Reg. ord. n. 240 del 2024 pubbl. su G.U. del 08/01/2025 n. 2

Ordinanza del Tribunale di Livorno  del 02/12/2024

Tra: A. O. C/ H. srl



Oggetto:

Lavoro – Licenziamento individuale – Disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti – Tutela del lavoratore nei casi di licenziamento ingiustificato intimato da un datore di lavoro che non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, della legge n. 300 del 1970 – Previsione che l’ammontare delle indennità e dell’importo, previsti dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite delle sei mensilità – Denunciata limitazione del risarcimento a carico del datore di lavoro sia sotto il profilo della misura (dimezzamento delle indennità previste dall’art. 3, comma 1, dall’art. 4, comma 1, e dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015), sia sotto il profilo dell’introduzione di un tetto massimo (sei mensilità) – Violazione del principio di eguaglianza – Ingiustificata diversità di trattamento tra i lavoratori dipendenti di imprese cosiddette sottosoglia e lavoratori di imprese con più di quindici occupati – Mancanza per i lavoratori dipendenti di imprese cosiddette sottosoglia di una tutela gradata a seconda della tipologia e della gravità del vizio – Lesione della libertà e dignità umana – Disparità di trattamento sussistente anche tra lavoratori dipendenti di una piccola impresa in ragione della tutela standardizzata e con margini esigui di personalizzazione del risarcimento, di adeguatezza e congruità dello stesso, nonché di garanzia di deterrenza – Lesione del principio della tutela del lavoro - Violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali con riguardo alle previsioni dell’art. 24 della Carta sociale europea – Denunciato carattere anacronistico del solo criterio del numero dei dipendenti, inidoneo a garantire, congiuntamente con l’esiguità della misura dell’indennizzo, l'equilibrato componimento tra i contrapposti interessi qualora il datore di lavoro sottosoglia commini un licenziamento ingiustificato.



Norme impugnate:

decreto legislativo  del 04/03/2015  Num. 23  Art.  Co.



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art.  Co.

Costituzione  Art.  Co.

Costituzione  Art.  Co.

Costituzione  Art. 35   Co.

Costituzione  Art. 41   Co.

Costituzione  Art. 117   Co.

Carta sociale europea  Art. 24   ratificata e resa esecutiva

legge  del 09/02/1999  Num. 30



Camera di Consiglio del 23 giugno 2025 rel. SCIARRONE ALIBRANDI


Testo dell'ordinanza

N. 240 ORDINANZA (Atto di promovimento) 02 dicembre 2024

Ordinanza del 2 dicembre 2024 del Tribunale di  Livorno  sul  ricorso
proposto da A. O. contro H. srl. 
 
Lavoro - Licenziamento individuale  -  Disciplina  del  contratto  di
  lavoro a tempo  indeterminato  a  tutele  crescenti  -  Tutela  del
  lavoratore nei casi di licenziamento ingiustificato intimato da  un
  datore di lavoro che non raggiunga i requisiti dimensionali di  cui
  all'art. 18, commi ottavo e nono, della legge n.  300  del  1970  -
  Previsione  che  l'ammontare  delle  indennita'   e   dell'importo,
  previsti dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1, e dall'art. 6,
  comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, e' dimezzato e non puo' in ogni
  caso superare il limite delle sei mensilita'. 
- Legge  (recte:  Decreto  legislativo)   4   marzo   2015,   n.   23
  (Disposizioni  in  materia  di  contratto   di   lavoro   a   tempo
  indeterminato a tutele crescenti,  in  attuazione  della  legge  10
  dicembre 2014, n. 183), art. 9, comma 1. 


(GU n. 2 del 08-01-2025)

 
                        TRIBUNALE DI LIVORNO 
                           Sezione Lavoro 
 
    Il giudice designato dott.ssa Maffei Sara, nella  causa  iscritta
al n. 123/2022 R.G. Aff. Cont. Lavoro tra O... A..., rappresentata  e
difesa dall'avv. Marco Guercio, e H... S.r.l., rappresentata e difesa
dall'avv. Vito Vannucci; 
    A scioglimento della riserva formulata all'udienza del 30 ottobre
2024, letti gli atti di causa e preso atto delle istanze delle parti; 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con ricorso depositato il  14  febbraio  2022  la  ricorrente  ha
esposto di essere stata dipendente della societa' H... S.r.l.  a  far
data  dall'...  in  forza  di  un  contratto  di   lavoro   a   tempo
indeterminato, part time (venti ore) per lo svolgimento  di  mansioni
di impiegata amministrativa con inquadramento al 4° livello del  CCNL
Commercio, per una retribuzione mensile pari ad  euro  774,38.  Parte
attrice ha altresi' dedotto  che,  dal...,  l'orario  di  lavoro  era
portato a trenta ore settimanali, emergendo dalla  documentazione  in
atti che la paga base si attestava, da  quel  momento,  nella  misura
pari ad euro 1.092,76. Chiariva la O... che, in data ..., riceveva  a
mano una raccomandata che le comunicava la decisione  della  societa'
datrice di lavoro di procedere al suo licenziamento per giusta  causa
«(...) per diverse motivazioni tra le quali: -  ripetuti  ritardi  ed
uscite anticipate senza  preventive  autorizzazioni  da  parte  della
societa'  scrivente;  -  importanti  comunicazioni,  per  accedere  o
mantenere finanziamenti, avvenute con notevoli ritardi che  avrebbero
potuto  causare  danni  economici  ed  organizzativi  alla   societa'
scrivente se non prontamente presi in carico da soggetti a  cio'  non
direttamente deputati; Tale decisione e' presa a seguito di fatti  di
particolare  gravita'  ripetuti  in  questi   anni   (avvalorati   da
altrettanti richiami ancorche' verbali), che ad oggi  non  consentono
il proseguimento del rapporto di  lavoro  neanche  temporaneamente.».
Parte  attrice,  dunque,  il  14  ottobre  2021,  impugnava  in   via
stragiudiziale  l'atto  espulsivo  evidenziando  il  corto   circuito
esistente in seno alla lettera di  licenziamento  laddove  la  stessa
faceva riferimento a «fatti di particolare gravita'»  ripetuti  negli
anni e al dato  che  gli  stessi  sarebbero  stati  oggetto  di  meri
richiami verbali, nonche' sottolineando  la  violazione  del  proprio
diritto di difesa  per  non  aver  mai,  prima  dell'intimazione  del
licenziamento, avuto contezza di detti richiami; sotto altro profilo,
poi, la lavoratrice evidenziava che la lettera di  licenziamento  non
era stata preceduta  da  una  lettera  di  contestazione,  in  aperta
violazione dell'art. 7, legge n. 300/1970. Parte ricorrente,  dunque,
deduceva che l'intimazione del licenziamento era  giunta  in  maniera
del tutto  inaspettata  atteso  che  la  stessa,  proprio  alla  luce
dell'ottimo profilo professionale - avendo svolto con cura e costanza
il proprio lavoro, interfacciandosi e rapportandosi con i colleghi  e
con i professionisti esterni con  cui  l'azienda  manteneva  rapporti
costanti - , era stata chiamata,  sin  dall'inizio  del  rapporto  di
lavoro, a svolgere non solo le mansioni per cui  era  stata  assunta,
bensi' quelle spettanti ad un profilo contabile/amministrativo di  3°
livello, aspetto inconciliabile, nella ricostruzione attorea,  con  i
molteplici   richiami   verbali   menzionati   nella    lettera    di
licenziamento. 
    La O... ha quindi convenuto in giudizio la H... S.r.l. al fine di
sentir accertare l'illegittimita' del  licenziamento  intimatole  per
insussistenza  del  fatto  materiale   contestato   con   conseguente
reintegrazione della stessa e risarcimento  del  danno,  nonche'  per
chiedere l'accertamento dello svolgimento da parte di essa ricorrente
di mansioni superiori, con condanna della societa' al pagamento delle
differenze  retributive   conseguenti;   in   via   subordinata,   la
lavoratrice chiedeva comunque che, attesa la violazione dell'art.  7,
legge  n.  300/1970,  il  giudice,  accertata  l'illegittimita'   del
licenziamento,   condannasse   la   resistente   al   pagamento    di
un'indennita'  non  inferiore  a  due  e  non  superiore   a   dodici
mensilita'. 
    In particolare, la ricorrente ha adito questo Tribunale affinche'
fossero accolte le seguenti conclusioni « -  in  via  principale,  in
conseguenza  di  quanto  sopra  dedotto  ed  argomentato,  dichiarare
illegittimo il licenziamento intimato  e,  per  l'effetto,  accertare
l'insussistenza  del  fatto  materiale  contestato,   dichiarare   la
nullita', ex art. 3, comma 2, del  decreto  legislativo  n.  23/2015,
della misura espulsiva afflitta alla sig.ra O... A... e condannare la
societa' H...  S.r.l.,  in  persona  del  legale  rappresentante  pro
tempore, alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, e
condannare  la  societa'   H...   al   pagamento   di   un'indennita'
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di  riferimento  per
il calcolo  del  trattamento  di  fine  rapporto,  corrispondente  al
periodo dal giorno del licenziamento  fino  a  quello  dell'effettiva
reintegrazione, in  ogni  caso  in  misura  non  superiore  a  dodici
mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto, nonche' al  versamento  dei  contributi
previdenziali e assistenziali dal giorno  del  licenziamento  fino  a
quello  dell'effettiva  reintegrazione;  -   ulteriormente   in   via
principale,  in  conseguenza  di  quanto  dedotto   ed   argomentato,
accertare e dichiarare che la sig.ra O... A... durante il periodo  di
lavoro presso la H..., ovvero da ...  sino  a  ...,  assunta  con  la
qualifica di impiegata amministrativa con  inquadramento  4°  livello
del CCNL del commercio, ha invero  svolto  mansioni  superiori  quale
impiegata  amministrativa/contabile  di  3°  livello  del  CCNL   del
commercio, e per l'effetto condannare la H..., in persona del  legale
rappresentante pro tempore, al pagamento in favore della sig.ra  O...
A... delle differenze retributive tra  quanto  corrisposto  e  quanto
dovuto ammontanti ad  euro  13.304,07  come  da  elaborati  contabili
prodotti o a  quella  maggiore  o  minore  somme  che  risultera'  di
giustizia all'esito della espletando istruttoria, oltre  interessi  e
rivalutazioni dalle singole scadenze sino al soddisfo, ovvero  quella
maggiore o minore ritenuta di giustizia; - in via subordinata,  nella
denegata e non creduta ipotesi in cui il  Tribunale  ritenga  di  non
accogliere   la   domanda   principale,   accertare   e    dichiarare
l'illegittimita' del licenziamento in quanto intimato  in  violazione
dell'art. 7,  legge  n.  300/70  e  per  l'effetto,  in  applicazione
dell'art. 4 del decreto legislativo n. 23/2015, dichiarare estinto il
rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannare  la  H...
S.r.l. al pagamento di un'indennita' non assoggettata a contribuzione
previdenziale  di  importo  pari   a   una   mensilita'   dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non  inferiore
a due e non superiore a dodici mensilita';». 
    La societa' H... S.r.l., costituitasi tardivamente  in  giudizio,
ha  resistito  alle  domande  attoree  chiedendone   il   rigetto   e
sottolineando in particolare,  per  quanto  qui  interessa,  che  gli
articoli  3,  comma  2,  e  4  del  decreto  legislativo  n.  23/2015
costituiscono disposizioni applicabili unicamente nei  confronti  dei
datori di lavoro che raggiungano «i  requisiti  dimensionali  di  cui
all'art. 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970» e  non
possono, dunque, trovare spazio nel caso di specie emergendo, proprio
dal certificato camerale prodotto dalla  stessa  O...,  che  la  H...
S.r.l. ha  avuto  alle  proprie  dipendenze  al  massimo  quattordici
lavoratori. 
    Tanto premesso, alla luce delle prospettazioni delle parti, nella
fattispecie  oggetto  di  causa  e'  dunque  incontestato:   che   la
ricorrente e' stata assunta dalla societa' convenuta con contratto  a
tempo indeterminato, subordinato, a far data dall'... (cioe' meno  di
un mese dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo n.  23/2015)
ed e' stata licenziata per  giusta  causa  in  ragione  di  «ripetuti
ritardi  ed  uscite  anticipate  senza  preventive   autorizzazioni»,
«importanti comunicazioni, per accedere  o  mantenere  finanziamenti,
avvenute con notevoli ritardi  che  avrebbero  potuto  causare  danni
economici ed organizzativi alla societa'»  e  «fatti  di  particolare
gravita' ripetuti in questi anni» il  ...,  senza  mai  essere  stata
oggetto, nei sei anni di lavoro, di alcun provvedimento  disciplinare
scritto, e senza aver ricevuto  la  lettera  di  contestazione  prima
dell'irrogazione della sanzione espulsiva. 
    E' parimenti incontestato che la  retribuzione  mensile  pattuita
fosse pari ad euro 774,38 sino a giugno 2017, per poi  assestarsi  su
una paga base pari ad euro 1.092,46. 
    Ancora, la costituzione tardiva non esclude il fatto che non  sia
contestato il requisito dimensionale del sottosoglia, costituendo  un
fatto pacifico ed emergente dai documenti in atti versati, alla  luce
dell'elemento di prova costituito dal certificato camerale depositato
dalla stessa ricorrente, nonche' per la (sostanziale) adesione  della
difesa della lavoratrice nelle note da ultimo depositate (cfr. Cass.,
Sez. Lav.,  22371/2021;  v.  anche  Cass.,  Sez.  Lav.,  11940/2019),
appunto, l'assenza del requisito occupazionale/dimensionale. 
    Dalle allegazioni e dai documenti emerge altresi':  che  la  H...
S.r.l. e' una societa' di capitali attiva sin dal 1991 che si  occupa
di manutenzione ordinaria e straordinaria di macchine  ed  apparecchi
per il trattamento della carta nei  centri  di  elaborazione  dati  e
nell'industria; che il capitale sociale della resistente  e'  pari  a
590.000  euro;  che,  come  dedotto   dalla   ricorrente   con   note
(circostanza non contestata, con le conseguenze di cui  all'art.  115
del codice di procedura civile), la convenuta ha fatturato per l'anno
2022 circa 3.931.947,00 di euro e per l'anno 2023  circa  4.730.253,0
di euro. 
    Il Tribunale, istruita la causa mediante escussione  testimoniale
avuto  riguardo  alla   domanda   relativa   all'accertamento   dello
svolgimento  di  mansioni  superiori  da  parte  della   lavoratrice,
rinviava pertanto all'udienza di discussione del 3 settembre  2024  e
sollevava il contraddittorio delle parti in relazione  alla  sentenza
n. 183/2022 della Corte costituzionale e  alle  sue  applicazioni  al
caso di specie. 
    A detta udienza i procuratori  chiedevano  termine  per  note  in
punto e, concesso detto termine, il Tribunale, in esito alla  udienza
del 30 ottobre 2024 si riservava  la  decisione  sulla  questione  di
legittimita' costituzionale. 
    La questione di legittimita' costituzionale e'  rilevante  e  non
manifestamente infondata. 
 
