N. 32 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 gennaio 2024
Ordinanza del 17 gennaio 2024 del G.I.P. del Tribunale di Firenze nel
procedimento penale a carico di M. C., F. M. e C. L..
Reati e pene - Aiuto al suicidio - Non punibilita', a seguito della
sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, di chi, alle
condizioni e con le modalita' stabilite nella medesima sentenza,
agevola l'esecuzione del proposito di suicidio - Denunciata
necessita' che la non punibilita' di chi agevola l'altrui suicidio
sia subordinata alla circostanza che l'aiuto sia prestato a una
persona "tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale".
- Codice penale, art. 580, come modificato dalla sentenza della Corte
costituzionale n. 242 del 2019.
(GU n. 11 del 13-03-2024)
TRIBUNALE DI FIRENZE
Sezione del giudice per le indagini preliminari
Il giudice per le indagini preliminari dott.ssa Agnese Di
Girolamo, letta la richiesta di archiviazione presentata dalla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze il 17 maggio
2023 nel procedimento in epigrafe iscritto nei confronti di:
C... M..., nato a ..., il ..., difeso dall'avv. Filomena
Gallo del Foro di Roma e dall'avv. Maria Elisa D'Amico del Foro di
Milano;
L... C..., nata a ..., il ..., difesa dall'avv. Rocco Berardo
del Foro di Roma;
M... F..., nata a ..., il ..., difesa dall'avv. Francesca Re
del Foro di Roma e dell'avv. Francesco Di Paola del Foro di
Lagonegro;
per il reato di cui all'art. 580 del codice penale, commesso
il ...
all'esito dell'udienza in camera di consiglio ex art. 409 del
codice di procedura penale del 23 novembre 2023;
sentite le parti presenti e lette le memorie da queste
depositate;
Osserva
1. Il fatto
Nel presente procedimento M... C... C... e F... M... sono
indagati per il delitto di cui all'art. 580 del codice penale, per
avere organizzato e poi materialmente eseguito l'accompagnamento di
M... S... presso la clinica ... dove, il giorno ... lo stesso e'
deceduto in seguito a procedura di suicidio assistito.
La vicenda, nei suoi contorni fattuali, emerge in modo pacifico
dagli elementi acquisiti nelle indagini preleminari, svolte a seguito
dell'autodenuncia degli stessi indagati, e puo' essere ricostruita in
termini conformi a quanto prospettato dall'Ufficio di procura nella
richiesta di archiviazione.
A M... S... era stata diagnosticata nel ... la sclerosi multipla,
patologia del sistema nervoso centrale che conduce a invalidita'
progressiva del paziente.
Dopo l'esordio dei primi sintomi lievi, il quadro clinico era
rimasto stazionario per alcuni anni, finche' - tra fine ... e inizio
... - si era registrato un significativo avanzamento del processo di
demielinizzazione tipico della malattia, con conseguente
peggioramento delle condizioni di vita del paziente (descritto
chiaramente dal padre e dai medici che lo hanno avuto in cura):
dapprima S... aveva iniziato a manifestare difficolta' nella
deambulazione, poi aveva avuto bisogno della sedia a rotelle e, dopo
appena qualche mese - ad aprile 2022 -, risultava gia'
definitivamente impossibilitato a muoversi dal letto, con pressoche'
totale immobilizzazione anche degli arti superiori (salva una residua
capacita' di utilizzo del braccio destro).
Secondo quanto dichiarato dal padre, e' nel ... che S... ha
maturato per la prima volta l'idea di porre fine alla propria vita
per ragioni legate alla patologia di cui soffriva.
Nello stesso anno, in autonomia, tramite ricerche su internet,
S... e' venuto a conoscenza dell'esistenza di associazioni dedite a
offrire supporto ai pazienti che sono interessati ad accedere a
procedure di suicidio assistito all'estero; e' cosi' che e' entrato
in contatto per la prima volta con l'indagato C...
Nel... in corrispondenza del grave deterioramento delle sue
condizioni di salute, il proposito di S... si e' trasformato in ferma
risoluzione, tanto da essere convintamente manifestato (anche in
alcuni messaggi, acquisiti al procedimento) non piu' solo al padre,
ma anche ad altre persone, quali la sorella e lo stesso C...
A questo punto, S... ha preso contatti con una clinica ...,
avvalendosi dell'intermediazione di C..., che agiva in veste di
legale rappresentante dell'A... S... C... da lui fondata, e del
supporto economico della stessa A..., che si e' fatta carico di
pagare alcuni costi connessi alla procedura, tra cui le spese del
trasporto fino in ..., tramite il noleggio di un furgone.
S... ha raggiunto la ... il ... a bordo di tale furgone, guidato
a turno dalle indagate C... L... e F... M...
Presso la clinica «...» di ..., il ... si sono svolti vari
colloqui e visite con diversi medici, al fine di verificare la
sussistenza dei presupposti per l'accesso alla procedura in termini
compatibili con la legge ... S... ha avuto la possibilita' di
confrontarsi anche con i familiari giunti fin li', resistendo ai loro
tentativi di dissuaderlo dal proposito di darsi la morte.
La procedura si e' conclusa l'...: alla presenza del padre, della
sorella e delle due indagate, S... ha confermato definitivamente la
sua volonta' e, utilizzando il braccio che ancora poteva controllare,
ha assunto per via orale il farmaco letale. E' morto dopo pochi
minuti.
2. Rilevanza della questione
Questo giudice e' chiamato ad applicare l'art. 580 del codice
penale, nella versione vigente a seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 242/2019, per valutare la possibilita' di
accogliere la richiesta di archiviazione presentata della Procura.
Allo stato, la richiesta di archiviazione non potrebbe essere
accolta, poiche', in base al compendio probatorio in atti, secondo la
valutazione di questo giudice, la condotta degli indagati rientra
nell'ambito di applicazione dell'art. 580 del codice penale, in
particolare della fattispecie di aiuto al suicidio, senza che possa
beneficiare della causa di non punibilita' introdotta a seguito della
citata pronuncia di illegittimita' parziale.
2.1. La configurabilita' dell'art. 580 del codice penale
Nel caso di specie sussistono tutti gli elementi costitutivi del
titolo di reato in origine ipotizzato dal pubblico ministero.
Il fatto e' senz'altro riconducibile alle ipotesi contemplate
dall'art. 580 del codice penale, poiche' la morte si e' verificata
come conseguenza immediata e diretta di un'azione autolesiva posta in
essere personalmente e consapevolmente dallo stesso titolare del bene
vita, che risulta essersi auto-somministrato, con un gesto autonomo,
quando era ancora cosciente, la sostanza che ha provocato il decesso.
La fattispecie configurabile in concreto, tra quelle descritte
dall'art. 580 del codice penale, e' il solo aiuto al suicidio, mentre
non sono emersi elementi che possano far anche solo ipotizzare un
addebito (ne', tantomeno, formulare una ragionevole previsione di
condanna, ex articoli 408 e 425 del codice di procedura penale) per
la distinta fattispecie di istigazione al suicidio.
Quanto alla genesi del proposito autosoppressivo, infatti, S...
risulta aver concepito la decisione in autonomia (grazie a ricerche
svolte da solo su internet) e certamente prima di entrare in contatto
con gli indagati, a carico dei quali non e' prospettabile alcuna
condotta di determinazione al suicidio. Quanto al successivo
consolidamento di tale intento, puo' escludersi che su di esso
abbiano influito, in qualsiasi grado, gli indagati, con condotte di
istigazione o rafforzamento: secondo le dichiarazioni del padre, C...
dapprima si sarebbe limitato a fornire informazioni a titolo
meramente consultivo (assumendo dunque una posizione neutrale, con
semplice presentazione delle strade astrattamente percorribili, senza
incentivare una soluzione a scapito dell'altra) e, quando ha messo a
disposizione i suoi contatti con la ..., il proposito di S... era
gia' compiutamente maturato e ormai fermo; analogamente puo' dirsi
per le due indagate, che sono intervenute soltanto in un momento in
cui la risoluzione suicidaria era gia' del tutto formata.
In altri termini, nessuna delle condotte degli indagati (ne',
come si vedra', di terzi) sembra dotata di efficacia causale, a
livello psichico, rispetto al convincimento di S ...
La rilevanza penale della condotta degli indagati, nel caso di
specie, dipende dunque soltanto dalla loro partecipazione e
cooperazione materiale alla realizzazione del suicidio.
In quest'ottica, la Procura ha quindi sostenuto che il
comportamento degli indagati non sarebbe tipico neppure ai sensi
della fattispecie di aiuto al suicidio, facendo leva su una
interpretazione restrittiva sia del concetto di agevolazione sia del
criterio di rilevanza causale di tale condotta rispetto all'evento
suicidio.
Questo giudice ritiene di non poter condividere l'impostazione
ermeneutica proposta nella richiesta di archiviazione e in alcuni
precedenti di merito da questa richiamati.
In primo luogo, quanto al significato del testo della
disposizione di cui all'art. 580 del codice penale - nella parte in
cui punisce chi «agevola in qualsiasi modo l'esecuzione» dell'altrui
suicidio -, la formulazione letterale legittima, o meglio impone, di
dare rilevanza sul piano oggettivo a qualunque condotta di terzi che,
secondo i consueti criteri di accertamento della causalita', si ponga
quale antecedente necessario rispetto alla morte.
