N. 240 ORDINANZA (Atto di promovimento) 02 dicembre 2024
Ordinanza del 2 dicembre 2024 del Tribunale di Livorno sul ricorso
proposto da A. O. contro H. srl.
Lavoro - Licenziamento individuale - Disciplina del contratto di
lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Tutela del
lavoratore nei casi di licenziamento ingiustificato intimato da un
datore di lavoro che non raggiunga i requisiti dimensionali di cui
all'art. 18, commi ottavo e nono, della legge n. 300 del 1970 -
Previsione che l'ammontare delle indennita' e dell'importo,
previsti dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1, e dall'art. 6,
comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, e' dimezzato e non puo' in ogni
caso superare il limite delle sei mensilita'.
- Legge (recte: Decreto legislativo) 4 marzo 2015, n. 23
(Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo
indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10
dicembre 2014, n. 183), art. 9, comma 1.
(GU n. 2 del 08-01-2025)
TRIBUNALE DI LIVORNO
Sezione Lavoro
Il giudice designato dott.ssa Maffei Sara, nella causa iscritta
al n. 123/2022 R.G. Aff. Cont. Lavoro tra O... A..., rappresentata e
difesa dall'avv. Marco Guercio, e H... S.r.l., rappresentata e difesa
dall'avv. Vito Vannucci;
A scioglimento della riserva formulata all'udienza del 30 ottobre
2024, letti gli atti di causa e preso atto delle istanze delle parti;
Ritenuto in fatto
Con ricorso depositato il 14 febbraio 2022 la ricorrente ha
esposto di essere stata dipendente della societa' H... S.r.l. a far
data dall'... in forza di un contratto di lavoro a tempo
indeterminato, part time (venti ore) per lo svolgimento di mansioni
di impiegata amministrativa con inquadramento al 4° livello del CCNL
Commercio, per una retribuzione mensile pari ad euro 774,38. Parte
attrice ha altresi' dedotto che, dal..., l'orario di lavoro era
portato a trenta ore settimanali, emergendo dalla documentazione in
atti che la paga base si attestava, da quel momento, nella misura
pari ad euro 1.092,76. Chiariva la O... che, in data ..., riceveva a
mano una raccomandata che le comunicava la decisione della societa'
datrice di lavoro di procedere al suo licenziamento per giusta causa
«(...) per diverse motivazioni tra le quali: - ripetuti ritardi ed
uscite anticipate senza preventive autorizzazioni da parte della
societa' scrivente; - importanti comunicazioni, per accedere o
mantenere finanziamenti, avvenute con notevoli ritardi che avrebbero
potuto causare danni economici ed organizzativi alla societa'
scrivente se non prontamente presi in carico da soggetti a cio' non
direttamente deputati; Tale decisione e' presa a seguito di fatti di
particolare gravita' ripetuti in questi anni (avvalorati da
altrettanti richiami ancorche' verbali), che ad oggi non consentono
il proseguimento del rapporto di lavoro neanche temporaneamente.».
Parte attrice, dunque, il 14 ottobre 2021, impugnava in via
stragiudiziale l'atto espulsivo evidenziando il corto circuito
esistente in seno alla lettera di licenziamento laddove la stessa
faceva riferimento a «fatti di particolare gravita'» ripetuti negli
anni e al dato che gli stessi sarebbero stati oggetto di meri
richiami verbali, nonche' sottolineando la violazione del proprio
diritto di difesa per non aver mai, prima dell'intimazione del
licenziamento, avuto contezza di detti richiami; sotto altro profilo,
poi, la lavoratrice evidenziava che la lettera di licenziamento non
era stata preceduta da una lettera di contestazione, in aperta
violazione dell'art. 7, legge n. 300/1970. Parte ricorrente, dunque,
deduceva che l'intimazione del licenziamento era giunta in maniera
del tutto inaspettata atteso che la stessa, proprio alla luce
dell'ottimo profilo professionale - avendo svolto con cura e costanza
il proprio lavoro, interfacciandosi e rapportandosi con i colleghi e
con i professionisti esterni con cui l'azienda manteneva rapporti
costanti - , era stata chiamata, sin dall'inizio del rapporto di
lavoro, a svolgere non solo le mansioni per cui era stata assunta,
bensi' quelle spettanti ad un profilo contabile/amministrativo di 3°
livello, aspetto inconciliabile, nella ricostruzione attorea, con i
molteplici richiami verbali menzionati nella lettera di
licenziamento.
La O... ha quindi convenuto in giudizio la H... S.r.l. al fine di
sentir accertare l'illegittimita' del licenziamento intimatole per
insussistenza del fatto materiale contestato con conseguente
reintegrazione della stessa e risarcimento del danno, nonche' per
chiedere l'accertamento dello svolgimento da parte di essa ricorrente
di mansioni superiori, con condanna della societa' al pagamento delle
differenze retributive conseguenti; in via subordinata, la
lavoratrice chiedeva comunque che, attesa la violazione dell'art. 7,
legge n. 300/1970, il giudice, accertata l'illegittimita' del
licenziamento, condannasse la resistente al pagamento di
un'indennita' non inferiore a due e non superiore a dodici
mensilita'.
In particolare, la ricorrente ha adito questo Tribunale affinche'
fossero accolte le seguenti conclusioni « - in via principale, in
conseguenza di quanto sopra dedotto ed argomentato, dichiarare
illegittimo il licenziamento intimato e, per l'effetto, accertare
l'insussistenza del fatto materiale contestato, dichiarare la
nullita', ex art. 3, comma 2, del decreto legislativo n. 23/2015,
della misura espulsiva afflitta alla sig.ra O... A... e condannare la
societa' H... S.r.l., in persona del legale rappresentante pro
tempore, alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, e
condannare la societa' H... al pagamento di un'indennita'
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per
il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al
periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva
reintegrazione, in ogni caso in misura non superiore a dodici
mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto, nonche' al versamento dei contributi
previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a
quello dell'effettiva reintegrazione; - ulteriormente in via
principale, in conseguenza di quanto dedotto ed argomentato,
accertare e dichiarare che la sig.ra O... A... durante il periodo di
lavoro presso la H..., ovvero da ... sino a ..., assunta con la
qualifica di impiegata amministrativa con inquadramento 4° livello
del CCNL del commercio, ha invero svolto mansioni superiori quale
impiegata amministrativa/contabile di 3° livello del CCNL del
commercio, e per l'effetto condannare la H..., in persona del legale
rappresentante pro tempore, al pagamento in favore della sig.ra O...
A... delle differenze retributive tra quanto corrisposto e quanto
dovuto ammontanti ad euro 13.304,07 come da elaborati contabili
prodotti o a quella maggiore o minore somme che risultera' di
giustizia all'esito della espletando istruttoria, oltre interessi e
rivalutazioni dalle singole scadenze sino al soddisfo, ovvero quella
maggiore o minore ritenuta di giustizia; - in via subordinata, nella
denegata e non creduta ipotesi in cui il Tribunale ritenga di non
accogliere la domanda principale, accertare e dichiarare
l'illegittimita' del licenziamento in quanto intimato in violazione
dell'art. 7, legge n. 300/70 e per l'effetto, in applicazione
dell'art. 4 del decreto legislativo n. 23/2015, dichiarare estinto il
rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannare la H...
S.r.l. al pagamento di un'indennita' non assoggettata a contribuzione
previdenziale di importo pari a una mensilita' dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore
a due e non superiore a dodici mensilita';».
La societa' H... S.r.l., costituitasi tardivamente in giudizio,
ha resistito alle domande attoree chiedendone il rigetto e
sottolineando in particolare, per quanto qui interessa, che gli
articoli 3, comma 2, e 4 del decreto legislativo n. 23/2015
costituiscono disposizioni applicabili unicamente nei confronti dei
datori di lavoro che raggiungano «i requisiti dimensionali di cui
all'art. 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970» e non
possono, dunque, trovare spazio nel caso di specie emergendo, proprio
dal certificato camerale prodotto dalla stessa O..., che la H...
S.r.l. ha avuto alle proprie dipendenze al massimo quattordici
lavoratori.