                         Ritenuto in diritto 
 
1) Sulla rilevanza della questione 
    In ordine alla rilevanza, si osserva che il presente giudizio non
puo'  essere  definito  indipendentemente  dalla  risoluzione   della
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.   9,   decreto
legislativo n. 23/2015 nella parte in cui prevede che per i datori di
lavoro che non raggiungano «i requisiti dimensionali di cui  all'art.
18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del  1970»  oltre  a  non
applicarsi l'art. 3, comma  2,  e'  previsto  che  l'ammontare  delle
indennita' dettate dall'art. 3, comma 1,  dall'art.  4,  comma  1,  e
dall'art. 6, comma 1, deve  essere  dimezzato  e  non  puo'  comunque
superare il limite massimo di sei mensilita'. 
    Con il ricorso introduttivo del presente giudizio  la  ricorrente
ha infatti, come  detto,  domandato  in  via  principale  dichiararsi
«l'insussistenza del  fatto  materiale  contestato»  ovvero,  in  via
subordinata, la violazione  dell'art.  7,  legge  n.  300/1970  avuto
riguardo al licenziamento intimatole il ... . 
    Ora, e'  pacifica,  poiche'  emergente  dagli  atti  di  causa  e
confermata da entrambe le parti, l'esistenza del rapporto  di  lavoro
tra la O... e la H...  S.r.l.;  ancora,  non  sono  in  contestazione
l'orario di lavoro e la retribuzione pattuita, ovvero il fatto che la
risoluzione del rapporto di lavoro e' avvenuta  ad  iniziativa  della
odierna societa' convenuta per giusta causa. 
    Puo' dunque affermarsi che tra la ricorrente e la  resistente  e'
intercorso  un  rapporto  di  lavoro  di  tipo  subordinato  a  tempo
indeterminato dall'... al ... . 
    Parte attrice con le proprie conclusioni (Supra) ha chiesto,  tra
l'altro, dichiararsi la nullita' dell'atto espulsivo. 
    Tuttavia, il licenziamento per  cui  e'  causa,  pur  attinto  da
illegittimita' sotto diversi profili, anche  gravi  (Infra),  non  e'
nullo. 
    In punto deve richiamarsi  il  principio  sancito  dalla  Suprema
Corte, sebbene con riferimento ai  lavoratori  assunti  prima  del  7
marzo  2015,  per  cui,  anche  a  fronte  del  radicale  difetto  di
contestazione,   con   conseguente   inesistenza   della    procedura
disciplinare, la tutela applicabile e'  rappresentata  dall'art.  18,
comma 4, legge n. 300/1970 (cfr. Cass., Sez. Lav., 28927/2024). 
    Orbene, trasponendo le ragioni espresse dalla Corte di Cassazione
con la pronuncia appena richiamata e applicandole al  regime  dettato
dal decreto legislativo n. 23/2015 tale vizio ricadrebbe, quindi,  in
parallelo, nell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n.  23/2015,  ma
non porterebbe a configurare un'ipotesi di nullita'. 
    Il licenziamento  intimato  alla  ricorrente  per  giusta  causa,
tuttavia, e' come detto viziato sotto plurimi  aspetti,  anche  molto
gravi: per il mancato assolvimento da parte della H...  S.r.l.  (che,
peraltro, si e' costituita tardivamente) dell'onere  di  provarne  il
fondamento, per  insussistenza  del  fatto,  poiche'  la  lettera  di
licenziamento non e' stata preceduta da una lettera di contestazione. 
    La ricorrente, con le proprie conclusioni (Supra), ha chiesto  in
tesi applicarsi la tutela  dettata  dall'art.  3,  comma  2,  decreto
legislativo  n.  23/2015   norma   che,   come   noto,   prevede   la
reintegrazione cui si aggiunge un'indennita' risarcitoria. 
    La tutela disciplinata da detta  ultima  disposizione,  tuttavia,
risulta erroneamente invocata in  ricorso,  attesa  la  prova,  nella
fattispecie in esame, dell'esistenza del requisito  dimensionale  del
sottosoglia (Infra). 
    Tanto premesso, ed attesa l'impossibilita' di applicare l'art. 3,
comma 2, decreto legislativo  n.  23/2015,  il  Tribunale  e'  allora
tenuto ad applicare la tutela che la legge prevede a fronte del vizio
in concreto riscontrato, come chiarito a piu' riprese dalla Corte  di
Cassazione (cfr., ad es., seppur con riferimento a normativa diversa,
il principio espresso dalla Cass., Sez. Lav. 8053/2022 allorquando ha
chiarito «Ai sensi dell'art. 18 della legge  n.  300  del  1970,  nel
testo anteriore alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del  2012,
il  giudice  che  accerta  l'inefficacia   o   l'illegittimita'   del
licenziamento deve ordinare  la  reintegrazione  del  lavoratore  nel
posto di lavoro, anche in mancanza di una esplicita  domanda  in  tal
senso del lavoratore licenziato, atteso che la reintegrazione - salvo
il caso di espressa rinuncia ad essa  -  e'  compresa,  come  effetto
tipico della  tutela  reale  prevista  dalla  norma  suddetta,  nella
domanda avente  ad  oggetto  la  declaratoria  di  illegittimita'  od
inefficacia del recesso del datore di lavoro.»; v. anche Cass.,  Sez.
Lav., 12944/2012 laddove ha chiarito «Anche nel processo del  lavoro,
l'interpretazione della domanda rientra nella valutazione del giudice
di merito e non e' censurabile in sede di legittimita'  ove  motivata
in  modo  sufficiente  e  non  contraddittorio.  (Nella  specie,   il
lavoratore aveva impugnato il licenziamento chiedendo la condanna  al
risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, senza  precisare
se era richiesta anche la reintegrazione o  l'indennita'  sostitutiva
della reintegra; la S.C., in applicazione del principio  su  esposto,
ha confermato la sentenza della Corte  d'appello  che,  valutando  la
reale portata  della  domanda,  aveva  valorizzato  l'effetto  tipico
dell'impugnazione del licenziamento in regime di tutela reale che  e'
la reintegrazione nel posto di lavoro).»). 
    Nel confrontarsi ex officio  con  l'operazione  di  inquadramento
normativo ai fini della  liquidazione  non  puo'  allora  mancare  di
osservarsi che, nel caso di specie, si  e'  dinanzi  a  plurimi  vizi
connotati in termini gravi:  sia  quello  procedimentale  dell'omessa
contestazione con violazione dell'art. 7, legge n.  300/1970  (atteso
che come rilevato, Supra, nel regime precedente di cui  all'art.  18,
legge n. 300/1970 tale  vizio  comporta  la  tutela  reale),  sia  il
mancato assolvimento da parte della societa' resistente dell'onere di
provare il fondamento dell'atto espulsivo, l'insussistenza del fatto,
dovendosi anche tenere conto delle condizioni soggettive della  parte
(a norma della legge n. 604/1966). 
    Tale complesso quadro impone al Tribunale, stante  la  necessita'
di intervenire con una sanzione dissuasiva, deterrente  ed  adeguata,
di muoversi verso un importo elevato (comunque  senz'altro  superiore
al limitatissimo tetto massimo rappresentato dalle  sei  mensilita'),
cio' che da' rilevanza alla odierna questione. 
    Peraltro, non puo'  mancare  di  osservarsi  che  in  ricorso  la
ricorrente ha, come detto, (erroneamente) invocato la  tutela  reale,
aspetto che ulteriormente depone per il fatto che la parte ha  inteso
chiedere una sanzione alta, importante, non di certo riconducibile al
punto massimo rappresentato dalle sei mensilita'. 
    Orbene, alla luce  della  gravita'  dei  vizi  che  attingono  il
licenziamento intimato alla O... e tenuto conto della  necessita'  di
individuare la tutela applicabile al fine di operare la liquidazione,
nell'impossibilita' di  dare  applicazione  alla  norma  invocata  in
ricorso, il Tribunale, in ossequio ai  criteri  di  legge,  si  trova
dinanzi  ad  una  misura   di   limitazione   della   responsabilita'
risarcitoria insufficiente a garantire da  un  lato  un  risarcimento
adeguato e dall'atro la portata dissuasiva dello stesso  atteso  che,
per la sola  ragione  costituita  dal  numero  degli  occupati  della
convenuta  (quattordici),  il  limite  massimo  della   sola   tutela
indennitaria applicabile  e'  rappresentato  da  sei  mensilita',  di
talche' si rende necessaria l'applicazione di  ufficio  dell'art.  3,
comma 1, decreto legislativo n. 23/2015. 
    In   effetti,   anche   solo   a   voler   prendere,   a   titolo
esemplificativo, il  vizio  legato  al  fatto  che,  con  la  propria
costituzione tardiva, la societa' odierna resistente non  ha  assolto
all'onere  di  provare  il  fondamento  dell'atto  espulsivo,  emerge
evidente l'opportunita'  di  calare  la  fattispecie  concreta  nella
disposizione  da  ultimo  invocata,  risultando  «accertato  che  non
ricorrono gli estremi  del  licenziamento  (...)  per  giusta  causa»
irrogato alla O.... 
    Detta norma prevede «1. Salvo quanto disposto dal  comma  2,  nei
casi in cui risulta accertato  che  non  ricorrono  gli  estremi  del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo  o  per  giustificato
motivo soggettivo o giusta causa,  il  giudice  dichiara  estinto  il
rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna  il  datore
di  lavoro  al  pagamento  di  un'indennita'   non   assoggettata   a
contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a sei e
non superiore a trentasei mensilita'». 
    Avuto riguardo al  profilo  del  vizio  procedurale  per  mancata
contestazione a norma dell'invocato art. 4,  decreto  legislativo  n.