Non vi sono, sempre sul piano testuale, elementi che autorizzano
a letture restrittive: ne' considerando il verbo utilizzato, dal
momento che l'impiego del termine «agevolare» (anziche', sul modello
degli articoli 575 e 589 del codice penale, quello di «causare») si
presta senz'altro a ricomprendere mere facilitazioni, e potrebbe
semmai condurre, all'opposto di quanto supposto dalla Procura, a dare
rilievo persino a condotte che non sono condicio sine qua non
dell'evento; ne' tantomeno considerando la locuzione avverbiale «in
qualsiasi modo», che, anzi, rivela in modo espresso e incontentabile
la latitudine della fattispecie, spingendola alla massima estensione.
Del resto, sul piano sistematico, non puo' dimenticarsi la
funzione residuale, di chiusura del sistema dei reati a tutela della
vita, che l'art. 580 del codice penale assumeva secondo la concezione
del legislatore storico e l'impianto originario del codice
(circostanza di cui si ha traccia nei lavori preparatori al codice,
ove pure e' ribadita la massima ampiezza dell'ambito di applicazione
della norma). Con la precisazione che tale funzione, che accomuna
l'art. 580 all'art. 579 del codice penale, non e' stata affatto
smentita dai principi ricavabili dalla recente giurisprudenza della
Corte costituzionale, ove anzi e' stata ribadita - da ultimo in modo
esplicito, in occasione della sentenza di inammissibilita' del
referendum per l'abrogazione dell'omicidio del consenziente - il
valore costituzionalmente necessario di norme incriminatrici che
reprimano offese al bene vita anche in presenza del consenso
dell'interessato.
Deve quindi ritenersi, anche secondo una lettura aggiornata ai
valori costituzionali, che il codice dia rilievo, almeno sul piano
della tipicita', a tutte le condotte dotate di efficacia causale
rispetto all'evento morte (secondo la struttura tipica delle
fattispecie a forma libera), a prescindere dal modo in cui questo e'
stato cagionato.
Criterio di rilevanza della condotta, per tutte le condotte
lesive del bene vita, sara' appunto il giudizio causale, da condurre
secondo gli strumenti offerti dalla teoria condizionalistica, senza
possibilita' di distinguere tra antecedenti necessari rilevanti a
seconda che venga in rilievo la figura generale dell'omicidio
volontario, dell'omicidio del consenziente o dell'aiuto al suicidio.
Una simile distinzione sarebbe peraltro irragionevole, in quanto
priva di alcuna ragione giustificativa, posto che determinare o
contribuire a determinare la morte di un uomo contro il suo consenso
o con il suo consenso e' pur sempre cagionare la morte di un uomo,
almeno in termini materiali (potendo trovare sede ulteriori
bilanciamenti di interessi in diverse categorie sistematiche).
Peraltro, tornando a un argomento di carattere testuale, occorre
sottolineare che la conclusione a cui qui si giunge non e' scalfita
dalla circostanza che il Legislatore, nell'art. 580 del codice
penale, abbia adottato una formulazione peculiare, collegando
l'agevolazione (e dunque la causazione) non al suicidio (o alla
morte) in quanto tale, bensi' alla sua «esecuzione».
Questa formulazione si puo' spiegare non tanto come frutto della
scelta di restringere l'ambito delle condotte penalmente rilevanti
rispetto all'omicidio, bensi' come riflesso della peculiarita'
dell'evento del reato. Il legislatore presuppone infatti, per
l'applicazione dell'art. 580 (anziche' dell'art. 579 del codice
penale), che il gesto autolesivo avvenga «in solitudine», o meglio
che sia riferibile esclusivamente, sul piano psicologico ma prima
ancora materiale, a un'azione della persona titolare del bene vita,
che sulla stessa azione conserva appunto il proprio «dominio»: e'
consequenziale a questa impostazione che la condotta tipica
nell'ambito dell'art. 580 del codice penale non abbia, come termine
di relazione causale immediata, la morte, bensi' l'esecuzione del
suicidio, che invece resta appannaggio del suicida stesso.
Sulla base di quanto visto fin qui, va ribadita la rilevanza di
tutte le condotte che rappresentano antecedenti necessari - nel senso
proprio della teoria condizionalistica della causalita' - rispetto
alla realizzazione dell'atto autosoppressivo.
Per escludere la tipicita' non potranno essere invocati, a
differenza di quanto sostenuto dall'Ufficio di Procura, il grado di
distanza cronologica della condotta dal suicidio ne' la
«fungibilita'» della condotta del terzo: secondo la lettura classica
della piu' volte citata teoria condizionalistica, il giudizio
controfattuale che esprime la causalita' ha sempre come termine di
riferimento l'evento in concreto, sicche' occorrera' guardare al
fatto per come storicamente verificatosi (in quei tempi, con quelle
modalita', in quelle circostanze).
Alla luce di tali principi, la condotta degli indagati appare a
questo giudice sussumibile nell'ambito di applicazione della
fattispecie di aiuto al suicidio.
C... ha posto in essere una condotta concretamente agevolatrice
mantenendo i contatti con la clinica ..., fornendo (attraverso l'A...
di cui era legale rappresentante) il supporto finanziario necessario
per coprire i costi della procedura (non sostenibili da parte della
famiglia del richiedente) e provvedendo anche a pagare le spese di
noleggio del mezzo che poi ha consentito il trasporto di S... in ...
L... e M... hanno posto in essere una condotta concretamente
agevolatrice alternandosi alla guida del mezzo che ha prelevato S...
da casa e lo ha condotto fino alla clinica dove poi e' avvenuto il
suicidio.
Tutti e tre gli indagati hanno dunque tenuto condotte che hanno
reso possibile, come antecedenti logico-causali necessari, la
realizzazione del suicidio nel modo poi effettivamente verificatosi,
posto che in loro assenza - senza (quel) denaro, senza (quel) mezzo,
senza (quella) guida - la morte di S... non sarebbe storicamente
avvenuta li' e allora, nei termini sopra descritti.
2.2. La configurabilita' della causa di «non punibilita'» dell'aiuto
al suicidio introdotta dalla sentenza n. 242/2019 della Corte
costituzionale
Ritiene questo giudice che la condotta degli indagati non ricada
nella ipotesi di non punibilita' introdotta nell'art. 580 codice
penale dalla Corte costituzionale, poiche' nel caso di specie non
risulta integrato il requisito della «dipendenza da trattamenti di
sostegno vitale».
Gli elementi acquisiti in fase di indagine hanno infatti permesso
di accertare, per il resto, la sussistenza delle altre condizioni
sostanziali richieste, nonche' del rispetto di condizioni procedurali
equivalenti a quelle prescritte dalla legge.
2.2.1. Le condizioni sostanziali
S... era affetto da sclerosi multipla, patologia che, stando a
quanto dichiarato dai medici specialisti sentiti in fase di indagini,
e' da considerarsi, allo stato attuale delle conosce
medico-scientifiche, malattia irreversibile, essendo da escludere una
qualsivoglia possibilita' di guarigione.
S... pativa sofferenze da lui stesso ritenute insostenibili.
La Corte costituzionale, nel definire il requisito in esame, ha
utilizzato la congiunzione disgiuntiva «o»: un dato grammaticale che
autorizza senz'altro l'interprete a ritenere che possa (o meglio
debba) essere data autonoma rilevanza sia alle sofferenze fisiche sia
a quelle esclusivamente psicologiche.
Altrettanto chiaro, sul piano letterale, e' che la valutazione
circa la tollerabilita' delle sofferenze (fisiche o psicologiche)
spetta unicamente alla persona malata, senza che al suo giudizio
possa essere sovrapposto quello di terzi soggetti (parenti, medici,
giudici), chiamati al piu' a prenderne atto - verificando, se del
caso, la lucidita' del paziente e la serieta' della sua esternazione
- ma senza apprezzamenti «di merito» alternativi, necessariamente
ispirati a criteri eteronimi e moralisti (posto che nessuno potrebbe
indicare ad altri quanto dolore sia sopportabile). Cio' peraltro e'
del tutto coerente con il rilievo autonomo della sofferenza
psicologica: una volta esclusa la possibilita' di invocare parametri
oggettivi, appare ragionevole abbandonare distinzioni, quali quella
tra dimensione fisica e psicologica, che possono (eventualmente)
riflettersi sulla fattibilita' di un accertamento esterno, ma che
sono del tutto irrilevanti per la persona che vive un'esperienza in
ultima analisi connotata, in entrambi i casi, da un medesimo stato
psichico: una percezione dolorosa.
La sofferenza e la sua intollerabilita' sono ben testimoniate
dalle risultanze probatorie in atti, gia' enucleate dall'Ufficio di
Procura.
E' infatti emerso che S... abbia dato voce ripetutamente e
chiaramente a tale concetto: «non posso continuare cosi', dato che il
mio corpo non funziona piu', peggiora di giorno in giorno, ho estrema
difficolta' a muovermi e la malattia e' incurabile [...] non ce la
faccio piu'» (cfr. e-mail a M... C...); «M... ci rispondeva che lui
era "intollerabile" (testuali parole dello S...) uscire di casa e
presentarsi con un pannolone», «per lui quella non era piu' una vita
dignitosa e non aveva intenzione di continuare ad essere un peso per
il padre e per tutti» (cfr. s.i.t. dott.ssa C... S...); «M... non
tollerava piu' di essere dipendente dal padre convivente [...] per
cui si sentiva da sue testuali parole "ingabbiato con la mente sana
in un corpo che non funziona"» (cfr. s.i.t. dott.ssa M... G...).
Tali parole, anche de relato, provano che la condizione di
malattia era fonte per lui di patimento psicologico, che egli
riteneva di non essere piu' in grado di sostenere, secondo una
valutazione soggettiva del peso che tale condizione imponeva alla
propria volonta' e alla propria dignita'.
Inoltre, la decisione di darsi la morte e' stata concepita,
maturata e poi mantenuta fino all'ultimo da S... sempre in modo
libero e consapevole.