Tanto premesso, alla luce delle prospettazioni delle parti, nella
fattispecie oggetto di causa e' dunque incontestato: che la
ricorrente e' stata assunta dalla societa' convenuta con contratto a
tempo indeterminato, subordinato, a far data dall'... (cioe' meno di
un mese dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015)
ed e' stata licenziata per giusta causa in ragione di «ripetuti
ritardi ed uscite anticipate senza preventive autorizzazioni»,
«importanti comunicazioni, per accedere o mantenere finanziamenti,
avvenute con notevoli ritardi che avrebbero potuto causare danni
economici ed organizzativi alla societa'» e «fatti di particolare
gravita' ripetuti in questi anni» il ..., senza mai essere stata
oggetto, nei sei anni di lavoro, di alcun provvedimento disciplinare
scritto, e senza aver ricevuto la lettera di contestazione prima
dell'irrogazione della sanzione espulsiva.
E' parimenti incontestato che la retribuzione mensile pattuita
fosse pari ad euro 774,38 sino a giugno 2017, per poi assestarsi su
una paga base pari ad euro 1.092,46.
Ancora, la costituzione tardiva non esclude il fatto che non sia
contestato il requisito dimensionale del sottosoglia, costituendo un
fatto pacifico ed emergente dai documenti in atti versati, alla luce
dell'elemento di prova costituito dal certificato camerale depositato
dalla stessa ricorrente, nonche' per la (sostanziale) adesione della
difesa della lavoratrice nelle note da ultimo depositate (cfr. Cass.,
Sez. Lav., 22371/2021; v. anche Cass., Sez. Lav., 11940/2019),
appunto, l'assenza del requisito occupazionale/dimensionale.
Dalle allegazioni e dai documenti emerge altresi': che la H...
S.r.l. e' una societa' di capitali attiva sin dal 1991 che si occupa
di manutenzione ordinaria e straordinaria di macchine ed apparecchi
per il trattamento della carta nei centri di elaborazione dati e
nell'industria; che il capitale sociale della resistente e' pari a
590.000 euro; che, come dedotto dalla ricorrente con note
(circostanza non contestata, con le conseguenze di cui all'art. 115
del codice di procedura civile), la convenuta ha fatturato per l'anno
2022 circa 3.931.947,00 di euro e per l'anno 2023 circa 4.730.253,0
di euro.
Il Tribunale, istruita la causa mediante escussione testimoniale
avuto riguardo alla domanda relativa all'accertamento dello
svolgimento di mansioni superiori da parte della lavoratrice,
rinviava pertanto all'udienza di discussione del 3 settembre 2024 e
sollevava il contraddittorio delle parti in relazione alla sentenza
n. 183/2022 della Corte costituzionale e alle sue applicazioni al
caso di specie.
A detta udienza i procuratori chiedevano termine per note in
punto e, concesso detto termine, il Tribunale, in esito alla udienza
del 30 ottobre 2024 si riservava la decisione sulla questione di
legittimita' costituzionale.
La questione di legittimita' costituzionale e' rilevante e non
manifestamente infondata.
Ritenuto in diritto
1) Sulla rilevanza della questione
In ordine alla rilevanza, si osserva che il presente giudizio non
puo' essere definito indipendentemente dalla risoluzione della
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9, decreto
legislativo n. 23/2015 nella parte in cui prevede che per i datori di
lavoro che non raggiungano «i requisiti dimensionali di cui all'art.
18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970» oltre a non
applicarsi l'art. 3, comma 2, e' previsto che l'ammontare delle
indennita' dettate dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1, e
dall'art. 6, comma 1, deve essere dimezzato e non puo' comunque
superare il limite massimo di sei mensilita'.
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio la ricorrente
ha infatti, come detto, domandato in via principale dichiararsi
«l'insussistenza del fatto materiale contestato» ovvero, in via
subordinata, la violazione dell'art. 7, legge n. 300/1970 avuto
riguardo al licenziamento intimatole il ... .
Ora, e' pacifica, poiche' emergente dagli atti di causa e
confermata da entrambe le parti, l'esistenza del rapporto di lavoro
tra la O... e la H... S.r.l.; ancora, non sono in contestazione
l'orario di lavoro e la retribuzione pattuita, ovvero il fatto che la
risoluzione del rapporto di lavoro e' avvenuta ad iniziativa della
odierna societa' convenuta per giusta causa.
Puo' dunque affermarsi che tra la ricorrente e la resistente e'
intercorso un rapporto di lavoro di tipo subordinato a tempo
indeterminato dall'... al ... .
Parte attrice con le proprie conclusioni (Supra) ha chiesto, tra
l'altro, dichiararsi la nullita' dell'atto espulsivo.
Tuttavia, il licenziamento per cui e' causa, pur attinto da
illegittimita' sotto diversi profili, anche gravi (Infra), non e'
nullo.
In punto deve richiamarsi il principio sancito dalla Suprema
Corte, sebbene con riferimento ai lavoratori assunti prima del 7
marzo 2015, per cui, anche a fronte del radicale difetto di
contestazione, con conseguente inesistenza della procedura
disciplinare, la tutela applicabile e' rappresentata dall'art. 18,
comma 4, legge n. 300/1970 (cfr. Cass., Sez. Lav., 28927/2024).
Orbene, trasponendo le ragioni espresse dalla Corte di Cassazione
con la pronuncia appena richiamata e applicandole al regime dettato
dal decreto legislativo n. 23/2015 tale vizio ricadrebbe, quindi, in
parallelo, nell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, ma
non porterebbe a configurare un'ipotesi di nullita'.
Il licenziamento intimato alla ricorrente per giusta causa,
tuttavia, e' come detto viziato sotto plurimi aspetti, anche molto
gravi: per il mancato assolvimento da parte della H... S.r.l. (che,
peraltro, si e' costituita tardivamente) dell'onere di provarne il
fondamento, per insussistenza del fatto, poiche' la lettera di
licenziamento non e' stata preceduta da una lettera di contestazione.
La ricorrente, con le proprie conclusioni (Supra), ha chiesto in
tesi applicarsi la tutela dettata dall'art. 3, comma 2, decreto
legislativo n. 23/2015 norma che, come noto, prevede la
reintegrazione cui si aggiunge un'indennita' risarcitoria.
La tutela disciplinata da detta ultima disposizione, tuttavia,
risulta erroneamente invocata in ricorso, attesa la prova, nella
fattispecie in esame, dell'esistenza del requisito dimensionale del
sottosoglia (Infra).
Tanto premesso, ed attesa l'impossibilita' di applicare l'art. 3,
comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, il Tribunale e' allora
tenuto ad applicare la tutela che la legge prevede a fronte del vizio
in concreto riscontrato, come chiarito a piu' riprese dalla Corte di
Cassazione (cfr., ad es., seppur con riferimento a normativa diversa,
il principio espresso dalla Cass., Sez. Lav. 8053/2022 allorquando ha
chiarito «Ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, nel
testo anteriore alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012,
il giudice che accerta l'inefficacia o l'illegittimita' del
licenziamento deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel
posto di lavoro, anche in mancanza di una esplicita domanda in tal
senso del lavoratore licenziato, atteso che la reintegrazione - salvo
il caso di espressa rinuncia ad essa - e' compresa, come effetto
tipico della tutela reale prevista dalla norma suddetta, nella
domanda avente ad oggetto la declaratoria di illegittimita' od
inefficacia del recesso del datore di lavoro.»; v. anche Cass., Sez.
Lav., 12944/2012 laddove ha chiarito «Anche nel processo del lavoro,
l'interpretazione della domanda rientra nella valutazione del giudice
di merito e non e' censurabile in sede di legittimita' ove motivata
in modo sufficiente e non contraddittorio. (Nella specie, il
lavoratore aveva impugnato il licenziamento chiedendo la condanna al
risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, senza precisare
se era richiesta anche la reintegrazione o l'indennita' sostitutiva
della reintegra; la S.C., in applicazione del principio su esposto,
ha confermato la sentenza della Corte d'appello che, valutando la
reale portata della domanda, aveva valorizzato l'effetto tipico
dell'impugnazione del licenziamento in regime di tutela reale che e'
la reintegrazione nel posto di lavoro).»).
Nel confrontarsi ex officio con l'operazione di inquadramento
normativo ai fini della liquidazione non puo' allora mancare di
osservarsi che, nel caso di specie, si e' dinanzi a plurimi vizi
connotati in termini gravi: sia quello procedimentale dell'omessa
contestazione con violazione dell'art. 7, legge n. 300/1970 (atteso
che come rilevato, Supra, nel regime precedente di cui all'art. 18,
legge n. 300/1970 tale vizio comporta la tutela reale), sia il
mancato assolvimento da parte della societa' resistente dell'onere di
provare il fondamento dell'atto espulsivo, l'insussistenza del fatto,
dovendosi anche tenere conto delle condizioni soggettive della parte
(a norma della legge n. 604/1966).