23/2015 e' poi previsto «1. Nell'ipotesi in cui il licenziamento  sia
intimato con violazione del requisito di motivazione di cui  all'art.
2, comma 2, della legge n. 604 del 1966  o  della  procedura  di  cui
all'art. 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice  dichiara  estinto
il rapporto di lavoro alla  data  del  licenziamento  e  condanna  il
datore di lavoro al pagamento di  un'indennita'  non  assoggettata  a
contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a due e
non superiore a dodici mensilita', a meno che il giudice, sulla  base
della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei  presupposti
per l'applicazione delle tutele di  cui  agli  articoli  2  e  3  del
presente decreto. ». 
    Come anticipato, poi, nel caso di specie, la costituzione tardiva
non esclude il fatto che non sia contestato il requisito dimensionale
del sottosoglia. 
    Giova   infatti   ricordare   che   l'eccezione   datoriale    di
inapplicabilita' della tutela reale ha natura di eccezione  in  senso
lato (v. Cass., Sez. Lav., 22371/2021; v.  anche  Cass.,  Sez.  Lav.,
11940/2019),  di  talche'  l'assenza  del   requisito   occupazionale
costituisce, nel caso di specie, un fatto  pacifico,  sia  alla  luce
dell'elemento di prova costituito dal certificato camerale depositato
dalla stessa ricorrente (cfr. deposito della ricorrente del 22 aprile
2022), sia per la sostanziale adesione della difesa della lavoratrice
nelle note da ultimo depositate (v.,  in  particolare,  pag.  5  note
conclusionali depositate da parte attrice il 25 ottobre 2024). 
    Il   requisito   dimensionale   del   sottosoglia    (quattordici
dipendenti) comporta, quindi, la necessita' di  applicare  l'art.  9,
comma 1, decreto legislativo n. 23/2015. 
    Orbene, alla luce di tale quadro, il  licenziamento  per  cui  e'
causa dovra' essere dichiarato illegittimo e  sanzionato  secondo  il
combinato disposto di cui agli articoli  3  e  9,  comma  1,  decreto
legislativo  n.  23/2015,  cio'  che  conferma  la  rilevanza   della
questione di legittimita' costituzionale. 
    In  effetti,  in   assenza   di   una   pronuncia   della   Corte
costituzionale che dichiari l'illegittimita' dell'art.  9,  comma  1,
decreto legislativo n. 23/2015 allorquando prevede che per il  datore
di lavoro che non raggiunga i requisiti dimensionali di cui  all'art.
18, comma 8 e 9, legge n. 300/1970 l'ammontare  delle  indennita'  di
cui all'art. 3, comma 1, 4, comma 1, (nonche'  6,  comma  1)  decreto
legislativo n. 23/2015  sia  dimezzato  e  non  possa  in  ogni  caso
superare  il  limite  delle  sei  mensilita',  nella  operazione   di
liquidazione/quantificazione che il giudice e' chiamato  d'ufficio  a
svolgere, anche  laddove  sia  invocata  in  ricorso  una  norma  non
applicabile, risulterebbe in concreto impossibile addivenire  ad  una
decisione  e  pronunciare  sentenza  se  non  a  patto  di  liquidare
un'indennita', in concreto, in contrasto con la Costituzione, poiche'
del  tutto  sprovvista  del  necessario  carattere   compensativo   e
dissuasivo. 
    Ad avviso del  Tribunale  non  e'  possibile  dar  luogo  ad  una
interpretazione costituzionalmente orientata della  norma  censurata,
pure  sollecitata   dalla   parte   ricorrente,   per   una   ragione
insuperabile. 
    Non puo' infatti mancare di osservarsi che  l'art.  9,  comma  1,
decreto legislativo n.  23/2015  e'  estremamente  chiaro  nella  sua
portata letterale (v. Supra) prevedendo, in  maniera  inequivocabile,
che l'indennita' parametrata a quella di cui all'art. 3, comma  1,  e
4, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015 (per quanto qui interessa)
sia dimezzata e, comunque, non superi in alcun caso il  limite  delle
sei mensilita'. 
    La chiara lettera della norma, in uno con il senso univoco  della
disposizione, dunque, non consente di  addivenire  ad  una  possibile
interpretazione adeguatrice che  non  pare,  a  ben  vedere,  neppure
ravvisabile in astratto  (cfr.  Corte  Costituzionale,  ordinanza  n.
97/2017). 
2) Sulla non manifesta infondatezza della questione 
    Rispetto alla  non  manifesta  infondatezza  della  questione  si
osserva quanto segue. 
    E' noto a questo Tribunale che la Corte costituzionale, investita
di analoga questione di legittimita' costituzionale con ordinanza del
Tribunale di Roma resa in data 24  febbraio  2021  (che  si  richiama
anche a norma dell'art. 118 disposizioni di attuazione del codice  di
procedura civile poiche' condivisa), ha  dichiarato  detta  questione
inammissibile il 22 luglio 2022. 
    Tuttavia, le peculiarita' proprie della fattispecie in esame,  lo
stesso  contenuto   della   pronuncia   n.   183/2022   della   Corte
costituzionale, nonche' il  disatteso  invito  al  Legislatore  medio
tempore protrattosi per ben piu' di due anni inducono questo  giudice
a ritenere che il presente giudizio possa,  eventualmente,  avere  un
diverso esito. 
    La norma  oggetto  dell'odierna  ordinanza  di  rimessione  della
questione  di  legittimita'  costituzionale  e'  l'art.  9,   decreto
legislativo n. 23/2015, disposizione per cui «1.  Ove  il  datore  di
lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali  di  cui  all'art.  18,
ottavo e nono comma, della legge n. 300  del  1970,  non  si  applica
l'art. 3, comma 2, e  l'ammontare  delle  indennita'  e  dell'importo
previsti dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1, e  dall'art.  6,
comma 1, e' dimezzato e non puo' in ogni caso superare il  limite  di
sei mensilita'.». 
    La norma si censura sotto un duplice profilo: sia laddove prevede
il dimezzamento delle  indennita'  previste  dall'art.  3,  comma  1,
dall'art. 4, comma 1 e dall'art. 6, comma 1, decreto  legislativo  n.
23/2015,  sia  allorquando  fissa  un  limite  massimo   e   comunque
insuperabile («sei mensilita'»), atteso che il vulnus  costituzionale
coinvolge entrambi  detti  aspetti,  tenuto  conto  che  la  prevista
limitazione di responsabilita' del risarcimento da parte  del  datore
di lavoro muove unicamente  dall'elemento,  esterno  al  rapporto  di
lavoro, del requisito dimensionale dato dal numero delle  assunzioni,
senza consentire una tutela davvero diversa e gradata anche a  fronte
di vizi dell'atto espulsivo pure gravissimi. 
    Ritiene il giudicante che la disposizione ordinaria rappresentata
dall'art. 9 del decreto legislativo n. 23/2015 si ponga in  contrasto
con piu' parametri costituzionali. 
    Si tratta  in  particolare:  dell'art.  3,  comma  1  e  2  della
Costituzione, dell'art. 4, comma 1, della Costituzione, dell'art. 35,
comma  1,  della  Costituzione,  dell'art.   41,   comma   2,   della
Costituzione  e  dell'art.  117,  comma  1,  della  Costituzione,  in
relazione all'art. 24 della Carta sociale europea. 
    Il dubbio di legittimita' costituzionale muove,  quindi,  in  due
direzioni  atteso  che  la  disposizione  censurata,  prevedendo   il
dimezzamento e un limite massimo  alla  responsabilita'  risarcitoria
del datore di lavoro c.d. sottosoglia, finisce  per  individuare  una
forbice estremamente ridotta  (da  tre  a  sei  mensilita')  che  non
consente al  giudice  di  operare  una  liquidazione  rispettosa  del
principio di uguaglianza,  di  ragionevolezza  e  di  adeguatezza  e,
dall'altro, fa dipendere questa limitazione in punto di quantum da un
elemento estraneo al  rapporto  di  lavoro,  il  limite  dimensionale
costituito dal numero degli occupati, che nell'attuale contesto socio
economico risulta anacronistico e non capace di rispecchiare  di  per
se' la concreta forza economica del datore di lavoro. 
2.1) Sulla esiguita' dell'intervallo tra l'importo  minimo  e  quello
massimo dell'indennita' 
    La  censura  dalla  quale  occorre  prendere  le  mosse  attiene,
anzitutto, al fatto che il dimezzamento previsto dall'art. 9, decreto
legislativo n. 23/2015, in uno con la previsione di un tetto  massimo
francamente limitato («sei mensilita'»)  contrastano  con  l'art.  3,
comma 1 e 2, della Costituzione, posto che tale disciplina finisce da
un  lato  per  trattare  in  modo  ingiustificatamente  e  fortemente
differenziato, sotto il profilo delle tutele, situazioni identiche  o
almeno omogenee quanto al vizio del licenziamento e, dall'altro,  per
converso, per trattare nello stesso  modo  vizi  dell'atto  espulsivo
estremamente diversi tra loro. 
    In effetti, l'art. 3 della Costituzione, enunciando il  principio
di uguaglianza formale e  sostanziale,  configura  la  necessita'  di
trattare nello stesso modo situazioni identiche e  di  diversificare,
invece, il trattamento dinanzi a ipotesi diverse, sempre  attenendosi
al criterio della ragionevolezza. 
    La disparita'  di  trattamento  e  la  violazione  del  parametro
costituzionale, dunque, si  configura,  avuto  riguardo  all'art.  9,
decreto legislativo n. 23/2015, sia a fronte del medesimo vizio grave
(si  pensi  all'ipotesi  della  insussistenza  del   fatto)   se   si