Occorre rilevare che il requisito previsto dalla Corte
costituzionale assume un significato piu' pregnante rispetto sia alla
mera capacita' di intendere e di volere, sia al dato negativo
dell'assenza di condizionamenti esterni: esso naturalmente presuppone
tale duplice verifica, ma al contempo implica un giudizio positivo
sulla riferibilita' della scelta di morire a un processo - libero,
consapevole e stabile - di costruzione della volonta', che solo cosi'
puo' ritenersi autentica manifestazione di autodeterminazione.
In primo luogo, quanto agli aspetti strettamente inerenti alla
capacita' di intendere e di volere di S..., non sembra che tale
condizione sia stata inficiata dalla risalente diagnosi di un
«disturbo delirante/da evitamento». Come dettagliatamente ricostruito
nelle indagini della Procura, infatti, e' emerso che: il disturbo era
ormai tenuto sotto controllo grazie all'aiuto di una terapia
farmacologica, tanto che da anni non si verificano episodi acuti
degni di interesse (cfr. relazione clinica dott.ssa C... S...); le
anomalie comportamentali erano cessate con l'esordio della sclerosi
malattia, coincisa con una consapevole presa di distanze dal paziente
rispetto al proprio passato (cfr. s.i.t. B... S...); la dottoressa
che lo ha visitato a ... ha confermato la «completa rimessione della
sintomatologia» e giudicato che il paziente fosse capace di intendere
e di volere, in quanto «manifesta normale capacita' di discernimento,
consapevolezza delle proprie scelte e delle conseguenze che esse
comportano» (cfr. certificato del dott.ssa C... S...).
Del resto, non sembra neppure che tale quadro clinico - che, come
detto, risultava ormai superato - si sia tradotto in forme di
ideazione o di agiti suicidari, come dimostra il fatto che, prima
dell'insorgere della sclerosi multipla, M... non era apparso, ai
medici che lo avevano seguito, propenso a tendenze auto-soppressive o
rinunciatarie nei confronti della vita («non mi sembrava un paziente
che si lasciasse andare»: cfr. s.i.t. dott.ssa C... F...; «non posso
affatto dire che in mia presenza vi sia mai stata [...] volonta' di
porre fine alla propria esistenza»: cfr. s.i.t. dott. G... M...).
L'assenza di indebite influenze esterne e l'autenticita'
dell'intento suicidario emergono a loro volta in modo pacifico da
elementi di fatto perlopiu' gia' esposti in precedenza.
Anzitutto, il padre - l'unica persona con cui S... al tempo
intrattenesse rapporti significativi - ha confermato che nel figlio
il proposito di morire era sorto, gia' nel ..., in modo del tutto
autonomo, all'esito di riflessioni e ricerche svolte personalmente;
inoltre, si e' detto che, nei mesi successivi, S... non risulta
essere stato condizionato ne' dagli indagati (per i quali si e'
infatti escluso ogni possibile addebito in termini non solo di
determinazione, ma anche di istigazione) ne' da altri soggetti, posto
che anche le persone a lui piu' care (ancora una volta il padre e poi
la sorella) si sono limitate a rispettare la sua scelta, dandola come
acquisita, e hanno semmai cercato di dissuaderlo.
Al contrario, in positivo, si puo' ritenere che l'autonomia
decisione di morire abbia persino beneficiato dell'apporto
conoscitivo fornito dall'indagato C..., che ha permesso a S... - in
un contesto, come quello nazionale, di scarsa se non assente
informazione istituzionale sul punto - di valutare in modo piu'
consapevole le alternative concretamente disponibili, sia dal punto
di vista materiale che giuridico.
Sempre in positivo, va sottolineato che la decisione di morire
non risulta espressione di una deliberazione estemporanea, ma appare
il frutto di un percorso di crescente consapevolezza e
stabilizzazione del volere, che attraversa una serie di tappe
progressive, prima percorse nel foro interno della persona, poi
esternate attraverso la manifestazione del proposito a parenti e a
terzi.
Infine, tutti gli aspetti fin qui analizzati - la capacita' di
intendere e di volere, l'assenza di ingerenze esterne e
l'autenticita' della scelta di morire - trovano conferma nei
risultati dei controlli effettuati sul paziente da personale della
clinica svizzera nei mesi precedenti al decesso fino agli ultimi
istanti di vita: controlli dall'esito positivo che, per le loro
caratteristiche (su cui si dira' qui immediatamente di seguito),
provano ulteriormente che la decisione di S... e' da considerarsi
ragionevolmente «libera e consapevole», sia alla luce di criteri
medico-legali (cfr. appunto le valutazioni espresse dal personale
sanitario che ha avuto in carico il paziente), sia alla luce di un
criterio normativo-sociale (una volonta' percepita come «autentica»
dalle persone piu' vicine a lui, nonche' maturata e accertata tramite
una apposita procedura).
2.2.2. Le condizioni procedurali
Al profilo appena affrontato si ricollega altresi' la verifica
della sussistenza delle condizioni procedurali richieste dalla Corte
costituzionale per la liceita' dell'aiuto al suicidio: che siano
rispettate «le modalita' previste dagli articoli 1 e 2 della legge
n. 219/2017», che tali modalita' di esecuzione e le condizioni
sostanziali legittimanti l'aiuto al suicidio «siano state verificate
da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale» e che sia
acquisito il «previo parere del comitato etico territorialmente
competente».
Ritiene questo giudice che nel caso di specie tali requisiti
possano ritenersi soddisfatti, o che comunque il loro mancato
rispetto formale non precluderebbe, di per se', la «non punibilita'»
degli indagati.
Va premesso che anche i requisiti in esame, sebbene generalmente
considerati di natura «procedurale», attengono in realta' alle
condizioni sostanziali che rendono lecito l'aiuto al suicidio,
poiche' non solo sono funzionali a verificare la sussistenza di
queste ultime, ma concorrono a crearne i presupposti, quantomeno con
riferimento alla liberta' e alla consapevolezza della decisione di
morire. Cio' e' vero in particolare per la procedura di cui agli
articoli 1 e 2 della legge n. 219/2017, ossia quella in origine
prevista per la manifestazione del rifiuto di trattamenti sanitari,
anche salvavita.
In base a questa disciplina, la rilevanza giuridica della
volonta' della persona e' subordinata a: un primo momento di
informazione del paziente circa le sue condizioni di salute, la
prognosi e le alternative percorribili, con relativi vantaggi e
svantaggi (art. 1, comma 3); in seguito alla dichiarazione del
paziente, un secondo confronto con il personale sanitario (art. 1,
comma 5), che e' tenuto a illustrare conseguenze della decisione e
strade alternative, contestualmente mettendo a disposizione un
servizio di supporto psicologico e assicurando la possibilita' di
accedere a un percorso di terapia del dolore e cure palliative.
Come evidente, i compiti del medico non si limitano a un mero
accertamento, ma, in ottica collaborativa e sinergica, sono
funzionali ad assistere il paziente nell'esercizio della sua
autodeterminazione, attraverso contributi qualificati di carattere
informativo e tecnico (il supporto psicologico e la terapia del
dolore).
E' dunque il carattere «medicalizzato» della procedura a
garantire, nell'ottica della Corte costituzionale, la formazione di
un'autentica volonta' di morire.
Tale requisito, cosi' inteso, nel caso di specie e' da ritenersi
pienamente rispettato alla luce della procedura seguita per la
prestazione dell'aiuto al suicidio presso la clinica ... in cui e'
morto S ..., che si presenta addirittura piu' articolata e garantista
di quella che dovrebbe essere seguita in base alla legge italiana.
Risulta infatti che la procedura sia consistita: nell'invio da
parte del richiedente di documentazione idonea a delineare le sue
condizioni cliniche e la sua storia personale; una valutazione
preliminare da parte della struttura sulla base del materiale
acquisito; una valutazione, anche psicologica, in presenza,
articolata in due colloqui con i medici, uno il giorno dell'arrivo e
uno il giorno successivo; la presenza di testimoni (nel caso
concreto, tra gli altri, i familiari) al momento della
auto-somministrazione del farmaco letale, immediatamente preceduta da
un ultimo ammonimento circa la possibilita' di arrestare la
procedura.
Procedure dalla scansione analoga - peraltro eseguite nella
medesima clinica - sono state valutate «sostanzialmente equivalenti»
a quella italiana gia' da alcuni organi giudicanti, con pronunce
diventate definitive (cfr. Corte d'assise di Milano, sentenza 23
dicembre 2019, e Corte d'assise di Massa, sentenza 27 luglio 2020,
poi confermata da Corte d'assise d'appello di Genova, sentenza 20
maggio 2021).
Negli stessi casi, il medesimo giudizio di equivalenza ha
«assorbito» anche la questione relativa al rispetto degli ulteriori
profili di disciplina procedurale.
E' vero che in tali casi i giudici hanno potuto avvalersi della
clausola di equivalenza appositamente prevista dalla Corte
costituzionale, nella sentenza n. 242/2019, per i fatti commessi
prima della declaratoria di incostituzionalita' dell'art. 580, ossia
quando, per mancanza di riferimenti normativi, sarebbe stato
impossibile, gia' dal punto di vista logico, rispettare una procedura
introdotta soltanto ex post.
Nondimeno, questo giudice ritiene che un analogo giudizio di
equivalenza sostanziale - e, per l'effetto, una medesima conclusione
in senso positivo circa la sussistenza del requisito procedurale -
possa essere svolto anche nella vicenda in esame, verificatasi
interamente nel vigore della nuova disciplina.
