“La collegialità guida la Corte nella ricostituita pienezza della sua composizione”
Intervista al Presidente Giovanni Amoroso

Il ritardo del Parlamento per l’elezione dei giudici costituzionali ha comportato che il Collegio ha dovuto operare con soli undici giudici, il minimo per garantire il numero legale. Presidente Amoroso, è stata questa una situazione inedita?
“Per l’elezione dei giudici di provenienza magistratuale vale il criterio della maggioranza assoluta in prima votazione e di quella relativa nel turno di ballottaggio; ciò significa che nel giro di uno o due giorni il giudice è eletto. L’esperienza poi mostra che anche la nomina dei giudici da parte del Presidente della Repubblica è molto rapida. Invece per l’elezione dei giudici da parte del Parlamento in seduta comune non è sufficiente la maggioranza assoluta, né è previsto un turno di ballottaggio. La maggioranza richiesta è ben più alta; due terzi dei componenti dell’Assemblea e, solo a partire dal quarto scrutinio, la maggioranza si riduce a quella di tre quinti, che comunque rimane molto alta, più elevata di quella richiesta per eleggere il Presidente della Repubblica dopo tre scrutini. La ragione di questa maggioranza particolarmente elevata è evidente. Si è voluto che la scelta fosse la più condivisa possibile: il giudice costituzionale non è – e non deve essere – espressione di una parte politica sicché è richiesto un ampio consenso dei componenti dell’Assemblea nella scelta. Il risvolto di questo criterio di rigore è che occorrono interlocuzioni e confronti per raggiungere in Parlamento un esteso consenso condiviso; ciò che non è facile e può richiedere tempo. L’esperienza mostra che non di rado il Parlamento ha impiegato tempi lunghi per l’elezione dei giudici e ciò ha comportato, in alcuni casi, che ci fossero da eleggere più giudici contemporaneamente, fino a tre in ripetute occasioni. Però l’elezione contemporanea di quattro giuici, da ultimo fatta dal Parlamento il 13 febbraio di quest’anno, rappresenta un unicum.”
La Corte è quindi destinata ad andare di nuovo in sofferenza qualora, tra nove anni, si dovesse manifestare un’altra impasse delle Camere?
“Sì, certo. La legge sul funzionamento della Corte costituzionale prescrive che la Corte opera con l’intervento di almeno undici giudici; è questo il cosiddetto quorum deliberativo. Ciò significa che la Corte può legittimamente decidere con un collegio a undici. Ed è ciò che si è verificato a partire dal 22 dicembre dello scorso anno, quando la Corte si è trovata con un collegio di undici giudici. Con questa composizione la Corte ha deciso, in particolare, i giudizi di ammissibilità dei referendum, i quali devono rispettare ben precisi termini di legge. Ma, con un collegio ridotto a undici, la Corte è stata costantemente a rischio di trovarsi impossibilitata a esercitare le sue funzioni in caso di impedimento di un giudice. Fortunatamente in concreto nessun impedimento è insorto e quindi è stato sempre possibile trattare tutti i giudizi nel rispetto dei termini di legge. Comunque il rischio di compromissione del regolare funzionamento della Corte è reale e sarà maggiore quando, tra nove anni, quattro giudici di provenienza parlamentare scadranno dalla carica contemporaneamente. È un inconveniente di fatto, ma che potrebbe essere foriero di conseguenze ben maggiori se si pensa, in uno scena-rio di grave crisi politica, alla possibilità di una minoranza parlamentare, ma superiore ai due quinti dell’Assemblea, che potrebbe in astratto bloccare l’elezione dei giudici. La piena funzionalità della Corte costituzionale appartiene al rispetto delle regole dello Stato di diritto. Il quorum di undici giudici è previsto da una legge ordinaria, che il Parlamento potrebbe rivedere in questa parte. Se si guarda ad altre Corti europee, quale quella tedesca, si ha che il Bundesverfassungsgericht, composto di sedici giudici, ha un quorum deliberativo di sei giudici su otto che siedono in ciascun Senato; la recente riforma costituzionale di dicembre dello scorso anno ha finanche previsto un meccanismo anti-impasse nell’elezione dei giudici da parte del Bundestag e del Bundesrat.”
Appena eletto, lei ha ribadito che la Corte è un organo profondamente collegiale in cui si fondono le differenti origini culturali e professionali dei giudici. Questo vale anche per i giudici eletti dal Parlamento?