raffrontano le conseguenze normative in punto di  tutela  applicabile
per i lavoratori dipendenti  di  una  impresa  di  grandi  dimensioni
rispetto a quelle per i dipendenti di una c.d.  impresa  sottosoglia,
sia confrontando  due  ipotesi  di  vizi  dell'atto  espulsivo  molto
diversi quanto a gravita' (a titolo  esemplificativo  violazione  del
requisito di  motivazione  e  insussistenza  del  fatto)  dinanzi  ai
licenziamenti  intimati  a  due  lavoratori  entrambi  dipendenti  di
un'impresa con meno di quindici dipendenti. 
    Orbene, sotto il primo profilo, se  nell'ipotesi  del  datore  di
lavoro che raggiunga i requisiti dimensionali  di  cui  all'art.  18,
legge n. 300/1970 esiste, a seconda  della  gravita'  del  vizio  che
investe l'atto espulsivo, da un lato  la  possibilita'  della  tutela
reintegratoria che si affianca a quella indennitaria  e,  dall'altro,
quella della sola tutela monetaria che puo' essere quantificata  sino
alla importante misura di trentasei  mensilita',  laddove  invece  il
datore di lavoro abbia meno di quindici dipendenti a pari gravita' di
vizio del licenziamento e' esclusa in ogni caso la possibilita' della
tutela reale, mentre la tutela indennitaria e' comunque costretta  in
una forbice ridottissima, da tre a sei mensilita'. 
    Vi e', dunque,  una  notevole  ed  ingiustificata  diversita'  di
trattamento sostanziale tra i lavoratori dipendenti di  imprese  c.d.
sottosoglia e lavoratori al servizio di un'impresa  che  ha  piu'  di
quindici occupati atteso che, anche dinanzi ad un  vizio  gravissimo,
la cornice  edittale  prevista  per  i  primi  dall'art.  9,  decreto
legislativo n. 23/2015 non consente  al  giudice  di  distinguere  la
tutela in funzione del vizio, anche importante,  che  inficia  l'atto
espulsivo, diversamente da quanto avviene per la seconda categoria di
lavoratori. 
    In altri termini, se nelle  imprese  maggiori,  a  seconda  della
tipologia e della gravita' del vizio, e' prevista una tutela  diversa
e gradata  che  consente  al  giudice  un  intervento  adeguato  alla
fattispecie concreta, nel caso del lavoratore dipendente  della  c.d.
impresa sottosoglia i vizi piu' gravi sono trattati come i meno gravi
e viceversa,  cio'  che  viola,  oltre  all'art.  3,  comma  1  della
Costituzione,  anche  l'art.  41,  comma   2,   della   Costituzione,
difettando il necessario  equilibrato  bilanciamento  tra  valori  in
gioco, atteso che l'assenza di un indennizzo  adeguato  a  fronte  di
licenziamenti sostanzialmente illegittimi danneggia la liberta' e  la
dignita' umana anche nella piccola impresa e non solo  nelle  ipotesi
di datore di grandi dimensioni. 
    La violazione dell'art. 3, comma 2,  e  dell'art.  41,  comma  2,
della Costituzione, pero', si ha  anche  allorquando  si  raffrontano
ipotesi  di  licenziamento  irrogato  a  due   lavoratori,   entrambi
dipendenti  di  una  piccola  impresa,  in  caso  di  vizi  dell'atto
espulsivo fortemente diversi tra loro anche in punto di gravita'. 
    In siffatta ipotesi, a prescindere dalla tipologia di  vizio  che
attinge l'atto espulsivo,  la  tutela  del  giudice  sara'  comunque,
sempre, relegata ad una cornice edittale limitatissima (da un  minimo
di una sola mensilita' in caso di vizi formali  o  procedurali,  alla
forbice da tre a sei mensilita' in caso di  vizi  sostanziali)  senza
possibilita' di reale personalizzazione in relazione alle circostanze
del caso di specie e con la conseguenza che violazioni produttive  di
danni diseguali sono sanzionate in modo  tanto  simile  da  risultare
essenzialmente uguale. 
    Detto   diversamente,   la   norma   censurata,   prevedendo   il
dimezzamento e il tetto massimo  delle  sei  mensilita'  finisce  per
disegnare una tutela standardizzata  e  tanto  ridotta  da  risultare
incapace di confrontarsi con ipotesi connotate, quanto al  vizio  che
attiene all'atto espulsivo, anche in  termini  estremamente  diversi,
cio' che porta ad una violazione del principio di uguaglianza laddove
conduce, in concreto, a  trattare  in  modo  uguale  (o  estremamente
simile)  situazioni  concrete  profondamente  diverse.  Gli   effetti
patologici  della  normativa  risultante  dall'art.  9  del   decreto
legislativo n. 23/2015 emergono in maniera  dirompente  nel  caso  di
specie atteso che il licenziamento intimato  alla  lavoratrice  dalla
societa' odierna resistente appare viziato sotto molteplici  profili,
in maniera anche estremamente grave. 
    Anzitutto  rispetto  al  dato  che  il  datore   di   lavoro   e'
inizialmente rimasto contumace e, costituendosi tardivamente, non  ha
assolto l'onere di provare il fondamento dell'atto espulsivo ma si e'
difeso (unicamente) invocando il tetto massimo  di  cui  all'art.  9,
decreto legislativo n. 23/2015, sotto il profilo della  insussistenza
del fatto, e  dal  punto  di  vista  procedurale  non  essendo  stato
preceduto da una lettera di contestazione. 
    Dunque, la disparita' di trattamento si  realizza  non  solo  nei
confronti di  lavoratori  di  maggiori  dimensioni  per  i  quali  vi
sarebbero possibilita' di tutela gradata in funzione  della  gravita'
del vizio e di una tutela reale affiancata a quella indennitaria  con
quantificazione  importante,  ma  anche  nei   confronti   di   altri
lavoratori  dipendenti   di   imprese   c.d.   sottosoglia   il   cui
licenziamento risulti illegittimo, ad esempio, in ragione di un vizio
formale o procedurale. 
    Peraltro, una forbice tanto limitata per determinare l'indennita'
risarcitoria,  come  quella  applicabile  nel  caso  di  specie,  non
consente  di  soddisfare   i   criteri   di   personalizzazione   del
risarcimento, di adeguatezza e di congruita' dello stesso, nonche' di
garantire la necessaria portata deterrente che deve  accompagnare  la
tutela indennitaria. 
    Come pure affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n.
194/2018 intervenuta con riferimento all'art.  3,  comma  1,  decreto
legislativo n. 23/2015  (con  ricadute  anche  sull'art.  9,  decreto
legislativo  n.  23/2015)  per  la   determinazione   dell'indennita'
risarcitoria spettante al  lavoratore  ingiustamente  licenziato  non
puo'  e  non  deve   farsi   riferimento   unicamente   al   criterio
dell'anzianita'  di  servizio,  atteso  che  la   stessa   evoluzione
normativa antecedente al decreto legislativo  n.  23/2015  ha  sempre
valorizzato la molteplicita' dei fattori  che  incidono  sull'entita'
del  pregiudizio   causato   dall'ingiustificato   licenziamento   e,
conseguentemente, sulla misura del risarcimento, senza che lo  stesso
possa  connotarsi  in  termini  troppo  rigidi  (v.  punto   11   del
considerato in diritto, sentenza n. 194/2018). 
    Afferma infatti la Consulta  «Il  meccanismo  di  quantificazione
indicato connota l'indennita' come rigida, in quanto  non  graduabile
in relazione a parametri diversi dall'anzianita' di  servizio,  e  la
rende uniforme per tutti  i  lavoratori  con  la  stessa  anzianita'.
L'indennita' assume cosi' i  connotati  di  una  liquidazione  legale
forfetizzata e standardizzata,  proprio  perche'  ancorata  all'unico
parametro dell'anzianita' di servizio, a fronte del  danno  derivante
al lavoratore dall'illegittima estromissione dal posto  di  lavoro  a
tempo indeterminato. Il meccanismo di quantificazione dell'indennita'
opera entro limiti predefiniti sia verso il basso sia  verso  l'alto.
(...) Una tale predeterminazione forfetizzata  del  risarcimento  del
danno da licenziamento illegittimo non  risulta  incrementabile,  pur
volendone fornire la relativa prova.» (cfr. punto 10 del  considerato
in diritto, sentenza n. 194/2018). 
    Il principio dettato sembra potersi e doversi applicare anche con
riferimento alla disposizione censurata,  atteso  che  l'art.  9  del
decreto legislativo n. 23/2015, come detto, disegna  un  sistema  che
prevede unicamente  la  tutela  indennitaria  in  una  forbice  tanto
stretta da risultare uniforme e potenzialmente inadeguata. 
    Come affermato dalla  Corte  costituzionale  «All'interno  di  un
sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori  dell'impresa,
la discrezionalita' del giudice risponde,  infatti,  all'esigenza  di
personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa  imposta
dal principio di eguaglianza. 
    La previsione di una misura risarcitoria  uniforme,  indipendente
dalle peculiarita' e dalla diversita' delle vicende dei licenziamenti
intimati dal datore di lavoro, si traduce in un'indebita omologazione
di situazioni che possono essere - e sono, nell'esperienza concreta -
diverse.» (v., ancora, punto 11 del considerato in diritto,  sentenza
n. 194/2018). 
    Cio' si coglie chiaramente con riferimento al caso di specie ove,
in considerazione della retribuzione della  lavoratrice,  il  divario
tra il minimo e il massimo puo' variare da una  somma  pari  a  circa
3.000 euro ad una somma pari a circa 6.000 euro, di  talche'  risulta
estremamente ridotta anzitutto  funzione  compensativa  della  tutela