In primo luogo, per cio' che riguarda il rispetto degli
articoli 1 e 2 della legge n. 219/2017, la necessita' che sia
osservata una determinata procedura non e' incompatibile con la
circostanza che i singoli passaggi di cui tale procedura si compone
possano essere accertati secondo un approccio sostanziale, onde
verificare se di volta in volta siano state compiute quelle
valutazioni imposte dalla scansione «tipica». Cio', come detto, e'
senz'altro vero se si guarda alle modalita' con cui e' stato
preparato e prestato l'aiuto al suicidio da parte della clinica ...
dove poi e' avvenuto il decesso.
In secondo luogo, per quanto concerne gli ulteriori requisiti
procedurali (la riserva di prestazione al Sistema sanitario nazionale
e il parere del comitato etico), si impone una triplice
considerazione.
E' chiaro che, nel caso qui in esame, la circostanza che il fatto
si sia verificato all'esito di una prestazione offerta da una
struttura estera, a sua volta preceduta da un articolato percorso di
assistenza e valutazione della richiesta, e' incompatibile con i
passaggi ulteriori richiesti dalla Corte costituzionale, ipotizzabili
soltanto in caso di procedura gestita e di prestazione erogata
interamente in Italia.
Inoltre, occorre osservare che il rispetto di tali condizioni non
era comunque concretamente esigibile nel caso concreto: sebbene in
linea teorica al momento del fatto esistesse gia' una procedura ad
hoc, questa era di fatto inaccessibile al richiedente, che alla
propria domanda avrebbe senz'altro visto opposto un diniego per il
difetto della condizione sostanziale della dipendenza da trattamenti
di sostegno vitale (su cui v. subito oltre).
Infine, ragionando in ottica sostanziale, la presumibile ratio
alla base della previsione dei requisiti in esame (la tutela, ancora
una volta, dell'autenticita' del volere del paziente, specie se
vulnerabile) risulta pienamente soddisfatta dalle valutazioni
-tecniche, approfondite e indipendenti - svolte dal personale medico
della clinica ..., la cui attivita' e' peraltro sottoposta su base
casistica a vigilanza (sia pure successiva) da parte delle autorita'
pubbliche.
Dunque, concludendo sul punto, se e' vero, come e' vero, che sono
state rispettate tutte le esigenze sostanziali di protezione del
paziente e della sua autodeterminazione, nel caso di specie la non
punibilita' non potrebbe essere negata agli indagati unicamente per
il mancato rispetto di passaggi procedurali che sarebbero stati loro
inibiti anche ove avessero preso l'iniziativa in conformita' alla
disciplina vigente.
Le considerazioni svolte naturalmente non sono incompatibili con
la circostanza che, per esigenze di chiarezza e di certezza, possa
essere la stessa Corte costituzionale, ove ritenga fondata la
questione di legittimita' costituzionale sollevata in questa sede, a
indicare erga omnes - come gia' ha fatto nella sentenza n. 242/2019 -
la possibilita' che l'area di non punibilita', nella sua eventuale
nuova estensione, operi anche riguardo a fatti anteriori alla data
della stessa declaratoria di incostituzionalita', purche'
l'agevolazione al suicidio sia stata prestata con modalita' anche
diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie
sostanzialmente equivalenti.
2.2.3. Il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno
vitale
Nel caso di specie va esclusa la sussistenza del requisito della
dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale.
Preliminarmente, salvo le precisazioni che saranno fatte in
seguito, va ribadito che, in base a quanto emerge dagli elementi di
fatto acquisiti in fase di indagini (attraverso l'assunzione a
sommarie informazioni di medici di medicina generale e medici
specialisti che hanno avuto in cura il paziente), S... non era
concretamente sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, ne' lo
stadio di avanzamento della sua patologia richiedeva tali
trattamenti.
Questo giudice e' consapevole delle diverse letture che del
requisito in esame sono state fornite nel dibattito dottrinale e
nella elaborazione giurisprudenziale che ha seguito la sentenza della
Corte costituzionale.
Punto di partenza generalmente riconosciuto e' che la stessa
Corte costituzionale non ha dato, ne' nell'ordinanza n. 207/2018, ne'
nella sentenza n. 242/2019, una definizione analitica e sistematica
dei «trattamenti di sostegno vitale». Vi e' soltanto, nell'ordinanza,
il riferimento - con evidente valenza esemplificativa - a
«trattamenti [...] quali la ventilazione, l'idratazione o
l'alimentazione artificiali». Tali indicazioni, sia pur minimali,
hanno trovato facile e soddisfacente applicazione nel procedimento da
cui era sorto l'incidente di costituzionalita', posto che in quel
caso la sopravvivenza del paziente richiedeva, tra l'altro, un
respiratore artificiale e nutrizione intraparietale, ossia
trattamenti di immediata e indiscutibile riconducibilita' alla
condizione indicata dalla Corte costituzionale (cfr. Corte d'assise
di Milano, sentenza 29 dicembre 2019, p. 12).
I primi problemi interpretativi hanno iniziato a porsi quando
sono emerse vicende concrete in cui i pazienti, che avevano ottenuto
l'assistenza al suicidio all'estero, versavano in condizioni di
salute sostanzialmente analoghe a quelle prese in considerazione
dalla Corte costituzionale, ma - per le peculiarita' della patologia
da cui erano affetti o per lo stadio a cui questa si trovava - non
erano dipendenti da un respiratore artificiale o da altri macchinari.
I commentatori prima e la giurisprudenza di merito poi hanno
presto ritenuto che una corretta interpretazione del requisito in
esame non dovesse essere limitata alla mera «dipendenza da una
macchina», potendo abbracciare un ampio novero di ipotesi: quelle in
cui il trattamento di sostegno vitale sia realizzato, oltre che «con
l'ausilio di macchinari medici», «con terapie farmaceutiche o con
l'assistenza di personale medico o paramedico»; caratteristica
propria degli interventi in questione sarebbe la circostanza che si
tratterebbe pur sempre di «trattamenti interrompendo i quali si
verificherebbe la morte del malato, anche in maniera non rapida»
(cfr. Corte d'Assise di Massa, sentenza 27 luglio 2020, p. 30-31).
Sulla base di tali principi, ad esempio, la giurisprudenza ha
ritenuto esistenti tutti i requisiti indicati dalla Corte
costituzionale in un caso in cui la sopravvivenza del paziente era
strettamente legata alla somministrazione di numerosi farmaci volti a
stabilizzare le funzioni vitali e da un delicato equilibrio nel loro
dosaggio, nonche' dalla necessita' di intervenire periodicamente con
manovre di evacuazione manuale finalizzate a evitare occlusioni
potenzialmente fatali.
Nel caso qui in esame, il requisito della dipendenza da
trattamenti di sostegno vitale, dotato di questa - condivisibile -
latitudine, non potrebbe pero' riconoscersi sussistente: da quanto
emerso dalle indagini, S... non beneficiava di alcun supporto
meccanico (ne' in termini di ventilazione, ne' di nutrizione o
idratazione, ne' altro), non era sottoposto a terapie farmacologiche
salvavita e non richiedeva manovre di evacuazione o interventi
assimilabili.
Occorre dunque verificare la possibilita' di letture alternative,
anche al fine di adempiere al dovere di tentare un'interpretazione
costituzionalmente conforme della disposizione della cui
illegittimita' si sospetta, prima di investire della relativa
questione la Corte costituzionale.
Un primo possibile percorso potrebbe consistere nel proseguire
nell'opera di interpretazione «estensiva» del requisito in esame.
Tale soluzione, sollecitata nella memoria difensiva degli
indagati, e' - in parte, e con le precisazioni che seguiranno - gia'
emersa nella giurisprudenza di merito.
Nella sentenza della Corte d'Assise di Massa piu' volte citata
(p. 35-36) si adombra la possibilita' che la non punibilita'
dell'aiuto al suicidio sia riconosciuta, al ricorrere di tutti gli
altri requisiti, anche quando il paziente si avvalga dell'aiuto di
terzi soggetti che provvedano «ad aiutarlo nel mangiare e nel
muoversi anche per andare al bagno». Per giungere a tali conclusioni
la sentenza propone un ragionamento dichiaratamente analogico: una
situazione in cui per l'espletamento delle funzioni essenziali e'
necessario l'aiuto di altre persone (anche solo familiari o comunque
soggetti privi di qualifiche e competenze specialistiche) ha
un'affinita' di sostanza e di ratio con le ipotesi in cui si
richiedono trattamenti sanitari (meccanici, farmacologici o
assistenziali) indispensabili per il supporto alle funzioni vitali
della persona. In altri termini, il requisito in esame dovrebbe
essere interpretato in modo tale da includervi tutti i casi in cui
«la sopravvivenza del malato dipende direttamente da altri [...],
siano essi cose o persone».
Una situazione non dissimile potrebbe ritenersi esistente nel
caso di specie, in cui S..., per quanto conservasse integre tutte le
altre funzionalita' corporee (compreso l'utilizzo della muscolatura
involontaria e la capacita' di svuotamento intestinale), a causa
della progressiva immobilizzazione degli arti richiedeva sempre con
maggiore frequenza l'aiuto di terzi nello svolgimento di attivita'
fisiologiche quotidiane.
Tuttavia, ritiene questo giudice che una simile ricostruzione del
requisito in esame non sia condivisibile.
Il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale
sembra in effetti composto, a sua volta, da due sotto-requisiti.
Il primo concerne l'efficacia causale del trattamento stesso,
ossia la sua natura di «sostegno vitale»: cio' potendosi riconoscere
laddove, senza quel trattamento -evidentemente volto a supportare
funzioni vitali dell'organismo - si verificherebbe la morte della
persona, anche se in maniera non rapida.