“Credo di avere un’esperienza abbastanza prolungata in Corte per poter dire che il giudice di provenienza parlamentare – anche quello maggiormente connotato da una pregressa prolungata appartenenza politica in Parlamento o che ha rivestito importanti cariche governative – entra subito nella logica della collegialità del giudizio costituzionale, che è una ricchezza e una garanzia. Le discussioni in camera di consiglio, talora lunghe quando si prospettano più soluzioni possibili, mirano a raggiungere una decisione condivisa unanimemente o dalla quasi totalità dei giudici. La ricerca della soluzione condivisa esprime la saggezza del Collegio, talora anche al di là delle tecnicalità del giudizio costituzionale. Le decisioni Intervista al Presidente Giovanni Amoroso prese a stretta maggioranza sono rare proprio per questa costante ricerca di una soluzione ampiamente condivisa.”
Quella della Corte è una giurisprudenza costante e uniforme che segue una traccia radicata nella continuità. Ma, in tema di diritti civili e sociali, la giurisprudenza – e prima ancora il legislatore – potrebbe compiere passi all’indietro?
“La Costituzione ha una sua dinamicità che trova attuazione nella giurisprudenza della Corte e nell’evoluzione della legislazione. Diceva Paolo Grossi, che della Corte è stato giudice e Presidente, che la Costituzione “respira”. Il progressivo riconoscimento di nuove tutele e finanche di nuovi diritti da parte del legislatore non segna un punto di non ritorno – è vero – perché c’è sempre la discrezionalità della politica, ma esso trascina con sé la soglia del “nucleo minimo” di tutela dei diritti fondamentali verso un livello più elevato, rilevante per la giurisprudenza costituzionale.”

È sempre più attuale il tema concernente il ruolo delle Corti internazionali talvolta considerate, ora anche da governi democraticamente legittimati, come un potenziale limite alla sovranità nazionale. Lei teme che si possa determinare nel medio periodo un ridimensionamento dell’incisività delle Corti internazionali?
“Nello spazio costituzionale europeo – quello dell’Unione europea – deve necessariamente esserci un’istanza giudiziaria unica, che interpreti il diritto europeo, soprattutto nell’ottica della verifica di conformità ad esso del diritto nazionale. Tale è la Corte di giustizia dell’Unione europea, il cui ruolo è essenziale per la coesione dell’Unione ed è del resto unanimemente riconosciuto. Nello stesso tempo, però, il rispetto dell’identità nazionale e delle tradizioni costituzionali comuni richiede una sufficiente elasticità affinché le peculiarità di singoli Stati membri possano venire in rilievo pur nel rispetto condiviso dei valori che connotano l’Unione europea, a partire dall’attuazione dello Stato di diritto e dal riconoscimento dei diritti fondamentali. Su questo nucleo condiviso di valori si poggia il progetto comune dell’Unione, che costituisce, appunto, lo “spazio costituzionale europeo”, costantemente arricchito e puntualizzato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, in dialogo con i giudici nazionali e soprattutto con le Corti costituzionali nazionali; le quali ultime sono quelle meglio collocate per far sì che il processo di progressivo avvicinamento e poi di armonizzazione degli ordinamenti nazionali si realizzi con un sufficiente grado di flessibilità. L’adesione a questo progetto implica sì il ruolo-guida della Corte di giustizia come fattore di coesione in un contesto di condiviso primato della regolamentazione europea; ma è necessario, nello stesso tempo, il dialogo con le Corti nazionali perché non si creino rigidità controproducenti, che rischiano di innescare reazioni di segno contrario.”
Sul tema del fine vita, il Parlamento non ha ancora legiferato. Ora, sulla scia delle sentenze 242 del 2019 e 135 del 2024, la Toscana ha approvato una sua legge e altre regioni si stanno muovendo in questa direzione. È prevedibile, a questo punto, un “effetto domino” capace di innescare una catena di impugnazioni davanti alla Corte?