Tale complesso quadro impone al Tribunale, stante la necessita'
di intervenire con una sanzione dissuasiva, deterrente ed adeguata,
di muoversi verso un importo elevato (comunque senz'altro superiore
al limitatissimo tetto massimo rappresentato dalle sei mensilita'),
cio' che da' rilevanza alla odierna questione.
Peraltro, non puo' mancare di osservarsi che in ricorso la
ricorrente ha, come detto, (erroneamente) invocato la tutela reale,
aspetto che ulteriormente depone per il fatto che la parte ha inteso
chiedere una sanzione alta, importante, non di certo riconducibile al
punto massimo rappresentato dalle sei mensilita'.
Orbene, alla luce della gravita' dei vizi che attingono il
licenziamento intimato alla O... e tenuto conto della necessita' di
individuare la tutela applicabile al fine di operare la liquidazione,
nell'impossibilita' di dare applicazione alla norma invocata in
ricorso, il Tribunale, in ossequio ai criteri di legge, si trova
dinanzi ad una misura di limitazione della responsabilita'
risarcitoria insufficiente a garantire da un lato un risarcimento
adeguato e dall'atro la portata dissuasiva dello stesso atteso che,
per la sola ragione costituita dal numero degli occupati della
convenuta (quattordici), il limite massimo della sola tutela
indennitaria applicabile e' rappresentato da sei mensilita', di
talche' si rende necessaria l'applicazione di ufficio dell'art. 3,
comma 1, decreto legislativo n. 23/2015.
In effetti, anche solo a voler prendere, a titolo
esemplificativo, il vizio legato al fatto che, con la propria
costituzione tardiva, la societa' odierna resistente non ha assolto
all'onere di provare il fondamento dell'atto espulsivo, emerge
evidente l'opportunita' di calare la fattispecie concreta nella
disposizione da ultimo invocata, risultando «accertato che non
ricorrono gli estremi del licenziamento (...) per giusta causa»
irrogato alla O....
Detta norma prevede «1. Salvo quanto disposto dal comma 2, nei
casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato
motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il
rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore
di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a
contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a sei e
non superiore a trentasei mensilita'».
Avuto riguardo al profilo del vizio procedurale per mancata
contestazione a norma dell'invocato art. 4, decreto legislativo n.
23/2015 e' poi previsto «1. Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia
intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'art.
2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui
all'art. 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto
il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il
datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a
contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a due e
non superiore a dodici mensilita', a meno che il giudice, sulla base
della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti
per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del
presente decreto. ».
Come anticipato, poi, nel caso di specie, la costituzione tardiva
non esclude il fatto che non sia contestato il requisito dimensionale
del sottosoglia.
Giova infatti ricordare che l'eccezione datoriale di
inapplicabilita' della tutela reale ha natura di eccezione in senso
lato (v. Cass., Sez. Lav., 22371/2021; v. anche Cass., Sez. Lav.,
11940/2019), di talche' l'assenza del requisito occupazionale
costituisce, nel caso di specie, un fatto pacifico, sia alla luce
dell'elemento di prova costituito dal certificato camerale depositato
dalla stessa ricorrente (cfr. deposito della ricorrente del 22 aprile
2022), sia per la sostanziale adesione della difesa della lavoratrice
nelle note da ultimo depositate (v., in particolare, pag. 5 note
conclusionali depositate da parte attrice il 25 ottobre 2024).
Il requisito dimensionale del sottosoglia (quattordici
dipendenti) comporta, quindi, la necessita' di applicare l'art. 9,
comma 1, decreto legislativo n. 23/2015.
Orbene, alla luce di tale quadro, il licenziamento per cui e'
causa dovra' essere dichiarato illegittimo e sanzionato secondo il
combinato disposto di cui agli articoli 3 e 9, comma 1, decreto
legislativo n. 23/2015, cio' che conferma la rilevanza della
questione di legittimita' costituzionale.
In effetti, in assenza di una pronuncia della Corte
costituzionale che dichiari l'illegittimita' dell'art. 9, comma 1,
decreto legislativo n. 23/2015 allorquando prevede che per il datore
di lavoro che non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art.
18, comma 8 e 9, legge n. 300/1970 l'ammontare delle indennita' di
cui all'art. 3, comma 1, 4, comma 1, (nonche' 6, comma 1) decreto
legislativo n. 23/2015 sia dimezzato e non possa in ogni caso
superare il limite delle sei mensilita', nella operazione di
liquidazione/quantificazione che il giudice e' chiamato d'ufficio a
svolgere, anche laddove sia invocata in ricorso una norma non
applicabile, risulterebbe in concreto impossibile addivenire ad una
decisione e pronunciare sentenza se non a patto di liquidare
un'indennita', in concreto, in contrasto con la Costituzione, poiche'
del tutto sprovvista del necessario carattere compensativo e
dissuasivo.
Ad avviso del Tribunale non e' possibile dar luogo ad una
interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata,
pure sollecitata dalla parte ricorrente, per una ragione
insuperabile.
Non puo' infatti mancare di osservarsi che l'art. 9, comma 1,
decreto legislativo n. 23/2015 e' estremamente chiaro nella sua
portata letterale (v. Supra) prevedendo, in maniera inequivocabile,
che l'indennita' parametrata a quella di cui all'art. 3, comma 1, e
4, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015 (per quanto qui interessa)
sia dimezzata e, comunque, non superi in alcun caso il limite delle
sei mensilita'.
La chiara lettera della norma, in uno con il senso univoco della
disposizione, dunque, non consente di addivenire ad una possibile
interpretazione adeguatrice che non pare, a ben vedere, neppure
ravvisabile in astratto (cfr. Corte Costituzionale, ordinanza n.
97/2017).
2) Sulla non manifesta infondatezza della questione
Rispetto alla non manifesta infondatezza della questione si
osserva quanto segue.
E' noto a questo Tribunale che la Corte costituzionale, investita
di analoga questione di legittimita' costituzionale con ordinanza del
Tribunale di Roma resa in data 24 febbraio 2021 (che si richiama
anche a norma dell'art. 118 disposizioni di attuazione del codice di
procedura civile poiche' condivisa), ha dichiarato detta questione
inammissibile il 22 luglio 2022.
Tuttavia, le peculiarita' proprie della fattispecie in esame, lo
stesso contenuto della pronuncia n. 183/2022 della Corte
costituzionale, nonche' il disatteso invito al Legislatore medio
tempore protrattosi per ben piu' di due anni inducono questo giudice
a ritenere che il presente giudizio possa, eventualmente, avere un
diverso esito.
La norma oggetto dell'odierna ordinanza di rimessione della
questione di legittimita' costituzionale e' l'art. 9, decreto
legislativo n. 23/2015, disposizione per cui «1. Ove il datore di
lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art. 18,
ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, non si applica
l'art. 3, comma 2, e l'ammontare delle indennita' e dell'importo
previsti dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1, e dall'art. 6,
comma 1, e' dimezzato e non puo' in ogni caso superare il limite di
sei mensilita'.».
La norma si censura sotto un duplice profilo: sia laddove prevede
il dimezzamento delle indennita' previste dall'art. 3, comma 1,
dall'art. 4, comma 1 e dall'art. 6, comma 1, decreto legislativo n.
23/2015, sia allorquando fissa un limite massimo e comunque
insuperabile («sei mensilita'»), atteso che il vulnus costituzionale
coinvolge entrambi detti aspetti, tenuto conto che la prevista
limitazione di responsabilita' del risarcimento da parte del datore
di lavoro muove unicamente dall'elemento, esterno al rapporto di
lavoro, del requisito dimensionale dato dal numero delle assunzioni,
senza consentire una tutela davvero diversa e gradata anche a fronte
di vizi dell'atto espulsivo pure gravissimi.
Ritiene il giudicante che la disposizione ordinaria rappresentata
dall'art. 9 del decreto legislativo n. 23/2015 si ponga in contrasto
con piu' parametri costituzionali.
Si tratta in particolare: dell'art. 3, comma 1 e 2 della
Costituzione, dell'art. 4, comma 1, della Costituzione, dell'art. 35,
comma 1, della Costituzione, dell'art. 41, comma 2, della
Costituzione e dell'art. 117, comma 1, della Costituzione, in
relazione all'art. 24 della Carta sociale europea.
