relativi  termini  di
prescrizione  fino  alla  decisione  del  giudizio   incidentale   di
legittimita' costituzionale ed alla  conseguente  restituzione  degli
atti a questo Tribunale procedente; 
    dispone l'immediata trasmissione degli atti del procedimento alla
Corte costituzionale; 
    manda  alla  cancelleria  per  la  notificazione  della  presente
ordinanza  al  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri,   per   la
comunicazione ai Presidenti della Camera dei Deputati  e  del  Senato
della Repubblica e  per  la  successiva  trasmissione  del  fascicolo
processuale alla Corte costituzionale. 
      Busto Arsizio, 21 ottobre 2024 
 
                        Il Presidente: Fazio 
 
                                      I Giudici: Ferrazzi - Montanari