Tale nozione e' dotata di una propria portata espansiva, in
quanto permetterebbe di dare rilievo a trattamenti - artificiali,
farmacologici o assistenziali - che, pur lungi dal rivelarsi curativi
(nel senso di idonei a condurre alla remissione completa della
patologia e a una piena guarigione) e dunque impedire il decesso,
potrebbero comunque ritardare la morte per un tempo sufficientemente
apprezzabile. Si tratta, in altri termini, di valutare l'efficacia
«vitale» del trattamento secondo un giudizio condizionalistico
controfattuale declinato in concreto.
Tale riflessione e' probabilmente alla base delle riflessioni
svolte dalla giurisprudenza di merito sopra citata e richiamata anche
dalla difesa nel caso di specie, nella parte in cui sottolineano il
contributo determinante dell'aiuto ricevuto dall'esterno per la
sopravvivenza del paziente.
Tuttavia, il requisito in esame presuppone, ancor prima, che il
paziente sia sottoposto a un qualche «trattamento»: ed e' sulla
riconducibilita' delle ipotesi sopra prospettate alla nozione di
trattamento qui rilevante che devono svolgersi alcune riflessioni
critiche.
In primo luogo, e in ordine di importanza, un dato interpretativo
cruciale e' rappresentato dalla genesi stessa di tale condizione
sostanziale nell'ambito dell'ordinanza e della sentenza della Corte
costituzionale.
Come anche osservato da piu' voci in dottrina, l'accertamento e
la successiva declaratoria di illegittimita' si fondano - volendo
risalire al nucleo essenziale della decisione - sul rilievo per cui
la compressione dei diritti fondamentali del paziente determinata da
un divieto penale assoluto di aiuto al suicidio e' contraria al
canone di ragionevolezza, al diritto di autodeterminazione della
persona e al principio di dignita' (quantomeno) nelle situazioni in
cui l'ordinamento gia' riconosce tutela effettiva alla «decisione del
malato di porre fine alla propria esistenza tramite l'interruzione
dei trattamenti sanitari - anche quando cio' richieda una condotta
attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il
distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla
somministrazione di una redazione profonda continua e di una terapia
del dolore)».
Il riferimento esplicito e' a situazioni sostanziali
riconducibili anche alla legge n. 219/2017, e sono appunto quelle
situazioni che la Corte costituzionale contempla come oggetto della
propria valutazione (nell'ordinanza) e, di conseguenza, della
disciplina dalla stessa infine disegnata (nella sentenza). Allora,
occorre pero' prendere atto di come la legge n. 219 - nella sua
elaborazione, nel suo spirito, nel suo testo e nei suoi riferimenti
costituzionali - concerna specificamente i trattamenti sanitari.
Quali caratteristiche connotino la natura «sanitaria» del
trattamento non e' indicato dalla legge, ma puo' ricavarsi in qualche
misura, oltre che dal ricorso a una piana interpretazione letterale,
dalla riflessione maturata, in dottrina e prima ancora nella
letteratura medica, circa la possibilita' di ricondurre ai
trattamenti sanitari nutrizione e idratazione artificiali,
valorizzando - singolarmente e piu' spesso congiuntamente - indici
quali la necessita' di previa valutazione medica, la prescrizione
medica, il ricorso a disponitivi medici, il monitoraggio da parte del
medico, etc.
Ora, sembra quindi che anche i «trattamenti di sostegno vitale»
di cui si discute ai fini della non punibilita' dell'aiuto al
suicidio debbano essere intesi propriamente come trattamenti
sanitari.
Oltre a quanto detto sulla genesi del requisito (alla luce sia
del caso concreto sia del riferimento normativo presi in
considerazione dalla Corte costituzionale), non sembra convincente
sostenere che l'assistenza prestata genericamente da terzi - ad
esempio, per accompagnare il paziente in bagno o per agevolarlo nel
mangiare - possa ricondursi all'insieme dei significati attribuibili
alla parola «trattamenti», che non evoca un qualsiasi mero intervento
esterno (sia pur con efficacia di «sostegno vitale»), ma una piu'
pregnante e qualificata ingerenza sul corpo e sulla salute del
paziente, nei termini sopra indicati.
Evidentemente, non ogni «aiuto a vivere» (sia pur congiuntamente
agli altri requisiti) puo', allo stato, giustificare la non
punibilita' delle condotte di «aiuto a morire»: l'aiuto deve sempre
estrinsecarsi nelle forme di un trattamento, e piu' precisamente di
un trattamento sanitario, del tutto assente nel caso di specie.
Neppure e' convincente invocare, come invece fatto dalla
giurisprudenza di merito che finora ha avuto modo di pronunciarsi sul
tema, il ricorso all'analogia (che peraltro implica, anche in tale
ottica, una irriducibilita' di fondo, nel loro nucleo essenziale, tra
le situazioni di «dipendenza da trattamenti» e di «dipendenza da
persone»).
Senza voler qui negare l'affinita' sostanziale (non tanto tra le
situazioni sostanziali, quanto) tra le esigenze di tutela che
connotano tali situazioni, l'ostacolo principale nei confronti di un
ragionamento analogico sembra derivare dalla natura «eccezionale»
della disposizione in esame.
Anche se qui viene in rilievo un possibile ampliamento normativo
in bonam partem, la materia di cui si tratta presuppone delicatissimi
bilanciamenti tra interessi che, all'esito di spostamenti anche lievi
della soglia di rilevanza penale, potrebbero essere pregiudicati in
modo irreversibile e incompatibile con gli obblighi di tutela (non
solo del diritto di autodeterminazione, ma anche del diritto alla
vita) derivanti, a carico dello Stato, dalla Costituzione e dalle
fonti sovranazionali (tra cui, in particolare, la Convenzione europea
dei diritti dell'uomo). E' pertanto quantomai opportuno che tali
bilanciamenti non solo siano frutto di adeguata meditazione nelle
opportune sedi secondo le regole della democrazia costituzionale, ma
che, una volta raggiunti, non possano essere messi arbitrariamente in
discussione per via di forzature ermeneutiche ad opera del singolo
interprete, con effetti applicativi disomogenei e imprevedibili che,
quand'anche favorevole al singolo autore del reato, sarebbero in
grado di incrinare la funzione deterrente e orientativa del precetto
rispetto alla tutela di valori essenziali -si direbbe, vitali - della
convivenza civile. Tale consapevolezza impone una prudenza ancor piu'
accentuata nel rispettare la divisione dei poteri, e suggerisce
all'organo giudicante di affidare la propria opera ermeneutica al
criterio meno instabile e controvertibile, oltre che piu'
controllabile, ossia il criterio testuale, e a rifiutare letture che,
ponendosi al di fuori di esso, sconfinino nell'analogia.
Del resto, sembra opportuno osservare che, dilatando il
requisito in esame fino all'estremo sopra ipotizzato, si giungerebbe
a includere situazioni non solo ignorate (sottovalutate, non
contemplate) dalla Corte costituzionale, ma da questa verosimilmente
considerate ed escluse: con la conseguenza di determinare un
risultato non solo praeter, ma addirittura contra legem.
E' pertanto da escludere la legittima praticabilita' di una
ulteriore espansione, per via semantica, del requisito in esame.
Un secondo possibile percorso viene anch'esso suggerito nella
memoria della difesa, sulla scorta di quanto sostenuto dalla Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Milano in una richiesta di
archiviazione presentata nell'ambito di una vicenda sotto vari
aspetti simile (anche se non identica) a quella per cui si procede.
Secondo questa ricostruzione, che si propone quale
«interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 580 del
codice penale», potrebbero beneficiare della non punibilita' anche le
ipotesi in cui, al ricorrere degli altri requisiti, non vi sono
trattamenti di sostegno vitale in atto, qualora cio' dipenda dal
fatto che il paziente stesso li abbia rifiutati in quanto «futili o
espressione di accanimento terapeutico secondo la scienza medica, non
dignitosi secondo la percezione del malato e forieri di ulteriori
sofferenze per coloro che li accudiscono». In altri termini, il
requisito dovrebbe considerarsi soddisfatto quando - riprendendo
sempre parole della Procura di Milano - il limite di utilita' del
trattamento si traduce in un limite di praticabilita' degli stessi:
sicche', sembra di intendere, sarebbe inesigibile pretendere che il
paziente vi si sottoponga.
Tali argomenti - che peraltro, si nota per inciso, presuppongono
pur sempre che il trattamento di cui si discute abbia natura
«sanitaria», tanto da poter essere qualificato come accanimento
terapeutico ai sensi della legge n. 219/2017, espressamente
richiamata - non sembrano pero' condivisibili a questo giudice, e
comunque non spendibili in questo procedimento.
Anzitutto, va escluso che nel caso di specie ricorressero le
condizioni che consentirebbero l'operativita' del criterio
alternativo ora prospettato.
Non solo S... non era sottoposto ad alcun trattamento di sostegno
vitale, come piu' volte ribadito, ma risulta anche che:
egli non ha mai rifiutato alcun trattamento di sostegno
vitale (risulta soltanto il rifiuto di intraprendere, alcuni mesi
addietro, un percorso terapeutico piu' invasivo, di incerto successo,
e di prevalente valore analgesico);
rispetto alla sua condizione, i medici che lo hanno avuto in
cura non hanno neanche ipotizzato di intraprendere trattamenti che
possano considerarsi di «accanimento terapeutico».