Il dubbio di legittimita' costituzionale muove, quindi, in due
direzioni atteso che la disposizione censurata, prevedendo il
dimezzamento e un limite massimo alla responsabilita' risarcitoria
del datore di lavoro c.d. sottosoglia, finisce per individuare una
forbice estremamente ridotta (da tre a sei mensilita') che non
consente al giudice di operare una liquidazione rispettosa del
principio di uguaglianza, di ragionevolezza e di adeguatezza e,
dall'altro, fa dipendere questa limitazione in punto di quantum da un
elemento estraneo al rapporto di lavoro, il limite dimensionale
costituito dal numero degli occupati, che nell'attuale contesto socio
economico risulta anacronistico e non capace di rispecchiare di per
se' la concreta forza economica del datore di lavoro.
2.1) Sulla esiguita' dell'intervallo tra l'importo minimo e quello
massimo dell'indennita'
La censura dalla quale occorre prendere le mosse attiene,
anzitutto, al fatto che il dimezzamento previsto dall'art. 9, decreto
legislativo n. 23/2015, in uno con la previsione di un tetto massimo
francamente limitato («sei mensilita'») contrastano con l'art. 3,
comma 1 e 2, della Costituzione, posto che tale disciplina finisce da
un lato per trattare in modo ingiustificatamente e fortemente
differenziato, sotto il profilo delle tutele, situazioni identiche o
almeno omogenee quanto al vizio del licenziamento e, dall'altro, per
converso, per trattare nello stesso modo vizi dell'atto espulsivo
estremamente diversi tra loro.
In effetti, l'art. 3 della Costituzione, enunciando il principio
di uguaglianza formale e sostanziale, configura la necessita' di
trattare nello stesso modo situazioni identiche e di diversificare,
invece, il trattamento dinanzi a ipotesi diverse, sempre attenendosi
al criterio della ragionevolezza.
La disparita' di trattamento e la violazione del parametro
costituzionale, dunque, si configura, avuto riguardo all'art. 9,
decreto legislativo n. 23/2015, sia a fronte del medesimo vizio grave
(si pensi all'ipotesi della insussistenza del fatto) se si
raffrontano le conseguenze normative in punto di tutela applicabile
per i lavoratori dipendenti di una impresa di grandi dimensioni
rispetto a quelle per i dipendenti di una c.d. impresa sottosoglia,
sia confrontando due ipotesi di vizi dell'atto espulsivo molto
diversi quanto a gravita' (a titolo esemplificativo violazione del
requisito di motivazione e insussistenza del fatto) dinanzi ai
licenziamenti intimati a due lavoratori entrambi dipendenti di
un'impresa con meno di quindici dipendenti.
Orbene, sotto il primo profilo, se nell'ipotesi del datore di
lavoro che raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art. 18,
legge n. 300/1970 esiste, a seconda della gravita' del vizio che
investe l'atto espulsivo, da un lato la possibilita' della tutela
reintegratoria che si affianca a quella indennitaria e, dall'altro,
quella della sola tutela monetaria che puo' essere quantificata sino
alla importante misura di trentasei mensilita', laddove invece il
datore di lavoro abbia meno di quindici dipendenti a pari gravita' di
vizio del licenziamento e' esclusa in ogni caso la possibilita' della
tutela reale, mentre la tutela indennitaria e' comunque costretta in
una forbice ridottissima, da tre a sei mensilita'.
Vi e', dunque, una notevole ed ingiustificata diversita' di
trattamento sostanziale tra i lavoratori dipendenti di imprese c.d.
sottosoglia e lavoratori al servizio di un'impresa che ha piu' di
quindici occupati atteso che, anche dinanzi ad un vizio gravissimo,
la cornice edittale prevista per i primi dall'art. 9, decreto
legislativo n. 23/2015 non consente al giudice di distinguere la
tutela in funzione del vizio, anche importante, che inficia l'atto
espulsivo, diversamente da quanto avviene per la seconda categoria di
lavoratori.
In altri termini, se nelle imprese maggiori, a seconda della
tipologia e della gravita' del vizio, e' prevista una tutela diversa
e gradata che consente al giudice un intervento adeguato alla
fattispecie concreta, nel caso del lavoratore dipendente della c.d.
impresa sottosoglia i vizi piu' gravi sono trattati come i meno gravi
e viceversa, cio' che viola, oltre all'art. 3, comma 1 della
Costituzione, anche l'art. 41, comma 2, della Costituzione,
difettando il necessario equilibrato bilanciamento tra valori in
gioco, atteso che l'assenza di un indennizzo adeguato a fronte di
licenziamenti sostanzialmente illegittimi danneggia la liberta' e la
dignita' umana anche nella piccola impresa e non solo nelle ipotesi
di datore di grandi dimensioni.
La violazione dell'art. 3, comma 2, e dell'art. 41, comma 2,
della Costituzione, pero', si ha anche allorquando si raffrontano
ipotesi di licenziamento irrogato a due lavoratori, entrambi
dipendenti di una piccola impresa, in caso di vizi dell'atto
espulsivo fortemente diversi tra loro anche in punto di gravita'.
In siffatta ipotesi, a prescindere dalla tipologia di vizio che
attinge l'atto espulsivo, la tutela del giudice sara' comunque,
sempre, relegata ad una cornice edittale limitatissima (da un minimo
di una sola mensilita' in caso di vizi formali o procedurali, alla
forbice da tre a sei mensilita' in caso di vizi sostanziali) senza
possibilita' di reale personalizzazione in relazione alle circostanze
del caso di specie e con la conseguenza che violazioni produttive di
danni diseguali sono sanzionate in modo tanto simile da risultare
essenzialmente uguale.
Detto diversamente, la norma censurata, prevedendo il
dimezzamento e il tetto massimo delle sei mensilita' finisce per
disegnare una tutela standardizzata e tanto ridotta da risultare
incapace di confrontarsi con ipotesi connotate, quanto al vizio che
attiene all'atto espulsivo, anche in termini estremamente diversi,
cio' che porta ad una violazione del principio di uguaglianza laddove
conduce, in concreto, a trattare in modo uguale (o estremamente
simile) situazioni concrete profondamente diverse. Gli effetti
patologici della normativa risultante dall'art. 9 del decreto
legislativo n. 23/2015 emergono in maniera dirompente nel caso di
specie atteso che il licenziamento intimato alla lavoratrice dalla
societa' odierna resistente appare viziato sotto molteplici profili,
in maniera anche estremamente grave.
Anzitutto rispetto al dato che il datore di lavoro e'
inizialmente rimasto contumace e, costituendosi tardivamente, non ha
assolto l'onere di provare il fondamento dell'atto espulsivo ma si e'
difeso (unicamente) invocando il tetto massimo di cui all'art. 9,
decreto legislativo n. 23/2015, sotto il profilo della insussistenza
del fatto, e dal punto di vista procedurale non essendo stato
preceduto da una lettera di contestazione.
Dunque, la disparita' di trattamento si realizza non solo nei
confronti di lavoratori di maggiori dimensioni per i quali vi
sarebbero possibilita' di tutela gradata in funzione della gravita'
del vizio e di una tutela reale affiancata a quella indennitaria con
quantificazione importante, ma anche nei confronti di altri
lavoratori dipendenti di imprese c.d. sottosoglia il cui
licenziamento risulti illegittimo, ad esempio, in ragione di un vizio
formale o procedurale.
Peraltro, una forbice tanto limitata per determinare l'indennita'
risarcitoria, come quella applicabile nel caso di specie, non
consente di soddisfare i criteri di personalizzazione del
risarcimento, di adeguatezza e di congruita' dello stesso, nonche' di
garantire la necessaria portata deterrente che deve accompagnare la
tutela indennitaria.
Come pure affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n.
194/2018 intervenuta con riferimento all'art. 3, comma 1, decreto
legislativo n. 23/2015 (con ricadute anche sull'art. 9, decreto
legislativo n. 23/2015) per la determinazione dell'indennita'
risarcitoria spettante al lavoratore ingiustamente licenziato non
puo' e non deve farsi riferimento unicamente al criterio
dell'anzianita' di servizio, atteso che la stessa evoluzione
normativa antecedente al decreto legislativo n. 23/2015 ha sempre
valorizzato la molteplicita' dei fattori che incidono sull'entita'
del pregiudizio causato dall'ingiustificato licenziamento e,
conseguentemente, sulla misura del risarcimento, senza che lo stesso
possa connotarsi in termini troppo rigidi (v. punto 11 del
considerato in diritto, sentenza n. 194/2018).