“Sul tema dell’aiuto al suicidio – o dell’assisted dying, per usare la più rispettosa terminologia anglosassone di una legge attualmente all’esame del Parlamento del Regno Unito – la Corte, chiamata a valutare la conformità a Costituzione della norma penale che la sanziona(va) in ogni caso, ha ricondotto a legittimità costituzionale una disciplina che non era più in sintonia con gli sviluppi in tema di cure palliative e di rifiuto delle stesse e, più in generale, di trattamenti sanitari. Ha svolto il suo ruolo dopo aver dato tempo al Parlamento di intervenire indicando le criticità che inficiavano parzialmente la legittimità costituzionale della norma penale. Si tratta di un tema etico altamente sensibile e non è facile pervenire ad una regolamentazione positiva per legge, che però rimane necessaria. In mancanza di questa, la Corte ha disegnato un’area minimale di non punibilità della condotta di aiuto al suicidio (sentenza n. 242 del 2019), poi anche puntualizzandola in termini limitatamente ampliativi (sentenza n. 135 del 2024). In questo scenario complessivo è possibile che la Corte venga chiamata a giudicare anche in ordine al riparto di competenze tra il legislatore nazionale e quello regionale se ci saranno leggi regionali in questa materia (quella della Regione Toscana è stata recentemente promulgata) e se saranno impugnate dal Governo.”
Il Parlamento di Vienna ha dato ascolto alla Corte costituzionale austriaca e ha varato nel 2022 una nuova legge sul suicidio assistito nei tempi indicati dai giudici. Abbiamo qualcosa da imparare dall’Austria su questo terreno?
“Vale in realtà quello che ho osservato prima. La Corte italiana, con una pronuncia additiva, ha tracciato, in positivo, il perimetro della non rilevanza penale della condotta di aiuto al suicidio. La Corte austriaca, con un approccio più strettamente kelseniano di legislatore negativo e quindi essenzialmente demolitorio, ha dapprima censurato la generale rilevanza penale dell’aiuto al suicidio e poi ha ritenuto illegittima, in una parte specifica, la nuova disciplina. Nel complesso credo che la via “italiana” nell’affrontare le questioni di legittimità costituzionale del fine vita sia più graduale e prudente a fronte dell’elevata portata etica degli interrogativi che esse pongono. Ma è necessario e urgente che ci sia una completa regolamentazione per legge.”

Sull’autonomia differenziata, con la sentenza 192 del 2024, la Corte ha annullato varie parti della legge 86 del 2024 che, a questo punto, avrebbe bisogno di un intervento robusto da parte del legislatore per essere rimessa in carreggiata. È così?
“Come ricorda la sentenza n. 10 di quest’anno, che ha dichiarato inammissibile la richiesta referendaria avente ad oggetto la legge sull’autonomia differenziata, la precedente pronuncia n. 192 del 2024 ha annullato varie parti della legge (nel complesso, quattordici dichiarazioni di illegittimità costituzionale) e di altre ha dato un’interpretazione adeguatrice. La legge n. 86 del 2024 è così risultata fortemente ridimensionata. È rimasto, in sostanza, un perno attorno al quale, però, è ben possibile che il legislatore intervenga per costruire la regolamentazione attuativa dell’autonomia differenziata, ossia dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, nel rispetto soprattutto del principio di sussidiarietà, come affermato dalla sentenza n. 192.”
Lei crede che la portata della decisione con cui la Corte ha poi dichiarato inammissibile il referendum sull’autonomia differenziata sia stata ben compresa dall’opinione pubblica?
“La logica della sentenza n. 10 di quest’anno credo che sia molto chiara e trasparente. L’originario quesito referendario mirava ad abrogare una determinata attuazione del principio dell’autonomia differenziata; attuazione contenuta nella legge n. 86 del 2024 recante un complesso e articolato impianto regolatorio. A seguito delle plurime dichiarazioni di illegittimità costituzionale operate dalla sentenza n. 192 del 2024, la legge n. 86 è risultata – per così dire – drasticamente “dimagrita” fino a ridursi a un contenuto precettivo minimale (che comunque rimane e da ciò la dichiarazione di conformità dell’Ufficio centrale per il referendum). È residuato l’asse di una possibile futura regolamentazione, il quale di per sé non solo è di non facile identificazione, ma è anche di fatto neutro, ossia sostanzialmente inidoneo a consentire all’elettore una valutazione in termini di adesione o di contrarietà. Questa difficoltà, per il corpo elettorale, di avere piena consapevolezza del contenuto residuale della legge n. 86 ha inciso sulla chiarezza del quesito rendendolo fortemente ambiguo, con il rischio di deviazione verso un’alternativa diversa: quella tra essere a favore o contro l’autonomia differenziata. Quesito questo non proponibile all’elettorato perché il principio dell’autonomia differenziata è in Costituzione (a seguito peraltro di referendum confermativo svoltosi a suo tempo) e per rimuoverlo occorre seguire il procedimento di revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost.”