Certo rimarrebbe la possibilita' di ritenere che, proprio alla
luce di quest'ultimo punto, ogni trattamento possibile a cui fosse
stato sottoposto S... sarebbe stato da considerarsi, per le
caratteristiche della patologia e del suo stadio di avanzamento,
ormai irreversibile, «inutile e sproporzionato», e dunque un
«accanimento terapeutico» (ai sensi dell'art. 2, comma 2, della legge
n. 219/2017). Tuttavia tale impostazione si scontra con ostacoli, a
parere di questo giudice, insuperabile. Anzitutto, pare un salto
logico ritenere che, quando non vi e' in corso alcun trattamento di
sostegno vitale a motivo del fatto che non ne esistono di compatibili
con la condizione di salute del paziente, si possa dire che tale
situazione merita di essere equiparata a quelle incluse nell'area
della non punibilita' motivando tale affermazione con l'argomento per
cui ogni trattamento sarebbe da considerare accanimento terapeutico,
dato che il paziente non ha bisogno di trattamenti.
In altri termini, si dice: siccome il paziente non necessita di
trattamenti di sostegno vitale, dovrebbe esservi sottoposto
inutilmente, e sottoporcelo inutilmente configurerebbe accanimento
terapeutico. La conclusione paradossale di tale ragionamento, pero',
sarebbe che il paziente (inguaribile e sofferente) non sottoposto a
trattamenti di sostegno vitale potrebbe essere lecitamente aiutato a
morire proprio perche' non e' sottoposto a trattamenti di sostegno
vitale: per qualsiasi paziente che non ne necessiti, evidentemente,
e' un accanimento terapeutico essere sottoposto a trattamenti di
sostegno vitale. In tal modo, lo si vede, si arriva a una totale
abrogazione per via interpretativa del requisito indicato dalla Corte
costituzionale.
Del resto, e a fortiori, occorre ancora una volta richiamare
l'attenzione sul dato letterale della causa di «non punibilita'»
introdotta con la sentenza n. 242/2019.
La disposizione vigente, a rigore, non richiede solo che la
persona si trovi in una situazione di salute per cui la stessa
«necessita» di trattamenti di sostegno vitale, ma richiede, con
formulazione chiara e non controvertibile, che sia «tenuta in vita»
da quei trattamenti: che vi sia cioe', non solo una situazione di
bisogno (e dunque di appropriatezza medico-sanitaria), ma che vi sia
una effettiva e attuale sottoposizione a tali trattamenti.
Pertanto, che il supporto vitale non sia un «passo obbligato tra
la vita e la morte» - come sostenuto in questa sede dalla difesa
degli indagati e richiamato nella richiesta di archiviazione della
Procura di Milano - puo' essere affermazione largamente diffusa nella
comunita' medica, e condivisibile nel merito (per quanto si vedra' di
seguito), ma pur sempre attinente al piano del «dover essere» e non a
quello descrittivo del diritto positivo, perche' in insanabile
contrasto con il dato normativo vigente. Poste tali premesse, va
ribadito che, come detto, S... non era sottoposto a tali trattamenti,
ne' ha rifiutato di esserlo, ne' i medici si sono astenuti dal
sottoporvelo, perche' trattamenti del genere, per la sua condizione
di salute, non ne esistevano ne' erano richiesti, nel momento in cui
ha chiesto di essere aiutato a morire; il che impedisce anche di
valutare se tali trattamenti di sostegno vitale ammontassero o meno a
un «accanimento terapeutico», problema che semmai si sarebbe potuto
porre in una fase piu' avanzata della malattia, quando manovre assai
piu' invasive avrebbero forse avuto la capacita' di allungare di poco
e tra molte sofferenze - in modo allora si', inutile e sproporzionato
- la vita del paziente.
In conclusione, e' dunque da escludere che l'aiuto a morire
prestato dagli indagati a S... possa beneficiare della «non
punibilita'» prevista dalla Corte costituzionale, anche secondo
l'estensione che all'area di liceita' puo' essere attribuita sulla
base di letture costituzionalmente orientate del dato normativo
vigente che si avvalgano di una interpretazione sia pure estensiva
del suo tenore letterale e semantico, o, in alternativa, delle
potenzialita' offerte dal coordinamento sistematico con altre
disposizioni dell'ordinamento.
3. La non manifesta infondatezza della questione.
Ritiene questo giudice che il requisito costituito dalla
necessita' che la persona sia «tenuta in vita da trattamenti di
sostegno vitale», per come sopra ricostruito, presenti diversi
profili di possibile contrasto con i parametri costituzionali.
La premessa e' che tale requisito segna, se letto in negativo, il
confine tra l'area di liceita' e l'area tuttora coperta dal divieto
di aiuto al suicidio, e pertanto costituisce un limite per la persona
desidera morire avvalendosi dell'aiuto altrui, in quanto
disincentiva, tramite minaccia della sanzione penale, i terzi che
intendessero apportare tale aiuto.
3.1. Il contrasto con l'art. 3 della Costituzione
In primo luogo la disposizione, in tale parte, appare in
contrasto con l'art. 3 della Costituzione, per la irragionevole
disparita' di trattamento che determina tra situazioni concrete
sostanzialmente identiche.
A parita' di altre condizioni (in particolare l'irreversibilita'
della malattia, l'intollerabilita' delle sofferenze che ne derivano e
la capacita' di autodeterminazione dell'interessato), la liceita'
della condotta di terzi finisce per dipendere dal fatto che la
persona sia o meno tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Anzitutto, va osservato che l'avverarsi di quest'ultima
condizione appare il frutto di circostanze del tutto accidentali,
legate alla multiforme variabilita' dei casi concreti, in relazione
alle condizioni cliniche generali della persona interessata (ad es.,
piu' o meno dotata di resistenza organica), al modo di manifestarsi
della malattia da cui la persona e' affetta (ad es., connotata da uno
stadio piu' o meno avanzato, oppure da una progressione piu' o meno
rapida), alla natura delle terapie disponibili in un determinato
luogo e in un determinato momento, nonche' dalle scelte che lo stesso
paziente abbia fatto (ad es., rifiutando fin dall'inizio qualsiasi
trattamento).
La differenza nella disciplina attuale di tali situazioni e'
irragionevole perche' l'unico elemento che in ipotesi le distingue -
la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale - non porta con se',
se presente, alcun elemento di segno positivo tale da giustificare
una considerazione piu' benevola da parte dell'ordinamento, ne'
esprime, se assente, maggiore meritevolezza o bisogno di pena dei
terzi agevolatori.
In altri termini, il requisito-criterio in esame appare incapace
di operare una selezione razionale tra situazioni simili.
Da un lato, la sussistenza o meno di tale requisito e'
irrilevante per la sussistenza e per l'accertamento degli altri
requisiti, da esso indipendenti sia a livello concettuale che
pratico. E' una considerazione intuitiva quella per cui sia
l'irreversibilita' della malattia sia la sofferenza che al malato ne
deriva costituiscono aspetti slegati da un dato - lo si ribadisce:
del tutto casuale - quale il tipo di trattamento che, il paziente
riceve in un determinato momento: ne' la dipendenza da sostegni
vitali implica irreversibilita' della malattia e sofferenza
intollerabile, ne' irreversibilita' della malattia e sofferenza
intollerabile implicano dipendenza da sostegni vitali (come il caso
in esame dimostra in modo palese). Dall'altro lato, soprattutto, la
sussistenza o meno di tale requisito e' irrilevante per la tutela dei
diritti e dei valori che la Corte costituzionale ritiene essenziali
nel bilanciamento di interessi sotteso alla regolazione della materia
dell'aiuto a morire.
Va infatti ricordato che, nell'ordinanza n. 207/2018 e nella
sentenza n. 242/2019, la Corte ha indicato la necessita' di temperare
le istanze di autodeterminazione e il principio di dignita' umana con
le esigenze di tutela della vita umana, soprattutto delle persone
piu' vulnerabili, presidiate dal divieto di cui all'art. 580 del
codice penale.
La Corte costituzionale e' poi tornata sul punto, con alcuni
importanti chiarimenti, nella sentenza n. 50/2022, con cui ha
dichiarato l'inammissibilita' del referendum abrogativo della
fattispecie di omicidio del consenziente di cui all'art. 579 del
codice penale: svolgendo considerazioni estendibili anche al reato
qui rilevante, la Corte ha individuato la ratio di tale micro-sistema
normativo nella opportunita' - o meglio, nella necessita'
costituzionale - di tutelare non solo le persone strutturalmente piu'
fragili, bensi' qualunque soggetto da condotte autodistruttive che
possano essere, per le ragioni piu' varie, non sufficientemente
meditate, e potenzialmente frutto di una decisione assunta, per
motivi anche contingenti, in condizioni di vulnerabilita' soggettiva.
Anche alla luce di tali principi orientativi, non sembra che il
ricorrere di una situazione di dipendenza da trattamenti di sostegno
vitale possa essere un criterio regolatorio idoneo e proporzionato
all'obiettivo di tutela prefissato: certamente non puo' ritenersi che
sia la sua presenza a giustificare la liceita' dell'aiuto al suicidio
sul presupposto di un minor bisogno di tutela del bene vita nel caso
di persone che versano in tale condizione (conclusione all'evidenza
assurda e inaccettabile nel sistema); ma e' altrettanto vero che la
sua presenza non apporta alcuna rassicurazione in ordine alla
autenticita' («liberta' e consapevolezza») della decisione di morire,
o alla «vulnerabilita'» della persona che la assume, pertanto non
riveste alcun valore realmente protettivo.
La preoccupazione dovrebbe piuttosto essere opposta, essendo
semmai piu' elevato il rischio che una persona dipendente da
trattamenti di sostegno vitale, per questo verosimilmente prossima
alla morte, sia colta dalla tentazione di «lasciarsi andare» e che,
anche a causa di pressioni esterne, possa cedere a decisioni che in
altre condizioni non avrebbe preso: ma e' la stessa Corte
costituzionale che si e' fatta carico di confutare questa obiezione,
quando, nell'ordinanza n. 207/2018, ha indicato come l'ordinamento,
con la legge n. 219/2017, abbia gia' ammesso la possibilita' di
considerare validamente espressa la volonta' di morire proveniente da
persone tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale, che, se
capaci di autodeterminarsi, hanno diritto di ottenere l'interruzione
delle cure.