Afferma infatti la Consulta «Il meccanismo di quantificazione
indicato connota l'indennita' come rigida, in quanto non graduabile
in relazione a parametri diversi dall'anzianita' di servizio, e la
rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianita'.
L'indennita' assume cosi' i connotati di una liquidazione legale
forfetizzata e standardizzata, proprio perche' ancorata all'unico
parametro dell'anzianita' di servizio, a fronte del danno derivante
al lavoratore dall'illegittima estromissione dal posto di lavoro a
tempo indeterminato. Il meccanismo di quantificazione dell'indennita'
opera entro limiti predefiniti sia verso il basso sia verso l'alto.
(...) Una tale predeterminazione forfetizzata del risarcimento del
danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile, pur
volendone fornire la relativa prova.» (cfr. punto 10 del considerato
in diritto, sentenza n. 194/2018).
Il principio dettato sembra potersi e doversi applicare anche con
riferimento alla disposizione censurata, atteso che l'art. 9 del
decreto legislativo n. 23/2015, come detto, disegna un sistema che
prevede unicamente la tutela indennitaria in una forbice tanto
stretta da risultare uniforme e potenzialmente inadeguata.
Come affermato dalla Corte costituzionale «All'interno di un
sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell'impresa,
la discrezionalita' del giudice risponde, infatti, all'esigenza di
personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta
dal principio di eguaglianza.
La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente
dalle peculiarita' e dalla diversita' delle vicende dei licenziamenti
intimati dal datore di lavoro, si traduce in un'indebita omologazione
di situazioni che possono essere - e sono, nell'esperienza concreta -
diverse.» (v., ancora, punto 11 del considerato in diritto, sentenza
n. 194/2018).
Cio' si coglie chiaramente con riferimento al caso di specie ove,
in considerazione della retribuzione della lavoratrice, il divario
tra il minimo e il massimo puo' variare da una somma pari a circa
3.000 euro ad una somma pari a circa 6.000 euro, di talche' risulta
estremamente ridotta anzitutto funzione compensativa della tutela
indennitaria, ma anche essenzialmente azzerata la portata deterrente
della stessa.
In assoluta continuita' con i principi espressi dalla richiamata
sentenza n. 194/2018 si e' posta, poi, ancora, la Corte
costituzionale con la sentenza n. 150/2020 allorquando la Consulta,
chiamata a pronunciarsi sull'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015,
ha nuovamente sottolineato l'inidoneita' del solo criterio
dell'anzianita' di servizio ad esprimere «le mutevoli ripercussioni
che ogni licenziamento produce della sfera personale e patrimoniale
del lavoratore», evidenziando l'importanza del ruolo del giudice nel
far riferimento anche a criteri ulteriori che emergono dal sistema,
ed in particolare dall'art. 18, comma 6, legge n. 300/1970 e
dall'art. 8 della legge n. 604/1966, id est la gravita' delle
violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell'impresa, il
comportamento e le condizioni delle parti.
Ha affermato la Corte costituzionale «La prudente
discrezionalita' del legislatore, pur potendo modulare la tutela in
chiave eminentemente monetaria, attraverso la predeterminazione
dell'importo spettante al lavoratore, non puo' trascurare la
valutazione della specificita' del caso concreto. Si tratta di una
valutazione tutt'altro che marginale, se solo si considera la vasta
gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del
lavoratore. Nel rispetto del dettato costituzionale, la
predeterminazione dell'indennita' deve tendere, con ragionevole
approssimazione, a rispecchiare tale specificita' e non puo'
discostarsene in misura apprezzabile, come avviene quando si adotta
un meccanismo rigido e uniforme.» (cfr. punto 9 del considerato in
diritto, sentenza n. 150/2020).
Sebbene la Corte costituzionale abbia, a piu' riprese e anche di
recente, evidenziato da un lato che la reintegrazione non e' una
sanzione costituzionalmente necessaria purche' ci sia una tutela
alternativa e dissuasiva - costituendo la tutela reintegratoria solo
una delle modalita' per realizzare dette finalita' - e, dall'altro,
che discipline differenziate nel tempo, che distinguono le tutele
applicabili ai lavoratori in base alla data di assunzione non sono
costituzionalmente illegittime, - spettando alla discrezionalita' del
Legislatore delimitare la sfera di applicazione temporale delle norme
- la medesima Corte ha sempre evidenziato la necessita' di garantire
il rispetto del principio di ragionevolezza (v., ad es., Corte
costituzionale sentenza n. 194/2018, ma anche Corte costituzionale
sentenza n. 22/2024).
La Consulta, inoltre, ha sottolineato la necessita' della
funzione deterrente nella valutazione dell'adeguatezza della misura
dinanzi ad un licenziamento illegittimo; a titolo esemplificativo in
tale direzione possono leggersi le sentenze nn. 194/2018 e 7/2024 ove
la Corte ha rimarcato che il Legislatore puo' legittimamente
discostarsi dalla reintegra, purche', tuttavia, introduca un
meccanismo sanzionatorio alternativo ed adeguato.
Ancora, recentemente, la Corte costituzionale ha ribadito la
necessaria dissuasivita' dei rimedi nel dichiarare la parziale
incostituzionalita' dell'art. 3, comma 2, del decreto legislativo n.
23/2015 («Una volta che il legislatore ha individuato le fattispecie
piu' gravi di licenziamento illegittimo in quello nullo,
discriminatorio o fondato su un "fatto insussistente", si ha che la
possibilita' per il datore di lavoro di intimare un licenziamento -
che, quand'anche sia radicalmente senza causa in ragione
dell'insussistenza del fatto materiale, comporti sempre e comunque la
risoluzione del rapporto, con una tutela solo indennitaria per il
lavoratore che lo subisce - apre una falla nella disciplina
complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve
avere, nel suo complesso, un sufficiente grado di dissuasivita' delle
ipotesi piu' gravi di licenziamento.», cfr. Corte costituzionale
sentenza n. 128/2024, punto 15, del considerato in diritto).
Cio' comporta, in parallelo e coerentemente, la necessita' che il
risarcimento al lavoratore a fronte di un licenziamento illegittimo
costituisca un ristoro idoneo.
In tal senso, la previsione del dimezzamento in uno con quella
del limite massimo delle sei mensilita' pare porsi in violazione
anche dell'art. 4, comma 1, della Costituzione che, nel riconoscere a
tutti i cittadini il diritto al lavoro, contestualmente, prevede
l'impegno della Repubblica a curare le condizioni per rendere tale
diritto effettivo, rimuovendo gli ostacoli alla stabilita'
dell'occupazione tra i quali rileva senz'altro, in modo
preponderante, la previsione di una sanzione con efficacia dissuasiva
a fronte di provvedimenti espulsivi illegittimi.
Contestualmente la disposizione censurata pare violare anche
l'art. 35, comma 1, della Costituzione che, tutelando il lavoro in
tutte le sue forme e applicazioni, assieme all'art. 4 della
Costituzione, rende necessaria l'esistenza di una ragione
giustificatrice alla base del recesso e, tra l'altro, da' un rilievo
anche internazionale alla tutela del lavoro.
Orbene, in questa direzione l'art. 9, del decreto legislativo n.
23/2015 sembra porsi in violazione anche con l'art. 117, comma 1,
della Costituzione in relazione all'art. 24 della Carta sociale
europea che, come noto, espressamente prevede «Per assicurare
l'effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di
licenziamento, le Parti s'impegnano a riconoscere: a) il diritto dei
lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato
alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessita'
di funzionamento dell'impresa, dello stabilimento o del servizio; b)
il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un
congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».
Il tenore letterale della norma da ultimo richiamata, dunque,
rafforza le considerazioni spese (Supra) in punto di necessaria
adeguatezza dei rimedi risarcitori, in uno con il bisogno di
prevedere, soprattutto in un'ipotesi sottratta in via assoluta alla
tutela reale, una tutela indennitaria che abbia un'idonea forza
compensativa di quanto il lavoratore ha perso a causa del
licenziamento illegittimo e dissuasiva nei confronti del datore di
lavoro artefice dell'atto espulsivo viziato.