indennitaria, ma anche essenzialmente azzerata la portata  deterrente
della stessa. 
    In assoluta continuita' con i principi espressi dalla  richiamata
sentenza  n.  194/2018  si  e'   posta,   poi,   ancora,   la   Corte
costituzionale con la sentenza n. 150/2020 allorquando  la  Consulta,
chiamata a pronunciarsi sull'art. 4, decreto legislativo n.  23/2015,
ha  nuovamente   sottolineato   l'inidoneita'   del   solo   criterio
dell'anzianita' di servizio ad esprimere «le  mutevoli  ripercussioni
che ogni licenziamento produce della sfera personale  e  patrimoniale
del lavoratore», evidenziando l'importanza del ruolo del giudice  nel
far riferimento anche a criteri ulteriori che emergono  dal  sistema,
ed in  particolare  dall'art.  18,  comma  6,  legge  n.  300/1970  e
dall'art. 8 della  legge  n.  604/1966,  id  est  la  gravita'  delle
violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell'impresa,  il
comportamento e le condizioni delle parti. 
    Ha   affermato   la    Corte    costituzionale    «La    prudente
discrezionalita' del legislatore, pur potendo modulare la  tutela  in
chiave  eminentemente  monetaria,  attraverso  la   predeterminazione
dell'importo  spettante  al  lavoratore,  non  puo'   trascurare   la
valutazione della specificita' del caso concreto. Si  tratta  di  una
valutazione tutt'altro che marginale, se solo si considera  la  vasta
gamma di variabili che vedono direttamente implicata la  persona  del
lavoratore.   Nel   rispetto   del   dettato    costituzionale,    la
predeterminazione  dell'indennita'  deve  tendere,  con   ragionevole
approssimazione,  a  rispecchiare  tale  specificita'  e   non   puo'
discostarsene in misura apprezzabile, come avviene quando  si  adotta
un meccanismo rigido e uniforme.» (cfr. punto 9  del  considerato  in
diritto, sentenza n. 150/2020). 
    Sebbene la Corte costituzionale abbia, a piu' riprese e anche  di
recente, evidenziato da un lato che  la  reintegrazione  non  e'  una
sanzione costituzionalmente necessaria  purche'  ci  sia  una  tutela
alternativa e dissuasiva - costituendo la tutela reintegratoria  solo
una delle modalita' per realizzare dette finalita' -  e,  dall'altro,
che discipline differenziate nel tempo,  che  distinguono  le  tutele
applicabili ai lavoratori in base alla data di  assunzione  non  sono
costituzionalmente illegittime, - spettando alla discrezionalita' del
Legislatore delimitare la sfera di applicazione temporale delle norme
- la medesima Corte ha sempre evidenziato la necessita' di  garantire
il rispetto del  principio  di  ragionevolezza  (v.,  ad  es.,  Corte
costituzionale sentenza n. 194/2018, ma  anche  Corte  costituzionale
sentenza n. 22/2024). 
    La  Consulta,  inoltre,  ha  sottolineato  la  necessita'   della
funzione deterrente nella valutazione dell'adeguatezza  della  misura
dinanzi ad un licenziamento illegittimo; a titolo esemplificativo  in
tale direzione possono leggersi le sentenze nn. 194/2018 e 7/2024 ove
la  Corte  ha  rimarcato  che  il  Legislatore  puo'   legittimamente
discostarsi  dalla  reintegra,  purche',   tuttavia,   introduca   un
meccanismo sanzionatorio alternativo ed adeguato. 
    Ancora, recentemente, la  Corte  costituzionale  ha  ribadito  la
necessaria  dissuasivita'  dei  rimedi  nel  dichiarare  la  parziale
incostituzionalita' dell'art. 3, comma 2, del decreto legislativo  n.
23/2015 («Una volta che il legislatore ha individuato le  fattispecie
piu'  gravi   di   licenziamento   illegittimo   in   quello   nullo,
discriminatorio o fondato su un "fatto insussistente", si ha  che  la
possibilita' per il datore di lavoro di intimare un  licenziamento  -
che,  quand'anche   sia   radicalmente   senza   causa   in   ragione
dell'insussistenza del fatto materiale, comporti sempre e comunque la
risoluzione del rapporto, con una tutela  solo  indennitaria  per  il
lavoratore  che  lo  subisce  -  apre  una  falla  nella   disciplina
complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve
avere, nel suo complesso, un sufficiente grado di dissuasivita' delle
ipotesi piu' gravi  di  licenziamento.»,  cfr.  Corte  costituzionale
sentenza n. 128/2024, punto 15, del considerato in diritto). 
    Cio' comporta, in parallelo e coerentemente, la necessita' che il
risarcimento al lavoratore a fronte di un  licenziamento  illegittimo
costituisca un ristoro idoneo. 
    In tal senso, la previsione del dimezzamento in  uno  con  quella
del limite massimo delle sei  mensilita'  pare  porsi  in  violazione
anche dell'art. 4, comma 1, della Costituzione che, nel riconoscere a
tutti i cittadini il  diritto  al  lavoro,  contestualmente,  prevede
l'impegno della Repubblica a curare le condizioni  per  rendere  tale
diritto  effettivo,   rimuovendo   gli   ostacoli   alla   stabilita'
dell'occupazione   tra   i   quali   rileva   senz'altro,   in   modo
preponderante, la previsione di una sanzione con efficacia dissuasiva
a fronte di provvedimenti espulsivi illegittimi. 
    Contestualmente la  disposizione  censurata  pare  violare  anche
l'art. 35, comma 1, della Costituzione che, tutelando  il  lavoro  in
tutte  le  sue  forme  e  applicazioni,  assieme  all'art.  4   della
Costituzione,   rende   necessaria   l'esistenza   di   una   ragione
giustificatrice alla base del recesso e, tra l'altro, da' un  rilievo
anche internazionale alla tutela del lavoro. 
    Orbene, in questa direzione l'art. 9, del decreto legislativo  n.
23/2015 sembra porsi in violazione anche con  l'art.  117,  comma  1,
della Costituzione in  relazione  all'art.  24  della  Carta  sociale
europea  che,  come  noto,  espressamente  prevede  «Per   assicurare
l'effettivo  esercizio  del  diritto  ad  una  tutela  in   caso   di
licenziamento, le Parti s'impegnano a riconoscere: a) il diritto  dei
lavoratori di non essere licenziati senza  un  valido  motivo  legato
alle loro attitudini o alla loro condotta o basato  sulle  necessita'
di funzionamento dell'impresa, dello stabilimento o del servizio;  b)
il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido  motivo,  ad  un
congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». 
    Il tenore letterale della norma  da  ultimo  richiamata,  dunque,
rafforza le considerazioni  spese  (Supra)  in  punto  di  necessaria
adeguatezza  dei  rimedi  risarcitori,  in  uno  con  il  bisogno  di
prevedere, soprattutto in un'ipotesi sottratta in via  assoluta  alla
tutela reale, una  tutela  indennitaria  che  abbia  un'idonea  forza
compensativa  di  quanto  il  lavoratore  ha  perso   a   causa   del
licenziamento illegittimo e dissuasiva nei confronti  del  datore  di
lavoro artefice dell'atto espulsivo viziato. 
    Come pure affermato  dalla  Consulta  «L'art.  3,  comma  1,  del
decreto legislativo n. 23 del 2015,  nella  parte  in  cui  determina
l'indennita'  in  un  "importo  pari  a  due  mensilita'  dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto per ogni anno di servizio", viola anche gli  articoli  76  e
117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 24  della
Carta sociale europea. Tale  articolo  prevede  che,  per  assicurare
l'effettivo  esercizio  del  diritto  a  una  tutela   in   caso   di
licenziamento, le Parti contraenti si  impegnano  a  riconoscere  "il
diritto dei lavoratori licenziati  senza  un  valido  motivo,  ad  un
congruo  indennizzo  o  altra  adeguata  riparazione"  (primo  comma,
lettera b). Nella decisione resa a seguito del reclamo collettivo  n.
106/2014, proposto dalla Finnish Society of Social Rights  contro  la
Finlandia, il Comitato europeo dei diritti sociali  ha  chiarito  che
l'indennizzo e' congruo se e' tale da assicurare un adeguato  ristoro
per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un
valido motivo e da dissuadere il  datore  di  lavoro  dal  licenziare
ingiustificatamente. Il filo argomentativo che guida il  Comitato  si
snoda dunque attraverso l'apprezzamento del sistema  risarcitorio  in
quanto dissuasivo e, al  tempo  stesso,  congruo  rispetto  al  danno
subito (punto 45). Questa Corte ha gia' affermato  l'idoneita'  della
Carta sociale europea a integrare il parametro dell'art.  117,  primo
comma, della Costituzione e  ha  anche  riconosciuto  l'autorevolezza
delle decisioni del Comitato, ancorche' non vincolanti per i  giudici
nazionali (sentenza n. 120 del 2018). A ben vedere, l'art. 24, che si
ispira alla gia' citata Convenzione OIL n. 158  del  1982,  specifica
sul piano internazionale, in armonia  con  l'art.  35,  terzo  comma,
della Costituzione e con riguardo  al  licenziamento  ingiustificato,
l'obbligo di garantire l'adeguatezza del risarcimento, in  linea  con
quanto  affermato  da  questa  Corte   sulla   base   del   parametro
costituzionale interno dell'art. 3 della Costituzione.  Si  realizza,
in tal modo, un'integrazione tra fonti e - cio' che piu' rileva - tra
le tutele da esse garantite (sentenza n. 317 del 2009, punto  7,  del
Considerato in  diritto,  secondo  cui  "[i]l  risultato  complessivo