Ai profili di irragionevolezza e sproporzione rispetto ai
legittimi obiettivi di tutela perseguiti dalla disciplina penale in
materia, si aggiunge, come detto, una illegittima disparita' di
trattamento tra situazioni analoghe.
A tal proposito, e' importante segnalare che l'esigenza di
evitare, anche in questa materia, una irragionevole discriminazione
di trattamento tra categorie di pazienti in condizioni
sostanzialmente simili e' stata riconosciuta testualmente dalla
stessa Corte costituzionale, ancora una volta nell'ordinanza
n. 207/2018, quando ha indicato, quale parametro di legittimita', i
«principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse
condizioni soggettive» (§ 9 del «considerato in diritto»).
Allora i termini di confronto erano costituiti dai pazienti che
potevano ottenere di morire tramite l'interruzione dei trattamenti di
sostegno vitale, da un lato, e i pazienti descritti dalle quattro
condizioni enucleate dalla Corte, dall'altro.
Oggi un parallelo simile, e una analoga esigenza di uguaglianza
sostanziale in rapporto alle diverse condizioni (di salute), ricorre
evidentemente tra pazienti tenuti in vita da trattamenti di sostegno
vitale e pazienti - quali, ad esempio, i malati oncologici o affetti
da patologie neurodegenerative, come nel caso di specie - che non
possono accedere, spesso per le caratteristiche (accidentali) della
loro patologia, a tali trattamenti, ma che sono parimenti
irreversibili e costretti a patire sofferenze intollerabili,
esponendosi a una agonia altrettanto se non piu' lunga.
In conclusione sul punto, si ripropone la situazione gia'
osservata dalla Corte costituzionale in relazione all'originario
divieto assoluto di aiuto al suicidio: l'incriminazione, anche nella
sua attuale portata, discrimina tra diverse categorie di pazienti, in
modo irragionevole e sproporzionato, senza che tale disparita' possa
«ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse
costituzionalmente apprezzabile» (ordinanza n. 207/2018, § 9 del
«considerato in diritto»).
3.2. Il contrasto con gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione
Le considerazioni svolte sin qui fanno emergere in parte profili
di contrasto tra la disciplina vigente e ulteriori parametri
costituzionali.
Infatti, in una materia caratterizzata, al fondo, da un costante
bilanciamento tra tutela della vita e liberta' di scelta (la classica
coppia di opposti life/choice), la sospetta violazione dell'art. 3
della Costituzione rappresenta per cosi' dire la prova e la misura di
una conseguente violazione delle istanze di liberta': cio' proprio
perche', ferma l' inevitabilita' di una qualche forma di arretramento
dell'autodeterminazione nel confronto con il valore antagonista (il
bene vita), l'attuale assetto normativo, in quanto irragionevole,
rende tale sacrificio sproporzionato, sconfinando dalla (legittima)
compressione del diritto alla sua (illegittima) violazione.
L'impossibilita' di accesso al suicidio assistito per le
categorie di pazienti irreversibili e sofferenti ma privi del
requisito di cui alla lettera c) si traduce in una ingiustificata
lesione dei loro diritti fondamentali, e in particolare della
«liberta' di autodeterminazione del malato nella scelta delle
terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze,
scaturente dagli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, della
Costituzione» (Corte costituzionale, § 9 del «considerato in
diritto»).
Va osservato, infatti, che la dipendenza da trattamenti di
sostegno vitale certamente non e' una condizione di esistenza di tale
diritto, ma ne rappresenta un limite, in quanto tale legittimo solo
se giustificato da contro-interessi di analogo rilievo, che invece,
come visto al punto precedente, non sembrano sussistere.
Al contrario, la fattispecie costitutiva del diritto sembra
risultare da due sole componenti essenziali, che emergono nitidamente
dalle parole della Corte costituzionale - la malattia e la sofferenza
- mentre non vi rientra affatto il trattamento che tale malattia o
tale sofferenza eventualmente ricevano.
Ma vi e' di piu'. Pretendere che, per poter ottenere un lecito
aiuto a morire da parte di terzi, il malato sofferente sia «tenuto in
vita da trattamenti di sostegno vitale» non solo limita la liberta'
del paziente, restringendone le possibilita' di manifestazione, ma ne
condiziona l'esercizio in modo perverso, trasformando
l'autodeterminazione nel suo contrario. Come osservato da alcuni
commentatori, infatti, il requisito in esame puo' indurre la persona
ad acconsentire a trattamenti di sostegni vitale con l'unico fine di
soddisfare, in modo puramente formalistico, la condizione indicata
dalla Corte costituzionale, per poi, subito dopo, chiedere l'accesso
alla procedura per la morte assistita. Cio', appunto, anche quando,
senza tale condizionamento, la persona avrebbe interrotto ben prima i
trattamenti, o addirittura li avrebbe rifiutati fin dall'origine.
Lo scenario che cosi' si delinea e' palesemente in contrasto con
l'assetto ordinamentale, ormai cristallizzato dall'art. 1, comma 5,
della legge n. 219/2017, che rimette unicamente alla scelta - libera
- della persona la scelta se e come curarsi. Un paradosso reso ancor
piu' netto dalla circostanza che tale innegabile compressione
dell'autodeterminazione sarebbe presentata come funzionale
all'esercizio della stessa autodetermina, quando invece questo
obiettivo sarebbe raggiungibile senza passare da alcun previo
sacrificio, ossia non imponendo de facto al paziente di accettare
trattamenti, anche indesiderati. Ne' tale sacrificio appare meramente
teorico e «giuridico»: e' facile rappresentarsi situazioni in cui
ulteriori trattamenti, in ipotesi anche proporzionati dal punto di
vista clinico, costituirebbero, per il paziente, fonte di sofferenze
aggiuntive quantomai concrete.
Il dato che si vuole evidenziare e' che, in una disciplina che
dovrebbe tutelare adeguatamente non solo la vita, ma anche il diritto
di autodeterminazione (terapeutica), la criticita' sta proprio nel
richiedere che il paziente sia sottoposto a un trattamento, quale che
esso sia: come detto, un ostacolo e una negazione del diritto che una
consolidata tradizione interpretativa, da ultimo positivizzata dalla
legge n. 219/2017, fonda nel combinato disposto degli articoli 2, 13
e 32, secondo comma, della Costituzione.
Concludendo sul punto, anche qui si ripropone la situazione gia'
osservata dalla Corte costituzionale in relazione all'originario
divieto assoluto di aiuto al suicidio: l'incriminazione, anche nella
sua attuale portata, comprime in modo sproporzionato i diritti
fondamentali del paziente, ancora una volta senza che tale
limitazione possa «ritenersi preordinata alla tutela di altro
interesse costituzionalmente apprezzabile».
3.3. Il contrasto con il principio di dignita'.
Il principio della dignita' umana e' stato invocato dalla Corte
costituzionale nell'ordinanza n. 207/2018 ai fini dell'accertamento
dell'illegittimita' dell'art. 580 del codice penale nella sua
versione previgente.
Gli argomenti gia' spesi dalla Corte costituzionale restano
validi anche per l'assetto normativo attuale. La violazione del
principio, in tale occasione, era stata ravvisata nella circostanza
per cui il divieto assoluto di aiuto al suicidio - ossia di una
condotta che accelerasse i tempi del decesso, anche rispetto al
decorso patologico naturale - avrebbe imposto alla persona «un'unica
modalita' per congedarsi dalla vita» (l'interruzione dei trattamenti
di sostegno vitale) e comunque esposto il paziente (anche una volta
interrotte le terapie) «a subire un processo piu' lento, in ipotesi
meno corrispondente alla propria visione della dignita' nel morire»,
anche nella prospettiva delle sofferenze cui cio' poteva esporre, di
riflesso, «le persone che gli sono care».
E' evidente, da tali passaggi, il collegamento con il profilo
della dimensione temporale della morte: si tratta infatti di un
aspetto del diritto di autodeterminazione (la scelta sul come e
quando morire) che ha un peso primario nella decisione del paziente,
che verosimilmente si orientera' nel senso della richiesta di aiuto a
morire proprio nei casi in cui il decorso naturale sia percepito come
troppo lento. In effetti, e' di senso comune l'idea per cui la
prolungata attesa della morte possa comportare un maggior carico di
sofferenza e di «pregiudizio» per i valori della persona, legato non
solo al dolore derivante dalla malattia, ma anche alla contemplazione
ormai disperata della propria agonia e della propria sorte, nonche'
al fatto che a tale inevitabile declino possano assistere (o
addirittura siano di fatto costrette ad assistere) persone care; a
quest'ultimo proposito puo' essere anche valorizzato, quale forma di
estrinsecazione della personalita', l'interesse che il paziente puo'
avere a lasciare di se' una certa immagine, coerente con l'idea che
egli ha di se'.
Queste esigenze - prettamente concrete e nient'affatto
ideologiche - possono trovare adeguata espressione nel concetto di
dignita', inteso come rispetto della persona umana in quanto tale,
nella sua dimensione soggettiva e nella dimensione della sua
esperienza sensibile.
Muovendosi in questa prospettiva, anche il quadro normativo
vigente si espone a dubbi di legittimita' costituzionale in quanto
finisce per imporre al paziente irreversibile e sofferente di
attendere, anche per lungo tempo, quello che ormai e' inevitabile,
ossia che la malattia si aggravi fino allo stadio in cui si renda
necessaria l'attivazione di trattamenti di sostegno vitale (momento
da cui peraltro andra' computato un ulteriore lasso di tempo per la
procedura che porta alla morte assistita).