Come pure affermato dalla Consulta «L'art. 3, comma 1, del
decreto legislativo n. 23 del 2015, nella parte in cui determina
l'indennita' in un "importo pari a due mensilita' dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio", viola anche gli articoli 76 e
117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 24 della
Carta sociale europea. Tale articolo prevede che, per assicurare
l'effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di
licenziamento, le Parti contraenti si impegnano a riconoscere "il
diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un
congruo indennizzo o altra adeguata riparazione" (primo comma,
lettera b). Nella decisione resa a seguito del reclamo collettivo n.
106/2014, proposto dalla Finnish Society of Social Rights contro la
Finlandia, il Comitato europeo dei diritti sociali ha chiarito che
l'indennizzo e' congruo se e' tale da assicurare un adeguato ristoro
per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un
valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare
ingiustificatamente. Il filo argomentativo che guida il Comitato si
snoda dunque attraverso l'apprezzamento del sistema risarcitorio in
quanto dissuasivo e, al tempo stesso, congruo rispetto al danno
subito (punto 45). Questa Corte ha gia' affermato l'idoneita' della
Carta sociale europea a integrare il parametro dell'art. 117, primo
comma, della Costituzione e ha anche riconosciuto l'autorevolezza
delle decisioni del Comitato, ancorche' non vincolanti per i giudici
nazionali (sentenza n. 120 del 2018). A ben vedere, l'art. 24, che si
ispira alla gia' citata Convenzione OIL n. 158 del 1982, specifica
sul piano internazionale, in armonia con l'art. 35, terzo comma,
della Costituzione e con riguardo al licenziamento ingiustificato,
l'obbligo di garantire l'adeguatezza del risarcimento, in linea con
quanto affermato da questa Corte sulla base del parametro
costituzionale interno dell'art. 3 della Costituzione. Si realizza,
in tal modo, un'integrazione tra fonti e - cio' che piu' rileva - tra
le tutele da esse garantite (sentenza n. 317 del 2009, punto 7, del
Considerato in diritto, secondo cui "[i]l risultato complessivo
dell'integrazione delle garanzie dell'ordinamento deve essere di
segno positivo").» (sentenza Corte costituzionale n. 194/2018 punto
14 del considerato in diritto).
La necessita' di gradare la tutela alle peculiarita' concrete e
alla gravita' del vizio emerge altresi' non potendosi mancare di
osservare che, nel caso di specie, il licenziamento intimato alla
lavoratrice appare privo di una concreta giustificazione laddove
contiene formule tanto generiche da risultare vuote di significato
concreto e tautologiche («ripetuti ritardi ed uscite anticipate senza
preventive autorizzazioni», «importanti comunicazioni, per accedere o
mantenere finanziamenti, avvenute con notevoli ritardi che avrebbero
potuto causare danni economici ed organizzativi alla societa'» e
«fatti di particolare gravita' ripetuti in questi anni»).
Giova allora ricordare che da un lato la giustificazione del
licenziamento corrisponde ad un valore costituzionale (cfr. in punto
la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 al punto 9.1 del
considerando in diritto) e, dall'altro, che, come condivisibilmente
chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione, «Come parte dell'ordine
pubblico, assume rilievo anche uno specifico aspetto della disciplina
del lavoro. Ed invero, il lavoro e' giuridicamente costruito come
fondamento della Repubblica (art. 1, primo comma, della Costituzione)
nonche' fondamentale diritto dovere d'ogni cittadino (art. 4 della
Costituzione). Nella legislazione ordinaria, che a tali principi si
ispira, sono poi disciplinate (oltre ad altri importanti aspetti) «la
liberta' e la dignita'» della persona che lo svolge (legge 20 marzo
1970, n. 300), la professionalita' (ad es., art. 2103 cod. civ.),
l'anzianita' (ad es. l'art. 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223),
nonche' la protrazione del rapporto in alcune ipotesi di sospensione
del lavoro (come le leggi sulla Cassa per l'integrazione dei
guadagni) e nel trasferimento d'azienda (art. 2112 del codice
civile). In tal modo, nel lavoro a tempo indeterminato, a fronte
dell'unilaterale potere del datore di lavoro di porre termine al
rapporto, il lavoro e' tutelato attraverso la previsione di limiti ed
oneri inerenti a tale potere, i quali hanno ridotto ad eccezione
marginale l'arca della c.d. recedibilita' ad nutum (vedi l'art. 1
della legge 15 luglio 1966, n. 604, l'art. 18 della legge 20 maggio
1970, n. 300; nonche' il principio normativo affermato dalla
direttiva comunitaria 28 giugno 1999, n. 70, e confermato dalla Corte
costituzionale 7 febbraio 2000 n. 41, per cui "i contratti di lavoro
a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di
lavoro e contribuiscono alla qualita' della vita dei lavoratori
interessati ed a migliorare il rendimento"; vedi anche Cassazione 21
maggio 2002, n. 7468, per cui, anche dopo il decreto legislativo 6
settembre 2001, n. 368, e l'abrogazione della legge 18 aprile 1962,
n. 230, il termine costituisce la deroga d'un generale sottinteso
principio, in base al quale il contratto di lavoro subordinato, per
sua natura, e' a tempo indeterminato). L'immagine che emerge da
questo quadro normativo non e' un rapporto che un mero flatus vocis
del datore possa spegnere, bensi' un rapporto che tende a permanere
nel tempo ove non intervenga ragione che ne giustifichi la
risoluzione. Componente della ragione normativa di questa tendenziale
protrazione (oltre alla dignita' della persona, come inscritta nella
coscienza della collettivita') e' anche il fatto che l'aspettativa
della protrazione, alimentando l'interesse del lavoratore al suo
stesso lavoro, conferendogli dignita', fornendogli la base per una
programmazione (economica ed ambientale: personale e familiare), e
tuttavia in tal modo irreversibilmente condizionandolo al suo stesso
impegno, e' nel contempo il migliore strumento di incremento della
produzione, per l'azienda e per piu' ampi contesti: finalita' cui e'
sensibile l'ordinamento (vedi anche la citata direttiva comunitaria
28 giugno 1999, n. 70), e che contribuisce a giustificare molteplici
interventi legislativi (e' da aggiungere che nella coscienza
collettiva e nella norma che l'ha recepita e' inscritto - con non
minore spessore - anche il dovere di lavorare). La tutela di questa
tendenziale stabilita', investendo uno dei fondamenti dello Stato e
la dignita' della persona, coinvolgendo un ampio quadro normativo, ed
essendo in tal modo parte essenziale dell'assetto del l'ordinamento,
rientra nello spazio dell'ordine pubblico.» (cfr. Cass., Sez. Lav.,
15822/2002).
Ora, dal combinato disposto della legge n. 604/1966 e dell'art.
18, legge n. 300/1970 emerge il principio della necessaria
giustificazione del licenziamento che vieta il recesso dal rapporto
da parte del datore di lavoro a proprio arbitrio; si tratta di una
tutela fondamentale per il lavoratore laddove consente la risoluzione
del rapporto di lavoro solo a fronte di una causa giustificatrice del
recesso, risultando invece illegittimo l'atto espulsivo non sorretto
da una giusta causa o da un giustificato motivo.
A ben vedere, dunque, la normativa mira a garantire al lavoratore
il diritto a non essere estromesso dal rapporto di lavoro
arbitrariamente, in uno con la possibilita' di conoscere gli addebiti
contestati e di difendersi, cio' che puo' esservi solo laddove
sussista una causa giustificatrice del recesso.
La Consulta ha chiarito che «L'esercizio arbitrario del potere di
licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare
inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di
ogni riscontro, lede l'interesse del lavoratore alla continuita' del
vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede
direttamente implicata la persona del lavoratore. L'insussistenza del
fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole
fattispecie di licenziamento, denota il contrasto piu' stridente con
il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di
lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli articoli 4 e
35 della Costituzione (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del
Considerato in diritto)» (cfr. Corte costituzionale n. 59/2021, punto
9, del considerato in diritto).
In questo senso, dunque, il principio consacrato dall'art. 18,
legge n. 300/1970 e art. 2, legge n. 604/1966, quando prevede
l'obbligo di una causa giustificatrice del recesso, investe uno dei
fondamenti della dignita' del lavoratore e, in quanto tale, e' parte
essenziale dell'assetto dell'ordinamento, rientrando a pieno titolo
nell'ambito dell'ordine pubblico (Supra), di talche' la tutela
apprestata per i lavoratori dipendenti di datore di lavoro c.d.
sottosoglia deve, in ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta
causa (come nel caso di specie) comunque, garantire l'estrinsecarsi
dei principi di effettivita' e di ragionevolezza, cio' che non pare
garantito dal previsto dimezzamento in uno con la previsione del
limite massimo delle sei mensilita', non potendosi dimenticare il
principio per cui il licenziamento deve comunque sempre costituire
l'extrema ratio.