dell'integrazione delle  garanzie  dell'ordinamento  deve  essere  di
segno positivo").» (sentenza Corte costituzionale n.  194/2018  punto
14 del considerato in diritto). 
    La necessita' di gradare la tutela alle peculiarita'  concrete  e
alla gravita' del vizio emerge  altresi'  non  potendosi  mancare  di
osservare che, nel caso di specie,  il  licenziamento  intimato  alla
lavoratrice appare privo  di  una  concreta  giustificazione  laddove
contiene formule tanto generiche da risultare  vuote  di  significato
concreto e tautologiche («ripetuti ritardi ed uscite anticipate senza
preventive autorizzazioni», «importanti comunicazioni, per accedere o
mantenere finanziamenti, avvenute con notevoli ritardi che  avrebbero
potuto causare danni economici  ed  organizzativi  alla  societa'»  e
«fatti di particolare gravita' ripetuti in questi anni»). 
    Giova allora ricordare che da  un  lato  la  giustificazione  del
licenziamento corrisponde ad un valore costituzionale (cfr. in  punto
la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 al punto  9.1  del
considerando in diritto) e, dall'altro, che,  come  condivisibilmente
chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione, «Come  parte  dell'ordine
pubblico, assume rilievo anche uno specifico aspetto della disciplina
del lavoro. Ed invero, il lavoro  e'  giuridicamente  costruito  come
fondamento della Repubblica (art. 1, primo comma, della Costituzione)
nonche' fondamentale diritto dovere d'ogni cittadino  (art.  4  della
Costituzione). Nella legislazione ordinaria, che a tali  principi  si
ispira, sono poi disciplinate (oltre ad altri importanti aspetti) «la
liberta' e la dignita'» della persona che lo svolge (legge  20  marzo
1970, n. 300), la professionalita' (ad es.,  art.  2103  cod.  civ.),
l'anzianita' (ad es. l'art. 5 della legge 23 luglio  1991,  n.  223),
nonche' la protrazione del rapporto in alcune ipotesi di  sospensione
del  lavoro  (come  le  leggi  sulla  Cassa  per  l'integrazione  dei
guadagni)  e  nel  trasferimento  d'azienda  (art.  2112  del  codice
civile). In tal modo, nel lavoro  a  tempo  indeterminato,  a  fronte
dell'unilaterale potere del datore di  lavoro  di  porre  termine  al
rapporto, il lavoro e' tutelato attraverso la previsione di limiti ed
oneri inerenti a tale potere, i  quali  hanno  ridotto  ad  eccezione
marginale l'arca della c.d. recedibilita' ad  nutum  (vedi  l'art.  1
della legge 15 luglio 1966, n. 604, l'art. 18 della legge  20  maggio
1970,  n.  300;  nonche'  il  principio  normativo  affermato   dalla
direttiva comunitaria 28 giugno 1999, n. 70, e confermato dalla Corte
costituzionale 7 febbraio 2000 n. 41, per cui "i contratti di  lavoro
a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei  rapporti  di
lavoro e contribuiscono  alla  qualita'  della  vita  dei  lavoratori
interessati ed a migliorare il rendimento"; vedi anche Cassazione  21
maggio 2002, n. 7468, per cui, anche dopo il  decreto  legislativo  6
settembre 2001, n. 368, e l'abrogazione della legge 18  aprile  1962,
n. 230, il termine costituisce la  deroga  d'un  generale  sottinteso
principio, in base al quale il contratto di lavoro  subordinato,  per
sua natura, e' a  tempo  indeterminato).  L'immagine  che  emerge  da
questo quadro normativo non e' un rapporto che un mero  flatus  vocis
del datore possa spegnere, bensi' un rapporto che tende  a  permanere
nel  tempo  ove  non  intervenga  ragione  che  ne   giustifichi   la
risoluzione. Componente della ragione normativa di questa tendenziale
protrazione (oltre alla dignita' della persona, come inscritta  nella
coscienza della collettivita') e' anche il  fatto  che  l'aspettativa
della protrazione, alimentando  l'interesse  del  lavoratore  al  suo
stesso lavoro, conferendogli dignita', fornendogli la  base  per  una
programmazione (economica ed ambientale: personale  e  familiare),  e
tuttavia in tal modo irreversibilmente condizionandolo al suo  stesso
impegno, e' nel contempo il migliore strumento  di  incremento  della
produzione, per l'azienda e per piu' ampi contesti: finalita' cui  e'
sensibile l'ordinamento (vedi anche la citata  direttiva  comunitaria
28 giugno 1999, n. 70), e che contribuisce a giustificare  molteplici
interventi  legislativi  (e'  da  aggiungere  che   nella   coscienza
collettiva e nella norma che l'ha recepita e'  inscritto  -  con  non
minore spessore - anche il dovere di lavorare). La tutela  di  questa
tendenziale stabilita', investendo uno dei fondamenti dello  Stato  e
la dignita' della persona, coinvolgendo un ampio quadro normativo, ed
essendo in tal modo parte essenziale dell'assetto del  l'ordinamento,
rientra nello spazio dell'ordine pubblico.» (cfr. Cass.,  Sez.  Lav.,
15822/2002). 
    Ora, dal combinato disposto della legge n. 604/1966  e  dell'art.
18,  legge  n.  300/1970  emerge  il   principio   della   necessaria
giustificazione del licenziamento che vieta il recesso  dal  rapporto
da parte del datore di lavoro a proprio arbitrio; si  tratta  di  una
tutela fondamentale per il lavoratore laddove consente la risoluzione
del rapporto di lavoro solo a fronte di una causa giustificatrice del
recesso, risultando invece illegittimo l'atto espulsivo non  sorretto
da una giusta causa o da un giustificato motivo. 
    A ben vedere, dunque, la normativa mira a garantire al lavoratore
il  diritto  a  non  essere  estromesso  dal   rapporto   di   lavoro
arbitrariamente, in uno con la possibilita' di conoscere gli addebiti
contestati e di  difendersi,  cio'  che  puo'  esservi  solo  laddove
sussista una causa giustificatrice del recesso. 
    La Consulta ha chiarito che «L'esercizio arbitrario del potere di
licenziamento, sia quando adduce a  pretesto  un  fatto  disciplinare
inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva  priva  di
ogni riscontro, lede l'interesse del lavoratore alla continuita'  del
vincolo negoziale e si risolve in una vicenda  traumatica,  che  vede
direttamente implicata la persona del lavoratore. L'insussistenza del
fatto, pur con le  diverse  gradazioni  che  presenta  nelle  singole
fattispecie di licenziamento, denota il contrasto piu' stridente  con
il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore  di
lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli articoli  4  e
35 della Costituzione (sentenza  n.  41  del  2003,  punto  2.1.  del
Considerato in diritto)» (cfr. Corte costituzionale n. 59/2021, punto
9, del considerato in diritto). 
    In questo senso, dunque, il principio  consacrato  dall'art.  18,
legge n. 300/1970  e  art.  2,  legge  n.  604/1966,  quando  prevede
l'obbligo di una causa giustificatrice del recesso, investe  uno  dei
fondamenti della dignita' del lavoratore e, in quanto tale, e'  parte
essenziale dell'assetto dell'ordinamento, rientrando a  pieno  titolo
nell'ambito  dell'ordine  pubblico  (Supra),  di  talche'  la  tutela
apprestata per i lavoratori  dipendenti  di  datore  di  lavoro  c.d.
sottosoglia deve, in ipotesi di licenziamento non sorretto da  giusta
causa (come nel caso di specie) comunque,  garantire  l'estrinsecarsi
dei principi di effettivita' e di ragionevolezza, cio' che  non  pare
garantito dal previsto dimezzamento in  uno  con  la  previsione  del
limite massimo delle sei mensilita',  non  potendosi  dimenticare  il
principio per cui il licenziamento deve  comunque  sempre  costituire
l'extrema ratio. 
    La Consulta, in punto,  ha  affermato  in  maniera  assolutamente
convincente in relazione al dimezzamento e alla limitatissima forbice
previsi  dalla  disposizione  censurata   «si   deve   rilevare   che
un'indennita' costretta entro l'esiguo divario tra un minimo di tre e
un  massimo  di  sei  mensilita'  vanifica  l'esigenza  di  adeguarne
l'importo  alla  specificita'  di   ogni   singola   vicenda,   nella
prospettiva di un congruo ristoro e di  un'efficace  deterrenza,  che
consideri tutti i  criteri  rilevanti  enucleati  dalle  pronunce  di
questa Corte e concorra a configurare il licenziamento  come  extrema
ratio.  (...)  un  sistema  siffatto  non   attua   quell'equilibrato
componimento  tra  i  contrapposti  interessi,  che  rappresenta   la
funzione  primaria  di  un'efficace  tutela  indennitaria  contro   i
licenziamenti  illegittimi.  6.-  Si  deve   riconoscere,   pertanto,
l'effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal  rimettente»  (cfr.
punto 5.1, 5.3 e 6 considerato in diritto, sentenza n. 183/2022). 
 2.2) Sul criterio (unico ed anacronistico) del numero degli occupati 
    La previsione di cui all'art. 9, decreto legislativo  n.  23/2015
e, dunque, per quanto qui  interessa  il  dimezzamento  e  il  limite
massimo delle  sei  mensilita',  disegna  una  disciplina  di  tutela
connotata in termini estremamente diversi da quelli  previsti  per  i
lavoratori dipendenti di grandi imprese in ragione del criterio unico
delle dimensioni occupazionali del datore  di  lavoro,  cioe'  di  un
elemento esterno al rapporto di lavoro. La distinzione  trova(va)  la