Cosi' facendo, da un lato, si frustra l'esigenza sostanziale
sottesa alla ratio della decisione della Corte costituzionale
(risparmiare alla persona morente un lento avvicinamento alla morte,
consentendo l'intervento di terzi che lo abbrevino): e' infatti
proprio chi non dipende da un trattamento di sostegno vitale, e
dunque non potrebbe morire semplicemente interrompendo tale
trattamento, che necessita dell'aiuto esterno per congedarsi secondo
la propria idea di dignita' (intesa, come detto, anche in funzione
della variabile tempo).
Dall'altro lato, inoltre, una simile disciplina puo' addirittura
rappresentare un fattore di pericolo per la conservazione del bene
vita e per il rispetto della dignita' della persona: che l'aiuto al
suicidio rientri nella dimensione della «legalita'» solo a condizione
che la malattia degeneri fino a una fase terminale, rischia di
incentivare agiti suicidari da parte soggetti che, comprensibilmente
non intenzionati ad attendere la fine inesorabile, non potendo
ricorrere all'aiuto di terzi, decidano di darsi la morte in completa
autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal circuito
«legale» e con modalita' prive di adeguata supervisione medica,
spesso anche cruente e certo non conformi al concetto generalmente
riconosciuto di dignita'.
Situazioni del genere, in cui la persona (malata e sofferente),
pur non di non attendere inerme la morte, e' abbandonata e costretta
a ricorrere ai mezzi piu' disparati per darsi la morte, rende
indubbiamente la scelta di morire, di per se' gia' «scelta tragica»,
anche «crudele» (secondo l'espressione utilizzata dalla Corte
costituzionale del Canada per descrivere la condizione di chi si
trova costretto a togliersi la vita in solitudine per timore di non
poter ottenere un lecito aiuto da altri). D'altra parte, richiedere
che ai fini della liceita' dell'aiuto al suicidio il paziente debba
spingersi ai propri limiti - vedendo la propria condizione di salute
degenerare e sobbarcandosi un carico aggiuntivo di sofferenze -
significa pretendere - in mancanza di concreti obiettivi di tutela a
cui cio' potrebbe essere funzionale - una resistenza e uno spirito di
sacrificio giustificabili solo con una malintesa idea di etica,
virtu' e «perfezione morale», inammissibile in un ordinamento
ispirato al principio personalista, di cui il principio di dignita'
puo' ritenersi un riflesso.
3.4. Il contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali.
Del resto, il requisito della dipendenza da trattamenti di
sostegno vitale risulta distonico anche rispetto al sistema
sovranazionale di tutela dei diritti fondamentali della persona,
rilevante come parametro interposto di legittimita' costituzionale ai
sensi dell'art. 117 della Costituzione.
In particolare, in ambito della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo, nella materia dell'aiuto vengono in rilievo i due poli
costituiti dall'art. 2 (diritto alla vita) e dall'art. 8 (Diritto al
rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione.
Secondo il quadro desumibile dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell'uomo (sin dalla sentenza 29 aprile 2002,
Pretty comma Regno Unito), le disposizioni che limitano la liceita'
dell'aiuto al suicidio rappresentano interferenze nella liberta' di
autodeterminazione della persona che, a livello convenzionale,
rientra nel diritto di cui all'art. 8. Il criterio per verificare la
legittimita' di misure legislative restrittive di tale diritto
fondamentale e' rappresentato dal par. 2 dell'art. 8, che legittima
ingerenze dello Stato solo in quanto volte a un fine legittimo e
necessarie, tra le altre ipotesi, a «proteggere ... i diritti
altrui», tra cui indubbiamente rientra il diritto alla vita,
riconosciuto dall'art. 2 della stessa Convenzione.
Ora, subordinare l'aiuto al suicidio di una persona capace di
autodeterminarsi al requisito della dipendenza da trattamenti di
sostegno vitale rappresenta senz'altro - come qualsiasi forma di
limitazione della liberta' della persona di decidere tempi e modi
della propria morte - una compressione del diritto al rispetto della
vita privata e familiare; una compressione che tuttavia, per quanto
visto in precedenza, non appare funzionale (e tantomeno «necessaria»,
come richiederebbe la Convenzione) alla tutela del diritto alla vita,
o che comunque sacrifica in modo sproporzionato l'interesse a morire
della persona che abbia preso tale decisione in modo libero e
consapevole.
Ferma la mancata giustificazione, e comunque la sproporzione,
dell'ingerenza statale nel diritto di autodeterminazione del
paziente, si potrebbe sostenere che lo Stato mantenga comunque un
margine di apprezzamento in ordine al bilanciamento tra tali diritti,
compreso nello spazio tra la necessita' di assicurare un minimo di
tutela alle persone vulnerabili (garantito dall'art. 2), e la
necessita' di assicurare uno spazio di effettivita' alla liberta' di
autodeterminazione nelle questioni di fine vita (garantito dall'art.
8): margine di apprezzamento di cui l'ordinamento farebbe
applicazione nel prevedere, tra le altre, la «dipendenza da
trattamenti di sostegno vitale» quale condizione di liceita'
dell'aiuto al suicidio.
Tuttavia, un simile ragionamento trova un ulteriore e diverso
ostacolo convenzionale nell'art. 14 della Convezione europea dei
diritti dell'uomo: una volta che la normativa statale ammette la
liberta' di essere aiutati a morire per i malati irreversibili e
sofferenti, il godimento di tale liberta' - che, come detto, trova
fondamento anche nella Convenzione - «deve essere assicurato senza
nessuna discriminazione» in base non solo ai criteri «consueti»
(razza, sesso, opinioni, etc.), ma anche a «ogni altra condizione
personale», tra cui evidentemente rientra la condizione - del tutto
accidentale - di chi si trovi sottoposto o meno a un trattamento di
sostegno vitale.
Quello che oggi non rappresenta un esito imposto del
bilanciamento di interessi che la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali
affida allo Stato, lo diventa una volta che lo Stato stesso,
esercitando il proprio legittimo margine di apprezzamento, abbia
stabilito un determinato assetto di disciplina, nel calibrare il
quale rimane appunto libero, ma con il limite - questo si' vincolante
- del principio di non discriminazione nella tutela e nel godimento
dei diritti convenzionalmente riconosciuti.
4. L'intervento richiesto alla Corte costituzionale.
Si chiede alla Corte costituzionale di dichiarare illegittimo
l'art. 580 del codice penale, nella versione modificata dalla stessa
Corte con sentenza n. 242 del 2019, nella parte in cui richiede che
la non punibilita' di chi agevola l'altrui suicidio sia subordinata
alla circostanza che l'aiuto sia prestato a una persona «tenuta in
vita da trattamenti di sostegno vitale», per contrasto con gli
articoli 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest'ultimo in
riferimento agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo.
Occorre sottolineare che cio' non significa chiedere una smentita
dei principi gia' enunciati dalla Corte nella sentenza n. 242/2019,
ne' tanto meno una impugnazione surrettizia della sentenza, in
violazione dell'art. 137, comma 3, della Costituzione.
In tale occasione la Corte ha infatti individuato un minimum di
tutela da riconoscersi ai diritti fondamentali del paziente (soglia
sotto la quale ha definitivamente accertato che si verifica
senz'altro una intollerabile compressione di valori
costituzionalmente protetti), prendendo in considerazione - sia nel
valutare l'illegittimita' della disciplina previgente, sia nel
disegnare il perimetro della nuova area di liceita' - «specificamente
situazioni come quella oggetto del giudizio a quo» (cfr. ordinanza n.
207/2018, § 8 del «considerato in diritto»).
Evidentemente cio' non impedisce che lo stimolo derivante dalla
casistica, e in particolare dalla variabile conformazione di nuove
fattispecie concrete, possa determinare la Corte - analogamente a
quanto avvenuto nel giudizio che ha portato alla sentenza
n. 242/2019, e analogamente a quanto avviene in altre materie con
ripetuti interventi demolitori a carattere puntuale - a pronunciarsi
nuovamente: il senso di tale intervento e' infatti la necessita' di
sfaldare progressivamente il divieto di aiuto al suicidio previsto
dal codice penale, che, gia' superato nella sua originaria
assolutezza, conserva ancora una portata sovraestesa, che necessita
di ulteriore erosione, per eliminare i residui di illegittimita'
costituiti non tanto dai requisiti della «non punibilita'», bensi'
-guardando la fattispecie in negativo - dai perduranti spazi di
rilevanza penale della condotta, che solo la prassi consente
progressivamente di individuare e censurare alla luce dei parametri
costituzionali, cosi' come oggi interpretati.
P.Q.M.
Visti gli articoli 134 della Costituzione, 23 e seguenti della
legge n. 87/1953;
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale, come
modificato dalla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale,
nella parte in cui richiede che la non punibilita' di chi agevola
l'altrui suicidio sia subordinata alla circostanza che l'aiuto sia
prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno
vitale», per contrasto con gli articoli 2, 3, 13, 32 e 117 della
Costituzione, quest'ultimo in riferimento agli articoli 8 e 14 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo
Dispone l'immediata trasmissione degli atti del procedimento alla
Corte costituzionale.
Sospende il procedimento in corso e i relativi termini di
prescrizione, fino alla definizione del giudizio incidentale di
legittimita' costituzionale.
Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata agli indagati, al pubblico ministero e al Presidente del
Consiglio dei ministri, e sia comunicata ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
Firenze, 17 gennaio 2024
Il giudice per le indagini preliminari: Di Girolamo