La Consulta, in punto, ha affermato in maniera assolutamente
convincente in relazione al dimezzamento e alla limitatissima forbice
previsi dalla disposizione censurata «si deve rilevare che
un'indennita' costretta entro l'esiguo divario tra un minimo di tre e
un massimo di sei mensilita' vanifica l'esigenza di adeguarne
l'importo alla specificita' di ogni singola vicenda, nella
prospettiva di un congruo ristoro e di un'efficace deterrenza, che
consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di
questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema
ratio. (...) un sistema siffatto non attua quell'equilibrato
componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la
funzione primaria di un'efficace tutela indennitaria contro i
licenziamenti illegittimi. 6.- Si deve riconoscere, pertanto,
l'effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente» (cfr.
punto 5.1, 5.3 e 6 considerato in diritto, sentenza n. 183/2022).
2.2) Sul criterio (unico ed anacronistico) del numero degli occupati
La previsione di cui all'art. 9, decreto legislativo n. 23/2015
e, dunque, per quanto qui interessa il dimezzamento e il limite
massimo delle sei mensilita', disegna una disciplina di tutela
connotata in termini estremamente diversi da quelli previsti per i
lavoratori dipendenti di grandi imprese in ragione del criterio unico
delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro, cioe' di un
elemento esterno al rapporto di lavoro. La distinzione trova(va) la
propria ratio nella diversa forza economica del datore, in uno con la
tendenziale maggiore difficolta' per una realta' lavorativa
circoscritta di reinserire il lavoratore, diversamente da quanto
avviene in una grande realta', ove la connotazione personale del
singolo lavoratore assume necessariamente caratteri piu' sfumati.
Non puo', tuttavia, mancare di osservarsi che il mutato contesto
socioeconomico ben consente a realta' estremamente solide e forti di
sostenere la propria impresa anche con un numero di dipendenti
inferiore a quindici, di talche' il criterio quantitativo degli
occupati non costituisce piu' necessariamente un criterio capace da
solo di rispecchiare la vera forza economica del datore di lavoro.
In effetti, dall'esame degli ultimi dati resi disponibili
dall'Istat emerge che «Nel 2020 le imprese dell'industria e dei
servizi di mercato si confermano in prevalenza di piccolissima
dimensione (0-9 addetti). Le microimprese sono, infatti, oltre
quattro milioni e rappresentano il 95,2 per cento delle imprese
attive, il 43,8 per cento degli addetti e solo il 26,8 per cento del
valore aggiunto complessivo. Questo segmento dimensionale risulta
strutturalmente caratterizzato dalla presenza di lavoro indipendente
(60,2 per cento sul totale addetti). Le grandi imprese
(duecentocinquanta addetti e oltre) sono lo 0,1 per cento del totale,
assorbono il 23,5 per cento dell'occupazione e creano il 35,6 per
cento di valore aggiunto.», di talche' le c.d. micro-imprese per tali
intendendosi quelle con meno di nove addetti rappresentano
indubbiamente il principale protagonista del contesto attuale (v.
Istat. Annuario statistico italiano 2023, 534).
L'impatto della tecnologia sulla struttura dell'impresa e' stato
pure condivisibilmente rilevato in seno all'ordinanza resa dal
Tribunale di Roma del 24 febbraio 2021 laddove il rimettente ha
evidenziato (cfr. V.6) che «(...) il numero dei dipendenti e' un
criterio trascurabile nell'ambito di quella che e' l'attuale economia
che, com'e' notorio, ha permesso a un colosso come Instagram di
sostenere nel 2015 un'impresa gigantesca con tredici dipendenti
mentre, nello stesso periodo, la Kodak, che aveva un'attivita' di
impresa analoga, ma analogica e non digitale, aveva centoquaranta
mila dipendenti».
Avuto riguardo alla censura relativa al criterio del numero degli
occupati, gia' oggetto, appunto, dell'ordinanza del Tribunale di Roma
ed essenzialmente condivisa dalla Consulta con la sentenza n.
183/2022 (v. punti 4 e 5.2 del considerato in diritto), giova anche
evidenziare che la Commissione UE con la raccomandazione del 6 maggio
2003, nell'individuare le caratteristiche della c.d. piccola impresa,
ha affermato al considerando n. 4 che «Il criterio del numero degli
occupati (in prosieguo "il criterio degli effettivi") rimane senza
dubbio tra i piu' significativi e deve imporsi come criterio
principale; tuttavia l'introduzione di un criterio finanziario
costituisce il complemento necessario per apprezzare la vera
importanza di un'impresa, i suoi risultati e la sua situazione
rispetto ai concorrenti. Non sarebbe pero' auspicabile prendere in
considerazione come criterio finanziario solo il fatturato, dato che
il fatturato delle imprese nel settore del commercio e della
distribuzione e' normalmente piu' elevato di quello del settore
manifatturiero. Il criterio del fatturato deve quindi essere
considerato unitamente a quello del totale di bilancio, che riflette
l'insieme degli averi di un'impresa, ed uno dei due criteri puo'
essere superato.».
La raccomandazione, intervenuta ormai oltre venti anni fa, al
fine di definire i concetti di micro, piccole e medie imprese,
dunque, pur evidenziando il carattere principale del criterio dato
dal numero degli occupati gia' allora sottolineava la necessita' di
fare ricorso anche al parametro finanziario, con particolare rilevo
al fatturato e al totale del bilancio.
A livello di diritto interno, poi, nel contesto del diritto
fallimentare, oggetto di plurimi interventi normativi, gia' con la
riforma del 2006 l'art. 1, comma 2, legge Fall. definiva l'impresa
minore utilizzando unicamente parametri economici, senza alcun
riferimento all'elemento costituito dal numero dei dipendenti, scelta
confermata da ultimo con il decreto legislativo n. 14/2019.
In effetti, alla luce dell'art. 2, lettera d), decreto
legislativo n. 14/2019 e' ««impresa minore»: l'impresa che presenta
congiuntamente i seguenti requisiti: 1) un attivo patrimoniale di
ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila nei
tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di
apertura della liquidazione giudiziale o dall'inizio dell'attivita'
se di durata inferiore; 2) ricavi, in qualunque modo essi risultino,
per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila
nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di
apertura della liquidazione giudiziale o dall'inizio dell'attivita'
se di durata inferiore; 3) un ammontare di debiti anche non scaduti
non superiore ad euro cinquecentomila; i predetti valori possono
essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della
giustizia adottato a norma dell'art. 348;».
Tutto cio' suffraga quanto gia' affermato dalla Consulta
allorquando ha chiarito «che il limitato scarto tra il minimo e il
massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante,
se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a ben vedere, non
rispecchia di per se' l'effettiva forza economica del datore di
lavoro, ne' la gravita' del licenziamento arbitrario e neppure
fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si
approssimi alle particolarita' delle vicende concrete.» (cfr. punto
5.2 del considerato in diritto della sentenza n. 183/2022).
Il dato che il solo criterio del numero degli occupati sia ormai
un parametro anacronistico ed inidoneo a rappresentare di per se' la
forza economica del datore di lavoro emerge in tutta la sua portata
avuto riguardo al caso di specie.
In effetti, come detto, la societa' resistente datrice di lavoro
e' una societa' di capitali attiva sin dal 1991, dunque una realta'
assolutamente stabile nel tempo, con un capitale sociale pari a euro
590.000 e con un importante fatturato (per l'anno 2022 circa
3.931.947,00 di euro e per l'anno 2023 circa 4.730.253,00 di euro),
si occupa di manutenzione ordinaria e straordinaria di macchine ed
apparecchi per il trattamento della carta nei centri di elaborazione
dati e nell'industria, mentre ha avuto alle proprie dipendenze al
massimo quattordici lavoratori.