propria ratio nella diversa forza economica del datore, in uno con la
tendenziale  maggiore  difficolta'   per   una   realta'   lavorativa
circoscritta di reinserire  il  lavoratore,  diversamente  da  quanto
avviene in una grande realta',  ove  la  connotazione  personale  del
singolo lavoratore assume necessariamente caratteri piu' sfumati. 
    Non puo', tuttavia, mancare di osservarsi che il mutato  contesto
socioeconomico ben consente a realta' estremamente solide e forti  di
sostenere la propria  impresa  anche  con  un  numero  di  dipendenti
inferiore a quindici,  di  talche'  il  criterio  quantitativo  degli
occupati non costituisce piu' necessariamente un criterio  capace  da
solo di rispecchiare la vera forza economica del datore di lavoro. 
    In  effetti,  dall'esame  degli  ultimi  dati  resi   disponibili
dall'Istat emerge che «Nel  2020  le  imprese  dell'industria  e  dei
servizi di  mercato  si  confermano  in  prevalenza  di  piccolissima
dimensione  (0-9  addetti).  Le  microimprese  sono,  infatti,  oltre
quattro milioni e rappresentano  il  95,2  per  cento  delle  imprese
attive, il 43,8 per cento degli addetti e solo il 26,8 per cento  del
valore aggiunto complessivo.  Questo  segmento  dimensionale  risulta
strutturalmente caratterizzato dalla presenza di lavoro  indipendente
(60,2  per   cento   sul   totale   addetti).   Le   grandi   imprese
(duecentocinquanta addetti e oltre) sono lo 0,1 per cento del totale,
assorbono il 23,5 per cento dell'occupazione e  creano  il  35,6  per
cento di valore aggiunto.», di talche' le c.d. micro-imprese per tali
intendendosi  quelle  con  meno   di   nove   addetti   rappresentano
indubbiamente il principale protagonista  del  contesto  attuale  (v.
Istat. Annuario statistico italiano 2023, 534). 
    L'impatto della tecnologia sulla struttura dell'impresa e'  stato
pure  condivisibilmente  rilevato  in  seno  all'ordinanza  resa  dal
Tribunale di Roma del 24  febbraio  2021  laddove  il  rimettente  ha
evidenziato (cfr. V.6) che «(...) il  numero  dei  dipendenti  e'  un
criterio trascurabile nell'ambito di quella che e' l'attuale economia
che, com'e' notorio, ha permesso  a  un  colosso  come  Instagram  di
sostenere nel  2015  un'impresa  gigantesca  con  tredici  dipendenti
mentre, nello stesso periodo, la Kodak,  che  aveva  un'attivita'  di
impresa analoga, ma analogica e  non  digitale,  aveva  centoquaranta
mila dipendenti». 
    Avuto riguardo alla censura relativa al criterio del numero degli
occupati, gia' oggetto, appunto, dell'ordinanza del Tribunale di Roma
ed  essenzialmente  condivisa  dalla  Consulta  con  la  sentenza  n.
183/2022 (v. punti 4 e 5.2 del considerato in diritto),  giova  anche
evidenziare che la Commissione UE con la raccomandazione del 6 maggio
2003, nell'individuare le caratteristiche della c.d. piccola impresa,
ha affermato al considerando n. 4 che «Il criterio del  numero  degli
occupati (in prosieguo "il criterio degli  effettivi")  rimane  senza
dubbio  tra  i  piu'  significativi  e  deve  imporsi  come  criterio
principale;  tuttavia  l'introduzione  di  un  criterio   finanziario
costituisce  il  complemento  necessario  per  apprezzare   la   vera
importanza di un'impresa,  i  suoi  risultati  e  la  sua  situazione
rispetto ai concorrenti. Non sarebbe pero'  auspicabile  prendere  in
considerazione come criterio finanziario solo il fatturato, dato  che
il  fatturato  delle  imprese  nel  settore  del  commercio  e  della
distribuzione e' normalmente  piu'  elevato  di  quello  del  settore
manifatturiero.  Il  criterio  del  fatturato  deve   quindi   essere
considerato unitamente a quello del totale di bilancio, che  riflette
l'insieme degli averi di un'impresa, ed  uno  dei  due  criteri  puo'
essere superato.». 
    La raccomandazione, intervenuta ormai oltre  venti  anni  fa,  al
fine di definire i  concetti  di  micro,  piccole  e  medie  imprese,
dunque, pur evidenziando il carattere principale  del  criterio  dato
dal numero degli occupati gia' allora sottolineava la  necessita'  di
fare ricorso anche al parametro finanziario, con  particolare  rilevo
al fatturato e al totale del bilancio. 
    A livello di diritto  interno,  poi,  nel  contesto  del  diritto
fallimentare, oggetto di plurimi interventi normativi,  gia'  con  la
riforma del 2006 l'art. 1, comma 2, legge  Fall.  definiva  l'impresa
minore  utilizzando  unicamente  parametri  economici,  senza   alcun
riferimento all'elemento costituito dal numero dei dipendenti, scelta
confermata da ultimo con il decreto legislativo n. 14/2019. 
    In  effetti,  alla  luce  dell'art.  2,   lettera   d),   decreto
legislativo n. 14/2019 e' ««impresa minore»: l'impresa  che  presenta
congiuntamente i seguenti requisiti: 1)  un  attivo  patrimoniale  di
ammontare complessivo annuo non superiore ad  euro  trecentomila  nei
tre esercizi  antecedenti  la  data  di  deposito  della  istanza  di
apertura della liquidazione giudiziale o  dall'inizio  dell'attivita'
se di durata inferiore; 2) ricavi, in qualunque modo essi  risultino,
per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila
nei tre esercizi antecedenti la  data  di  deposito  dell'istanza  di
apertura della liquidazione giudiziale o  dall'inizio  dell'attivita'
se di durata inferiore; 3) un ammontare di debiti anche  non  scaduti
non superiore ad euro  cinquecentomila;  i  predetti  valori  possono
essere aggiornati ogni  tre  anni  con  decreto  del  Ministro  della
giustizia adottato a norma dell'art. 348;». 
    Tutto  cio'  suffraga  quanto  gia'  affermato   dalla   Consulta
allorquando ha chiarito «che il limitato scarto tra il  minimo  e  il
massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo  preponderante,
se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a  ben  vedere,  non
rispecchia di per se'  l'effettiva  forza  economica  del  datore  di
lavoro, ne'  la  gravita'  del  licenziamento  arbitrario  e  neppure
fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno  che  si
approssimi alle particolarita' delle vicende concrete.»  (cfr.  punto
5.2 del considerato in diritto della sentenza n. 183/2022). 
    Il dato che il solo criterio del numero degli occupati sia  ormai
un parametro anacronistico ed inidoneo a rappresentare di per se'  la
forza economica del datore di lavoro emerge in tutta la  sua  portata
avuto riguardo al caso di specie. 
    In effetti, come detto, la societa' resistente datrice di  lavoro
e' una societa' di capitali attiva sin dal 1991, dunque  una  realta'
assolutamente stabile nel tempo, con un capitale sociale pari a  euro
590.000  e  con  un  importante  fatturato  (per  l'anno  2022  circa
3.931.947,00 di euro e per l'anno 2023 circa 4.730.253,00  di  euro),
si occupa di manutenzione ordinaria e straordinaria  di  macchine  ed
apparecchi per il trattamento della carta nei centri di  elaborazione
dati e nell'industria, mentre ha avuto  alle  proprie  dipendenze  al
massimo quattordici lavoratori. 
    La situazione di fatto da cui origina la  presente  ordinanza  di
rimessione, dunque, pare calarsi alla perfezione nelle  parole  della
Corte  costituzionale  laddove  ha  affermato  «(...)  in  un  quadro
dominato  dall'incessante  evoluzione  della   tecnologia   e   dalla
trasformazione  dei  processi  produttivi,  al  contenuto  numero  di
occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in  capitali  e
un consistente volume di affari.  Il  criterio  incentrato  sul  solo
numero degli occupati  non  risponde,  dunque,  all'esigenza  di  non
gravare di costi sproporzionati realta'  produttive  e  organizzative
che siano effettivamente inidonee a sostenerli. Il limite uniforme  e
invalicabile di sei mensilita', che si applica  a  datori  di  lavoro
imprenditori e non,  opera  in  riferimento  ad  attivita'  tra  loro
eterogenee, accomunate dal dato del numero dei  dipendenti  occupati,
sprovvisto di per se' di una significativa valenza.»  (cfr.  sentenza
n. 183/2022 Corte  costituzionale,  punto  5.2,  del  considerato  in
diritto). 
    In  definitiva,  dunque,  l'operare  sinergico   della   speciale
limitazione di responsabilita' di cui all'art. 9 decreto  legislativo
n. 23/2015, in uno con il criterio di identificazione della tipologia
di imprese che ne beneficia (art. 18, comma 8 e 9), appare rendere la
disciplina in questione costituzionalmente illegittima (in  relazione
a tutti i parametri  sopra  esposti),  laddove  consente  una  enorme
limitazione di responsabilita' del debitore (qui il datore di  lavoro
licenziante illegittimamente), pure nelle ipotesi in cui -  come  nel
caso di specie - le condizioni economiche e patrimoniali dell'impresa
consentirebbero  un  adeguamento   risarcitorio   personalizzato   ed
adeguato al  caso  concreto  e,  a  monte,  di  garantire  una  reale
deterrenza, sconsigliando il datore di lavoro dal porre in essere  un
licenziamento  anche  notevolmente  viziato  dal   punto   di   vista
sostanziale, come avvenuto nel caso in esame. 
 