Nelle democrazie liberali convivono due principi di legittimazione: quello che nasce dal popolo che con il voto investe i propri rappresentanti; e quello incentrato sulla competenza tecnica e sull’indipendenza che risponde al cosiddetto governo della legge regolato dal circuito del diritto. Quali sono gli strumenti per riportare in equilibrio questi due circuiti che stanno determinando grandi punti di tensione?
“La nostra è una democrazia rappresentativa parlamentare. Il principio democratico rappresentativo è a fondamento della Repubblica: la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. L’ordinamento costituzionale conosce anche limitate forme di democrazia diretta a partire dal referendum abrogativo o confermativo. Il principio dello Stato di diritto inverato nella Costituzione segna un condiviso equilibrio tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, secondo la logica della divisione dei poteri. Garante di questo equilibrio è la Corte costituzionale che è il giudice dei conflitti tra poteri dello Stato. Con il procedimento di revisione costituzionale è possibile una riforma che apporti degli aggiustamenti di questo equilibrio, nel rispetto dello Stato di diritto e del complessivo impianto di democrazia rappresentativa che connota, nel suo nucleo essenziale, il nostro ordinamento giuridico.”
Si registra un graduale calo numerico delle questioni che arrivano alla Corte. Ammesso che le questioni all’esame della Corte siano sempre più “pesanti”, se si considera il loro impatto sulla società, lei ritiene che questa tendenza continuerà anche nei prossimi anni?
“Il calo numerico non significa una minore importanza delle questioni, come mostra la percentuale crescente degli accoglimenti. Delle 212 pronunce dello scorso anno ben 94 contengono dispositivi di illegittimità costituzionale, ossia quasi il 50%. È una tendenza recente degli ultimi anni; in un passato meno recente questa percentuale era sensibilmente minore. Comunque se è vero che vi è stata una diminuzione di questioni incidentali di legittimità costituzionale sollevate dai giudici di merito, invece il flusso delle questioni provenienti dalle magistrature superiori (Corte di cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti) è abbastanza stabile. Rileva anche l’accentuata concorrenza di rimedi quanto alla tutela dei diritti fondamentali, i quali trovano protezione non solo nella Costituzione, ma anche nella Carta di Nizza (CDFUE) e nella CEDU. Oggi, il sistema di tutele multilivello – nazionale (dei giudici comuni e della Corte costituzionale), europeo dell’UE (che fa perno sulla giurisprudenza della Corte di giustizia), europeo del Consiglio d’Europa (centrato sulla Corte EDU) – dà luogo alla coesistenza di una pluralità di rimedi per la lesione del medesimo diritto: l’incidente di costituzionalità, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, il ricorso diretto alla Corte EDU con possibilità di successiva revisione del giudicato penale o di revocazione del giudicato civile.”
Presidente Amoroso, il suo predecessore, Augusto Antonio Barbera, ha avuto modo di dire che la Costituzione non ha custodi esclusivi perché “la Costituzione è di tutti”. Condivide questa affermazione?
“Certo, la condivido. La Costituzione nasce come patrimonio comune ed è quindi di tutti. È il patto fondativo su cui è stato eretto l’ordinamento giuridico conformato ai principi dello Stato di diritto e della democrazia rappresentativa. Salva la scelta della forma repubblicana dello Stato, espressa direttamente dalla volontà popolare con il referendum del 2 giugno 1946, la Costituzione repubblicana fu essenzialmente “patteggiata” e ampiamente condivisa perché frutto della convergenza di un’ampia maggioranza (quasi i nove decimi) dei membri dell’Assemblea costituente. Il clima di leale collaborazione che consentì in breve tempo la stesura e l’approvazione della Costituzione è stato frutto della consapevolezza dei Costituenti di una missione storica, quella appunto di disegnare il patto fondativo del nuovo Stato repubblicano; collaborazione che non fu incrinata dai pur notevoli accadimenti e rivolgimenti politici del 1947 (in particolare, la rottura tra democristiani e socialcomunisti, insieme al governo fino ad allora, e che portò all’esclusione di questi ultimi nel quarto Governo De Gasperi). I Costituenti continuarono a lavorare in spirito unitario nel corso di tutto il 1947; anno in cui il testo della Costituzione, presentato il 31 gennaio, fu discusso in Assemblea costituente e alla fine approvato il 22 dicembre. Insomma, la Costituzione è un patrimonio comune della nostra società civile; la Corte ne è custode nella misura in cui ad essa è demandata la giurisdizione costituzionale.”