La situazione di fatto da cui origina la presente ordinanza di
rimessione, dunque, pare calarsi alla perfezione nelle parole della
Corte costituzionale laddove ha affermato «(...) in un quadro
dominato dall'incessante evoluzione della tecnologia e dalla
trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di
occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e
un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo
numero degli occupati non risponde, dunque, all'esigenza di non
gravare di costi sproporzionati realta' produttive e organizzative
che siano effettivamente inidonee a sostenerli. Il limite uniforme e
invalicabile di sei mensilita', che si applica a datori di lavoro
imprenditori e non, opera in riferimento ad attivita' tra loro
eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati,
sprovvisto di per se' di una significativa valenza.» (cfr. sentenza
n. 183/2022 Corte costituzionale, punto 5.2, del considerato in
diritto).
In definitiva, dunque, l'operare sinergico della speciale
limitazione di responsabilita' di cui all'art. 9 decreto legislativo
n. 23/2015, in uno con il criterio di identificazione della tipologia
di imprese che ne beneficia (art. 18, comma 8 e 9), appare rendere la
disciplina in questione costituzionalmente illegittima (in relazione
a tutti i parametri sopra esposti), laddove consente una enorme
limitazione di responsabilita' del debitore (qui il datore di lavoro
licenziante illegittimamente), pure nelle ipotesi in cui - come nel
caso di specie - le condizioni economiche e patrimoniali dell'impresa
consentirebbero un adeguamento risarcitorio personalizzato ed
adeguato al caso concreto e, a monte, di garantire una reale
deterrenza, sconsigliando il datore di lavoro dal porre in essere un
licenziamento anche notevolmente viziato dal punto di vista
sostanziale, come avvenuto nel caso in esame.
Conclusioni
Vengono in gioco, nel caso di specie e con riferimento alla
disposizione censurata, due interessi di rango costituzionale: la
liberta' di organizzazione dell'impresa e la tutela del lavoratore
ingiustamente licenziato rispetto ai quali l'art. 9 del decreto
legislativo n. 23/2015 nella sua attuale formulazione non pare
fornire un rimedio adeguato omettendo di realizzare un equilibrato
componimento dei beni in gioco (v. sentenza Corte costituzionale n.
194/2018 punto 12.3 del considerato in diritto «Con il prevedere una
tutela economica che puo' non costituire un adeguato ristoro del
danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, ne' un'adeguata
dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la
disposizione censurata comprime l'interesse del lavoratore in misura
eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di
ragionevolezza. Il legislatore finisce cosi' per tradire la finalita'
primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una
compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore
ingiustamente licenziato.»).
In altri e piu' precisi termini, l'interazione tra l'esiguita'
dell'intervallo tra l'importo minimo e quello massimo dell'indennita'
da un lato ed il solo criterio anacronistico del numero dei
dipendenti dall'altro configurano una normativa primaria
incostituzionale.
In effetti, rispetto a tali considerazioni, e con specifico
riferimento alla disposizione qui censurata, la Corte costituzionale,
con la sentenza n. 183/2022, al punto 6 del considerato in diritto ha
espresso con incisivita' il concetto per cui «Si deve riconoscere,
pertanto, l'effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal
rimettente e si deve affermare la necessita' che l'ordinamento si
doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai
datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei
dipendenti.».
In definitiva, dunque, l'art. 9 del decreto legislativo n.
23/2015, che esclude la tutela reale, allorquando circoscrive la
misura dell'indennizzo in forza del meccanismo del dimezzamento e
della limitatissima forbice con tetto massimo fissato a sei
mensilita', legando l'operativita' di tale meccanismo al solo
criterio del numero degli occupati, finisce per configurare una
misura non capace di rispettare il necessario equilibrio che deve
esistere tra la possibilita' di prevedere una tutela solo di tipo
risarcitorio-monetario e quella che l'indennizzo risulti adeguato
rispetto al pregiudizio del caso concreto, mantenendo un ruolo
deterrente.
Con la sentenza n. 183/2022, nel dichiarare l'inammissibilita'
delle questioni sollevate dal Tribunale di Roma, la Corte
costituzionale ha evidenziato il rischio di uno sconfinamento nella
sfera riservata alla discrezionalita' del legislatore in ragione
delle plurime possibilita' esistenti nella scelta delle soluzioni
normative elaborabili per fronteggiare il vulnus evidenziato
chiarendo che «A ognuna delle scelte ipotizzabili corrispondono,
infatti, differenti opzioni di politica legislativa. Si profilano,
dunque, ineludibili valutazioni discrezionali, che, proprio perche'
investono il rapporto tra mezzi e fine, non possono competere a
questa Corte. Rientra, infatti, nella prioritaria valutazione del
legislatore la scelta dei mezzi piu' congrui per conseguire un fine
costituzionalmente necessario, nel contesto di "una normativa di
importanza essenziale" (sentenza n. 150 del 2020), per la sua
connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore,
scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico
complessivamente inteso. Come gia' questa Corte ha segnalato
(sentenza n. 150 del 2020, punto 17 del Considerato in diritto), la
materia, frutto di interventi normativi stratificati, non puo' che
essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri
distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia
la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate
fattispecie.» (cfr. punto 7 del considerato in diritto, sentenza n.
183/2022, ma v. anche punto 4 del considerato in diritto).
Tuttavia, la medesima Consulta ha messo in rilievo che
l'apprezzamento discrezionale del Legislatore e' comunque «vincolato
al rispetto del principio di eguaglianza, che vieta di omologare
situazioni eterogenee e di trascurare la specificita' del caso
concreto» (v., ancora, sentenza n. 183/2022, punto 4.2 del
considerato in diritto).
La Corte costituzionale ha poi concluso la propria sentenza
sottolineando, con forza, che «Nel dichiarare l'inammissibilita'
delle odierne questioni, questa Corte non puo' conclusivamente
esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell'inerzia
legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente
investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficolta' qui
descritte (sentenza n. 180 del 2022, punto 7 del Considerato in
diritto).».
Diviene centrale, dunque, l'interrogativo su quale sia
l'orizzonte temporale che la Consulta ha inteso dare al Legislatore
per conformarsi.
Nel rispondere a tale questione a parere del giudicante non puo'
allora non darsi atto del dato che, pur alla luce della segnalazione
operata dalla Corte costituzionale, l'inerzia del Legislatore si e'
protratta, alla data attuale, per ben piu' di due anni, mentre, come
pure rilevato dalla parte ricorrente nel giudizio principale dinanzi
al Tribunale di Roma «la disciplina censurata si applica alla «quasi
totalita' delle imprese nazionali» e alla «gran parte dei
lavoratori».» (v. anche i dati Istat sopra richiamati), di talche'
l'urgenza di provvedere risulta francamente non ulteriormente
procrastinabile. In conclusione, l'art. 9, decreto legislativo n.
23/2015 pare viziato per incostituzionalita' allorquando prevede il
dimezzamento e un limite massimo privo di una reale forza dissuasiva
e, dunque, inadeguato a fronteggiare i possibili diversi scenari
concreti (e i conseguenti vizi) qualora un datore di lavoro
sottosoglia commini un licenziamento ingiustificato.
Alla luce di tutto quanto argomentato sinora, la questione
prospettata con la presente ordinanza appare non manifestamente
infondata di talche', in conclusione, si domanda alla Corte
costituzionale l'eliminazione della parte «e l'ammontare delle
indennita' e dell'importo previsti dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4,
comma 1, e dall'art. 6, comma 1, e' dimezzato e non puo' in ogni caso
superare il limite di sei mensilita'.» contenuta nell'art. 9, comma
1, decreto legislativo n. 23/2015, con la conseguente spettanza della
tutela indennitaria di cui agli articoli 3, comma 1, 4, comma 1, e 6,
comma 1, a seconda della fattispecie concreta anche nel caso di
datore di lavoro c.d. sottosoglia.
P. Q. M.
Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento
agli articoli 3, comma 1 e 2, della Costituzione, 4, comma 1, della
Costituzione, 35, comma 1, della Costituzione, 41, comma 2, della
Costituzione e 117, comma 1, della Costituzione in relazione all'art.
24 della Carta sociale europea, la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 1, legge n. 23/2015 nella parte in
cui prevede «e l'ammontare delle indennita' e dell'importo previsti
dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1, e dall'art. 6, comma 1,
e' dimezzato e non puo' in ogni caso superare il limite di sei
mensilita'.»;
Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e
sospende il giudizio in corso sino alla decisione della Consulta;
Manda alla cancelleria per la notifica della presente ordinanza
alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri,
nonche' per la sua comunicazione ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento.
Livorno, 29 novembre 2024
Il giudice: Maffei