                             Conclusioni 
 
    Vengono in gioco, nel caso  di  specie  e  con  riferimento  alla
disposizione censurata, due interessi  di  rango  costituzionale:  la
liberta' di organizzazione dell'impresa e la  tutela  del  lavoratore
ingiustamente licenziato rispetto  ai  quali  l'art.  9  del  decreto
legislativo n.  23/2015  nella  sua  attuale  formulazione  non  pare
fornire un rimedio adeguato omettendo di  realizzare  un  equilibrato
componimento dei beni in gioco (v. sentenza Corte  costituzionale  n.
194/2018 punto 12.3 del considerato in diritto «Con il prevedere  una
tutela economica che puo' non  costituire  un  adeguato  ristoro  del
danno prodotto, nei vari casi,  dal  licenziamento,  ne'  un'adeguata
dissuasione del datore di lavoro  dal  licenziare  ingiustamente,  la
disposizione censurata comprime l'interesse del lavoratore in  misura
eccessiva, al punto da risultare incompatibile con  il  principio  di
ragionevolezza. Il legislatore finisce cosi' per tradire la finalita'
primaria della tutela risarcitoria, che consiste  nel  prevedere  una
compensazione  adeguata  del  pregiudizio   subito   dal   lavoratore
ingiustamente licenziato.»). 
    In altri e piu' precisi termini,  l'interazione  tra  l'esiguita'
dell'intervallo tra l'importo minimo e quello massimo dell'indennita'
da  un  lato  ed  il  solo  criterio  anacronistico  del  numero  dei
dipendenti   dall'altro   configurano    una    normativa    primaria
incostituzionale. 
    In effetti, rispetto  a  tali  considerazioni,  e  con  specifico
riferimento alla disposizione qui censurata, la Corte costituzionale,
con la sentenza n. 183/2022, al punto 6 del considerato in diritto ha
espresso con incisivita' il concetto per cui  «Si  deve  riconoscere,
pertanto,  l'effettiva  sussistenza   del   vulnus   denunciato   dal
rimettente e si deve affermare la  necessita'  che  l'ordinamento  si
doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati  dai
datori  di  lavoro  che  hanno  in  comune  il  dato   numerico   dei
dipendenti.». 
    In definitiva,  dunque,  l'art.  9  del  decreto  legislativo  n.
23/2015, che esclude la  tutela  reale,  allorquando  circoscrive  la
misura dell'indennizzo in forza del  meccanismo  del  dimezzamento  e
della  limitatissima  forbice  con  tetto  massimo  fissato   a   sei
mensilita',  legando  l'operativita'  di  tale  meccanismo  al   solo
criterio del numero  degli  occupati,  finisce  per  configurare  una
misura non capace di rispettare il  necessario  equilibrio  che  deve
esistere tra la possibilita' di prevedere una  tutela  solo  di  tipo
risarcitorio-monetario e quella  che  l'indennizzo  risulti  adeguato
rispetto al  pregiudizio  del  caso  concreto,  mantenendo  un  ruolo
deterrente. 
    Con la sentenza n. 183/2022,  nel  dichiarare  l'inammissibilita'
delle  questioni  sollevate  dal  Tribunale   di   Roma,   la   Corte
costituzionale ha evidenziato il rischio di uno  sconfinamento  nella
sfera riservata alla  discrezionalita'  del  legislatore  in  ragione
delle plurime possibilita' esistenti  nella  scelta  delle  soluzioni
normative  elaborabili  per  fronteggiare   il   vulnus   evidenziato
chiarendo che «A  ognuna  delle  scelte  ipotizzabili  corrispondono,
infatti, differenti opzioni di politica  legislativa.  Si  profilano,
dunque, ineludibili valutazioni discrezionali, che,  proprio  perche'
investono il rapporto tra mezzi  e  fine,  non  possono  competere  a
questa Corte. Rientra, infatti,  nella  prioritaria  valutazione  del
legislatore la scelta dei mezzi piu' congrui per conseguire  un  fine
costituzionalmente necessario, nel  contesto  di  "una  normativa  di
importanza essenziale"  (sentenza  n.  150  del  2020),  per  la  sua
connessione con i diritti che riguardano la persona  del  lavoratore,
scelta  che  proietta  i   suoi   effetti   sul   sistema   economico
complessivamente  inteso.  Come  gia'  questa  Corte   ha   segnalato
(sentenza n. 150 del 2020, punto 17 del Considerato in  diritto),  la
materia, frutto di interventi normativi stratificati,  non  puo'  che
essere rivista in termini complessivi, che investano  sia  i  criteri
distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro,  sia
la  funzione  dissuasiva  dei  rimedi  previsti  per   le   disparate
fattispecie.» (cfr. punto 7 del considerato in diritto,  sentenza  n.
183/2022, ma v. anche punto 4 del considerato in diritto). 
    Tuttavia,  la  medesima  Consulta  ha  messo   in   rilievo   che
l'apprezzamento discrezionale del Legislatore e' comunque  «vincolato
al rispetto del principio di  eguaglianza,  che  vieta  di  omologare
situazioni eterogenee  e  di  trascurare  la  specificita'  del  caso
concreto»  (v.,  ancora,  sentenza  n.  183/2022,   punto   4.2   del
considerato in diritto). 
    La Corte costituzionale  ha  poi  concluso  la  propria  sentenza
sottolineando, con  forza,  che  «Nel  dichiarare  l'inammissibilita'
delle  odierne  questioni,  questa  Corte  non  puo'  conclusivamente
esimersi  dal  segnalare  che  un  ulteriore  protrarsi  dell'inerzia
legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe,  ove  nuovamente
investita, a provvedere direttamente, nonostante le  difficolta'  qui
descritte (sentenza n. 180 del  2022,  punto  7  del  Considerato  in
diritto).». 
    Diviene  centrale,   dunque,   l'interrogativo   su   quale   sia
l'orizzonte temporale che la Consulta ha inteso dare  al  Legislatore
per conformarsi. 
    Nel rispondere a tale questione a parere del giudicante non  puo'
allora non darsi atto del dato che, pur alla luce della  segnalazione
operata dalla Corte costituzionale, l'inerzia del Legislatore  si  e'
protratta, alla data attuale, per ben piu' di due anni, mentre,  come
pure rilevato dalla parte ricorrente nel giudizio principale  dinanzi
al Tribunale di Roma «la disciplina censurata si applica alla  «quasi
totalita'  delle  imprese  nazionali»  e   alla   «gran   parte   dei
lavoratori».» (v. anche i dati Istat sopra  richiamati),  di  talche'
l'urgenza  di  provvedere  risulta  francamente   non   ulteriormente
procrastinabile. In conclusione, l'art.  9,  decreto  legislativo  n.
23/2015 pare viziato per incostituzionalita' allorquando  prevede  il
dimezzamento e un limite massimo privo di una reale forza  dissuasiva
e, dunque, inadeguato a  fronteggiare  i  possibili  diversi  scenari
concreti  (e  i  conseguenti  vizi)  qualora  un  datore  di   lavoro
sottosoglia commini un licenziamento ingiustificato. 
    Alla luce  di  tutto  quanto  argomentato  sinora,  la  questione
prospettata con  la  presente  ordinanza  appare  non  manifestamente
infondata  di  talche',  in  conclusione,  si  domanda   alla   Corte
costituzionale  l'eliminazione  della  parte  «e  l'ammontare   delle
indennita' e dell'importo previsti dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4,
comma 1, e dall'art. 6, comma 1, e' dimezzato e non puo' in ogni caso
superare il limite di sei mensilita'.» contenuta nell'art.  9,  comma
1, decreto legislativo n. 23/2015, con la conseguente spettanza della
tutela indennitaria di cui agli articoli 3, comma 1, 4, comma 1, e 6,
comma 1, a seconda della  fattispecie  concreta  anche  nel  caso  di
datore di lavoro c.d. sottosoglia. 

 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento
agli articoli 3, comma 1 e 2, della Costituzione, 4, comma  1,  della
Costituzione, 35, comma 1, della Costituzione,  41,  comma  2,  della
Costituzione e 117, comma 1, della Costituzione in relazione all'art.
24  della  Carta  sociale  europea,  la  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 1, legge n. 23/2015 nella parte  in
cui prevede «e l'ammontare delle indennita' e  dell'importo  previsti
dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1, e dall'art. 6,  comma  1,
e' dimezzato e non puo' in  ogni  caso  superare  il  limite  di  sei
mensilita'.»; 
    Dispone la trasmissione degli atti alla  Corte  costituzionale  e
sospende il giudizio in corso sino alla decisione della Consulta; 
    Manda alla cancelleria per la notifica della  presente  ordinanza
alle parti in causa ed al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
nonche' per la sua comunicazione ai Presidenti delle due  Camere  del
Parlamento. 
        Livorno, 29 novembre 2024 
 
                         Il giudice: Maffei